Visione globale, azione locale:
l’esempio dei movimenti Zero Waste
L’obiettivo della rivoluzione ecologica è quello di radicarsi sui territori partendo dalle comunità locali. L’agire locale, infatti, per non regredire in sterile localismo territoriale deve costantemente aprirsi alle “buone pratiche” che sono rintracciabili nei contesti globali per offrire il meglio alle comunità di riferimento. Ogni comune e/o territorio ha il diritto di pretendere il meglio disponibile su scala planetaria per affrontare e risolvere nel migliore dei modi le sfide che incontra. E fa questo non semplicemente “importando” e “paracadutando” le soluzioni in modo passivo, ma attraverso un processo di adattamento creativo e originale prodotto attraverso processi partecipativi radicati territorialmente. E qui di nuovo incontriamo l’importanza del ruolo degli attivisti della rivoluzione ecologica che si riassume nella funzione di facilitatori e di costanti stimolatori di questo percorso di trasformazione. L’esatto opposto di ciò che, per esempio, è avvenuto attraverso la Brexit, che ha radicalizzato negativamente lo scontro tra “cittadini globali” e “cittadini locali”. Gli uni legati in genere al cuore pulsante di un’economia senza patria e alla City, yuppy, cosmopoliti e “senza radici”, contro gli altri, abbarbicati a una idea chiusa di tradizione con un senso di identità tendenzialmente basato sull’esclusione di “chi viene da fuori”. Questa lacerante contrapposizione mina alle basi il bisogno di coesione, proprio quando si dovrebbe tutti insieme far fronte comune dinanzi a problemi enormi come quelli ambientali. Si tratta, al contrario di estrarre il meglio sia dai processi di globalizzazione per esempio legati alla possibilità di aumentare i livelli di conoscenza, anche attraverso l’evoluzione di tecnologie di comunicazione sempre più capillari come Internet, che aumentano i livelli di conoscenza immediatamente disponibili, sia dalle tradizioni locali difendendone e rivendicandone le radici pur restando all’interno di modelli di interconnessione dal basso e di scambio aperti. La dialettica che ne nasce è la base di processi di liberazione di energie e di costruzione di nuovi saperi anche esterni alle istituzioni ufficiali della conoscenza (università, centri di ricerca, accademie, eccetera). Questi percorsi attivano quella “scienza dei cittadini” o “scienza civica”, sempre più preziosa per promuovere nuovi scenari di governance. Il Movimento Rifiuti Zero o dello Zero Waste è un esempio di questa nuova frontiera locale-globale. Non è un caso che proprio in Italia abbia trovato terreno molto fertile perché il nostro Paese è ricco di tradizioni locali dinamiche, da sempre in antitesi “genetica” ai processi di omologazione di una “globalizzazione senz’anima”. È proprio l’Italia dei comuni e delle comunità, delle mille specialità enogastronomiche e delle città dove ogni pietra calpestata racconta una storia, che dimostra di aver colto l’opportunità di connettere il meglio dell’identità locale con il meglio delle possibilità offerte dall’esser sempre più parte del «villaggio globale». Se a oggi in Italia ben 310 comuni hanno adottato la strategia Rifiuti Zero rappresentando circa sette milioni di abitanti un motivo ci sarà! L’attivista RZ è il prototipo del cittadino globale che, pur rivendicando il proprio radicamento e le sue radici, lo fa riconoscendo una positiva interazione con i contesti e i problemi globali. La rivoluzione Rifiuti Zero rappresenta una risorsa fondamentale del processo di rivoluzione ecologica che tuttavia va oltre i dieci passi dello Zero Waste.
A questo punto siamo pronti a introdurre gli indirizzi programmatici salienti del Manifesto per la rivoluzione ecologica che però hanno senso solo se considerati quale parte integrante del progetto di questo libro. È questo il manifesto per un nuovo partito? No, non lo è. Piuttosto si offre come contributo per costruire una nuova cultura politica non settaria, radicalmente democratica e fondata sulla liberazione di energie dal basso, aperta ma indipendente e critica e si configura quale progetto trasversale. Esso ha lo scopo di indicare una strada all’altezza dei tempi in cui la questione ambientale è da considerarsi la “madre di tutte le questioni”. Quindi pone quale priorità della politica la centralità ambientale in tutte le articolazioni, connessioni e implicazioni.
