Paola Zannoner

 

A piedi nudi, a cuore aperto

 

romanzo

 

 

DeA

 

Un amore impossibile, due vite diverse, una storia che appassiona e commuove.

Taisir è un giovane arabo palestinese, Rachele è una ragazza italiana: si incrociano per caso in una piazza, poi si ritrovano a scuola.

Lui è uno skater, lei studia canto; entrambi frequentano un liceo nel centro della città, ma mentre Rachele abita in una zona residenziale, Taisir vive nel quartiere arabo della metropoli.

La curiosità e la tenacia della ragazza le consentono di superare la diffidenza di Taisir, di entrare in relazione con lui: sarà un’occasione per capire il suo mondo, pieno di curiosità e sorprese, creando così un’amicizia intensa e generosa.

Ma Rachele ancora non sa che potrà anche essere una porta per aprirle il cuore…

Sono quasi a pochi passi da lui, il cuore prende ad accelerare perché d’un tratto ho la coscienza di essere in mezzo a troppe persone per potergli parlare, e tutto il percorso di guerra che ho fatto fin qui, insinuandomi tra corpi, scivolando quasi a terra, salendo in ginocchio gli ultimi due gradini, l’ho fatto d’impulso, per accertarmi che sia proprio lui, lo skater della stazione e non qualcuno che gli somiglia. E l’ho fatto sospinta da quella sensazione di brivido che la sua spavalderia ha trasmesso a tutta la platea, tra ammirazione e invidia per quella gran faccia tosta. Ma se mi sono precipitata avanti senza pensarci troppo è perché la sua voce mi ha ammaliato, come il canto di un’irresistibile sirena.

 

 

 

PAOLA ZANNONER.

A piedi nudi, a cuore aperto

FANUCCI EDITORE.

Prima edizione: gennaio 2006.

© 2005 by Paola Zannoner.

© 2006 by Fanucci Editore.

PAOLA ZANNONER.

 

 

 

A piedi nudi, a cuore aperto

 

 

Per Benedetta Ciaccia.

 

 

 

 

A piedi nudi.

Per me il dialogo tra culture non è uno scambio tra gruppi, ma uno scambio tra individui. Le culture non sono entità distinte, esistono attraverso le persone che le rappresentano, che non sono mai identiche: in un paese individui portatori di varie culture spesso coabitano in una stessa città, in un quartiere, in una scuola, in un’azienda. E dalla loro capacità di convivere, ascoltarsi reciprocamente, influenzarsi che risiede il dialogo delle culture.

Amin Maalouf

***

Capitolo 1.

È finita. È andata male, per me intendo. Lui mi ha appena detto: “Senti, non stiamo più insieme.» Lapidario, proprio come una pietra che ti arriva in testa, non ha proferito una parola in più, lui ha il dono dell’essenzialità. Sicuro di sé, del tutto indifferente alla ferita che mi stava infliggendo: a me sola resta la commozione, l’incredulità e il lamento, non a lui che indossa quello sguardo ironico, persino allegro.

Sbatto un po le ciglia, balbettando: “Va bene.» Lui sembra sollevato, solo ora mi concede un sorriso un po mesto come forse si deve in un momento così solenne, e pronuncia la frase fatidica: ”Allora, amici.» Annuisco, ma mi volto in fretta, senza prendere la mano tesa che mi offre. Amici un accidente. Io ero la tua ragazza, non vedo perché cadere nel patetico ruolo di quella Che si è rassegnata a essere l’amica comprensiva e un po tonta, pur di starti accanto e sperare in un ripensamento, nell’accensione di una nuova scintilla.

Invece, ecco la storica decisione: mi prendo un anno sabbatico dai ragazzi. Prima che mi scorrano le lacrime di umiliazione sulle guance infuocate, ho deciso che per quest’anno chiudo il cuore. Come mi ha detto, lui, prima delle sei fatali parole? Che sono troppo buona, troppo semplice: acqua fresca. Le lacrime scendono giù a rivoli, mi inondano il mento, mi bagnano la gola: come si fa a dire che il tuo problema è quello di essere buona, un’anima candida? Gli auguro di trovarsi presto una sadica che lo tormenti con tutte le pene d’amore possibili, ma mentre spedisco con rabbia questo pensiero al suo indirizzo, le lacrime diventano un fiume in piena e sono scossa da singhiozzi: perché non sono stata all’altezza? Perché non sono stata abbastanza spavalda, misteriosa e cattiva da tenerlo legato a me? Mi precipito da Erica, perché in queste condizioni, così stravolta, non posso tornare a casa: rischierei l’interrogatorio.

Lei trova tutti gli epiteti peggiori per definirlo, furiosa.

Ma lei è la mia migliore amica: non potrebbe che giudicare un verme chi mi fa soffrire. Poggia con delicatezza la sua testa accanto alla mia, dopo che mi sono soffiata vigorosamente il naso e mi sono data una ripulita al viso bagnato.

Sento che tutti quegli improperi che io non avrei avuto il coraggio di pensare mi hanno fatto bene.

“Non devi partire in quarta, perché sbatti la testa: è matematico.»

Mi sembra di sentire le parole criptiche di un oracolo.

Emetto un sospiro, e lei prosegue con una specie di analisi del mio caso disperato: “Te la prendi troppo a cuore, ti butti subito a corpo morto con un ragazzo e quello se ne approfitta, ti tratta come uno zerbino.» Mi vedo schiacciata sul pavimento, e lui che mi passa sopra con quelle scarpe da ginnastica abbastanza luride: un’immagine che mi disgusta. ”Io sono fatta così» mi difendo, debolmente.

 

“Ma non per tutto, a scuola non ti fai mettere i piedi in testa.» Si è scostata un po, mi guarda. Le ciglia aggrottate le increspano l’alta fronte: ”Solo con questi tipi. Con quelli particolarmente vermosi. Ma che aveva poi, di carino?» Lo vedo come in un’istantanea sfocata. A dir la verità non riesco a evidenziare che dei particolari: i capelli biondi inanellati di cui va così fiero, il naso piccolo come quello di una ragazza, i jeans con il risvolto, le scarpe sempre sporche, infangate, come se emergesse ogni giorno da una palude. Nell’insieme, lo trovavo molto carino. Ci siamo baciati tre volte.

“Ho deciso che mi prendo un anno sabbatico» rivelo, con gravità. La fronte di Erica si spiana, le sopracciglia schizzano in alto: ”Che cosa?» “Un anno sabbatico, si chiama così un anno di pausa.» Lei mi guarda preoccupata, si porta una mano sulla guancia: ”Orca! A quattordici anni hai già deciso di andare in pensione.» Si, ritirarmi. Sono già stufa, sembra che le questioni d’amore siano battaglie, bisogna inventare strategie, sapersi difendere, attaccare quando è il momento, sferrare il colpo finale e conquistare il campo. È un po presto per tirare le somme, ma gli ultimi due anni sono stati segnati da una triste sequenza di sconfitte.

Non sono brava a fingere. Il mio primo tentativo, quel tizio nervoso dello scorso anno, mi ha detto papale che avevo troppo la faccia da brava ragazza, e lui voleva solo storie di sesso. Erica scoppiò a ridere, anche se io ero mortificata: “Quel buffone! Ma è pazzo? Nessuno l’ha avvertito che non siamo in una fiction americana? E che lui non è un modello che vive a Manhattan?» Il secondo tentativo era quel ragazzo al mare, con cui camminavo sulla riva mano nella mano come si vede nei film romantici. Era più grande di me, e mi trattava come si può trattare un cucciolo, con quella delicatezza che hai per gli animaletti cui lisci il pelo, carezzi piano le orecchie e bisbigli nomignoli graziosi. Pensavo che fosse il tipo giusto, così attento e dolce, ma è sparito appena se n’è andato dal campeggio: ti chiamo, mi aveva promesso tutto suadente, ma non ha mai chiamato né risposto ai miei messaggi. Qualcuno mi ha raccontato che aveva una ragazza e mi ha fatto capire che io ero quella con cui uscire giusto quei quindici giorni di villeggiatura. L’animaletto che si lascia sui bordi dell’ autostrada, – insomma.

Il terzo è quello per cui sto frignando come una stupida: quello con la erre moscia, che ho conosciuto a una cena da amici dei miei. Una serata che si prospettava una gran barba.

Invece, era apparso lui, con quelle scarpe infangate sul bel tappeto persiano di sua madre, con quei jeans sporchi che strofinava con gusto sul divano damascato, con quell’aria strafottente in casa sua, come fosse stato nel covo di acerrimi nemici e volesse dargli fuoco.

Mi ha rapita: vieni, mi ha bisbigliato, strizzandomi l’occhio e, indirizzandomi un sorriso assassino, la mano tesa verso di me che me ne stavo seduta sulla poltroncina di vimini sul terrazzo, impacciata dalla maglia troppo stretta che pareva stritolarmi in vita e la gonna che non voleva saperne di rimanere incollata sui fianchi e saliva verso la pancia, costringendomi a tirare in continuazione la stoffa verso il basso. Perché avevo indossato la gonna? Colpa di mia madre, che aveva tanto insistito, ma io avrei preferito un paio di jeans sdruciti come quelli di Jacopo, il pirata che mi stava tendendo la mano e mi cingeva la vita, strappandomi da quella stupida poltrona mentre furtivamente mi davo un’aggiustata alla gonna.

Corriamo nel giardino della villa, ridendo per il buio, l’eccitazione della fuga, la complicità. Mi sussurra cose che non ricordo, perché l’euforia si è impossessata di me. Rido di tutto quel che mi dice: alla poca luce riflessa dalla villa, scorgo i suoi occhi che scintillano per la fierezza di essere brillo. Quando mi bacia, sa di fumo e di vino, un sapore amaro che cerco di ignorare, mentre mi stringo con tenerezza a lui. “Stiamo insieme?» chiedo puerilmente, e lui scoppia a ridere.

Quando l’ho chiamato la mattina dopo, pareva confuso, ma ha accettato di vedermi dopo qualche giorno. Io ero già infatuata, ne ho parlato a tutte le mie amiche, gli inviavo messaggini e squilli, ma Jacopo rispondeva raramente. Ai nostri appuntamenti arrivava visibilmente seccato, e per i primi dieci minuti quasi non proferiva parola. Camminavamo accanto, per strada, io ridevo per qualunque cosa dicesse, come la prima volta, alla fine lui è sbottato: “Non sai far altro che ridere?» Alla mia espressione sconcertata e delusa, mi ha detto, calmandosi: ”Senti Rachele, io non sono quello che ti aspetti.» Siamo usciti tre volte in tutto, lo ammetto che è un po poco per definire qualcosa tra due persone. Però ci sono staio ti dei baci, la mia testa poggiata sulla sua spalla, le mani allacciate.

La meravigliosa sensazione di una persona vicina, che per un prezioso istante è tutta per te, rivolta a te. Poi quell’attimo svanisce di colpo, e lui mi guarda come soppesandomi e mi domanda, in tono infastidito: “Ma tu in che mondo vivi?» Solo ora capisco che ho rappresentato giusto un breve diversivo, una piccola occasione dentro quella festa a cui era obbligato a partecipare dai suoi detestati genitori. Ero l’occasione più a portata di mano: le altre ragazze erano più grandi e più scintillanti di me, ci voleva molto più che una mano tesa e una strizzata d’occhio per farle correre come lepri. Ma io non lo sapevo, forse venivo dal paese delle fiabe dove succede sempre che il principe tenda una mano, fissi i tuoi occhi, e quando ti bacia è amore eterno.

Ho bisogno di svegliarmi in fretta da queste fantasticherie: un anno sabbatico è proprio quello che ci vuole per traslocare dal mondo delle illusioni e mettere su casa, con calma, su questa terra.

 

***

Capitolo 2.

Percorro la carrozza verso l’uscita: stiamo arrivando alla stazione, le ruote sibilano e le pareti del vagone scricchiolano.

Questo treno sembra una creatura viva che stringe i denti. La gente s’è alzata in silenzio. Facce tirate, occhi spenti per la fatica emergono da giacconi sporchi, jeans macchiati, scarpe grosse da lavoro. Immagino che siano operai, muratori che rientrano a casa. Io questo treno lo avevo visto strapieno di studenti alle sette del mattino e alle due del pomeriggio, quando anch’io partivo da casa di mia- zia per venire a scuola e rientravo per l’ora di pranzo. Due settimane di viaggi quotidiani che non mi pesavano perché sembrava, sempre una gita, e in gruppo arrivavamo a scuola quasi volando, tra chiacchiere, risate, scherzi, non mi ricordavo neanche la strada che percorrevo in mezzo agli altri, tutti ammucchiati giù dal treno lungo la stazione e poi verso la metropolitana e in tre fermate eri arrivato, una scala mobile ed eri già sul portone. Ma quella è stata la breve parentesi di quando ho abitato da mia zia, un mese fa. Poi, sono tornata a casa: niente più treno, esco di casa da sola, prendo il tram, arrivo in classe e devo mandare uno squillo a mia madre perché altrimenti sta in ansia. Più volte le ho ripetuto, esasperata: “Cosa vuoi che mi succeda?» “Abbi pazienza, amore, voglio solo essere sicura che è tutto a posto.» ”Tutto a posto cosa?» Non spiega, invece mette le mani unite, in preghiera: “Ti chiedo solo questo piccolo favore.» Qualche volta, però, mi scordo. E allora succede che lei mi chiami. E succede che io abbia spento il telefono, perché la professoressa, prima di iniziare la lezione, esordisce come la registrazione che ti fanno sentire al cinema o sull’aereo: ”Siete pregati di spegnere il cellulare, grazie.» Se non lo facciamo, lei ci sequestra il telefono per l’intera mattinata.

Dunque io stacco la comunicazione senza aver mandato lo squillo d’obbligo a casa e mamma mi chiama. Sente che non sono raggiungibile e dà di matto: nella sua fervida immaginazione io sono stata rapita da un commando terrorista che ha sequestrato i passeggeri del tram oppure sono stata investita da un’auto pirata che si è catapultata sul marciapiede o ancora ho avuto un infarto sul portone della scuola e sono rimasta lì a terra, inerte, senza che nessuno se ne sia accorto. Allora, telefona a scuola, chiede affannosamente al bidello se può controllare che io sia in classe, abbia pazienza ma è molto importante. così, il bidello bussa alla porta, tuffa dentro la testa calva e chiede, nel silenzio attentissimo che si crea ogni volta che si apre la porta, se in classe c’è Rachele Segni. Alzo la mano, in mezzo alle teste che si voltano tutte, ma proprio tutte, di scatto.

“È desiderata in presidenza?» chiede la professoressa, accigliata.

 

La testa calva mi ha puntato, poi si volta verso l’insegnante: “No, è sua madre che voleva essere sicura fosse arrivata in classe.» La testa si ritira svelta, come una tartaruga nel guscio. Se avessi mamma qui sottomano sarei capace di strozzarla. Aleggia una domanda collettiva, ma la professoressa, temendo qualche oscuro problema familiare, zittisce i bisbigli e prosegue la lezione.

Erica, seduta dietro di me, mi poggia una mano sulla spalla, solidale, mentre Ludovica, accanto a me, unisce le dita a carciofo. Mi volto di tre quarti verso di lei, piego le labbra verso il basso, alzo le spalle. Tutto è rimandato alla fine dell’ora, quando mi saltano addosso per chiedermi che succede.

Non bastano i miei compagni a cui è facile raccontare la faccenda spiegando che mia madre è una pazza isterica, c’è la curiosità della professoressa da saziare. M’invento rapidamente qualcosa, mentre lei mi fissa preoccupata, gli occhi che sporgono dall’orlo delle lenti da presbite.

“Mia mamma è… all’estero… sa, s’impensierisce…» ”All’estero per lavoro?» l’insegnante mi guarda perplessa.

Dietro la fronte corrugata vedo passare allarmate fantasie: mia madre malata, operata di cuore a Houston, che s’attacca al telefono satellitare… Scaccio questo pensiero fulminante altrimenti potrei scoppiare a ridere in faccia a questa donna solerte, un po troppo impicciona.

“Una conferenza internazionale» invento. ”A Helsinki.

C’è una differenza di fuso, mi pare un’ora. Di solito mi chiama alle sette, a casa. Dev’essersi sbagliata, non ha trovato nessuno in casa, poi ha voluto rassicurarsi…» Non so se tutta la mia tavoletta sarebbe credibile se mamma non fosse assessore regionale. Ma con questo, la professoressa annuisce soddisfatta: sa come vanno le cose, anche lei ha figli, e quando si è lontani da casa sembra tutto inspiegabilmente minaccioso. Ma mia madre è a poche centinaia di metri da qui, tranquillamente seduta alla scrivania del suo ufficio con l’orecchio incollato al telefono, perché passa quasi tutto il suo tempo alla cornetta. Non so perché esca la mattina, passi tre quarti d’ora in auto per chiudersi in ufficio dove si attacca al telefono. Anche con la segretaria, parla al telefono.

