L’altro era rimasto sorpreso, e Simone si era voltato verso di noi. Non aveva affatto l’aria di voler salutare Taisir, eppure aveva mosso la testa in un cenno rapido di saluto, come un gesto istintivamente educato di cui sembrava non essersi neppure reso conto. Ma quello che di sicuro non si aspettava, era che Taisir gli passasse così vicino, perché l’espressione si era tramutata in sorpresa sfiorata da un senso di allarme.

“Non ti si vede spesso in cortile» aveva detto in modo neutro, accennando un sorriso ironico.

“Già.» Taisir lo guardava come se lo misurasse. Aveva pesato le parole, ma stava usando un tono gentile: ”Non capita spesso.» Allora Simone aveva fulmineamente capito che Taisir non era lì per provocarlo o sfidarlo, ma che per qualche motivo stava tentando un approccio e mi aveva lanciato un’occhiata, perché quel motivo non era poi così insondabile, quel motivo ero io.

“Ciao» mi aveva detto allora ”Ciao» avevo risposto.

“Vi conoscete, vero?» aveva detto Taisir e sembrava che svelasse finalmente un mistero.

Io non avevo il coraggio di aprire bocca ma Simone aveva intuito che dalla sua risposta dipendevano molte cose; alcune potevano riguardarlo direttamente, come quello sforzo di Taisir, ma anche altre che non lo riguardavano potevano avere una conseguenza molto più ampia che non dentro i suoi e i miei orizzonti. La ragazza sconosciuta e dall’aria visibilmente a disagio che ero io assumeva ai suoi occhi un aspetto singolare: perché ci tenevo a passare per amica sua? Non era casomai controproducente dichiararmi tale agli occhi di Taisir?

“Ci si conosce un po tutti, in questa scuola» aveva pronunciato con calma, e quella frase suonava abbastanza ambigua da lasciar credere che io e lui fossimo intimi amici oppure perfetti sconosciuti. Taisir pareva deluso e annuiva poco convinto. Lo vedevo riflettere dietro la fronte un po aggrottata: ero sicura che avrebbe tirato fuori una delle sue domande trappola, e ho deciso di intervenire in maniera un po spavalda: “Credo ti stia chiedendo se io sono una dei vostri. Ha bisogno di una conferma diretta, credo.» Simone mi aveva fissato per un istante con molta intensità e in quell’attimo mi era sembrato che calasse su di lui la millenaria saggezza ebraica. Poi, socchiudendo gli occhi, aveva osservato: ”Come no. Una di noi… cioè una coraggiosa.» Il viso si era aperto in un sorriso pieno di comprensione prima di salutarci.

Sono sicura che fosse la prima volta che quei due, che si erano sempre platealmente evitati, si scambiavano un autentico saluto. Stava per finire la ricreazione e la prima campanella d’avvertimento stava già suonando.

Anch’io stavo per avviarmi, ma Taisir mi ha trattenuta ancora un momento. “Ti aspetto al parco alle quattro, c’è qualcosa che devi fare assolutamente.» “Qualcosa… che cosa?» Tutti stavano già sciamando verso le aule, avevamo a disposizione appena una manciata di secondi. Lui si è messo a correre per il corridoio: ”Siamo d’accordo, allora, alle quattro.» Mi ero seduta al banco ancora stordita pensando a cosa Taisir si aspettasse da me.

Sono seduta sulla panchina, il busto piegato in avanti, il gomito su un ginocchio e il viso poggiato sulla mano aperta: il ritratto della vera pensatrice. In effetti sto meditando su cosa dovrò fare sopra questo prato smeraldino che non sembra neppure terreno di città, ma pura campagna.

Sto guardando verso il solito posto da cui sbuca sempre Taisir, ma per il suo gusto di sorprendermi e come la prima volta allo skatepark, mi arriva alle spalle come un falco, planando sulla sua tavola. In spalla, ha un altro skate dall’aria un po malmessa, dev’essere quello vecchio.

Mi sollevo, sbattendo le palpebre per lo stupore: “Che ci fai con due tavole?» chiedo ingenuamente, ma lui non risponde.