Questo testo si rende necessario vista la constatazione che fino a oggi, almeno in Italia, nessuna forza politica (nemmeno i Verdi) ha mai davvero posto al centro le questioni ambientali. O per un motivo o per l’altro abbiamo assistito a esperienze contraddittorie che non sono mai riuscite a delineare con forza e con coerenza la centralità della posta in gioco. Oggi, di fronte a una crisi ambientale che, se non affrontata, appare irreversibile è necessario tracciare con nettezza uno spartiacque. Il progetto della rivoluzione ecologica è per tutti, per definizione non può essere di parte, ma non può essere nemmeno furbescamente marginalizzato magari assumendolo a parole, ma negandolo o subordinandolo ad altre “priorità”. Io metto a disposizione questo progetto, che ovviamente può essere sottoposto a confronto e a miglioramenti, modifiche e/o sottolineature, ma se a questo “atto di generosità” non dovesse corrispondere una concreta apertura del mondo politico già presente si dovrebbe comunque costruire una soggettività politica organizzata intorno al bisogno della rivoluzione ecologica. Le scelte da intraprendere sono urgenti e attuali, come abbiamo visto intorno all’uso degli ingenti fondi che arriveranno dall’Europa attraverso il Recovery Fund. Ben presto si potrà vedere alla prova dei fatti chi sta a favore della priorità ambientale.
Gli indirizzi programmatici essenziali del Manifesto per la rivoluzione ecologica 2020-2030
Quello che segue è uno sforzo programmatico che non risolve tutti i problemi, ma costituisce una buona base comune per costruire un mondo in via di riconciliazione con la natura.
Esso va strettamente correlato con quanto precedentemente discusso soprattutto in materia di ecologia della politica e della comunicazione. Questo sforzo sicuramente inadeguato, ma coraggioso e stimolante non sarebbe stato possibile senza i “precedenti” dell’Agenda 2030, sottoscritta il 25 settembre del 2015 da 193 Paesi e recante i famosi 17 obiettivi, la Laudato si’ di papa Francesco e i contenuti del pacchetto per l’economia circolare con l’insieme degli impegni europei a finanziamento della transizione ecologica.
Referenti naturali e diretti interlocutori del progetto sono da ritenersi le organizzazioni internazionali “amiche” quali la Global Alliance Incinerator Alternatives (GAIA), Zero Waste Europe di cui sono fiero di essere presidente (essa coinvolge trenta delegazioni da 28 Paesi europei e dispone di un numeroso e preparato staff diretto da Joan Marc Simon a Bruxelles e un dinamico e competentissimo comitato scientifico guidato da Enzo Favoino), Zero Waste International Alliance, ZWIA), Greenpeace International, Wwf Internazionale e la Fondazione Goldman e, in particolare, gli oltre 130 vincitori, come il sottoscritto, del Goldman Prize sparsi in tutti i continenti, ma costantemente collegati.
A livello nazionale, invece, gli interlocutori e i protagonisti potenziali o già disponibili sono l’intero universo RZ formato da una galassia di realtà locali, regionali, istituzionali: comitati, associazioni e i 310 comuni ufficialmente parte dell’universo Zero Waste a partire dal comune di Capannori, che nel 2007 è stato il primo in Europa a intraprendere il percorso verso rifiuti zero. Un ruolo centrale in questo senso va poi a Zero Waste Italy che io presiedo, al Centro Ricerca RZ di Capannori e al professor Paul Connett senza il quale i risultati ottenuti e i collegamenti sviluppati a livello mondiale non sarebbero stati possibili. Un posto a parte merita l’esperienza e il percorso dell’associazione Ambiente e Futuro che pure, partita a livello locale, grazie proprio alla lezione del “laboratorio RZ”, non ha mai smesso di produrre elaborazioni politiche e culturali e campagne per un nuovo ecologismo. Uno sguardo attento viene rivolto al movimento di Greta e ai Fridays For Future e all’esperienza illuminata di Slow Food di Carlo Petrini.