Accendo in fretta il cellulare, la chiamo sul telefonino privato e come sento la sua voce che vibra: “Rachele?» mi sfogo: “Potevi anche evitare! Sei scema?» Mamma rimane in silenzio per un istante, il tono si indurisce: ”Non ti permetto di offendermi: sai benissimo che c’è questo patto. Se non mi avverti, sono autorizzata a pensare il peggio. Ne riparliamo dopo.» Alzo gli occhi al cielo, lancerei il cellulare contro il muro.

Il patto: cioè posso andare a scuola da sola, invece che farmi portare fin sul portone in auto da lei, che nel frattempo parla nel Bluetooth come una marziana in collegamento diretto con la base, cui riferisce misteriose cifre e percentuali.

E stata una durissima contrattazione, ma l’ho spuntata soprattutto dopo il periodo da zia, quando mi ero abituata a fare la pendolare. Naturalmente, zia aveva garantito che mi avrebbe accompagnato ogni mattina a scuola con l’auto, ma fin dal primo giorno mi ha portato in stazione, mi ha mostrato come fare e mi ha abbandonato al mio destino.

Nel giro di due giorni mi ero già adattata, e inserita in un gruppetto fisso di studenti che ogni giorno vanno su e giù dal paese in città. Quanto li invidio. Una di loro, Fabiola, mi è diventata amica e oggi sono andata a casa sua a pranzo, arrivando con il treno delle due, giù dal vagone con gli zaini in spalla come due montanare, su per la salita che porta nella sua villetta, a poche centinaia di metri da casa di mia zia. Mi è venuta la nostalgia delle due settimane: perché non vivere anch’io qui? Con i miei, lo so già, non se ne parla. Mamma sgranerebbe tanto d’occhi, scandalizzata: “In un paesino? Non hai idea! Non c’è niente per i ragazzi.» A me pare che a Fabiola non manchi nulla, anzi: scuola, ginnastica ritmica, e in più ha un giardino con due cani. Se vuole farsi una pizza con i compagni di classe, può sempre prendere il treno. Ma lei non ama uscire la sera, è un tipo casalingo. Ha i suoi cani e una collezione sterminata di DVD, e alla fine passa le serate esattamente come me, nella stimolante, strabiliante città: davanti al video.

Sono ripartita da casa di Fabiola d’umore pessimo, in treno credo di avere la faccia tirata come le persone che mi circondano, abbandonate su quei sedili di legno, contro i vetri un po sporchi. Non avevo fatto caso prima d’ora a come le carrozze siano luride e raffazzonate, come sia assordante il rumore di questo treno scalcagnato. Forse perché ho una nube nerissima nella testa che irradia tristezza anche alle cose.

Sul metallo della porta del vagone vi sono grandi scritte incomprensibili, fatte con le bombolette spray. Scendo in stazione, in mezzo a questa folla che si disperde: dove sono andate a lavorare, queste persone, in paese? E tornano in città? Non dovrebbe essere il contrario? Ho la mente confusa, un senso di malinconia mi ha catturato, come se fossi arrivata in un paese sconosciuto dove tutto mi è estraneo.

Sarà per via di questa stazione nera e grigia come un monumento funebre, dove l’aria umida odora di marcio. La gente mi passa accanto svelta, fatta di ombre che turbinano nella leggera nebbia che ristagna tra i binari.

Mi sembra di essere alla fine di qualche viaggio che mi ha portato via da casa, quando mi ricordo del solito squillo per avvertire che sono sopravvissuta, nel percorso in treno.

Estraggo il telefono dalla tasca del giaccone, mi chino a digitare svelta. Qualcuno mi urta passandomi accanto con un grosso involucro: è colpa sua, ma chissà perché mi sto per scusare. Osservo il tipo che mi procede davanti, poco più alto di me: è una specie di rapper, pantaloni larghissimi, cappuccio della felpa sulla testa. Non credo senta nulla del rumore che lo circonda né avrebbe potuto cogliere il mio mormorio di scusa, perché dal cappuccio escono i fili di una cuffia. La testa dev’essere immersa in una musica estraniante, che gli dà il ritmo del passo un po ciondolante. Il braccio destro tiene saldamente una tavola, quella con cui mi ha colpito leggermente. Appena sorpassa l’uscita della stazione, con un unico gesto elegante, la lancia a terra e mi accorgo che è uno skateboard. Vi salta sopra, scivolando via rapido, come volasse rasoterra.

Lo seguo perché mi sorprende quel gesto, perché non capisco dove si sia gettato, perché immagino che si esponga al pericolo delle auto e in uno slancio inconsulto tremo per la sua incolumità. Lo seguo perché in vita mia non ho mai visto una cosa del genere: uno skater che sfrontatamente esibisce una tale disinvoltura in mezzo alla folla, evitando con maestria il flusso della gente, serpeggiando tra le gambe che, rispetto a lui e al suo movimento dinoccolato, sembrano pesanti e lente come organi fossilizzati.

Fuori della stazione, la solita piazza circondata dai lunghi corpi tremolanti del traffico mi si spalanca davanti come un’immensa sala da ballo. Sul pavimento, scintillante per quelle pozze che effondono luce da terra, volteggiano decine di skaters: quello che ho seguito, cappuccio-intesta, è laggiù che si torce in aria, le gambe ripiegate fin sulla pancia in un salto formidabile. È appena un attimo, poi ricade elastico a terra, la tavola incollata ai piedi, con un tonfo sordo come un tuffo precisissimo nell’acqua.

 

***

Capitolo 3.

Seppellita nel sedile posteriore giuro a me stessa che non seguirò mai più i miei genitori. Ci siamo fermati di nuovo, e mamma scruta la cartina, mentre papà osserva fuori dal finestrino. Evidentemente ci siamo persi ancora una volta.

Chiudo gli occhi, fingendo di dormire. Appena in tempo, perché papà si volta verso di me, forse con l’intenzione di chiedermi se ho fame o freddo o sonno. Anche se me lo chiedesse non sentirei, perché ho la testa annegata nella mia musica, le cuffie ben ficcate nelle orecchie. Riapro gli occhi quando l’auto riparte e guardo nel finestrino di fronte il riverbero dell’illuminazione stradale che si proietta sul riquadro scuro del cielo.

Sono le sei di una domenica spossante come possono esserlo le giornate umide e grigie di scirocco a novembre.

L’unico modo intelligente per sopravvivere a una domenica monocolore e piovigginosa è alzarsi tardi, immergersi in un bagno caldo e farsi un impacco di mezz’ora ai capelli, poi indossare roba molto colorata e ascoltare musica molto ritmata per risollevare lo spirito in vista del pranzo con gli zii o anche solo con i genitori. Dopo, ci si può sempre chiudere a bozzolo nel divano, -a leggere un libro o vedere un film in DVD; ma se Erica insiste (e lei insiste sempre, la domenica) si può sfidare l’uggia e andare a pattinare o al bowling o in una multisala a vedere, uno dopo l’altro, due film al costo di uno (Erica ha un sistema infallibile con cui riesce a passare da una sala all’altra)

Fin qui ho accennato a modi intelligenti; poi ce n’è uno molto stupido ed è quello di passare la domenica con i propri genitori in qualche luogo ignoto, che spesso è un piccolo borgo medievale in cima al mondo, irraggiungibile. Ma è piuttosto difficile sfuggire a un’occasione del genere quando si ha un padre poeta, perché il borgo medievale in cima al mondo è la sede di un’onorificenza letteraria e l’uggiosa domenica di novembre è il giorno in cui si celebra il Venticinquesimo Premio di Poesia il cui vincitore, udite udite, è mio papà.

Impossibile sottrarsi, mio padre ne sarebbe addolorato e mia madre offesa: entrambi si mostrano fieri di questi riconoscimenti, quasi fossero delle anticamere al premio Nobel.

Mentre io, sinceramente, mi chiedo come possano essere capite e apprezzate, addirittura premiate le opere di papà, che per lo più sono di difficilissima comprensione. Perché papà è un poeta dialettale. Scrive in un’oscura lingua che io stessa non posso intendere perché sono nata e cresciuta in città e ho sempre sentito i miei parlare in italiano. Ma anche altrove, anche nei paesi dove si organizzano questi premi, spesso quei versi sono incomprensibili e devono essere tradotti, perché il dialetto funziona così: a pochi chilometri di distanza si parlano lingue diverse e ci si guarda con tanto d’occhi per certe parole, certe frasi.

Lo vedo benissimo che quando papà legge tutto infervorato le sue poesie, l’uditorio lo fissa con aria interrogativa, aspettando con sollievo la traduzione. Ma se lo dico a mio padre, lui sorride benevolo: “Non è importante il significato, ma il suono, il ritmo.» Fosse così, si potrebbero scrivere solo poesie fonetiche, come quelle che componevo da piccola, alla scuola elementare, sui versi degli animali.

Ma niente, quei due sono invasati, i miei genitori voglio dire: mio padre con le sue composizioni criptiche, mia madre con l’ammirazione per la grande sensibilità di suo marito ‘nel recuperare le radici tradizionali e nel valorizzare l’aspetto popolare della poesia. Chiacchiere, chiacchiere. I miei genitori amano cianciare, passare il tempo in lunghi dibattiti.

Non si può mai dire nulla in casa che diventa spunto per una discussione politica o sociale o filosofica o morale.

Quanto invidio le famiglie in cui- si cena in santa pace guardando la televisione. Invece noi, niente televisione a cena, che orrore! E davanti alla tv, anche lì, gran cicaleccio e commenti ironici, non si può vedere nulla senza che sia postillato, neanche un banalissimo telefilm.

“Rachele?» papà mi mette una mano sulla spalla. Mi riscuoto dall’intorpidimento. La musica è finita e io forse mi sono addormentata davvero. Fuori è buio pesto.

Mi esce una voce roca, di quelle da fumatrici incallite: “Dove siamo?» ”Non siamo lontani. Vuoi che ci fermiamo?» Ci penso un istante: “Si.» Papà si gira di nuovo, lo sento parlare con mia madre, poi mi arriva la voce di lei: ”Tutto bene?» So che sta guardando lo specchietto, frugando con lo sguardo il seggiolino posteriore dove sono rannicchiata.

Non rispondo, e lei insiste, con un tono alto, squillante, dal posto di guida; “Coraggio, siamo quasi arrivati. Ti vuoi proprio fermare?» Ho un moto di rabbia: mia madre deve sempre ricevere una doppia conferma. Esplodo in un esasperato: “Ho detto di si!» Al primo autogrill, mia madre parcheggia e mentre gira la chiave per spegnere il motore attacca con: ”Tesoro…» ma io sono già scesa.

Papà mi segue dentro la stazione, mi coglie mentre mi guardo attorno nel salone. Mi poggia con leggerezza una mano sulla spalla: “Il bagno è laggiù.» Mi guardo allo specchio e mi pare d’essere invecchiata di mille anni, mi sembra di somigliare a Yoda di Guerre stellari.

Dev’essere l’effetto della giornata: a stare con tutti questi vecchi, per contaminazione ti si stampano delle rughe addosso.

Non c’era un ragazzo della mia età, neanche a pagarlo; invece gironzolavano per la sala bambinetti, forse figli di poetesse e poeti, per non parlare dei poeti stessi che non scendono mai sotto i trent’anni e hanno comunque l’aspetto di centenari.

È sempre così: ogni volta, in un paese diverso, ritrovi il vecchio poeta che non si perde un concorso, gli esordienti che si atteggiano a letterati e si pavoneggiano per un libretto pubblicato in proprio, per una recensione sul giornale locale. Tutti a citare quell’autore o quell’altro, un grande, un eccelso, anche se non pubblica perché, si sa, gli editori sono bottegai che badano solo a libri commerciali e per pubblicare bisogna essere raccomandatissimi.

Ma papà si sente completamente a suo agio, lì in mezzo. E se qualcuno gli chiede: “Non hai ancora pubblicato?» lui sorride con una certa modestia: ”A suo tempo, a suo tempo.» Chissà quale tempo, tra cento anni? Come Emily Dichinson che non pubblicò mai nulla in vita e divenne un faro dopo morta? Ma lei almeno non scriveva in dialetto.

Che nausea. Odio andare in macchina la domenica, dopo questi pranzi ufficiali di paese, dove l’assessore alla cultura è anche l’albergatore e il farmacista è l’assessore all’istruzione.

E a tavola, in quei lugubri ristoranti tutti vetri e tendine gialle, si parla di come ormai questo premio sia diventato famoso: ne hanno parlato la gazzetta della provincia, la televisione locale e Radio Vattelappesca, era presente uno studioso russo, e persino una giornalista olandese.

“E tu che fai… non mi ricordo il tuo nome, che è?» Mi chiede il farmacista. ”Rachele» interviene mia madre perché io sono ammutolita. così prosegue lei, per me: “Fa il liceo.» Insiste, il farmacista: ”Intendevo dire, scrivi poesie anche tu?» “No.» ”Ma le leggi, ti piacciono?» “No.» Il farmacista non demorde, e tenta l’affondo maligno: ”Neanche quelle di tuo papà?» Alzo le spalle, mentre mia madre si sente in dovere di rispondere al mio posto, tutta un sorriso: “Si, le legge e le piacciono molto. Ma legge anche altri poeti, solo che… capisce…» E qui alza in aria il mento, chiudendo per un attimo gli occhi. Un gesto che il farmacista coglie in pieno, perché annuisce benevolo: ”È l’età, si sa.» L’età, si sa. Solito ritornello.

“Pensavo fossimo in un posto sufficientemente colto da evitare triti luoghi comuni.» Ecco, mi sono espressa, scegliendo con molta cura ogni parola. Il farmacista incassa, mamma sorride compiaciuta. Le piace moltissimo quando tiro fuori la mia grinta, anche se la contraddico. Ma è il solito giochino di casa: di la tua che dico la mia, l’importante è comunicare.

Esco dal bagno e papà è lì che mi aspetta, premuroso.

“Scusa, amore, ti sei stancata?» ”Insomma. Più che altro noia, papà.» Sfioro con le dita le confezioni di biscotti esposti negli scaffali, mentre ci dirigiamo verso l’uscita. Mi fermo a gingillarmi con un pelouche, come fossi interessata a comprarlo.

“Lo capisco. Queste cerimonie vanno per le lunghe, gli organizzatori ci tengono a fare bella figura.» “Anche tu ci tieni, no? A questi premi, voglio dire.» Alza le spalle: ”Be, ho un cassetto pieno di targhe, lo sai.

Ciascuna nella sua brava scatola di velluto blu o rosso. Rigorosamente blu o rosso.» Lascio perdere il pelouche, lo guardo: “Che te ne fai, allora, se le chiudi in un cassetto?» Inarca le sopracciglia, esclamando in tono ironico: ”Sono per te, no? L’eredità» mi passa un braccio intorno alla spalla.

“Puoi sempre mettere un banchetto al mercatino e rivendere le scatole blu e rosse.» ”Buona idea. Lo farò, garantito.» Mia madre getta il mozzicone della sigaretta nel cestino dell’immondizia. Mentre mi avvicino all’auto sento che i muscoli del viso mi si irrigidiscono: non voglio che mamma mi veda più allegra, risollevata. Voglio invece che sappia quanto sono annoiata e piena di collera, che si stampi bene in mente la mia espressione insofferente e che ricordi come sono stata irritata e irritante, in modo che questa sia davvero l’ultima volta che mi obbligano a seguirli.

 

***

Capitolo 4.

 

Scelgo una poltroncina nell’ala sinistra, nel settore centrale, trascinando con me le mie amiche. Erica si siede accanto a me, Ludovica dall’altra parte, Gabriella vicina a Ludovica.

Ci sprofondiamo nelle poltrone, in modo che le teste non svettino. Le gambe toccano la poltroncina d’avanti, dov’è seduto il gruppo di Simona. Badiamo di non toccare le spalliere: loro sono tipi suscettibili, soprattutto Manfredo che sta sempre attaccato a Simona e ride di tutto quello che lei proferisce.

