Il tira e molla sui numeri e i limiti
dell’informazione

 

 

 

Non mi sarei dilungato in questo modo, se il 10 giugno 2020 non fosse comparso sul «Corriere della Sera» un lungo articolo, a firma di Milena Gabanelli e di Simona Ravizza, che forniva una allarmante lettura di dati forniti dalla relazione Ispra alla Commissione parlamentare sulle ecomafie avvenuta nel maggio 2020. In questa si parla di circa 300.000 tonnellate di “nuovi rifiuti da smaltire” (includendo mascherine e guanti). Dati presi alla lettera come fossero cifre assolute.

Per evitare malintesi voglio ribadire il mio pieno rispetto delle opinioni dei giornalisti anche quando non sono in linea con le mie, così come non nego che la mia stima in generale nei confronti del giornalismo di Milena Gabanelli è sempre stata alta indipendentemente dagli “scivoloni” che le ho altre volte attribuito guarda caso proprio attorno al ruolo degli inceneritori. Dopo aver polemizzato a distanza in merito a questo argomento mesi fa, avevo apprezzato molto il contatto richiesto dalla sua stretta collaboratrice Simona Ravizza, la quale mi aveva chiesto di collaborare con la Gabanelli per curare una sua trasmissione relativa agli imballaggi in plastica. Mi ricordo bene quel periodo, appena pochi giorni prima dell’inizio del lockdown… Quindi, come si suol dire: niente di personale!

Non ritorno sui numeri di cui sopra, perché sono da rivedere nettamente al ribasso in seguito alle decisioni governative successive (non obbligatorietà dei guanti monouso). Ciò che voglio rimarcare sono i tempi, i modi e i contenuti di un messaggio fuorviante e allarmistico veicolato potentemente all’opinione pubblica dall’articolo del «Corriere della Sera». Tra l’altro, ironicamente pubblicato il giorno precedente le nuove disposizioni in merito all’uso dei guanti che lo rendono ancor più infondato. Ma a dispetto della sua infondatezza, il messaggio – occorrono nuovi inceneritori, altrimenti la malavita si infiltra ancor di più nella gestione dei rifiuti – è partito nonostante tutto, riproponendo un giornalismo che invece di avere occhi attenti anche alle storie positive che pongono, per esempio, il nostro Paese nell’Olimpo delle migliori eccellenze mondiali nella raccolta differenziata con un ottimo 58,2 per cento su scala nazionale, si arrampica sugli specchi per “inventare emergenze” tanto care all’industria dello smaltimento. Io non sono un giornalista e non voglio insegnare a nessuno questo mestiere, che è importante e delicato per la democrazia, ma, se si vuole affrontare il problema dei rifiuti in contrasto con la corruzione e con la criminalità, occorre centrare le soluzioni sulla partecipazione dal basso e sul raggiungimento di una graduale ma marcata residualità degli impianti di smaltimento. Dove sono i cittadini a fare la differenziata, per esempio con la modalità del “porta a porta”, le infiltrazioni mafiose non trovano varchi. Al contrario, laddove si concentrano interessi da centinaia di milioni in impianti di smaltimento, siano essi di discarica e/o di incenerimento (anche gli inceneritori, comunque, necessitano di discariche per le ceneri), il rischio criminalità è altissimo. L’esperienza di Rifiuti Zero ci ha portati a elaborare la cosiddetta “legge dell’inquinamento”: più sono alti i livelli di partecipazione e di coinvolgimento popolare nelle “buone pratiche ambientali” (riduzione e differenziazione dei rifiuti), minore è l’inquinamento dei territori; al contrario, minore è la partecipazione e maggiori sono invece sia i quantitativi di rifiuti da smaltire che i pericoli di infiltrazione mafiosa. Per chi, da giornalista, intende meritoriamente “promuovere il civismo”, dovrebbe essere naturale muoversi in questo alveo concettuale, ma evidentemente c’è qualcosa che mi sfugge.