Anche sul piano delle alleanze sociali è importante marcare soggetti e priorità di coinvolgimento: innanzitutto, gli agricoltori quali custodi della Terra e produttori di cibo. Senza di loro non sarebbe possibile “nutrire il pianeta”. Senza di loro, a partire dai più piccoli, non sarebbe possibile mantenere la fertilità dei suoli, l’accesso al cibo per milioni di persone e la varietà dei semi. Per questo diventa importantissimo a livello internazionale contrastare il fenomeno sempre più esteso e devastante del land grabbing che, in nome dell’accaparramento dei biocarburanti, delle biomasse combustibili e delle monocolture alimentari (come quella dell’olio di palma), tende a distruggere le economie di sussistenza e le popolazioni indigene, portando loro via i piccoli appezzamenti di terreno che possiedono. Anche a livello nazionale, soprattutto con Coldiretti della regione Marche, Rifiuti Zero si sta impegnando a sostenere “il patto per il cibo”, difendendo le filiere corte e i prodotti biologici, chiedendo alle associazioni degli agricoltori di stipulare un “patto per il compost dalla frazione organica differenziata” anche per contrastare i fenomeni di degrado e di perdita di fertilità dei suoli in molte regioni italiane. Infine, non può sfuggire a nessuno quanto sia prezioso il ruolo degli agricoltori quali “custodi naturali” del paesaggio e degli equilibri idrogeologici che, al contrario, vengono compromessi dall’abbandono della collina e della montagna. Per questo, all’interno del processo di transizione ecologica occorre riconoscere finanziamenti pubblici significativi quale un reddito integrativo per l’agricoltura di montagna e di collina che, oltre a produrre cibo sano, tutela le pianure e le città dal dissesto. Occorre anche un nuovo patto tra città e agricoltura attorno ai temi della tutela dei beni comuni (gli spazi pubblici e/o demaniali, gli “usi civici”), magari utilizzando gli strumenti normativi e territoriali esistenti come i “patti di fiume” e i consorzi di bonifica.
Altra alleanza strategica da perseguire su scala globale è quella cruciale con le donne e le bambine. Di fronte ai temi planetari dell’aumento esponenziale della popolazione, della povertà che non arretra, del dilagare in alcuni contesti di un tribalismo settario è auspicabile un “nuovo matriarcato” in grado di valorizzare una cultura di rispetto e di centralità del ruolo della donna nel combattere l’HIV, per promuovere una sessualità responsabile, per il diritto all’istruzione delle bambine e per i diritti civili in generale contro ogni anacronismo e oscurantismo. Le donne e le nuove generazioni femminili sono il volano della rivoluzione ecologica e del processo di rinaturalizzazione delle società, a partire da continenti come quello africano, giocando però un ruolo chiave anche nei Paesi occidentali.
In questo scenario di alleanze sociali internazionaliste non possono mancare gli waste pickers o catadores o recicladores. Essi rappresentano in modo tangibile quanto giustamente asserito da papa Francesco nell’Enciclica sulla cura della casa comune: la nostra civiltà dello spreco non si ferma davanti a nulla e arriva a trattare gli “ultimi della Terra” come scarti… ma questi sanno ribellarsi, chiedendo dignità per sé e per i propri figli, in nome di una giustizia ambientale che rivendica lavoro e recupero di risorse. Io sono orgoglioso di aver incontrato parecchi leader di questo movimento, sviluppatosi soprattutto in India, Filippine, Africa, America Latina. Leader come Nohra Padilla di Bogotà, che è stata in grado di trasformare la battaglia di migliaia di catadores in una vertenza che ha portato questo movimento a imporsi anche formalmente fino a diventare il “gestore” della raccolta e del riciclo della città: costituiscono una risorsa e un punto di riferimento globale per la rivoluzione ecologica. È stato molto bello nel 2013 aver ricevuto insieme a lei il Goldman Prize e aver partecipato a una visita dell’impianto di riciclo di Recology di San Francisco, capitale mondiale dello Zero Waste internazionale. Nel mondo occidentale questi movimenti sono poco conosciuti, in quanto la raccolta dei rifiuti avviene attraverso un sistema pubblico che giustamente ha anche lo scopo di proteggere i lavoratori del settore. Ma nella maggior parte del mondo non avviene altrettanto. In questo modo gli ultimi, gli “scartati” si difendono “scavando rifiuti da discariche enormi e puzzolenti”. Rifiuti che poi vengono venduti a prezzi stracciati. Questo lavoro terribile, però, contribuisce non solo a dare un minimo reddito, ma anche di restituire dignità, importante e foriera, spesso, del senso civico e partecipativo che spesso è in grado di sfociare in azione. In Brasile esiste un movimento che, organizzato in potente sindacato, raccoglie oltre un milione e mezzo di questi lavoratori. A Buenos Aires, poi, i cartoneros sono spesso balzati agli onori della cronaca per aver fatto da “ammortizzatori sociali” a molti lavoratori licenziati in tempo di crisi. Anche in India esistono organizzazioni sempre più forti a sostegno degli wastepickers. Rifiuti Zero non parla solo o prevalentemente di rifiuti e delle migliori modalità industriali per trattarli, ma promuove dignità e giustizia ambientale per gli esseri umani!