Difatti appena Ludovica tocca inavvertitamente la spalliera davanti con la punta del piede, Manfredo si volta come punto da una vipera: “E stai attenta villana!» Solo uno del gruppo di Simona potrebbe usare una parola del genere: villana, ma dove l’ha tirata fuori? Ludovica alza gli occhi al cielo mormorando “Scusa» Manfredo lancia uno sguardo di riprovazione a tutte noi che abbiamo osato sederci dietro il suo gruppo, l’elite della prima B. Loro sono quelli bravissimi, viaggiano tutti oltre l’otto e cadono in depressione se prendono un misero sette; il che capita raramente perché sono sempre preparati, imparano tutto a memoria e alle interrogazioni parlano a raffica, ripetendo parola ”per parola le frasi del testo o quelle dei professori, prese dai loro scrupolosissimi appunti. Noi invece non facciamo parte di questa aristocrazia. Noi e cioè io, Erica, Gabriella, Ludovica, galleggiamo intorno al sei, e festeggiamo se ci arriva un insperato sette, e invece degli appunti spesso ci scriviamo commenti o pettegolezzi o opinioni che spaziano in tutt’altro argomento rispetto a quello che in quel momento si celebra in classe. All’apparenza, siamo chine a scrivere furiosamente, proprio come il gruppetto degli eletti: in realtà, nei nostri quaderni ci sono notazioni personalissime, commenti su attori e ragazzi, riassunti della giornata precedente, osservazioni sulla noia mortale che c’investe in quel preciso istante della nostra vita, le schiene curve su banchi scrostati, come gli schiavi delle galere che remavano a ritmo di tamburo. Noi, qui, ci lasciamo trascinare nel fondo della nostra noia a ritmo delle coniugazioni latine.

Naturalmente, c’è di peggio. Ci sono gli irriducibili dell’insufficienza, come Federico e Gian Maria, che esibiscono lo stesso snobismo degli eletti: incassano i quattro con un sorriso strafottente e ci passano accanto con il compito svolazzante tra le mani per buttarsi sulla sedia di legno, dove riescono a stare semisdraiati come su un lettino in spiaggia.

In questo momento, loro si sono assiepati sulle poltroncine dell’ultima fila, conquistandole a spintoni e calci agli altri irriducibili o indifferenti o annoiati di altre classi che, come la mia, sono radunate nell’auditorium della scuola.

Gli insegnanti rimangono in piedi, qualcuno ne approfitta per uscire. Sulla pedana di fronte a noi sono state sistemate tre sedie da regista. Su quella di destra è seduta una signora, e legge alcuni appunti: dev’essere lei, l’esperta. La vicepreside la raggiunge, sistemandosi nella sedia centrale, e a sinistra si accomoda il professore di storia e filosofia degli ultimi anni, quello che ha fama di massima severità.

La vicepreside parla nel microfono, chiede silenzio e nell’aula scende un silenzio così denso da poterlo toccare. La vicepreside presenta l’esperta con un gran giro di parole, rammentandoci che quest’incontro è stato programmato molti mesi fa e noi dovremmo esserci preparati, ma a ogni buon conto l’esperta è qui proprio per illustrarci l’argomento in tutti gli aspetti meno conosciuti e quindi siamo pregati di stare attenti e di sfruttare al meglio questa occasione.

Dopo questo edificante discorsetto, attacca a parlare il professore di storia e a me si rizzano i capelli, perché tra due anni, se tutto va bene, lo avrò come insegnante e da quell’espressione arcigna e dal tono con cui parla non mi dice niente di buono. così ho la chiara preveggenza del mio futuro: sempre questa fatica, questa noia, una strada tutta in salita che non finirà mai.

Con questo scoramento accolgo infine le parole dell’esperta: la sua voce mi sembra fredda, una lama che prova a fendere quel silente torpore scivolato su tutto l’uditorio come uno sciroppo calmante.

Non so quanto ho recepito di questa lezione. Alcuni esempi, forse: quelli che si sono concretizzati in immagini precise in mezzo alla nebbia fluttuante del cervello.

Ho preso pochissimi appunti sul foglio su cui avevo diligentemente scritto il tema di questo intervento: Che cos’è l’ebraismo? Ma la pagina è per lo più riempita di margherite e spirali e ghirigori che ho iniziato nell’angolo destro in alto e presto si sono ramificati lungo tutto il bordo e poi per metà foglio, come un bassorilievo indiano.

Non potevo scambiare due chiacchiere con le amiche, perché proprio accanto a noi si è seduta la professoressa d’italiano^ inforcando un braccio dentro l’altro sopra lo stomaco, con aria bellicosa. In queste condizioni non puoi neppure chinarti verso l’orecchio della più vicina e soffiarci dentro due parole. Ti rimane solo il foglio su cui sfogarti, mentre il corpo cambia posizione quasi meccanicamente, per non lasciar intorpidire una gamba o un braccio o una mano.

La professoressa, mantenendo sempre le braccia serrate sullo stomaco, annuiva vigorosamente alle parole dell’esperta e a quelle del professore di storia che a un certo punto si è messo a fare una specie d’intervista, un po tipo show televisivo. Ma un conto è in televisione dove le domande sono sempre brillanti e le risposte brevi, e quando sono troppo lunghe di solito il presentatore interrompe quello che parla senza pietà; un conto era qui, con il professore che ci metteva una vita a fare la domanda e già la domanda era complicatissima, e io mi perdevo. L’esperta, che aveva fin lì mosso appena la testa in direzione del professore di storia, iniziava una lunga considerazione che all’apparenza sembrava non c’entrasse nulla con quello che aveva detto lui, e in queste chiacchiere infinite non c’era niente che accendesse una scintilla sotto la cenere in cui si era polverizzata la mia attenzione.

Finché arriva come una sassata quella voce, solitaria. Proviene dalle ultime file. Mi volto, come tutti, verso quel punto, ma non vedo niente per via della selva di teste e corpi che addirittura si alzano un poco per individuare quello che sta parlano.

“Vorrei fare una domanda.» La voce è ferma, per niente emozionata, malgrado tutta questa folla che ascolta, piove giù dritta senza incrinature, e persino chiara in quello spazio troppo grande dove qualsiasi voce potrebbe svanire, diventare un sussurro appena percepibile. Ma questa è sufficientemente potente da farsi ascoltare, eppure l’impressione è che chi parla non urli, non forzi il tono, ma lasci che la voce scivoli giù sospinta dalla pura forza delle parole.

La vicepreside sta cercando di mettere a fuoco chi ha parlato, allungando la testa verso la sala, mentre il professore si è voltato rapidamente e si alza: “Prego, vieni qui e parla al microfono, così ti sentiamo meglio.» ”Preferirei parlare da qui, se non le spiace.» L’esperta si allunga sul suo, di microfono, interrompendo il professore di storia che sta per dire qualcosa, forse vorrebbe insistere per stanare la voce testarda che preferisce piovere da lontano, da lassù in alto, come un falchetto.

“Come vuoi, fai pure la domanda.» La voce si prende qualche istante di tempo: “Lei ha parlato di diaspora e ha accennato allo Stato ebraico nato dopo la Shoah.» L’esperta sta fissando con grande attenzione il punto da cui proviene la voce, che va avanti come un treno in corsa: ”Non ha parlato di un’altra diaspora, di un altro esilio che lo stesso Stato d’Israele ha creato. Non ha parlato dei palestinesi che da sessantanni vivono come schiavi nella loro terra.» Un brusio accompagna la voce che si è librata sulle nostre teste come una nube che viaggia veloce e che nel tragitto si carica di rabbia, in realtà appena percepibile nel tono pacato, più simile alla disapprovazione nelle parole scandite con calma, con precisione. Quella calma: sembra che questo intervento sia preparato con estrema cura, perché la voce non ha stridori come quando s’interviene di botto, e il tono s’incrina, le parole inciampano, e s’insinua persino un po di tosse. Niente di tutto questo: la voce sembra sia stata lì fin dall’inizio per questo preciso istante, per queste parole.

In un mormorio convulso in cui molti approfittano per ridere e darsi di gomito e sfogarsi del silenzio obbligato, tutte le teste si voltano verso il palco, verso la sedia dove l’esperta ha accusato il colpo con placida compostezza, anzi, persino con un sorriso.

“Non ne ho parlato» risponde un po freddamente ”perché l’attuale situazione politica del Medio Oriente non era l’argomento principale.» Ora il brusio si solleva come un’onda, ma l’esperta prosegue con un altro tono, velato di rammarico: “Ogni esilio è un dolore, ogni allontanamento una tragedia. La sofferenza di un popolo non giustifica assolutamente le pene di altri, su questo io voglio essere chiara.» L’onda si abbassa, forse anche per l’agitazione degli insegnanti che sibilano: ”Silenzio, ascoltate!» L’esperta guarda in alto, verso il punto in cui il falchette se ne sta appollaiato, e tende persino una mano avanti, come volesse sfiorarlo: “Ma la Shoah di cui ho solo accennato stamani è stato un crimine spaventoso senza paragoni, perpetrato per odio razzista, per odio contro gli ebrei. Milioni di persone inermi che provenivano da paesi diversi, cittadini di nazioni differenti, sterminati in quanto ebrei. Vorrei riuscire a toccare la tua sensibilità su questo punto, vorrei che non mi considerassi qualcuno da sfidare. La mia posizione è a favore del dialogo, della comprensione reciproca per il superamento pacifico dei conflitti.» Ma la voce colpisce ancora, e stavolta il tono è apertamente ironico: ”È comodo dirlo da lì dove si trova ora. La sua posizione è su un palco, con un microfono. La sua posizione è dominante.» A questo punto, scoppiamo a ridere. E credo che nessuno sappia neppure che cosa ci sia da ridere. Ma non siamo un consesso di filosofi o storici e finalmente la voce ci ha dato modo di dar libero sfogo al corpo costretto all’immobilità per un’ora e mezza buona.

“Non c’è niente da ridere» strilla il professore di storia, dentro il microfono. ”Cercate di essere un po più maturi, non siamo al bar.» La vicepreside si affanna subito dopo: “E soprattutto chi vuole intervenire lo faccia con pertinenza. La nostra ospite non è qui per farsi aggredire, è venuta su nostra richiesta e ha avuto la gentilezza…» Non so chi la sta ascoltando, io no. Io provo a spencolarmi dalla poltroncina e poi a rizzarmi, poggiando un ginocchio sul sedile, per vedere chi ha parlato. Ma la faccenda è confusa: sono in molti ad agitarsi, là dietro. Anche perché proprio adesso suona la campanella nel corridoio, e tutti si alzano senza tanti complimenti, senza neppure aspettare un cenno da parte della vicepreside, che si attacca al microfono invelenita: ”Un momento! Un po di educazione!

Almeno salutate la nostra ospite con un applauso.» Ormai in piedi, scoppiamo in un applauso fragoroso accompagnato persino da urla, come in uno stadio. Il professore di storia mantiene un’espressione rabbiosamente impietrita, tamburellando con le dita sul tavolo, ma la vicepreside sembra rincuorata da tanto entusiasmo, si piega verso l’esperta con un gran sorriso e le dice qualcosa che l’altra accoglie con un’espressione soddisfatta.

Mi volto di nuovo, un po in ansia all’idea di non trovare più la voce insolente, scatto in piedi.

“Lo vedi?» mi chiede Erica, e mette la tempia vicino, alla mia, come se con due teste e quattro occhi potessimo raddoppiare la vista.

“No, forse è quello, non so.» Poi, d’un tratto lo individuo e sono trafitta da quella visione.

Si è alzato e guarda avanti a sé con aria sfrontata, le mani tuffate nelle tasche dei pantaloni larghi, la maglia lunghissima sollevata sui fianchi per far passare le mani. Indossa un cappello a punta come un folletto, che gli copre quasi tutta la fronte. Ma anche con quel buffo cappello che ricorda un po un elmo medievale lo riconosco. È lo skater. Che ci fa, lui, qui?

 

***

Capitolo 5.

 

Erica mi è alle costole mentre salgo le scale, facendomi largo senza complimenti tra braccia, gambe e capelli che sembrano accatastati alla rinfusa sui gradini, perché, appena finita l’ora, tutti siamo scattati dalle poltroncine e ci siamo assiepati tra i gradini e il corridoio, ma senza alcuna voglia di uscire dalla sala, anzi. Andarcene di lì significa tornare troppo presto in aula, dove ci aspetta il seguito della mattinata, quasi certamente un’immediata verifica di quello che abbiamo sentito prima dalla bocca dell’esperta.

Erica mi chiede concitata: “Ma dove vai? Ma sei matta?

Ma che fai?» Non le rispondo, continuo a guardare in su, verso il cappello a punta che è rimasto al suo posto, in piedi, al centro di un’attenzione eccitata di compagni che gli sorridono e gli poggiano una mano sulla spalla, e fingono di sferrargli scherzosamente un pugno sul braccio, e gli parlano come si fa con una specie di eroe, uno che ha appena risolto una partita noiosa e prevedibilmente persa con il guizzo di fantasia di un gol insperato.

Sono quasi a pochi passi da lui, il cuore prende ad accelerare perché d’un tratto ho la coscienza di essere in mezzo a troppe persone per potergli parlare, e tutto il percorso di guerra che ho fatto fin qui, insinuandomi tra corpi, scivolando quasi a terra, salendo in ginocchio gli ultimi due gradini, l’ho fatto d’impulso, per accertarmi che sia proprio lui, lo skater della stazione e non qualcuno che gli somiglia. E l’ho fatto sospinta da quella sensazione di brivido che la sua spavalderia ha trasmesso a tutta la platea, tra ammirazione e invidia per quella gran faccia tosta. Ma se mi sono precipitata avanti senza pensarci troppo è perché la sua voce mi ha ammaliato, come il canto di una irresistibile sirena.

Ora che sono vicinissima a lui, e sfioro quel gruppo di ragazzi più grandi, di colpo tutta la mia sfrontatezza si sgonfia e mi attacco al braccio di Erica perché mi sembra di precipitare a terra. Allora scoppiamo a ridere per sfuggire alla vergogna e alla timidezza: nessuno lì accanto sembra farci caso, perché i ragazzi più grandi al solito non ci vedono neppure, concentrati su di loro, i loro discorsi, e le loro ragazze.

Quando sto per buttarmi di nuovo avanti, in mezzo al cerchio dove lui troneggia come un eroe, qualcuno mi precede, addirittura mi scansa per avvicinarsi a lui e gridare, con una certa foga: “Quello che hai detto è un’ingiuria. È vittimismo per manipolare l’assemblea.» Cappello a punta si acciglia, osserva per qualche istante l’altro e alza il mento, con un mezzo sorriso: “Il vittimismo è quello che usate voi da mezzo secolo per giustificare l’espansionismo sionista.» L’altro ragazzo fa un passo avanti, abbassa il tono trattenendo a stento la rabbia: ”Con questi slogan si fa saltare in aria la gente. Sono discorsi antisemiti e da terrorista, Taisir.» Un paio di ragazzi hanno raggiunto con una certa fatica il nostro capannello, facendosi strada per mettersi accanto a quello che ha appena parlato. Sembra che ora siamo tutti qui raggruppati come sardine, lasciando un unico spazio aperto tra cappello a punta e il suo avversario. Cappello a punta ha tolto lentamente le mani dalle tasche, l’altro tiene le sue sui fianchi e ho l’improvvisa visione di due cowboy pronti a estrarre le pistole. Ma gli altri due appena accorsi gettano subito acqua sul fuoco.

“Lascialo perdere, Simone» dice uno, che porta uno zucchetto nero sulla sommità della testa. Lo stesso zucchetto copre la nuca dell’altro compagno, un tipo robusto che si piazza tra Simone e cappello a punta, invadendo il campo di battaglia. “Non ne vale la pena» sta dicendo, placido. ”È una provocazione inutile.» Cappello a punta tuffa di nuovo le mani in tasca, e i muscoli del viso si rilassano. Nessuno, dalla sua parte, gli si è messo accanto per calmarlo o spalleggiarlo. I suoi compagni hanno assistito alla scena con sguardi accesi di eccitazione e divertimento, e ora sembrano delusi dalla mancata battaglia tra galli, mentre i tre ragazzi si allontanano e cappello a punta rimane a fissarli, con il mezzo sorriso a fior di labbra.

“Che succede? Chi sono?» sussurro a Erica. Mi risponde una ragazza che non conosco, vicinissima: ”Sono ebrei.» Mi rimprovero in un lampo che avrei dovuto capirlo subito da quel segno d’appartenenza, lo zucchetto sulla sommità del capo. E cappello a punta, invece? Non indossa nulla che indichi una qualche appartenenza, anche se ha parlato dei palestinesi e stava per menarsi con un ragazzo ebreo che a quanto pare lo conosce, perché lo ha chiamato per nome: Taisir.

Il gruppo si sta disperdendo, i professori ci richiamano fuori dall’aula. Rimango qualche istante a guardarlo.

“Taisir» il nome mi scappa di bocca, mentre lo sto assaporando.

Lui sposta lo sguardo verso il punto da cui si è sentito chiamare, posandosi su di me, interrogativo. “Tu sei Taisir» ripeto confusa e per qualche miracolo riesco a non avvampare. I suoi occhi mi scrutano, indagatori, in silenzio.