 

 

Rifiuti ospedalieri: numeri, gestione e smaltimento

 

Affrontando il tema dei “nuovi rifiuti da pandemia” e in particolare della relazione Ispra, di fronte alla Commissione ecomafie abbiamo “sfiorato” anche la questione dei rifiuti provenienti da ospedali e strutture sanitarie. Era inevitabile, visto che, quando si è parlato di mascherine FFP1 e FFP2, esse sono prevalentemente associate al personale medico e quindi, nel loro ciclo di raccolta e smaltimento estremamente delicato, devono seguire un circuito differenziato rispetto a quello tracciato dalla normativa per i rifiuti solidi urbani e da quello relativo ai rifiuti speciali provenienti da strutture produttive. Stiamo parlando di rifiuti sanitari, provenienti dagli ospedali ma non solo. Durante la fase acuta del contagio abbiamo visto spesso tanto medici e infermieri, quanto farmacisti e commessi di farmacia indossare non solo le mascherine in questione, ma anche altri dispositivi di protezione dal contagio come camici speciali, mantelli, copriscarpe, occhiali, visiere eccetera. È ovvio che nel periodo in questione i flussi provenienti dagli ospedali sono aumentati notevolmente e di qui la necessità di capire da parte della Commissione ecomafie se il loro sistema di gestione fosse in grado di sostenerne l’impatto. Ispra, analogamente a quanto ha dichiarato a proposito della capacità gestionale dei nuovi rifiuti provenienti da mascherine e guanti, ha dato una risposta positiva anche da questo punto di vista, fornendo numeri in questo caso consolidati e assestati, una volta superato il picco dei ricoveri nei reparti di malattie infettive. Parliamo di circa 100.000 tonnellate all’anno a livello nazionale, ed è stato affermato che l’impiantistica esistente (inceneritori e impianti di sterilizzazione) sono sufficienti a coprire l’intero fabbisogno.

Siccome, in genere, il “pianeta” dei rifiuti sanitari è semisconosciuto ai più, vale la pena di approfondire la questione. Intanto i numeri nazionali sono modesti e solitamente riguardano un quantitativo di scarti pari a quello di una città italiana di piccole-medie dimensioni (vale a dire di circa 100.000 abitanti). Questo flusso viene in prevalenza bruciato in inceneritori che debbono essere autorizzati allo scopo oppure trattati in impianti di sterilizzazione, che annullano la carica batterica e/o virale attraverso processi portati a circa 150 gradi di temperatura, proprio per abbattere eventuali patogeni. Dal momento che, quando si tratta di modalità di trattamento di questi rifiuti, la vulgata dà per scontato che l’unico modo per farlo sia l’incenerimento (ma già abbiamo visto che esistono sistemi alternativi alcuni dei quali già operativi) occorre svolgere ulteriori, anche se essenziali, approfondimenti sulle caratteristiche merceologiche del rifiuto in questione. Intanto per la normativa vigente i rifiuti ospedalieri (RO) si suddividono in due macrocategorie: quella degli “speciali non pericolosi” e quella degli “speciali pericolosi”.

Per capire meglio, un tempo quando c’erano i termometri a mercurio (ora messi al bando e sostituiti), questi erano considerati rifiuti ospedalieri pericolosi da distinguere dal vetro e/o dalla plastica delle bottiglie dell’acqua dei ricoverati, considerati invece non pericolosi.

I medicinali sono da considerare RO se provenienti dalle strutture ospedaliere, mentre sono rifiuti solidi urbani pericolosi se provengono dalle farmacie. I medicinali non scaduti possono essere sottratti a questo destino e allo spreco, in un mondo dove molte persone povere muoiono perché prive di farmaci, ed essere recuperati. Questo grazie a un progetto promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico che, attraverso contenitori dedicati a questo scopo collocati nelle farmacie aderenti, recupera i medicinali validi e attiva reti di solidarietà. Sono esclusi farmaci stupefacenti e psicotropi, quelli da conservare in frigo e i farmaci ospedalieri. Per poter conoscere dove si trovano le farmacie aderenti a questo progetto si può anche disporre di un’applicazione informatica che indica quali esercizi nelle varie città dispongono dei contenitori dedicati a questa raccolta.