Questo ci permette di introdurre un primo indirizzo programmatico: proprio quello dell’obiettivo rifiuti zero al 2035. Non mi dilungherò sull’articolazione di questo progetto perché in merito ho già scritto un libro (Rifiuti Zero, edito da Baldini+Castoldi) a cui rimando per le conoscenze di dettaglio. Ciò che voglio ancora richiamare è il concetto di responsabilità estesa dei produttori e di progettazione industriale, che preveda prodotti durevoli e quindi riparabili, smontabili e, solo in ultimo, riciclabili. Occorre abolire nel modo più radicale la cosiddetta obsolescenza programmata che nella sua estremizzazione ha portato dritta all’inciviltà dell’usa e getta. Questa attenzione al design industriale è a maggior ragione ancora più urgente per far fronte anche alla piaga della plastica, un problema che sta ponendo serie questioni di alterazione ambientale degli equilibri legati all’ecosistema marino (pesci e uccelli minacciati) e della stessa catena alimentare. Ormai è arcinoto che non solo le “nostre plastiche” sversate in mare uccidono balene, tartarughe marine, delfini e pesci e albatros ma anche che, una volta che queste plastiche vengono micronizzate o arrivano in mare già sminuzzate in microplastiche dalle acque di scarico delle lavatrici, esse, ingerite da pesci predatori, ritornano a noi attraverso il cibo. Ovviamente, per fare questo occorre dar corso alla messa al bando non solo dei prodotti usa e getta in plastica, ma anche di tutti quegli imballaggi e confezioni molto spesso in materiali compositi (spesso un misto di cellulosa e di plastica), addirittura non riciclabili. Tassare la produzione di prodotti plastici può essere utile per inibirne i consumi, ma è meglio detassare le produzioni che ricorrono o a polimeri di riciclo e/o a materiali alternativi o, meglio ancora, a sistemi di ricarica privi di imballaggio.
Sempre sul versante dello “spreco zero” è importante connettere la filiera del cibo con quella della produzione di compost. Ne ho già accennato poco sopra. Qui voglio solo rimarcare l’importanza di combattere gli sprechi alimentari a partire dalla raccolta sul campo che spesso soltanto per motivi estetici manda al macero tonnellate di prodotti. All’interno di quel patto con gli agricoltori sopra descritto si devono trovare modalità per recuperare e utilizzare tutti i prodotti di seconda, terza scelta, evitandone lo spreco anche economico. E poi le mense, i ristoranti, i mercati e i supermercati. Senza tanti giri di parole deve essere reso obbligatorio un sistema che inibisce il gettare via “proteine”.
Durante il periodo dell’emergenza Coronavirus abbiamo visto che cittadini e imprese hanno dovuto adeguarsi alla logica dura lex, sed lex. Non capisco quali siano i motivi che devono inibire impegni drastici nel combattere gli sprechi alimentari, che del resto sono anche degli inaccettabili sprechi economici. Gli incentivi sono necessari e devono servire da rinforzo del sistema, ma deve essere chiara e netta la volontà di raggiungere i risultati!