Allora prendo coraggio, divento audace, parlo come se ci conoscessimo da sempre, con una disinvoltura che non ho mai avuto: “Ci siamo visti in stazione, qualche giorno fa.» Lui mi guarda ancora per qualche istante, poi sorride: ”Sei una skater?» Ha abbassato la voce, chinandosi un poco verso di me.

Quel tono di avvolgente complicità s’insinua dentro di me pizzicando corde sconosciute che sento vibrare lungo tutto il corpo. Stavolta arrossisco, mentre mento: “Be… si.» Lui annuisce, si volta rapidamente perché qualcuno lo sta chiamando: la sua classe sta sfociando dalla porta.

“Ci vediamo, allora» mi dice, e prima di voltare definitivamente le spalle estrae una mano dalla tasca e mi saluta con il pugno chiuso e il pollice alzato.

Quando giro i tacchi, m’imbatto nell’espressione interrogativa e un po sconsolata di Erica. Sta scuotendo la testa.

“Che c’è?» le chiedo con un tono di voce beata, ancora circonfusa dall’alone che Taisir mi ha trasmesso con quel saluto speciale, indirizzato a me sola in mezzo a questa folla ignara del nostro segreto di skater.

“Sei già partita, eh?» D’un tratto trovo detestabile questo tono saccente, da vecchia saggia seduta sulla montagna a meditare sugli errori umani. Ho la sensazione che quest’osservazione abbia malignamente interrotto quella specie di scia magica che Taisir ha lasciato dietro di sé, attaccata a me. Ho un gesto d’insofferenza verso la mia amica: ”Scema.» Lei sgrana gli occhi, incredula davanti alla mia espressione che è passata dalla radiosità all’ira: “Ma che ti prende?» ”Niente, è che sono stufa di avere sempre sulle spalle un gufo.» “Un… gufo?» Sbatte le ciglia, mi accorgo che è sul punto di mettersi a piangere, ma proseguo come uno schiacciasassi: ”Si, tu stai lì a gufare… Con quell’aria triste, che hai fatto?

Hai spiato avidamente tutto quello che ci siamo detti?» “Oh, Rachele…» La voce le trema, poi erompe in uno strillo esasperato: ”Sei orrenda!» Si volta appena in tempo per non mostrarmi le lacrime e si allontana in fretta, verso l’uscita.

Cretina, penso subito. Ma lo sto dicendo a me stessa, mentre guardo la mia amica che esce dal salone e si dirige fuori.

Il cuore prende a battermi forte mentre mi chiedo che cosa mi è preso: sono ammattita?

Salgo svelta gli ultimi due gradini, mi precipito fuori. Erica è scomparsa, ma so dove trovarla: in classe in queste condizioni non ci può tornare. Corro verso il bagno e lo trovo pieno di gente, sembra che nessuno abbia più voglia di rientrare nelle aule e cerchi ogni scusa per pascolare ancora per i corridoi.

Un paio di ragazze si stanno ritoccando il trucco davanti allo specchio sbrecciato, qualcuna si aggiusta la maglia sul seno, sui fianchi, altre fumano senza ritegno vicino alla finestra spalancata, discutendo tra loro del prossimo sabato sera. Erica non c’è, mi metto ad aspettare in un angolo, invisibile a queste tizie più grandi che si atteggiano a donne vissute, con le sigarette che svolazzano tra le dita e la domanda di rito di quella che passa e s’infila nel gabinetto: “Mi fai fare un tiro?» Le piastrelle sono gelide e un po umide, quando vi poggio le mani provo un senso di disgusto che mi fa rapidamente scostare dalla parete. Estraggo un fazzoletto di carta dalla tasca e mi pulisco in fretta, con l’occhio alle porte dei gabinetti.

Finalmente le fumatrici tolgono il disturbo, mentre le altre hanno finito il restauro di occhi e labbra, pronte per le ultime ore della mattinata come a un ballo in maschera.

Balzo al lavandino e mi sciacquo in fretta le mani, quando una porta si apre ed esce Erica con il naso rosso e l’espressione furiosa. Non mi ha neppure visto quando le arrivo di lato, e appena le sfioro un braccio con le mani bagnate, sussulta portandosi una mano al petto.

“Scusami, sono stata una bestia» dico in fretta.

“Vai all’inferno» mi risponde, con un fil di voce carica di rabbia. Ha il naso rosso, gli occhi lucidi. Abbasso lo sguardo: ”Va bene, scusami. Ti prego.» Sento il naso che mi prude, quando alzo lo sguardo ho la vista annebbiata. Lei allora mi abbraccia, e chissà che effetto facciamo a quella che sta uscendo ora dal gabinetto e si trova davanti la scena pietosa di due amiche che ridono con i visi bagnati di lacrime, una tra le braccia dell’altra.

Ci ricomponiamo in fretta, scoccandoci occhiate complici nello specchio. “Che diremo alla prof?» ”Mi sono sentita male, è chiaro» dico subito. “E tu mi hai accompagnato in bagno.» ”Sarà meglio che dica che sono stata male io,» fa lei “guarda che naso rosso.» ”Solito mal di pancia?» propongo, lei annuisce: “Ci sta.» Poco prima di superare la porta del bagno mi chiede: ”E l’anno sabbatico?» Cado dalle nuvole: “Quale anno sabbatico?» ”Che fai, ricominci? Quel tizio, quello che hai agganciato prima. Non avevi giurato che ti mettevi a riposo?» “Si chiama Taisir» riprendo l’aria sognante. ”Ma l’hai visto?

L’hai sentito?» “Credo di non essere stata la sola. Ha parlato di fronte a tutta la scuola, mi pare.» Come potrei dirle che è proprio la sua voce che mi ha spinto a conoscerlo, a rompere il giuramento? Ci si può innamorare dell’energia di una voce, del modo in cui fa trapelare l’indignazione, con calma e senza punte isteriche?

Del calore che riesce a promanare, malgrado le parole provocatorie e oltre l’ironia?

“Io starei attenta» mi sta dicendo Erica, che a ogni buon conto ama il suo ruolo di grillo parlante. ”Mi sembra proprio un osso duro.» Quello che mi piace di Erica è che ha l’aria di saperla lunga, le basta un colpo d’occhio per capire le cose. Non ho sbagliato a dirle che è un gufo, se si considera quest’animale in senso positivo e quasi magico, con quegli occhi spalancati nell’oscurità a percepire segnali impercettibili ad altri.

Ma io non ascolto i buoni consigli.

Sta di fatto che sto seguendo Taisir a distanza ravvicinata, con un metodo da investigatore principiante. Quando lui si volta, per motivi che pungono la mia gelosia e cioè per guardare qualche ragazza, mi nascondo rapida dietro un’edicola oppure giro le spalle, fingendo di fissare una vetrina.

L’ultima volta, ho scoperto che era la vetrina di un lavacani: interessante davvero. Lui comunque non può avermi notato, perché cammina velocissimo, le cuffie sulle orecchie.

Non può immaginare di essere addirittura pedinato.

Saliamo sul tram, lui si mette davanti, guarda fuori dal finestrino con aria visibilmente assente. Io, dietro, tuffo la faccia dentro una rivista e a ogni fermata alzo gli occhi preoccupata che lui scenda. Ma viaggiamo viaggiamo e lui non si muove dalla sbarra su cui si è poggiato come un immenso rapace appollaiato su un ramo.

Finché il tram era pieno di gente, potevo anche starmene discosta, ma a poco a poco la folla si dirada: scendono tutti meno che lui. Ma dove stiamo andando? Guardo fuori e con una punta di spavento mi accorgo che non riesco a orientarmi, è come se fossi capitata altrove, in un luogo sconosciuto.

E comunque: dove finisce questa mia città? È quasi un’ora che il tram circola per viali trafficati, oltrepassa piazze, s’arrampica per sopraelevate, scende in vie oscurate da palazzi altissimi e anneriti dallo smog. Più il tram va avanti, più la città anziché trapassare nella campagna sembra allungarsi a dismisura, non finire mai.

Ho il terrore che Taisir si ridesti da quella sorta di dormiveglia in cui pare caduto, una mano attaccata a una sbarra verticale, il corpo adagiato mollemente sulla sbarra orizzontale che separa i seggiolini. Ora che il tram è mezzo vuoto, potrebbe sedersi, ma lui probabilmente non presta alcuna attenzione intorno a sé.

Come vorrei conoscere il pensiero che l’ha catturato, come vorrei potermi avvicinare e riportarlo giù, da me. Invece mi riparo dietro questa ridicola rivista, badando di essere coperta anche dalla macchinetta che convalida i biglietti, e da qui gli lancio occhiate ansiose, spero che presto scenda, perché non ho più tanto tempo a disposizione, io. Dovrò prendere un tram per tornare indietro, e a occhio e croce impiegherò un’altra ora. Sono sicura che tra pochi minuti mi arriverà lo squillo allarmato di mia madre in attesa in piazza Edison, dove le ho dato appuntamento con un messaggio abbastanza verosimile (esco un’ora dopo, ci vediamo in piazza Edison all’edicola)

Proprio mentre sto perdendo le speranze di concludere questo viaggio infinito, Taisir si riscuote. Il tram è già fermo, a porte aperte, quando lui balza giù come un puma, e in tre passi è fuori. Mi affretto a seguirlo dalla porta posteriore, ma il tram è già ripartito, così sono costretta a scendere alla fermata successiva.

Mi sento ingannata come il cattivo detective che ha perso il suo obiettivo, oltre al fatto che mi trovo chissà dove, in una strada costeggiata da palazzi sporchi e scrostati: dai terrazzini arrugginiti pendono antenne o motori di condizionatori, e da qualche finestra si spencolano panni stesi come volessero buttarsi giù.

Mi arriva lo squillo d’ordinanza, la voce di mamma mi riporta indietro, all’altra città dove lei mi sta aspettando, già in ansia.

“Dove sei?» ”Non lo so. Ho sbagliato tram.» Mamma si ammutolisce per un istante: “Rachele, stai scherzando? Che vuoi dirmi?» ”Ti giuro mamma, non so. Ho preso un tram per fare prima e ho sbagliato direzione.» “Leggimi un nome, ci sarà una targa, qualcosa.» Non vedo targhe, ma se anche leggessi qualcosa, forse le verrebbe un colpo. Perciò provo a rassicurarla: ”C’è un bar, vado a chiedere.» “Chiama un taxi» ordina mia madre. ”Fatti portare a casa e chiamami subito, appena hai trovato il taxi, mi raccomando.»

Entro nel bar e la mia entrata dev’essere sensazionale perché molti si voltano a guardarmi, neanche fossi un animale raro. A colpo d’occhio mi accorgo che il bar è popolato di uomini, alcuni appoggiati al bancone, altri seduti al tavolo.

Anche il barista è un uomo, e mi guarda accigliato senza neppure chiedermi che cosa desidero.

“Scusi, mi può dire il nome di questa strada, per favore?» Le mie parole hanno un effetto catalizzante su un paio di tizi appoggiati al banco, perché si mettono a fissarmi apertamente, mentre il barista sembra invece stupefatto dalla mia richiesta: ”Il nome della strada?» “Si.» ”Di questa strada dov’è il bar?» Ho trovato un tipo svelto, penso. Annuisco con convinzione, per incoraggiarlo. Ma lui si volta e attacca a parlare in una lingua sconosciuta con qualcuno che fino a quel momento non avevo notato, un altro uomo seduto dietro al bancone, seminascosto dalla macchinetta del lotto e dalla vetrina dove giacciono un paio di brutte paste. È un uomo robusto, con due gran baffi scuri e l’aria ancor più accigliata del barista. Direi proprio che è un gran brutto ceffo, a giudicare dall’espressione incattivita con cui mi squadra. Gli sorrido educatamente sperando di guadagnarmi la sua simpatia, ma quello si ritira nel suo posto senza farmi neanche un cenno garbato, un mezzo saluto. Per fortuna proferisce le due parole che mi aspettavo: “Via Corelli.» Mi esce un ”Grazie!» che sembra un grido. Il clima nel bar è tale che non vedo l’ora di essere fuori.

Mentre esco in fretta, mi sento tutti gli occhi puntati addosso.

Mi basta premere un tasto del cellulare per chiamare il radiotaxi, perché mia madre mi ha fatto martire con questi numeri d’emergenza e li ho tutti in memoria: taxi, ambulanze, carabinieri, persino i vigili del fuoco.

Mi metto ad aspettare all’angolo, al microfono mi hanno annunciato che l’auto arriverà tra un quarto d’ora. Sarà il freddo, sarà l’ora, ma mi pare non ci sia in giro nessuno e mi sento crescere dentro un senso di imprecisato allarme. così mando messaggi alle mie amiche, scrivendo loro dove sono e che poi le chiamerò più tardi per raccontare tutti i particolari. Scrivo giusto per rimanere impegnata in quei minuti infiniti, soprattutto per essere collegata con il mondo.

Qui, mi sembra di essere sulla Luna.

Quando vedo arrivare l’auto, ho la sensazione che sia arrivata l’astronave di soccorso e saluto il tassista quasi festeggiandolo. Per fortuna è un uomo dall’espressione bonaria e mi rivolge un mezzo sorriso: “Dove andiamo, figliola?» Gli dico il mio indirizzo, e lui, prima di ingranare la marcia, commenta: “Un po fuori zona, eh?» ”Ho sbagliato a prendere il tram» spiego, tante volte mia madre si prendesse la briga di interrogare anche lui. Ho come l’impressione di essere una specie di Cappuccetto Rosso che per un pelo ha evitato l’incontro con il lupo.

 

***

Capitolo 6.

 

La discussione sta prendendo la solita piega. Lo sa anche mia madre che è quella che si definisce una consumata politica.

Trent’anni buoni di carriera l’hanno allenata a comporre i muscoli facciali in una maschera imperturbabile di fronte a quello che considera il proprio avversario. Nel caso specifico, si tratta della mia prozia che sta sproloquiando su qualche oscura minaccia che attenta alla vita di tutti.

“Io non so come ragionate, voi» la sta pungolando la zia.

Quel voi chissà se è diretto ai miei genitori o più in generale alla parte politica cui appartiene mia madre. “Ma ve ne accorgerete.

Questa gente non ha riconoscenza, anzi. Vengono qua e vogliono dettar legge a noialtri, non vedete cosa sta succedendo in giro?» “Su, non mi pare che siamo arrivati a tanto» mamma sta usando un tono di voce ancor più basso, per esibire la propria sicurezza. In fondo, zia è la sorella di sua suocera, è una donna anziana perciò le rivolge un sorriso condiscendente che ha come risultato di far andare zia ancor più su tutte le furie. Il collo avvizzito avvampa e il rossore le sale dal mento verso le guance scavate, mentre gli occhi mandano lampi dietro le lenti: “Le cose non le volete vedere! Anzi, peggio: è colpa vostra se stiamo andando tutti in malora. Ci stiamo islamizzando proprio grazie a voi!» ”Ma come, ci stiamo islamizzando?» Mamma alza le sopracciglia, l’espressione perplessa: “Stiamo parlando del permesso di costruire una moschea, non dell’obbligo di convertirci tutti all’Islam.» A questo punto, mio zio che se ne sta seduto a capotavola, alza lo sguardo dal piatto in cui pareva completamente assorbito e sbotta: ”Coi nostri sghei si costruisce la moschea, per quelli là.» Finora non stavo ascoltando. Di solito questi pranzi familiari sono organizzati in modo che gli adulti se ne stiano seduti al tavolo del salotto e i bambini siano sistemati in un piccolo tavolo poco lontano: in questo modo si evita che i ragazzi infastidiscano le importanti disquisizioni tenute al desco maggiore. l’bambini siamo io e i miei tre biscugini: due ragazze di undici e dodici anni che mi stanno attaccate come due zecche e un bambino di otto anni che sta facendo un macello sulla tovaglia, immagino per farsi notare, se non da noi, da sua madre seduta in punta di sedia al tavolo dei vecchi.

Finora, sono stata distratta dalla tempesta delle domande delle cugine: “E com’è il liceo? Sai, mamma mi vuol mandare al Dante dov’è stata anche lei, sai nulla del Dante? È vero che nella tua scuola ci sono professori terribili?» Nel frattempo, la minore distribuisce un paio di pacche sul braccio e sulla spalla di suo fratello: ”E smetti di darmi i calci, stupido!» Lui, che finora l’ha toccata inavvertitamente, scuotendo le gambe sotto il tavolo, a quel punto mira ad arte i polpacci della sorella: “Brutta vipera, scema!» Il padre allunga la testa e lancia un’occhiata di rimprovero a tutti e tre. ”Costanza mi dà noia!» accusa il cuginetto, in tono belante. “Basta!» intima suo padre da lì e minaccia: ”Non mi fate alzare.» Chissà se è sempre questo l’andamento, con questi tre fratelli rissosi. Le due ragazze, che mi stanno alle costole e sembra bevano ogni mia parola, sono in aperto contrasto tra loro: la piccola è gelosa di tutto, si vede da come cura sua sorella; l’altra ha un’aria da prima della classe che te la raccomando; il fratellino continua a martoriare una o l’altra, per imporre la sua presenza. Una gran fatica, vivere così.