Esiste poi tutta la parte relativa alle macchine elettromedicali piccole e grandi, da ambulatorio (quelle per misurare la pressione arteriosa, per esempio) e da ospedale, collocate soprattutto nei reparti di terapia intensiva e nelle sale operatorie. Esse, in linea di massima, somigliano alle AEE (apparecchiature elettriche-elettroniche) che, una volta da dismettere, somigliano a RAEE comuni (rifiuti elettrici ed elettronici) ma seguono anch’esse il circuito differenziato dei RO. Quindi, la categoria dei rifiuti ospedalieri ripropone quanto appreso parlando a proposito dei rifiuti solidi urbani (RSU): il concetto di rifiuto costituisce una sorta di resa che “dichiariamo” solo dopo essere stati “sconfitti”, e cioè dopo “aver mischiato tutto insieme”. Anche in questo caso, invece, occorre guardare bene nel “mucchio” e allora, allenato lo sguardo, non vedremo più rifiuti ma di nuovo materiali organici (ad esempio: i cibi dei pasti dei pazienti ricoverati), vetro, soprattutto plastica, carta, metalli (anche preziosi, come nel caso delle macchine elettromedicali) e diverse tipologie di scarti da ritenersi, indipendentemente dalle loro caratteristiche merceologiche, potenzialmente infettivi (poiché provengono dai reparti che curano le malattie infettive). Ecco, questi rifiuti debbono essere smaltiti in toto nell’indifferenziato, per poi essere sottoposti a processi di sterilizzazione. La gran parte degli scarti, invece, può essere differenziata con modalità equivalenti ai normali sistemi di separazione. Quindi, circa l’80 per cento dei flussi dei RO può essere differenziato, perché si tratta di scarti organici non a rischio infettivo, di carta e cartone, di vetro, di plastiche, comprese quelle che provengono dai flaconi dei cicli di terapia (salvo casi particolari, come si è detto prima a proposito dei reparti in cui vengono curate le malattie infettive). Rifiuti Zero, da tempo, ha avanzato al Sistema sanitario la richiesta di avviare progetti pilota in questo senso, anche in alternativa ai processi di combustione. Nel recente passato trattare i RO negli inceneritori ha significato bruciare il mercurio dei termometri con emissioni di sostanze cancerogene, di plastiche clorurate come il PVC che, sottoposte a combustione, sprigionano elevati livelli di diossina. Il 20 per cento residuo può essere sterilizzato attraverso un processo denominato Autoclaving System, alla fine del quale si ottiene la igienizzazione e la stabilizzazione del flusso residuale, praticamente dimezzato in peso per effetto delle temperature a cui è stato sottoposto. Anche qui, per fare un esempio, pensiamo ai pannolini e pannoloni: indipendentemente dal circuito di provenienza, che li distingue per motivi normativi e non merceologici (infatti, i pannolini offerti dal mercato sono sempre gli stessi, sia che provengano dai reparti di maternità sia dalle famiglie), essi contengono una parte organica e una parte composita, costituita da cellulosa e plastica. L’impianto, divenuto famoso per gli “addetti ai lavori”, del consorzio Contarina (realizzato in stretta collaborazione con una multinazionale del settore) in provincia di Treviso prima sterilizza le parti organiche e, dopo, separa le altre componenti (plastica e cellulosa) in modo meccanico. Questo semplice esempio mostra come, anche per la parte organica proveniente dai reparti ospedalieri, grazie a trattamenti alternativi all’incenerimento, si possano adottare processi di stabilizzazione estremamente cautelativi evitando inutili e potenzialmente rischiose emissioni.

 

 

Progetti Zero Waste in pandemia: le alternative esistono

 

Rifiuti Zero deve la propria forza al fatto di non dire solo no, ma soprattutto per aver avanzato concrete soluzioni dimostrando di saperle trasformare in pratiche di successo. Oggi il valore aggiunto di questa strategia, che ho l’onore di aver promosso per primo in Italia risiede proprio nella sua credibilità, che a sua volta deriva dal poter osservare come davvero si possa in poche mosse arrivare prima a ridurre e poi sempre più prossimi allo zero nella produzione e smaltimento degli scarti.