Un obiettivo locale-globale di grande rilevanza per combattere il riscaldamento climatico, la difesa della biodiversità e la tutela dei suoli è piantare alberi. Piantare alberi è un driver determinante per rinaturalizzare le nostre città, arginare la desertificazione, depurare le acque, ripristinare importantissimi habitat naturali, combattere l’inquinamento, il degrado urbano e il dissesto idrogeologico. La foresta amazzonica minacciata da sciagurati progetti di “colonizzazione agricola o mineraria” così come altre aree del pianeta, che rappresentano dei polmoni verdi, queste risorse possiamo difenderle anche proteggendo con le unghie e con i denti i residuali spazi verdi delle nostre città congestionate o delle nostre pianure assediate da cemento, traffico, inquinamento industriale. Ovviamente, questo processo di piantumazione deve rispettare rigorosamente alcuni criteri nella selezione delle piante quali il ricorso a specie autoctone, un adeguato bilancio idrico, poiché le piante hanno bisogno di un adeguato fabbisogno di acqua.
Piantando alberi, per esempio, in Cina si è ottenuto un arretramento del deserto di oltre 2.400.000 chilometri quadrati! In Africa è in corso di svolgimento un colossale progetto di piantumazione di alberi, promosso dall’Organizzazione per l’unità africana: si tratta di una striscia di terra ai bordi del deserto del Sahara che si estende per circa 7600 chilometri, dal Senegal all’Etiopia arrivando all’Eritrea. Quest’opera permetterà di strappare terreni coltivabili al deserto, di difendere i suoli fertili già disponibili e di creare una coalizione di molti Paesi africani, rafforzandone la cooperazione. Sicuramente dipenderà anche dalla piena riuscita di questo progetto, se riusciremo ad arginare i flussi migratori che non avvengono né per “cattiveria umana” né per “spirito d’avventura”, ma in gran parte a causa di catastrofi ambientali, quali la desertificazione.
Anche nell’Occidente e in particolare nel nostro continente l’applicazione di queste buone pratiche di piantumazione è vitale per rigenerare i contesti urbani, rinfrescandoli, proteggendoli dall’inquinamento acustico e atmosferico, per riportare in città elementi di biodiversità, per garantire standard di verde strappati anche alla cementificazione di strade e alle lottizzazioni. Richiamando anche il precedente nuovo patto tra città e campagne, devono essere progettati “corridoi ecologici” alberati, quali spazi viventi di scambio tra aree urbanizzate, aree esterne e aree protette e/o parchi fluviali.
Alla luce di questo sforzo per ricostituire reticoli sistemici tra città e campagna, tra attività economiche del settore primario, ma anche di un turismo di qualità si colloca anche la centralità della difesa delle api. Negli ultimi dieci anni sono scomparsi oltre dieci milioni di alveari nel mondo e 200.000 in Italia. Tutti sappiamo quanto le api e gli insetti impollinatori siano determinanti per mantenere in equilibrio la biodiversità. Questi insetti e soprattutto le api impollinano circa il 90 per cento delle piante selvatiche e circa il 75 per cento delle varietà alimentari. I pesticidi (soprattutto i neonicotinoidi) legati alla agricoltura intensiva, gli erbicidi, i fungicidi, i cambiamenti climatici e alcuni parassiti come la Varroa Destructor hanno falcidiato le api. In questo progetto di riconnessione tra città e campagna, tra paesaggio urbano e paesaggi fluviali e lacustri favorire politiche di sostegno agli apicultori connette economia (i prodotti legati alla filiera del miele, ma anche della cera costituiscono una non trascurabile fonte di reddito) ed ecologia, restituendo attualità e valore al recupero di casolari abbandonati e di conseguenza a tutto il reticolo di viottoli, strade vicinali, fossi e canali.