Chissà se ne sono soddisfatti i loro genitori, e cioè i cugini di papà: mio padre ha sempre preso in giro suo cugino per quell’aria perfettina, da avvocato di successo con tutti gli annessi e connessi, e cioè sua moglie così fine, senza mai un capello fuori posto, malgrado le mattinate al tennis e il pomeriggio sul fuoristrada a scarrozzare i figli nelle varie scuole private dove imparano l’inglese che nella scuola pubblica è un disastro, e poi danza per la postura e ad andare a cavallo, perché non si sa mai nella vita: com’è noto saper andare a cavallo può sempre tornar utile.

Mi domando perché i miei genitori subiscano questi pranzi domenicali dai vecchi zii, in compagnia dei cugini con la puzza sotto il naso e soprattutto perché sottopongano me a questo stress. Quando l’ho chiesto di nuovo a papà, e cioè stamani prima di venire qui, mi ha detto che si tratta pur sempre della sorella di sua madre, e degli unici parenti che ha vicino. Lo ha detto sospirando, come se andare a trovare gli zii fosse un rito cui non può sottrarsi, pena qualche terribile disgrazia che si abbatterebbe sul suo capo. così, eccoci alla domenica del sacrificio, catturati dentro il salotto di zia strapieno di ninnoli scintillanti, il tavolo apparecchiato con la tovaglia di pizzo su cui troneggia un pesante piatto d’argento carico di fiori secchi e frutta finta, e tutto intorno i piatti di porcellana bordati di blu e oro, le posate d’argento, i tovaglioli immacolati che sembrano appena usciti dal negozio. Più in là c’è il nostro tavolo apparecchiato in sbarazzino color giallo, con una tovaglia a fiorellini color canarino e al centro un vaso di primule gialle, piatti bianchi e spiritosi bicchieri inevitabilmente gialli.

Immagino che zia impegni tutte le sue facoltà artistiche nella composizione di queste tavole, dove è convinta di mettere in evidenza tutto il suo buon gusto. Del resto, proprio di buon gusto parla sempre, come fosse una qualità fondamentale. E anche ora sta dicendo: “E anche una questione di buon gusto: una moschea proprio accanto alla sede della Morazzoni.».

“Dove dovrebbe essere costruita, invece?» chiede mamma, in tono interessato.

Ma zia dribbla la risposta: “Vorrei proprio vedere se noi andassimo nei loro paesi a pretendere una cattedrale, si.» ”Nei loro paesi quali?» interviene mio padre, che a differenza di mamma ha un tono di voce più battagliero.

“Le persone di religione islamica provengono da paesi molto diversi, mi pare. Scusa, zia, ma da come parli sembra che debbano fare la moschea proprio qui, dentro casa tua.» ”Ma è esattamente così.» La vocetta della moglie del cugino svetta improvvisa: “Là moschea è in casa nostra, nella nostra città. Chi va a vivere in un altro paese, dovrebbe adeguarsi alle leggi, alle regole che vi sono, non vi pare?» Sta girando la testa in modo che l’ascoltino tutti i commensali. Il marito tace, mentre lo zio, che di solito non dimostra grande simpatia per lei, stavolta l’appoggia in pieno: ”Brava. Ha ragione mia nuora.» Al mio tavolo le cose sono degenerate, ormai il fratello e la sorella minore sono alle mani, mentre la più grande finge distacco da quelle diatribe rivolgendosi a me con aria saputa: “Hai un ragazzo? Perché, sai, io ce l’ho.» Non ho più voglia di perder il mio tempo con questi mostriciattoli, e mi avvicino al tavolo dei grandi, dove mamma ha deciso di non essere più indulgente: ”Il problema è cercare di vedere le cose da una prospettiva di avere e non di perdere. Avete paura che vi sia tolto qualcosa, invece avrete qualcosa in più. Avremo una comunità araba ben integrata, con i suoi rappresentanti, dunque un maggiore controllo sociale che impedisce quello che temete: il proliferare di spinte eversive, che nascono nell’emarginazione, nell’esclusione.

Stiamo parlando di luoghi di culto, di preghiera, di dare il sacrosanto diritto a chi appartiene a una religione diversa di esercitare la propria libertà religiosa.» Zio la interrompe scuotendo la testa convinto: “Coi nostri sghei, però.» Mamma si volta, gli occhi le lampeggiano nella maschera di olimpica serenità: “Con i soldi di tutti, dunque anche quelli degli immigrati che pagano regolarmente le tasse e che hanno diritti pari a ogni altro cittadino.» Sulla tavola scende un silenzio pesante e teso. Io mi sono avvicinata a mia madre, le metto una mano sulla spalla e lei prende quella mano, la stringe a sé: ”Per come la penso io, la società è come una famiglia dove cerchiamo di capirci, aiutarci e non di farci la guerra. Noi dobbiamo prenderci cura di chi è più debole, e mi pare sia anche un messaggio cristiano.» “Pensavo non fossi credente» ribatte acida zia e prosegue, con sarcasmo. ”Mi fa piacere che tu ritorni agli insegnamenti della Chiesa.» Mia madre non batte ciglio, mantiene quel sorriso distaccato che l’aiuta a non cadere nella trappola della polemica: “La solidarietà è un patrimonio comune. E comunque io ho sempre un grande rispetto per la religione…» ”Tu hai rispetto per la religione, cara mia, ma questa gente qui non ce l’ha affatto, il rispetto per la nostra religione e nemmeno per il paese che li ospita» tuona mio zio, ormai sul piede di guerra. “Hai visto come vivono? Come mandano in giro le donne, tutte intabarrate? Che diresti se tua figlia qua ti portasse a casa uno di questi, eh?» Ma le domande non aspettano alcuna risposta, perché zio sembra un fiume in piena: ”Uno di questi musulmani che vengono a casa nostra e pretendono di vivere come fossero da loro! E voglio vedere se tua figlia si mette il chador per farlo contento, cosa dici tu che sei una femminista.» Quest’ultima parola la pronuncia come fosse un’oscenità, anziché un valore da contrapporre alla chiusura mentale dell’entità islamica, minacciosa della libertà delle donne.

A questo punto, il simpatico cugino decide d’interrompere la discussione che sta diventando imbarazzante con qualche argomento frivolo che riporti la conversazione su un tono mondano: “A proposito, avete visto la trasmissione di ieri sera?» Papà e mamma scuotono la testa, avviliti dalla veemenza dello zio. Non so neppure se stanno ascoltando le ciance del brillante cugino che racconta di qualche personaggio famoso e delle sue battute irresistibilmente cretine.

Mi sono seduta sulle ginocchia di mamma come non facevo più da tempo, il braccio intorno alla sua spalla. Mi rivolgo allo zio che è seduto alla sinistra di mamma: “Sta tranquillo zio, tanto non mi sposo.» ”Figurati, cara. Alla tua età si dice sempre così.» “No, no. Te lo posso garantire. A me piacciono le donne.» Allora anche il cugino smette di parlare, e tutti si voltano verso di me: ”Cos’ha detto la bambina?» chiede sua moglie, serafica. Finalmente, mia madre scoppia in una risata di cuore, e papà fa altrettanto. Nel frattempo, è entrata la cameriera filippina che toglie i piatti sporchi scivolando silenziosa alle nostre spalle, come un fantasma. La cameriera di zia indossa un grembiule bianco e una cuffia, come il personaggio di una recita scolastica.

“Jenny, si ricordi, prima il dessert.» ”Si signora.» Osservo mia zia, che detta gli ordini come una contessa d’altri tempi e mio zio che è rimasto accigliato, in attesa che la cameriera esca e che possa dire qualcosa sul genere: ‘non c’è più religione, i giovani non sanno stare al loro posto, dove andremo a finire, non c’è fine al peggio. Osservo i cugini di papà strizzati nei loro abiti firmati e agghindati con una chincaglieria costosa e di marca, orologi e collane e orecchini e persino fermacravatte, orpelli che dimostrano il loro moderato lusso e il loro stare al passo con i nostri tempi perfidamente vanesi. Tutto il contrario dei miei genitori: papà è fedele a una moda che resiste da trent’anni con i soliti pantaloni di velluto a coste e il maglioncino beige; mamma ha scritto in fronte il fatto di essere un’intellettuale impegnata con quella tintura fatta in casa un po troppo virante al mogano e quella giacca indiana di velluto bordeaux. È ovvio che la loro figlia, cioè io, mostri già un irritante atteggiamento provocatorio e si presenti con un aspetto troppo sciatto per essere considerato un gradevole finto trasandato. Capisco in un lampo che ci giudicano quanto meno estemporanei perché non siamo simpatici, anzi pericolosamente inclini alla polemica, visto che i discorsi degli zii sono sulla bocca di tutti, perché se c’è una cosa che attecchisce e si diffonde rapidamente come un’erba maligna è il pregiudizio.

E mentre Jenny esce dalla sala con la pila dei piatti, quei discorsi di prima mi sembrano folli, pronunciati da gente ricca e viziata che si fa servire da una donna arrivata nel nostro paese appositamente per questo: per servire una famiglia facoltosa e razzista.

 

***

Capitolo 7.

 

L’umido mi mangia le mani e la parte di viso che lascio scoperto, naso e guance, insinuandosi nei pertugi della sciarpa per sbavarmi sul collo. Incasso la testa nelle spalle, per allontanare il brivido, ma di qui non mi muovo. Non dopo tutta la fatica che ho fatto per arrivare fino a questo parco di periferia.

Gli skaters sono peggio di una setta segreta. Non sai dove trovarli, non c’è un’associazione come per tutti gli sport, non c’è un luogo di ritrovo preciso, non credo ci sia neppure qualcuno che decide: semplicemente tutti sanno dove andare, e oggi si trovano qui, nella pista dei minigokart, a roteare sulle loro tavole e a comporre acrobazie fulminanti solo per se stessi, perché il pubblico è formato da quattro persone: oltre me, c’è una ragazza a cui uno degli skater ogni tanto lancia saluti, un ragazzino che forse è un fratello minore che si beve le evoluzioni con lo sguardo e un barbone accoccolato sui gradini che ogni tanto lancia un grido come partecipasse a un’immaginaria ola. Quello è Taisir.

L’ho riconosciuto dal giubbotto e dai soliti jeans, perché oggi ha il volto coperto da un passamontagna. Non so se mi ha visto, in ogni caso è bravissimo a ignorarmi persino quando passa vicinissimo alla gradinata della pista e per forza deve notarmi, seduta sul terzo e ultimo gradone, sola.

Parco Pasolini, alle tre. La notizia l’ho avuta poco prima di uscire da scuola, dopo una febbrile opera di ricerca, sguinzagliando Erica, Ludovica e Gabriella in tutte le classi superiori dove vi sono agganci: conoscenti, parenti o amici che si prestano a riferire. E stata dura perché Taisir parla poco, e nella sua classe è persino temuto. Ma frequenta un piccolo gruppo che proviene da classi diverse, con cui sembra in gran sintonia perché sono tutti un po simili nel vestire, nel muoversi e nel lanciarsi strani segnali a distanza, seguendo un codice tutto loro. È così che la spia personale di Ludovica è riuscita a captare la comunicazione tra Taisir e uno dei suoi, in corridoio durante la ricreazione. Il gruppetto era appoggiato con aria annoiata fuori dal bagno dei ragazzi e la conversazione era questa: “Senti, tipo, oggi siamo al Makeeba.» “No, tipo: oggi skatero.» ”Non dire cavolate. Dalla stazione ci metti tre secondi.» “Sono al Pasolini. Neanche se volo vi raggiungo.» ”Non rompere. Ce la fai.» “Non te lo assicuro, tipo. Con gli altri è alle tre, con voi?» ”Stessa ora. Che palla sei, tipo.» La spia di Ludovica è suo cugino Raimondo, che frequenta la classe di uno degli amici di Taisir. Ma Raimondo sembra viva lontano anni luce da Taisir e i suoi: è un ragazzo dall’aria impacciata, ha il fisico di un dodicenne, si veste come neanche un anziano, con pantaloni di lana e maglioni, e si pettina i capelli lisci con la riga da una parte. Sembra già pronto per fare il prete, ma grazie a quell’aria dimessa e timida è una spia perfetta, perché nessuno se lo fila. Invece, Raimondo è entusiasta di spiare il gruppo di Taisir, in realtà il gruppo di Alex, uno dei ragazzi dell’ultimo anno.

Dunque, Raimondo ripete parola per parola la conversazione che ha registrato su all’ultimo piano della scuola, gli occhi che luccicano per l’orgoglio di mostrare la sua formidabile memoria e l’incomparabile capacità di trasmettere informazioni preziose.

“Tipo?» sgrana gli occhi Ludovica. “Perché tipo, che vuol dire?» Raimondo è al settimo cielo, al centro del nostro gruppetto di ragazze che lo ascoltano rapite. Abbassa la voce, le labbra che schiumano, mentre spiega in fretta: ”Tra di loro si chiamano così: tipo, tipo.» Gli scappa un risolino: “Non è assurdo? Ridicolo, no?» Spero di non avere mai Raimondo contro di me, perché ha tutta l’aria del maniaco. Mi auguro che da grande sia assoldato da qualche servizio segreto prima di degenerare in qualche modo, serial killer o vivisezionista di animali o capo del personale in un’azienda. Ma sul momento, mi rendo conto che mi è stato utilissimo, e decido di gratificarlo: ”Grazie Raimondo, sei stato meraviglioso!» Non mi spingo a baciarlo su una guancia perché l’idea mi disgusta, ma lui è già gonfio di soddisfazione per queste parole e soprattutto per il fatto che sua cugina gli ha permesso di prenderla sottobraccio. Sta gongolando all’idea di essere visto in mezzo a quattro ragazze dai suoi compagni che proprio in questo momento sciamano verso l’uscita. Ma i suoi compagni, a dir la verità, non fanno molto caso a quest’evento.

Qualcuno salta su una moto, altri agguantano una ragazza dell’ultimo anno, altri discutono tra loro e Raimondo è costretto a chiamare: “Pietro, Pietro!» Un tipo riccioluto si volta distrattamente, lo guarda interrogativo.

Raimondo chiede timidamente: “Ti posso telefonare per i compiti?» L’altro alza le spalle in un segno forse affermativo, poi si accorge del motivo per cui l’altro l’ha chiamato, quella novità assoluta di un Raimondo playboy in mezzo a quattro femmine. In un lampo, lo sguardo lancia un ammiccamento, mentre osserva con ironia: ”Che hai fatto, razzia in prima?» Ludovica sta tirando il braccio al cugino, e sussurra: “Presentami!» Ma l’altro si è già voltato e sta attraversando in fretta la strada, mentre Ludovica mi dice in un orecchio: ”Non è stupendo?» Infilo le mani protette dai guanti di pile tra le cosce e scuoto i piedi, per non congelare. Ci mancherebbe un raffreddore, stasera: come me lo sono preso, al museo di antropologia dove dovrei trovarmi secondo la versione ufficiale che ho dato a casa? Chissà quanto va avanti quest’esibizione, i rollatori non si fermano mai. Erica mi ha già mandato un messaggio per informarsi in tempo reale, ma non so bene cosa fare.

Sobbalzo quando lo skateboard frena a pochi centimetri da me. Con tutto che non l’ho perso di vista un secondo, mi sono distratta proprio nel momento in cui Taisir ha saltato i tre gradoni e mi è piombato praticamente alle spalle.

“Dov’è il tuo skate?» la voce arriva attutita dalla stoffa.

Rapide nuvole di fiato si disperdono sopra il passamontagna.

“Mi sono fatta male a una caviglia stamani.» La mia capacità di mentire in modo tanto innocente è tale da immaginarmi in una perfetta recita, dove si, io sono una skater azzoppata.

Taisir si porta una mano al collo e di colpo si toglie il passamontagna, come strappandoselo di dosso. E d’un tratto mi esplodono davanti i suoi capelli, una massa riccia e nera che urla gioiosamente ricadendo sulla fronte e le guance arrossate, e che io fisso incantata come la chioma della Medusa.