Per questo, in pieno lockdown, abbiamo lavorato per promuovere almeno un paio di progetti di grande valore per uscire “migliori” dalla lezione impartita dal virus. Colpiti dalla tragedia dei morti e dall’impegno civico, oltre che professionale, di tutto il personale medico, ci siamo resi conto, tra l’altro, dell’insufficienza dei macchinari per la respirazione assistita dei quali molti pazienti avevano bisogno nelle sale di rianimazione. Sollecitato da Claudio Tedeschi, presidente di Dismeco di Marzabotto, un’azienda virtuosa e pluripremiata anche da Confindustria, ho da subito condiviso e lanciato un progetto per il recupero delle macchine elettromedicali attraverso la piattaforma di Dismeco. Questi dispositivi del tutto simili agli AEE e ai RAEE e (cioè AEE divenuti rifiuti, una volta che devono essere inviati a trattamento e smaltimento), ma distinti dal circuito di ritiro e smaltimento (sono considerati rifiuti ospedalieri non pericolosi dalla normativa) sono in dotazione soprattutto agli ospedali e comprendono sia macchine complesse, come i macchinari per la TAC e per le risonanze magnetiche, sia piccoli dispositivi, come i misuratori della pressione. Questi macchinari, che a volte si trovano in giacenza praticamente dismessi anche perché spesso i pezzi di ricambio non sono più in commercio, in genere vengono smaltiti attraverso un costoso processo di grezza triturazione attraverso il quale si è in grado di recuperare solo i metalli più comuni e meno remunerati. Allora, Zero Waste Italy e Dismeco hanno concordato un progetto pilota, già operativo presso lo stabilimento di Marzabotto, in provincia di Bologna, dove Dismeco opera da tempo come azienda leader nel settore dei RAEE. Lo scopo è proprio quello di recuperare questi macchinari, che a volte hanno un costo rilevante perché si tratta di dispositivi a tecnologia avanzata, prevedendo anche, oltre alle operazioni di riparazione, anche volte a recuperare pezzi funzionali che, non essendo più disponibili sul mercato, potrebbero servire appunto a rigenerare macchine altrimenti destinate alla rottamazione. Considerando che l’intero processo di ritiro e smaltimento risulta assai costoso, si comprende facilmente come si potrebbe recuperare valore ecologico, ma anche significativo valore economico attraverso questa operazione. Ci auguriamo anche in conseguenza dell’esperienza dell’epidemia che la ritrovata attenzione verso il sistema sanitario nazionale sia suffragata anche da finanziamenti che consentano a progetti di questo tipo di uscire dal libro delle buone intenzioni e di diventare realtà. Intanto, a conferma del successo dell’iniziativa, raccogliamo le prime partecipazioni: al progetto pilota ha aderito infatti anche il dipartimento di Ingegneria dell’università di Bologna.

 

Altra iniziativa che Zero Waste Italy ha promosso, stavolta assieme alla cooperativa sociale di Bologna EtaBeta, è quello del noleggio e lavaggio delle mascherine riusabili classificate e certificate come dispositivi medici (MD). EtaBeta rappresenta un’eccellenza italiana nel campo del noleggio e lavaggio dei pannolini riusabili. Può vantare, attraverso un accordo con la Regione Emilia-Romagna e con molti comuni della provincia di Bologna un progetto operante in molti asili nido, denominato Progetto Lavanda, col quale fino a oggi sono stati lavati oltre un milione di pannolini in alternativa ai pannolini usa e getta che, lo vogliamo ricordare, hanno un’impronta ecologica altissima, anche se, come abbiamo prima visto, possono essere avviati a operazioni di riciclo industriale. Il lavaggio avviene attraverso un sistema di igienizzazione privo di cloro, certificato nei minimi dettagli. Sulla scorta di questa credibilità operativa, EtaBeta ha messo a punto un sistema altrettanto certificato per fornire un’alternativa alle mascherine usa e getta. Esso è basato sul noleggio, ritiro, lavaggio, asciugatura e poi riconsegna delle mascherine per uso medico largamente adoperate in “strutture protette”, come le case di riposo, ma anche in molti luoghi di lavoro manifatturiero. Si basa sulla personalizzazione dei ritiri e riconsegna attraverso contenitori in tessuto dotati di un chip di riconoscimento automatico. Il sistema, attivabile attraverso l’acquisto di un container dove ubicare il set di lavanderia e asciugatura, è facilmente replicabile e sulla base di un piano finanziario basato su investimenti abbastanza modesti è messo a disposizione di imprese sociali per dare concretezza a soluzioni alternative ed ecologicamente vincenti. Inoltre il progetto può essere ampliato al trattamento di altri “nuovi rifiuti da pandemia” come tute, copri scarpe, teli provenienti da studi dentistici, parrucchieri, estetisti, eccetera. Una volta che il ricorso all’uso delle mascherine dovesse finire, il kit operativo in questione risulta comunque in grado, senza costi aggiuntivi, di essere immediatamente riconvertito per il lavaggio dei pannolini.