Occorre invertire lo sguardo: anziché guardare le campagne (ormai spesso ridotte a scampoli) dal punto di vista delle città, occorre riportare le campagne in città sia attraverso la piantumazione di alberi, sia attraverso l’estensione degli spazi verdi soprattutto nelle periferie, sia attraverso l’agricoltura urbana. Le campagne devono tornare ad assediare le città, attraverso un tessuto di riconnessione in grado di riconquistare spazi in qualsiasi interstizio urbano. Ecco il senso dei guerrilla garden, del compostaggio da balcone e infine dell’urban farm. Tutto questo anche nell’ottica di produrre, dovunque sia possibile, cibo in grado di sfamare un pianeta sempre più popolato. I tessuti urbani possono così alleggerirsi da inquinamento atmosferico, da rumori molesti, dalle nevrosi crescenti e dal disagio sociale delle periferie. Meno speculazione e più piantumazione! potrebbe essere uno degli slogan della rivoluzione ecologica!
Il passaggio successivo per rinaturalizzare le città sarà quello di considerarle dei “giacimenti urbani” di cui monitorare i flussi di materia e di energia, affinché il tessuto urbano divenga un luogo circolare di rigenerazione di risorse finite. Il problema dei rifiuti, ovviamente deve essere affrontato applicando i dieci passi verso Rifiuti Zero, realizzando centri della riparazione-riuso, piattaforme per lo smontaggio-riparazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, piattaforme per il riciclo dei materiali. La raccolta porta a porta dev’essere alla base delle intercettazioni pressoché totali dei materiali riciclabili e compostabili che, puliti come solo questo sistema domiciliato riesce a garantire (a differenza dei cosiddetti “cassonetti a calotta”), possono rappresentare anche una voce economicamente attiva, ragione di molti posti di lavoro. Il risultato combinato è un alto livello percentuale di raccolta differenziata e una straordinaria purezza merceologica dei materiali separati.
Se poi a tutto ciò si abbina l’applicazione di un sistema di tariffazione che premia i cittadini che riducono i loro rifiuti (anche quelli differenziati), si chiude il cerchio: ce lo insegna il modo di funzionare della natura, che non conosce sprechi. In uno scenario che tende a raggiungere piena consapevolezza dei flussi di materia ed energia che definiscono i fabbisogni del sistema urbano non sarà difficile fare in modo che ogni output del sistema torni a costituire un input rigenerato. Questo vale per gli scarti (a partire da quelli organici) ma anche per acqua ed energia.
Su quest’ultimo fronte la sfida strategica non è tanto quella di rispondere in modo “rinnovabile” a un crescente fabbisogno, ma di ridurre i fabbisogni razionalizzando i prelievi energetici attraverso interventi “resilienti”, quali la bioedilizia, l’uso di strutture in legno, il raffrescamento degli ambienti anche attraverso opere di ingegneria botanica (tetti verdi, giardini verticali, agricoltura urbana, eccetera).
Da questa prospettiva si riesce a contrastare i cambiamenti climatici riducendo contemporaneamente le emissioni di CO2 e di gas climalteranti. Ancora una volta, ponendo al centro il recupero della sostanza organica che nelle città rappresenta un flusso notevole e quindi richiamando l’attuazione dei dieci passi verso Rifiuti Zero si può “saggiare” quanto una buona pratica attuata in un ambiente artificiale come la città sia importante per ripristinare gli equilibri naturali: il recupero della sostanza organica non solo consente agli altri materiali differenziati di mantenere la loro integrità merceologica (altrimenti compromessa dalla percolazione derivanti dall’organico), ma una volta trasformata in compost e in prezioso ammendante consente di ottenere due risultati enormemente positivi e combinati tra loro: da un lato, si contrasta la desertificazione e la perdita di fertilità dei suoli, dall’altro proprio per questo si riesce a fissare il carbonio nel terreno che altrimenti, in condizione di degrado, viene rilasciato in atmosfera sotto forma di CO2. Ecco come la strategia Rifiuti Zero si combina con la lotta ai cambiamenti climatici. Si consideri che ogni anno la quantità di CO2 derivante dai processi di rilascio di carbonio dai suoli incide in percentuale più dell’intero parco automezzi!
Ed ecco la questione del traffico e della mobilità in uno scenario di transizione ecologica volta a contrastare inquinamento e riduzione di CO2. Questo, probabilmente, è il “passaggio più stretto” attraverso cui far correre la transizione ecologica. Tale aspetto della sfida è uno dei più insidiosi in ballo, perché si connette con un’esigenza di mobilità crescente difficilmente eludibile. Raggiungere i posti di lavoro, portare i bambini a scuola, soddisfare il bisogno di viaggiare e, soprattutto, trasportare merci rappresentano i segmenti principali di una sfida per una mobilità ecologica e intelligente. La sfida è quella di spostare quote importanti dalle mobilità inquinanti, come le automobili, gli aerei e in particolare i mezzi pesanti, a modalità leggere e comunque sempre più collettive.