“Eri alla stazione qualche giorno fa» mi sta scrutando, indifferente al mio incantamento. Credo di avere la bocca aperta e sbatto gli occhi, per riscuotermi, preferirei continuare a fissarlo, invece di essere costretta a rispondere un laconico: “Si.» ”Con chi sei in contatto?» “Con chi?» distolgo lo sguardo, cerco un appiglio, ma non so proprio cosa dire se non la verità: ”Con nessuno. Stavo uscendo dalla stazione. Tu, voi, andavate così veloci, fantastici.

Io sono quella che si può definire una principiante se non forse un disastro.» Sorride e io ricomincio a fissarlo con quell’aria imbambolata che di sicuro non dovrei avere.

“Da quando vai sullo skate?» Si è seduto abbastanza vicino a me, finalmente posso rilassare il collo e parlare da una posizione più comoda: ”Quest’estate.» M’invento in fretta una storia, perché mi lampeggia un frammento di ricordo, un parco attrezzato vicino al mare: “C’era questo parco per gli skateboard…» M’interrompe, frettoloso: ”Dove?» “Grosseto.» Lui approva, annuendo sempre con quell’espressione seria sul viso: ”Ci sono raduni là, avrai visto qualcuno in gamba.

Chi c’era?» Scuoto la testa, ridendo: “Ah, non so, non me ne intendo, te l’ho detto. Solo che io e te andiamo nella stessa scuola, ti ho riconosciuto dopo che avevi parlato davanti a tutti.» Poggia il mento su un pugno, il gomito puntato sul ginocchio.

Guarda davanti a sé mentre mi chiede: “Sei una del primo anno?» Gesticolo, lanciandomi in un tono più allegro: ”Frequento la prima B, giù ai piani bassi. Tu invece stai all’ultimo piano, vero?» Sembra che segua pensieri tutti suoi, perché non risponde alla mia domanda, invece torna al mio discorso precedente.

La voce è calma, certe parole vibrano come corde di contrabbasso: “Il mio intervento in aula… era doveroso. Quella donna mi aveva seccato, non può manipolare così una scuola intera, è facile parlare del passato in questi termini, ma c’è il presente che in questo modo viene occultato.» “Credo che non fosse quella la sua intenzione» non capisco perché d’un tratto mi metto a difendere l’esperta: non la conosco, né dovrei polemizzare con lui, proprio ora che si è seduto accanto a me e stiamo parlando. Ma io sono fatta così: non resisto, non posso stare zitta, forse è colpa dei miei che m’incoraggiano sempre a dire la mia, in ogni occasione è importante tirar fuori la mia opinione, le mie idee. così eccomi a prendere le parti di una perfetta sconosciuta davanti a Taisir che si capisce benissimo cerca complicità e non un contraddittorio: ”Parlava della storia perché nessuno dimentichi la tragedia che è successa.» Si volta come se l’avessi punto: “Hai idea di quello che sta succedendo, ora? Di quale tragedia?» Gli occhi lampeggiano pieni d’ira: d’un tratto mi sono trasformata in una specie di nemico. Allora mi ritraggo: ”Scusa.

Volevo dire che quello che hai detto… come l’hai detto… era bello, era pieno di passione.» “Anche i tuoi compagni la pensano così?» s’informa lui, come se io fossi diventata una specie di portavoce. Si è voltato di nuovo verso la pista.

“C’era entusiasmo, mi pare.» Gira la testa di lato, mi scruta di nuovo: “Abiti qui vicino?» ”No.» “Come sei arrivata?» ”Con il tram. Un bel viaggio, in effetti.» “Non hai un motorino?» ”No.» Mi accorgo che mi sta sottoponendo a un vero e proprio interrogatorio. Chissà dove vuole andare a parare.

“E vuoi fare la skater.» ”Mi piacerebbe.» “Come ti chiami?» ”Rachele.» Scosto i capelli dietro l’orecchio e mi accorgo che il suo sguardo segue la mia mano e si posa per qualche istante sul piccolo ciondolo d’oro che ho attaccato a un orecchino.

È un regalo di mia zia, proviene da un viaggio che ha fatto da ragazza.

Taisir si acciglia e resta qualche istante in silenzio, poi la voce esce ancora più bassa: “Un nome ebraico, vero?» ”Sembri piuttosto informato» scherzo ancora, ma lui è serissimo, si solleva di scatto, incombendo su di me. “Perché mi hai seguito? Ti manda qualcuno?» Devo avere un’espressione spaventata perché si ritrae: ”Allora?» “Nessuno mi manda, chi dovrebbe mandarmi? Io sono venuta per vederti, conoscerti: che c’è di male in questo?» ”Se non altro hai smesso di fare la recita» qui cambia tono, e cantilena come se m’imitasse, “sono una skater…» Ora mi fissa, duro: ”Rachele. Sei ebrea?» Resto in silenzio, attonita, gli occhi spalancati sul suo viso che si è irrigidito. S’infila svelto il passamontagna e salta sullo skateboard senza aspettare oltre, senza dirmi una parola.

Io mi sollevo un po tremante, perché quella voce e quello sguardo mi hanno messo paura. Le mie dita sfiorano il piccolo ciondolo, quella stella a sei punte che proviene da Israele.

Alla fine, vado davvero al museo di antropologia. Sono in lacrime perché mi è andato tutto storto, e perché quello che doveva essere nella mia fantasia un incontro romantico è stato nella piatta realtà un autentico fallimento. Nella migliore delle ipotesi, devo essere apparsa a Taisir come una ragazzetta cretina e bugiarda, nella peggiore remissaria di qualche gruppo che rappresenta per lui un’oscura minaccia.

Il museo è deserto, se si escludono i due o tre visitatori anziani che si aggirano per le sale. Vi troneggiano le solite teche con i manufatti preistorici dall’aspetto né più né meno di sassi appuntiti.

Una teca è illuminata dall’alto in modo da rendere suggestivo l’emergere dello scheletro rattrappito e del cranio su una vasca di terriccio. È una ragazza, una come me, di milioni di anni fa.

M’impressiona come gli antropologi calcolino l’età di uno scheletro sopravvissuto agli sconvolgimenti della natura e del tempo umano. Lei era già sepolta da milioni di anni, protetta dalla sabbia e dalla terra, quando i Faraoni calcavano il deserto, ed era ancora lì mille e mille anni dopo, quando le strade erano battute dai carrarmati. Sembra emersa per mostrare come saremo tra migliaia d’anni, quando tutto quello che siamo adesso non avrà più senso: noi, loro, io, tu, l’altro, quelli là come dice mio zio, l’ebrea come mi ha chiamato Taisir, e lui con i suoi tipi, saremo queste ossa dietro una teca, esibiremo quella specie di sorriso implacabile e macabro con cui la morte, alla fine, ci rende tutti uguali.

Il mio viso si riflette sulla teca in un’ovale pallido con le orbite scure, e sembro anch’io un cadavere. Allora scoppio a piangere senza una ragione precisa, di fronte a quella specie di antenata, come se fossi presente al suo o forse al mio funerale. Ma dopo questo pianto improvviso e apparentemente futile, mi sento risollevata, ho la coscienza che quello che è successo tra me e Taisir non è dipeso da quello che ho fatto o detto, ma da qualcosa che mi sfugge e che mi ha spaventato e che probabilmente ha spaventato anche lui.

Simili a cane e gatto che non conoscono i reciproci segnali e li interpretano come gesti di minaccia. Ma prima si è seduto accanto a me, ha sorriso. Ha capito quando mentivo, ma anche quando ero sincera.

Mi siedo su una panca, in questa sala vuota e carica di un silenzio misterioso come quello di un tempio, apro il diario che porto sempre con me, vi scrivo sopra in fretta: hai gli occhi grigi, la voce di velluto.

 

***

Capitolo 8.

 

“La voce è come un flusso, ”n’onda spinta dal respiro, che parte da qui, e si solleva fino alla bocca – il mio maestro di canto ha un’espressione ispirata mentre parla a occhi chiusi, una mano che rotea in fuori come se formasse l’immaginaria onda che attraversa il corpo, partendo dallo stomaco e montando su, su fino al palato. Ora mi apre la mano davanti al viso, all’altezza della mia bocca e intima dolcemente: “Devi aprire la bocca, far uscire quest’onda per non farla infrangere sui denti, schiacciarsi nel palato.» Spalanco la bocca d’impulso. Il maestro socchiude gli occhi davanti allo spettacolo della mia faccia allungata in un grido muto e annuisce soddisfatto: ”Bene. Ora respira dal naso e fai uscire tutta l’aria dalla bocca.» Mi mostra come fare, inspirando a pieni polmoni e buttando fuori l’aria con un rumoroso sospiro. Mi fa provare più volte finché non mi prende una specie di vertigine.

“È l’iperossigenazione» mi tranquillizza, e mi fa sedere per qualche istante sul panchetto del pianoforte. “Tutto bene, ora?» ”Si.» “Hai capito come inspirare allargando il diaframma?» ”Si.» Mi rialzo, metto una mano sopra la pancia, mentre ispiro lentamente.

“Ricordati: il viso non deve assumere espressioni, allenta tutti i muscoli. Per cantare bene bisogna fare la faccia da scemo.» Assume un’aria vacua, la bocca spalancata in giù, come un mascherone. Scoppio a ridere, e lui mi dice: “Sono stato chiaro, vero?» ”Chiarissimo.» “Puoi fare la faccia da scemo, per favore?» Lascio cadere i lineamenti, aprendo al massimo la bocca, devo avere un aspetto ridicolo, ma il maestro mi guarda serissimo e commenta: ”Bene così. Ricordatelo, e allenati allo specchio.» “D’accordo.» ”Da capo» il maestro prende fiato, aprendo in fuori il petto, e lancia un acuto vibrante, anche se delicatamente trattenuto perché è solo un esempio: io invece dovrò sparare fuori l’acuto a piena voce. Mi concentro, prendo fiato, spalanco la bocca per intonare questo benedetto sol su cui stiamo lavorando da dieci minuti. La nota esce abbastanza precisa, ma è un suono senza eco di marea, senza vibrazione.

“Meno suono, più fiato» si raccomanda il maestro. ”Sottovoce, non voglio sentire una vocale, voglio sentire solo il fiato, come se raspassi nella gola. Ci siamo?» Provo a raspare nella gola, tossisco, riprovo, solo fiato niente vocali, una nota soffiata dentro una canna vuota. La bocca aperta, la schiena dritta, il collo rilassato. Sono stanca, non ne posso più.

“Non ci riesco» Abbandono le braccia che cadono come fossero due pezzi di legno, sento il busto ingobbirsi per la sconfitta.

“Ci riesci invece» mi sta incoraggiando lui. Sorride con partecipazione mentre si complimenta di quello che per me era un insuccesso: ”Va molto, molto bene. Abbiamo fatto esercizi difficili, oggi, di sostegno. Ti accorgi che stai cominciando a usare il diaframma in modo giusto, senti la tensione?» Annuisco: di tensione ne sento, eccome. Il maestro mi poggia una mano sulla spalla, premuroso: “Con calma. La voce ha bisogno di tempo per svilupparsi e tu devi imparare a guidarne la potenza oltre che liberarla. Mi spiego?» ”Si.» Alzo gli occhi verso di lui, che assume un’espressione soddisfatta. Finalmente si siede al pianoforte, per gli ultimi cinque minuti di lezione in cui davvero canterò. Le dita del maestro scorrono sulla tastiera, formando un accordo, mentre io gli sistemo davanti la partitura. Poi mi piazzo davanti al leggio e vi appoggio i miei fogli, con calma.

Mi libero il viso dai ciuffi di capelli piovuti sulle guance e li sistemo di nuovo nella coda di cavallo, stringendo bene il nastro. Raddrizzo la schiena e allargo il busto in fuori, le braccia appena piegate e le mani che s’intrecciano all’altezza della pancia. Abbasso un poco il mento e faccio un respiro profondo, poi annuisco verso il maestro per indicargli che sono pronta. Allora lui inizia la serie di accordi; alla terza battuta mi fa il solito cenno con la testa perché io prenda aria, al cenno successivo affronto l’attacco. La musica s’interrompe, il maestro si batte entrambe le mani sulle cosce: “No. Più convinta, prendi bene la nota.» Ricominciamo: stavolta l’attacco è buono e posso continuare senza altre interruzioni. Il maestro segue il mio canto a occhi chiusi, muovendo le mani a memoria sulla tastiera, finché finisco il pezzo e lui solleva la testa, riaprendo gli occhi: “Bene, Rachele. Brava.» Si alza dal panchetto, apre la porta dello studio. Una zaffata che odora di broccoli c’investe come una raffica di tramontana, tanto che istintivamente socchiudo gli occhi. L’odore proviene dalla cucina, dove sua moglie è già ai fornelli. Il mio maestro s’affretta a chiudere la porta dello studio, per impedire che l’odore s’annidi di là, accompagnando la prossima lezione di canto. Ne approfitto per estrarre il portafogli dallo zaino e contare i soldi. Allungo le banconote ripiegate al maestro che, come sempre, le accetta come fosse una novità, quasi un premio per tutta la fatica che gli sono costata anche oggi: ”Ah, si, già. Grazie.» Le banconote vengono stipate in una delle tasche dei suoi jeans striminziti, immagino che finiscano ad ammucchiarsi con quei foglietti e fazzoletti di carta che ogni tanto lui estrae, serpeggiando la mano. Chissà quando andavano di moda, i pantaloni così. Il mio maestro è più vecchio di mamma, ma non dev’essersi accorto che negli ultimi trent’anni la moda è cambiata e che ci sono pantaloni un bel po più comodi, per esempio quelli multitasche, utilissimi per tutta la roba che vi può ficcare dentro.

“Arrivederci» parlo rivolta verso la porta della cucina, sperando che la moglie non senta o si accontenti di rispondermi a porte chiuse. Invece, l’uscio si apre sulla testa scarmigliata della moglie che si trascina appresso una nube odorosa di cavolo e di cipolla.

“Arrivederci, Rachele, buona serata» mi augura la moglie, tutta un sorriso. Mi fa sempre effetto vedere quanto è più giovane di lui, forse perché è così minuta, capelluta, sorridente, mentre lui è alto e robusto e stempiato e porta quegli inossidabili occhialetti tondi, che insieme ai jeans devono essere un reperto dei suoi vent’anni.

“Ci vediamo martedì, allora» mi dice, ma prima di farmi uscire tuffa la testa fuori della porta d’ingresso, come se si accertasse che la via è libera.

“Strano. Ginko non è ancora qui, è in ritardo.» Ginko è la soprano a cui fa lezione dopo di me, una ragazza giapponese che si sta preparando per un’audizione a teatro. Lei si che sa cantare. Una volta che è venuta prima di me, l’ho sentita gorgheggiare come un rarissimo uccellino. Be, io non devo interpretare l’opera, mi sono detta per farmi coraggio.

Il canto ha un potere calmante ed euforizzante, così per la strada mi sembra di camminare su cuscinetti a sfera, e continuo a eseguire a fior di labbra il mio pezzo. D’un tratto, ho la sensazione magica che Taisir sia sull’autobus e mi stia guardando, che addirittura ascolti il mio mugolio: ma è un vaneggiamento che cerco di scuotermi di dosso perché la realtà è che lui non mi vuole vedere.

A scuola, stamani, sono salita ai piani superiori, naturalmente spalleggiata dalle mie amiche, perché un viaggio da sola nelle ultime classi sarebbe inconcepibile. Era lì con la sua banda di tipi a chiacchierare. Un paio di loro fumavano, e quando si è profilato un professore all’orizzonte si sono affrettati a spegnere le cicche e nasconderle sotto le suole delle scarpe. Sono passata lì davanti, con il cuore che batteva a mille, in mezzo a Gabriella e Ludovica, tenendo la mano di Ludovica stretta tanto da farle male. Lui non ha dato segni di riconoscermi, è rimasto impassibile, senza prendersi neppure la briga di voltarsi. Ha continuato a guardare nella mia direzione, come se io fossi trasparente e lui potesse attraversarmi con lo sguardo per fissare qualcos’altro, oltre me.

Un’esperienza agghiacciante, ha commentato Gabriella, agitatissima. Sia lei che Ludovica si sono attivate nel contenimento della mia terribile delusione, definendo Taisir un grandissimo cafone, perché un cenno di saluto è proprio il minimo e poi non costa nulla. Ma a lui, evidentemente, costa troppo.

L’unica notizia positiva è che, malgrado i suoi atteggiamenti da grand’uomo, Taisir ha solo un anno più di me. Si mescola ai tipi delle ultime classi e frequenta la terza, ma è semplicemente un anno avanti. Si vede che ha fretta di scavalcare gli anni, le classi, come se anche la scuola fosse uno skatepark.

Appena oltrepassata la soglia di casa, mi dirigo in fretta in camera, ma niente da fare: mia madre mi è subito addosso.

Eppure ho dato segni evidenti di voler essere lasciata in santa pace: cosa bisogna fare più che attraversare il corridoio di volata e chiudersi accuratamente la porta alle spalle?