Si limita a sorridere, posando sul cemento lo skateboard logoro. La mia domanda è superflua, perché è chiaro che lui non usa due tavole alla volta: una è per me.

“È ora che tu impari» mi dice, e scende dal suo skateboard per allungarmelo. D’istinto vorrei rifiutare: salire su quella tavola non è uno scherzo, potrei anche rompermi l’osso del collo. Ma invece di protestare che non ne ho voglia e non me la sento, alzo uno sguardo felice verso Taisir, come se salire sullo skateboard, il suo, fosse proprio il mio desiderio più grande.

“Userai la mia tavola,» mi sta dicendo ”è più sicura.» Lui terrà per sé quella vecchia e sbreccata. Non è un gesto commuovente?

Lo abbraccio d’impulso, soffiandogli tra i capelli: “Grazie!» Poi, con un po di cautela poggio un piede sul suo skateboard, immaginando di salire sul cavallo bianco del principe azzurro: chissà se anche Biancaneve si sentiva così, spaventata ed eccitata insieme, visto che era la prima volta in vita sua che saliva su un cavallo. Ma qui non c’è il mio principe a guidare un destriero, con me comodamente seduta tra le sue braccia: qui c’è un gioco d’equilibrio che devo trovarmi da sola, un piede sulla tavola e l’altro a terra che imprime una spinta, e poi tutti e due su, le ginocchia piegate, la schiena in avanti. Taisir mi è accanto, sull’altro skateboard.

Sta su drittissimo, a spalle larghe, sembra incollato alla tavola. Allunga una mano verso di me e mi dice: “Attaccati a me, stai su, non così piegata.» ”Ma cadrò!» mi esce una vocetta acuta.

“No, ti tengo io, fidati!» D’accordo: mi raddrizzo sulla schiena, prendo la sua mano e mi ci attacco con forza. Sono sempre tesa, il busto si piega di lato, le gambe si flettono, tremano, ma lui mi afferra con forza, mi riporta dritta, intanto imprime maggiore velocità al suo skateboard e insieme scivoliamo via sulla strada.

E finalmente non ho più paura di cadere. Sento le gambe sciogliersi e i piedi bloccarsi sulla tavola; raddrizzo le spalle, alzo la testa e sento la gioia di scivolare nel vento, come un uccello. Mentre voliamo mano nella mano, istintivamente gli grido: “Devo dirti una cosa, Taisir!» ”Dimmi.» Lui si volta tranquillamente, come se stessimo facendo una semplice passeggiata. Ma io ho lo sguardo fisso avanti, concentrata sull’equilibrio che ho appena trovato.

“Non sono ebrea» dico a voce bassa, come se mi confessassi e lui mi chiede, girato verso di me: ”Cosa? Non ho sentito!»

Allora tiro fuori tutta la voce: “Non sono ebrea!» Ma il mio sembra un grido di gioia, mentre ripeto: ”Non sono ebrea né cristiana né musulmana e neppure buddista.» Ho accennato un’occhiata laterale verso di lui, e subito perdo la compostezza, ho uno sbandamento pericoloso che si trasmette alle braccia: comincio ad annaspare nell’aria, le gambe mi tremano di nuovo. Ma lui continua a tenermi saldamente per mano, rallenta un po la corsa e mi fa tornare dritta, stabile.

“E cosa sei allora, sentiamo?» Il tono è ironico, e anche se non posso vederlo in viso immagino il suo sguardo divertito, così capisco al volo che mi ha fatto questa domanda nel suo solito stile socratico, perché sa già quale sarà la mia risposta: “Io sono Rachele!» Lui apre l’altro braccio in fuori e davvero è come se prendessimo quota, mentre anche lui dice a voce spiegata: ”Io sono Taisir!» Urliamo insieme, mentre i nostri skateboard prendono maggiore velocità e corrono lungo il viale di cemento: così, stretti per mano, gli occhi al vento, le bocche aperte in un lungo grido, corriamo via senza una direzione precisa, solo per il gusto, la gioia di andare, la certezza di trovare strade che non abbiano già etichette e targhe, sensi unici o interruzioni, solo strade con i nomi tutti da inventare.

Fine