Innanzitutto, occorre mettere un argine al trasporto merci su gomma. Esso è fortemente inquinante, energivoro e pericoloso oltre che comportare il bisogno continuo di strade e autostrade e di rifacimento frequente dei manti stradali. Specialmente in Italia è stata fatta una politica sbagliata per favorire noti monopoli industriali che poi hanno spostato all’estero la loro dimora fiscale! Ciò è alla base della dimensione “nana” del trasporto merci su rotaia che ricopre un impatto ambientale notevolmente minore rispetto a quello su gomma. Occorre riequilibrare il sistema, incentivando il trasporto merci ferroviario e dotandolo delle necessarie infrastrutture (scali merci, collegamenti intermodali in particolare tra porti e aree industriali, ferrovie, eccetera). Questa operazione deve essere condotta combinandola con il trasporto per nave (cabotaggio) che, per una penisola come la nostra, non dovrebbe essere un problema gravoso. L’obiettivo potrebbe essere quello di passare dall’attuale 11 per cento di trasporto su rotaia ad almeno il doppio entro il 2030 con investimenti importanti.
Io non sono a priori contro l’alta velocità ferroviaria (anche se ritengo inutile e troppo impattante la TAV di Torino), che può essere un valido strumento per ridurre il traffico aereo, ma questo pone un problema: o si investe su di essa o si investe sul potenziamento del trasporto merci su rotaia. La priorità è togliere i Tir dalle strade e non è altrettanto importante guadagnare venti minuti per andare da Roma a Milano con i treni veloci!
Infine, c’è il problema degli spostamenti urbani. Non credo che basti incentivare l’uso della bicicletta, cosa comunque necessaria e che si deve fare aumentando la disponibilità delle piste ciclabili e garantendone, però, anche la sicurezza. Ma in proposito occorrono interventi integrati: piani di mobilità per i dipendenti delle aziende che superano il centinaio di addetti favorendo il car sharing e/o gli spostamenti collettivi (non ogni dipendente una automobile!), destinare dei fondi a chi adotta le “buone pratiche” di mobilità (bici, auto collettiva, scooter elettrico, e quant’altro); incentivare anche il telelavoro o lo smart working e l’uso di mezzi pubblici, meglio se con linee elettriche. Più in generale, per ridurre il traffico automobilistico che congestiona di polveri e non solo i nostri tessuti urbani (soprattutto in alcune ore del giorno), occorre che almeno in certe fasce orarie i mezzi siano gratuiti (includendo treni e metropolitane). Anche a questo proposito, puntando sui fondi vincolati alla transizione ecologica provenienti dal Recovery Fund europeo occorre una svolta drastica. Non è da paese civile che città e anzi intere aree siano delle vere e proprie camere a gas! Basta parole, basta retorica: occorrono concreti stanziamenti e interventi di risanamento della nostra qualità dell’aria!
Possiamo fermarci qui nell’indicare i principali indirizzi impressi da una rivoluzione ecologica. Non è certo stato detto tutto, così come non sono stati presi in rassegna aspetti importanti della rivoluzione ecologica come i temi animalisti e di nuovi e più sobri stili di vita, che inevitabilmente e doverosamente fanno parte di una “nuova civiltà”.
Non è pensabile, come l’emergenza Covid-19 ha dimostrato, andare avanti con i livelli di “egocentrismo antropologico” fin qui dimostrati. Noi possiamo aspirare a esercitare solo il ruolo di “custodi” del pianeta (e anche qui ci andrei piano!). Mentre è assolutamente inaccettabile pretendere di esercitare quello dei padroni! Tanto più che un “insignificante” virus è stato in grado di sbaragliare in men che non si dica la boria di “capoccioni” di cui, solo per pudore, non faccio i nomi (ma voi lo avete capito a chi mi riferisco…).