Invece, appena il tempo di accendere lo stereo e buttarmi sul letto, affondando sul piumone, che sento l’irritante, discreto bussare. La porta si apre a fessura: riesco giusto a sollevare la testa e le spalle, puntando i gomiti sul letto. La testa color mogano si è affacciata: “Posso?» Mi pare evidente di no, ma alzo le spalle perché se dicessi di no, si aprirebbe una specie di sfibrante contenzioso: perché rispondi così, che cos’è successo, stai male, perché quest’umore e così via in un crescendo di domande che danno l’unico risultato di stordirmi, di lasciarmi senza fiato. così, rispondo acida: “Certo. Ho chiuso la porta solo per bellezza.» ”Non voglio disturbarti» esordisce mia madre.

“No, figurati.» “Tutto a posto? È andata bene la lezione?» ”Certo.» “Sei stanca?» ”Abbastanza. Scusa, devo studiare.» Ma l’ho detto troppo in fretta o con un tono rabbioso, perché anziché ritrarsi, mia madre sguscia dentro la camera e mi si avvicina. Si siede sul bordo del letto, con un atteggiamento protettivo che m’infastidisce, mi scosta i capelli dalle spalle, lisciandomi la testa.

“Riposati un po. Studierai più tardi.» Mi scosto bruscamente: ”E cioè, sentiamo? Quando decidi tu? Ti ho detto che ho da fare.» “Rachele, via.» Ha l’aria un po afflitta. ”Che succede, tesoro?»

“Ma niente, uffa!» Ecco, mi metto a sbuffare come da piccolissima, questo è il risultato di averla addosso come un’aquila.

“Problemi a scuola?» “Mamma, ti prego!» ”D’accordo, d’accordo.» Finalmente ha capito, alza entrambe le mani, scuotendo la testa. “Cose tue.» ”Appunto.» Il problema è che mamma non si alza dal letto. Poggia le mani in grembo, osservandosele per qualche istante. Sta meditando.

Devo prevenirla, prima che apra bocca e mi coinvolga in un’estenuante discussione, di quelle che a suo parere chiariscono i problemi, e che secondo me invece li creano.

“Avrò il diritto di volermene stare da sola, non ti pare?» sbotto.

“Ma certo.» ”No! Tu dici ‘ma certo e pensi il contrario. Tu e papà non fate altro che impicciarvi dei fatti miei, sembra che non abbiate di meglio da fare che starmi con gli occhi addosso.» Sono già senza fiato e ho ancor più rabbia in corpo di prima perché, ecco, ci sono cascata: sto discutendo con lei.

Sono pochi, eterni istanti di silenzio. Mamma continua a fissarsi le mani, come se potesse leggervi una frase risolutrice.

Fatto sta che sembra incollata al mio letto, perché non se ne va.

“Mi dispiace.» Dio, ci siamo. ”Noi non vogliamo impicciarci.

Cerchiamo solo di essere interessati a te, e forse sbagliamo i modi, non so.» Alza gli occhi, mi guarda, ma io ho abbassato la testa, e muovo i piedi nervosamente su e giù.

“Vedo che sei così suscettibile, in questo periodo, e sono preoccupata… no, non preoccupata, sono dispiaciuta. Una mamma vorrebbe che sua figlia fosse sempre soddisfatta, contenta.» ”Si, come una scema.» “Che dici? Noi ti vorremmo serena. Ma siamo noi che sbagliamo. I momenti un po così li passiamo tutti.» Resta in silenzio per qualche istante: ”Voglio solo dirti che io e papà siamo qui, per qualunque cosa.» “Mamma, lo so.» Mi sorride, incoraggiante e non si schioda. Scelgo le parole con cura, con calma: ”Mamma, tu hai questo brutto vizio di voler gestire la vita degli altri. Ma questa casa non è una filiale dell’assessorato, né un comitato dove inserirmi, non puoi stare sempre lì a chiedermi una relazione sull’andamento della mia vita e magari farci una bella statistica sopra.» Mamma sembra colpita dalle mie parole e d’un tratto mi rincresce di essere stata così dura, di averla ferita a tradimento: è venuta inconsapevole del mio malumore, piena di buone intenzioni. Aggrotta la fronte, si schiarisce la gola prima di parlare. “Non so che dire. Sei scioccante. Se hai avuto una brutta giornata, non è un buon motivo per prendertela con me.» Continuo a muovere i piedi frenetica, mentre lei prosegue, con quel tono rammaricato: ”Ti giuro che l’ultima delle mie intenzioni è quella di infastidirti, ma non è facile essere partecipativi e insieme distaccati. Io non ti» chiedo di relazionare sulla tua vita, ma la tua vita m’interessa più di tutto.» Di nuovo quel silenzio che sembra durare troppo. Io rimango zitta, anche se provo un immenso disagio.

“Forse dovrei semplicemente imparare a lasciarti il tuo spazio» osserva, finalmente.

“È così.» ”Non ci sono ancora abituata. Sei cresciuta, amore mio.» Allunga una mano un po esitante verso la mia, l’accarezza.

Io rimango immobile, ma quando esce rimpiango di non averla abbracciata, di non averle poggiato la testa sulla spalla e non aver aspirato quel suo buon profumo.

 

***

Capitolo 9.

 

Avevo giurato che non lo avrei più seguito e così è stato.

In effetti, l’incursione nel suo quartiere con Erica e Gabriella non è come l’inesperto inseguimento della volta precedente, ma somiglia più a un tentativo di imbattermi in lui casualmente, mentre compio un innocente giretto in compagnia.

La spiegazione è convincente anche per le mie amiche che si rivelano entusiaste di unirsi alla mia perlustrazione.

L’unica che si mangia le mani è Ludovica perché proprio stamani deve partire non so per dove per via di un matrimonio di parenti. Le prometto di raccontarle tutto, nei minimi particolari, ma anche così sospira, invidiandoci la mattinata d’avventure in quella periferia sconosciuta che io ho descritto come assolutamente inquietante.

Ripercorro il lunghissimo tragitto del tram, ma stavolta la meta mi sembra meno distante: sarà per via della mattinata piena di sole, sarà perché è festa, sarà perché chiacchieriamo ininterrottamente, io Gabri ed Erica, ma arriviamo alla svelta, tanto che per poco non perdiamo la fermata giusta e rischiamo di trovarci al capolinea.

Loro sono tutte in fibrillazione per il famoso bar pieno di tizi dall’aria quanto meno losca, e per le strade che ho descritto squallide e deserte, dall’atmosfera minacciosa. Perciò siamo sorprese dal gran traffico di auto e moto, dai marciapiedi affollati da donne che spingono carrettini o cariche di sacchi della spesa, e ragazzini che corrono, gente che cammina avanti e indietro tra i negozi aperti.

Ci guardiamo attorno un po spaesate, senza una meta precisa. Abbiamo l’indirizzo che la nostra personale spia è riuscita a procurarsi scartabellando l’archivio della segreteria.

Insisto a pensare che Raimondo, per quanto preziosissimo, sia altamente pericoloso: come fa un ragazzo a muoversi nell’ombra come fosse un autentico agente segreto, per di più di quelli temibilissimi, russi o israeliani? Come fa a insinuarsi in segreteria, consultare l’archivio e segnarsi l’indirizzo in questione senza destare il minimo sospetto? Gonfiandosi d’orgoglio per la sua abilità, Raimondo ha commentato che queste sono cose da principianti, quasi da manuale, facendo intendere che ha una certa consuetudine con pratiche che si prestano all’investigazione o allo scasso, dipende dal movente.

In ogni caso, Ludovica spera che non abbiamo più bisogno dei servizi segreti di suo cugino, perché lei si è già stufata di mostrarsi carina con lui, sorridergli, farsi accompagnare per il corridoio e farsi offrire il tè della macchinetta, che fra l’altro è imbevibile.

Dunque, stiamo voltando le teste cercando di orientarci per la strada. In un rapido colpo d’occhio, ci accorgiamo della differenza con la città che ci siamo lasciate alle spalle: i negozi hanno scritte arabe, moltissime donne sono abbigliate con cappotti lunghi fino ai piedi e fazzoletti scuri in testa, dalla strada proviene una musica orientale sparata dalle auto o lanciata dalle botteghe, suoni flautati e voci che compiono arditi vocalizzi.

Noi tre, piovute da un altro pianeta, ci fissiamo per un attimo in faccia.

“Sembra di essere in Egitto» osserva Gabri, spalancando gli occhi. ”Vi giuro, ha l’aria di una strada del Cairo.» Le crediamo sulla parola: è l’unica che è stata in quel paese, la scorsa primavera.

“Siamo nel quartiere arabo, no?» alza le spalle Erica, con l’aria di una che dice un’ovvietà, perché si tratta di una realtà di cui lei è al corrente da molto tempo.

“Non so. È diverso dall’altra volta. Forse perché i negozi erano chiusi, non c’era un cane in giro» sto dicendo, mentre mi guardo intorno stupita.

“Ti credo: all’una e mezza questa gente sarà andata a pranzo.» Erica sta fissando l’angolo della strada. ”Io proverei ad andare di là: c’è un certo via vai, dev’esserci un mercato.

Guardate: la gente arriva con sacchi di roba, piante, io seguirei il flusso contromano.» “Un mercato?» a Gabri s’illuminano gli occhi. ”Andiamo subito a dare un’occhiata. Adoro i mercati.» “E la casa di…» sto attaccando. Quelle due, già contagiate dalla febbre del mercato, mi tappano la bocca: ”Dopo, dopo.

C’è tempo.» Questo è il mercatino del rione, ma potrebbe essere il suk di Marrakesh, tra spezie e stoffe stupende, venditori che lanciano richiami in arabo e in italiano, musiche sparate dagli altoparlanti sui carretti, grida e contrattazioni delle donne sulla verdura e la frutta, e un gran sciamare di gonnellone fino ai piedi ma anche di ragazze in jeans come noi, ferme ad ammirare i gioielli luccicanti e i pettinini d’osso di qualche venditore africano.

Le mie amiche si sono lanciate a capofitto tra i banchetti, toccando e annusando, provandosi sciarpe, cappelli, orecchini.

Ho il terribile sospetto che da qui non usciremo in tempo utile per passare sotto casa di Taisir e incontrarlo casualmente.

Ma lui potrebbe aggirarsi qui per il mercato, confuso tra la folla. A questo pensiero fulminante, i miei sensi si allertano e scruto qua e là, sobbalzando: non è lui, quello? Ma no, è troppo alto. Non sarà quell’altro? Ogni volta mi tuffo dietro un vestito appeso o un telo, artigliando la manica di Gabri o di Erica: “E lui! No, aspetta, non è lui. Oddio che colpo…» Alla fine, la smania del mercato sovrasta i miei penosi tentativi telepatici di rintracciare Taisir, e mi trovo in un turbine di orecchini con lunghi pendenti, borsette dai colori cangianti, calzini a righe, tutto pochi euro signorine bellissime, tutto regalato. Ci arrestiamo esauste davanti a un banco, da cui proviene un profumo irresistibile e comperiamo tre pite farcite di verdure. Davanti al bancone, vi sono tre tavolinetti di plastica presi di forza dalla gente carica di sacchi, ma Gabri riesce a liberarne uno facendo alzare come molle due ragazzi dall’aria sfaccendata che rimangono lì in piedi, vicinissimi, a fissarci, tutti un sorriso.

“Credi che vogliano attaccare bottone?» Alzo le spalle, commento: “Buona questa pita. Come si chiamano queste polpettine, dentro?» ”Falafel» risponde zelante uno dei due tizi. “Sono polpette di ceci tritati.» ”Grazie» sorrido educatamente, ma senza farmi vedere alzo gli occhi al cielo in direzione di Erica.

“Non siete del quartiere, vero?» chiede allora quello, sentendosi incoraggiato.

“No.» Erica scoppia a ridere.

“Siete venute per il mercato?» chiede l’altro, che dà man forte all’amico. Un pensiero mi trafigge, chiedo di botto: ”Ci abita un nostro amico, qui.» “Un amico?» Il primo ragazzo assume un’aria interessata, continuando a sorridere come se ci stessimo raccontando chissà quali cose divertenti. ”Chi è il vostro amico? Magari lo conosciamo.» Ammicca verso l’altro, che insiste: “Si, certo. Qui ci conosciamo tutti.» ”Ah, vi conoscete tutti» annuisce Erica, con serietà, come se fosse una rivelazione importantissima.

Gabriella è stata presa da un attacco di risa, quasi non riesce a deglutire, io le do di gomito, perché proprio ora la conversazione si fa interessante.

“Si, più o meno» conferma il primo ragazzo, che ora ha deciso di poggiare i gomiti sul nostro tavolo. Non può sedersi perché le sedie sono tutte occupate, così si allunga verso noi tre che continuiamo a ridere un po scioccamente, ma non c’è niente da fare: Gabriella non riesce a frenarsi e noi due le andiamo dietro. Il ragazzo sembra contagiato dalla nostra allegria, gli occhi gli brillano. ”Allora, questo amico?» “E diglielo» m’incoraggia Erica, con una pacca su un braccio. Aspetto che mi passi la ventata d’euforia, poi fisso il ragazzo e gli dico, come se rivelassi un nome irresistibilmente comico: ”Taisir.» Ma lui non scoppia a ridere, anzi: spalanca gli occhi, inarcando le sopracciglia fin quasi alla radice dei capelli.

“Taisir?» Si solleva dal tavolo, per battersi una mano sulla fronte. “Taisir!» Erica lo guarda: ”Perché? Che ha di tanto strano?» Mi lancia un’occhiata e ridacchia. Ormai abbiamo finito le pite, rischiando di strangolarci per colpa della nostra ilarità.

Il tizio scambia uno sguardo con l’amico: “Niente di strano.

Ma che ci fanno tre ragazze simpatiche con Taisir?» Smetto di ridere, fissandolo, mentre prosegue, in tono fatuo: “Se è lo stesso che conosco io, è difficile pensarlo vostro amico.» ”Perché?» Fingo disinvoltura, rigirando tra le labbra la cannuccia infilata nella lattina. Il mio sguardo si attacca implacabilmente al viso di questo tipo, che alza una mano, come se cacciasse una mosca: “Ma si, Taisirà il principe.» ”Il principe? Che vuoi dire?» Sento la mia voce vibrare d’ansia. Gabriella mi viene subito in soccorso, buttando lì in tono frivolo: “È così ricco?» ”Ricco?» Il ragazzo scambia un’altra occhiata con l’amico, ridendo: “Ah, no. Ma è come se viaggiasse a due metri da terra…» ”A due metri no, ma di sicuro viaggia a diversi centimetri, visto che fa lo skater!» Lo sto difendendo a spada tratta e quei due sembrano arretrare di fronte alla mia foga. Provano a riportare la conversazione su un tono frivolo, per tornare a farci ridere.

“Si, proprio lo skater» dice l’altro, in tono ironico. “Tutto il giorno su e giù per quella tavola, è così impegnato.» ”E poi Taisir ha troppi pensieri» interviene il primo. “Deve cambiare il mondo, lui. Ve l’ho detto: è un principe.» Ma io e le mie amiche non ridiamo più. ”Abita vicino a voi?» s’informa Gabriella.

“No, a qualche isolato da qui. Ma è inutile che vai a suonargli il campanello, bella. A casa non c’è mai.» ”Bella dillo a tua zia!» ringhia Gabriella, ormai stufa di tanta attenzione. Si è alzata, e il ragazzo allarga le braccia: “Ehi, volevo farti un complimento, che ti prende?» ”Ci prende che ora ce ne andiamo e voi ve ne state qui, buoni. Se no lo diciamo a Taisir» intima Erica, strizzandomi l’occhio.

I due ragazzi rimangono sconcertati, si scambiano occhiate piene di sorpresa, poi uno dei due solleva una mano e la scuote in aria. Siamo già fuori della loro portata, e ci lanciano commenti offensivi, gridandoci dietro: “Cosa dici? Chi ti credi di essere? Ragazzina, torna qua, con chi pensi di parlare?» Volano parole grosse alternate a parole in arabo di cui possiamo immaginare il significato. Ci affrettiamo, trascinando Gabriella che vorrebbe voltarsi e rispondere a tono.

“Ma che vuoi fare, arrivare alle mani con quei due?» le dico, afferrandole un braccio.

“Non voglio fare la succube!» si scalda lei.

“Ma dai, li abbiamo presi in giro a sufficienza» sta dicendo Erica con la solita calma. Stiamo camminando in fretta verso una piazza, e le bancarelle in questo tratto di strada si diradano.

“Imbecilli, credono sempre di averti in pugno per quattro parolucce e due moine, e si permettono pure di sbavarti addosso: bella, bella» piega la bocca con disprezzo mentre ripete quel complimento mal accettato.

“Sei esagerata,» dico “hanno solo attaccato discorso, le solite cose.» ”Non mi sembravi così tranquilla quando hanno parlato di Taisir…» Siamo arrivate alla piazzetta dove non vi sono bancarelle, ma qualche albero nudo, tristemente chiuso dentro asfittici cerchi di cemento. Al centro della piazza, il pavimento è liscio come una pista su cui sta rollando uno skater. Mi fermo di botto e Gabriella mi guarda: “Ehi, non si può nominarlo che reagisci in un modo…» ”Eccolo là.» “Che dici?» Lei segue il mio sguardo che si è fissato in un punto poco distante. Erica muove la testa qua e là, cercando di mettere a fuoco lo sguardo miope: ”Dov’è? Dov’è?» Mi volto in fretta verso di loro, tremando per l’emozione: con tutto che speravo di imbattermi in lui e lo cercavo tra la folla, ora che si è materializzato davanti a me, vorrei scappare.

 

“Non posso indicarlo, mi vedrebbe. È quello sullo skateboard, proprio lì.» Gabriella si porta una mano alla bocca, esclamando a bassa voce: “È lui! È proprio lui!» Erica si sistema gli occhiali sul naso, per guardare meglio: ”Chi? Quello con il cappuccio della felpa sulla testa? Siete sicure? Potrebbe essere qualcun altro.» Stringo gli occhi, rimanendo voltata. Parlo in fretta, sottovoce: “È lui, sono sicura, l’ho riconosciuto subito. Lo riconoscerei anche se avesse il viso nascosto dentro un sacco.» Erica mi sussurra: ”Senti, stai calma, ma sta arrivando proprio qui. Voltati piano.» Mi giro come se niente fosse, e me lo trovo davanti, che svetta sulla sua tavola, imponente come una statua. Ha l’aria corrucciata, sotto il cappuccio che gli copre la fronte, calato fin sugli occhi che con quell’ombra sembrano scuri.

“Ehi, ciao!» lo saluto, mostrandomi sorpresa in modo un po troppo esagerato per essere spontaneo. Gabriella ed Erica si associano al mio saluto, come se fossimo tutti dei grandi amiconi. Ma lui rimane impassibile, infila le mani nelle tasche e poggia un piede a terra. Se non altro è sceso dal piedistallo.

 

“Perché continui a seguirmi?» Il tono non è di rimprovero, ma piuttosto di curiosità, così prendo coraggio: ”Sono… siamo venute al mercato.» Lui continua a fissarmi con il solito cipiglio, senza neppure degnare di uno sguardo le mie amiche. Mi consola il pensiero di avere con me qualche sacchetto con le compere della mattinata: quello che Raimondo definirebbe il nostro perfetto alibi.

Il suo silenzio mi spinge a parlare ancora: “È così bello questo mercato, abbiamo comprato un sacco di cose, vero Gabri?» Mi giro cercando un appiglio e Gabriella annuisce con foga, e visto che l’ho chiamata in causa, interviene: ”È un mercato favoloso, ci siamo venute apposta anche se è lontano da casa, ma con questa bella giornata… Ci siamo un po perse, perché qui non sappiamo neppure dove siamo!» A questo punto scoppia a ridere nervosamente. Invece, Erica decide di contrattaccare: “Scusa, e tu invece che ci fai qui?» Lui alza le spalle: ”Ci vivo.» Non ha voltato gli occhi verso Erica, mentre rispondeva.

Tira indietro il cappuccio, giusto per liberare la fronte: l’espressione si fa meno dura, sarà per via degli occhi di quel colore perlaceo, ma il sorriso che gli spunta sulle labbra è apertamente ironico: “Immagino che Rachele lo sappia, vero?

Rachele è bravissima a trovarmi in giro per la città.» Arrossisco e abbasso lo sguardo, ma subito un’onda di indignazione mi scuote e rialzo gli occhi, accigliata: “Hai un’opinione un po troppo alta di te, se pensi che passi il mio tempo a rincorrerti. È stato un caso: se non ci credi, sono affari tuoi.» “Ma io credo al caso, alla fatalità» continua lui, con lo stesso tono ironico, lo stesso sorriso che gli disegna sul viso un’espressione strafottente. Ha estratto una mano dalla tasca e se la porta al cuore: ”Non lo sai? Sono un arabo: noi crediamo alla fatalità. E tu in cosa credi, Rachele? Nel destino o nella volontà?» Le mie amiche si sono ammutolite. Io vorrei accettare questa sfida alla discussione, vorrei sedermi su una di queste panchine ammaccate e piene di scritte e parlare con lui in tutta sincerità e con calma: vorrei dirgli che si, io credo nella volontà ma anche nel destino, se così possiamo definire il percorso che ognuno di noi traccia partendo dalle occasioni che la vita ci offre.

Vorrei guadagnarmi il suo rispetto, perché non merito niente di meno, di sicuro non quell’espressione sferzante, come se lo avessi ferito o offeso. Sto per aprire bocca quando da qualche parte proviene un lungo fischio, un richiamo che cattura l’attenzione di Taisir. Un colpo di tallone, come fosse un colpo d’ala ed è già lontano. Solleva una mano verso il cielo in un segno che potrebbe essere un saluto o una semplice spinta del braccio per tenersi in equilibrio.

Gabriella butta fuori aria dai polmoni di colpo, come se finora l’avesse trattenuta. Gli esce di bocca un commento sconfortante: “Dio, che tipo tremendo.» “Che roba!» Ci si mette anche Erica, a girare il coltello nella piaga: ”Ti guardava come se pesasse ogni parola che dicevi. Ma che ha? Perché ti tratta così?» Scuoto la testa, desolata: “Non lo so. O forse si: pensa che io sia ebrea.» ”E allora?» chiede ingenuamente Gabriella.

Erica si acciglia: “Bel razzista.» Guardo per terra, dov’è finito il mio umore. Devo avere una grande espressione di dolore, mentre alzo gli occhi su di lei e le parlo con un tono pieno di amarezza: ”Ti rendi conto? Si tratta del mio nome, che a lui suona come minaccioso, come se io appartenessi a qualche setta nemica. Se siamo arrivati a guardarci in cagnesco per via dei nomi, non c’è speranza di salvezza.» Allora, Erica mi passa un braccio intorno alla spalla, per confortarmi. Sono sicura che nel profondo del suo cuore in questo momento detesti quel ragazzo dall’aria arrogante che mi sta umiliando, perché la voce le vibra di rabbia: “Se vuoi il mio parere, io ci metterei una pietra sopra, con quel Taisir. È un tipo strano. Hai sentito quei tizi, prima? Lo hanno chiamato il principe, uno che si crede chissà chi.» Gabriella mi guarda con occhi pieni di comprensione: ”E vero. Non puoi arrampicarti su una montagna a piedi nudi.» La guardo sconcertata: “Come ti viene in mente un paragone del genere?» Ma lei alza le spalle: ”Niente, dai, è solo un modo di dire.» Sarà anche un modo di dire, ma io non l’ho mai sentito. così, non so se nella profondità del sonno o se la mattina poco prima di svegliarmi, mi sembra di camminare a piedi nudi sulla terra.

I piedi affondano nell’erba folta e morbida, dai lunghi steli che mi sfiorano le caviglie. Sotto la pianta sento la terra soffice come cotone ed è una sensazione così piacevole che ogni passo mi fa provare un brivido di gioia. L’erba ha un colore tenero di steli appena spuntati, freschi, così fitti che i piedi vi spariscono, inghiottiti dalla tenerezza.

D’un tratto, il mio sguardo che prima era in alto e vedeva solo fino alle caviglie, ora è sceso così in basso da vedere i miei piedi nudi, le dita che si posano sulla terra come lombrichi.

Il mio sguardo ora è dentro l’erba, sulla superficie della terra molle e scura, sui miei piedi che vi camminano con fiducia, poggiandovi tutto il mio peso con sicurezza.

E mentre procedo in questo prato a piedi nudi, ho la sensazione chiara che vi sia un’insostituibile corrispondenza tra i miei piedi nudi e la morbidezza della terra, e sono grata a quella dolcezza che si trasmette a tutto il mio corpo.

Cammino senza sosta su quest’erba, sospinta dal piacere.

Potrei camminarvi all’infinito, più avanti e più in alto, scavalcando un’intera montagna, io da sola, sui miei piedi nudi, sulla nuda terra.

 

***

A capo scoperto.

Capitolo 1.

 

Sullo schermo scorrono le immagini in bianco e nero di un film vecchio, chissà di quali anni a giudicare dai movimenti accelerati e innaturali. Papà è sdraiato sul divano, intento a guardare il film, un braccio piegato sullo stomaco, l’altro poggiato sopra con la mano che arriva sul mento e un dito piegato a uncino sul labbro, gli occhi leggermente stretti dietro gli occhiali. In piena concentrazione.

“Cos’è, un documentario?» chiedo, piantandomi accanto a lui. Lui sembra ridestarsi da una specie di dormiveglia, risponde con una voce arrochita come da un sonno pesante: ”No, un film. Ma è costruito come un documentario.» Ai filmati in bianco e nero si alternano immagini a colori: si tratta di interviste a certe persone anziane, riprese in soggiorni o in qualche locale, che parlano di qualcuno che evidentemente è vissuto moltissimi anni prima, un tale Leonard Zelig.

È vero che papà ha avuto una giornata abbastanza faticosa, ma non capisco come possa rilassarsi con un film del genere.

Invece, d’un tratto scoppia a ridere. A questo punto mi sistemo nel divano accanto al suo, assumendo una posizione comoda, perché questo dev’essere uno di quei film da sorbirsi in totale rilassamento.

“Papà, che film è?» ”Zelig, di Woody Allen.» Ahi. Se ha tirato fuori nientemeno che Woody Allen, significa che l’umore è più scuro del previsto. E poi un film che io non ho mai visto, una specie di falso documentario che racconta le gesta di un pazzo dalla personalità fluttuante, chiamato il camaleonte per la capacità di mimetizzarsi fino a essere in tutto e per tutto identico alle persone di un preciso gruppo sociale o razziale.

Non so perché papà lo trovi così buffo, soprattutto quando appare la figuretta smarrita di Allen-Zelig sotto l’aspetto di un suonatore di blues o di un giocatore di baseball. So benissimo che i gusti dei miei genitori sono sofisticati e intellettuali: ridono di elzeviri sui giornali e di vignette di satira politica, e di film complicati come questo, una biografia fantastica ambientata alla fine degli anni ‘20, con spezzoni d’epoca.

Ogni tanto papà ha la bontà di spiegarmi: “La cosa geniale è che non cogli la differenza tra i filmati dell’epoca e quelli girati da Alien, guarda quello è il vero Chaplin.» “Non è difficile, no? Sono ricostruzioni al computer.» Papà si volta qualche attimo verso di me: ”Non c’era una tecnica del genere nel 1982, quando lui ha girato il film. Ah, guarda! Questo è il vero Saul Bellow, il premio Nobel.» Immagino sia un film per addetti ai lavori, questo: non so quanta gente possa sapere chi è Saul Bellow o quello che appare dopo e che mio padre mi indica quasi con reverenza, un certo Bruno Bettelheim, psichiatra famosissimo. Solo papà e i suoi colleghi professori possono godere nel riconoscere tutte queste belle menti, che fra l’altro da vent’anni probabilmente nessuno vede più in giro.

Per fargli piacere, annuisco, chiedo chi sono gli altri personaggi che di volta in volta appaiono. Allora papà si risolleva un po, perché si accende in lui la sua vocazione didattica.

Finalmente mi spiega che più di vent’anni fa questo film è stato salutato come un capolavoro di cinema ma anche di comica metafora sull’esistenza umana, sviluppando il tema dell’integrazione come assimilazione e dell’annullamento della propria personalità per compiacere gli altri. Le mie antenne si ridestano: “Allora Woody Allen voleva parlare dell’identità? Del rispetto dell’unicità?» ”Anche questo. Lo fa con una commedia, così noi ridiamo e ridendo pensiamo, come diceva il grande Moliere.» Papà è partito in quarta, perché si mette anche a citare.

La sua cuccia zeppa di libri e videocassette lo ha restituito a se stesso, dopo il pranzo di Natale che probabilmente gli ha fatto provare uno zelighiano senso di smarrimento. Non riesce ancora a rassegnarsi malgrado ogni volta mamma gli ricordi che è solo una specie di comparsata.

In realtà, mamma è felice di trovarsi con i suoi fratelli, gli zii che sono entrambi emigrati in città straniere e mia zia che vive in quel paese appena fuori città dove piacerebbe vivere anche a me.

Tutti i fratelli di mamma insegnano, per cui il Natale diventa una specie di consesso di professori di ogni ordine e grado: da zia che insegna al liceo a zio docente universitario a Lione all’altro zio ricercatore di chimica a Zurigo. In questo gotha della didattica, papà appare come una specie di nano, visto che è impegnato alle scuole medie. Un dettaglio su cui i nonni non esitano a tornare spesso, con osservazioni di questo genere: “Non potresti fare un concorso per accedere all’università? Per carità, insegnare alle medie è bellissimo, ma magari all’università avresti più soddisfazioni…

Per un uomo, la carriera universitaria è molto più stimolante…» Papà incassa con un sorriso educatamente mesto e mamma è costretta a intervenire: “Vorrei ricordarvi che mio marito ha scelto deliberatamente di insegnare in una scuola media a rischio, dove i bambini sono costretti dalle famiglie ad abbandonare gli studi.» Al che, nonna, che è una sincera credente, congiunge le mani: “È una scelta ammirevole per il senso di carità…» ”Non è per questo» ribatte mamma e il tono di voce s’indurisce.

Gli occhi chiari le scintillano, mentre si scalda: “La sua è una scelta d’impegno civile. In questo paese è difficilissimo da capire, il senso civico è quasi un enigma, ma ci sono anche persone che credono sia possibile cambiare le cose con un impegno concreto, quotidiano.» ”Ma certo, cara, siamo tutti d’accordo. Solo che ci si può impegnare anche senza trascurare la carriera. Guarda tuo padre che ha fatto l’ingegnere eppure ha sempre fatto del bene.» Zia interviene con una frecciatina: “Come? Ristrutturando il castello dei conti o facendo la villa al mare della vostra amica?» A questo punto, nonna si rannuvola: ”Via, sempre questi discorsi da finti ribelli.» D’un tratto, intorno alla tavola imbandita con la preziosa tovaglia della bisnonna e le porcellane finissime e l’argenteria di famiglia, provo a immaginare mia madre e i suoi fratelli quando erano giovani: non riesco a vederli nelle vesti di contestatori in questa villa di campagna arredata di mobili antichi e tappeti persiani.

Papà non ha battuto ciglio, perché la discussione ha preso un’altra direzione: non è più la sua carriera al centro del dibattito, ma la contrapposizione di vedute, ampie o ristrette, come sta notando la mia battagliera zia: “Se non altro cercavamo di allargare i nostri orizzonti, invece che starcene in questo posto asfittico.» Lo zio svizzero cerca di placare sul nascere l’ira della sorella: ”Via, sono cose del passato.» Ma zia risponde piccata: “Si, lo dici proprio tu che sei scappato per primo, a diciott’anni.» Nonna alza gli occhi al cielo: ”Scappato! Ma come vedi le cose? Tuo fratello è andato a studiare all’estero con una borsa di studio, in un’università prestigiosa.» Zio ha messo la mano su quella di sua sorella, piegando un po la testa e indirizzandogli uno sguardo che la invita a lasciar perdere,, che non è il caso. Zia assume un’aria di sopportazione, scuotendo la testa, e borbotta: “Non vedevamo l’ora di andarcene da questo paese allucinante. Fare del bene, qui! Qui si può solo allinearsi, tacendo, chinando la testa.» A questo punto, nonno decide d’intervenire con la sua autorità di capofamiglia, sentendosi direttamente chiamato in causa nella piccola schermaglia: ”Io non ho mai chinato la testa davanti a nessuno.» Lo credo sulla parola, perché nonno ha una di quelle figure imponenti che ti mettono subito in soggezione. Anche se è anziano, ha lo stesso sguardo brillante e fiero di mamma.

Non a caso, alla sua uscita, tutti si ammutoliscono e finalmente la conversazione prende la piega mondana che nonna predilige: “Avete visto questo film? Io l’ho trovato molto interessante.» Smetto di prestare orecchio a quello che dicono e torno a occuparmi del tavolo dei piccoli. Anche nonna mette in pratica la separazione delle tavolate, adulti e bambini, solo che qui io sono l’unica ragazza, perché gli altri miei cugini sono veramente piccoli e soprattutto parlano francese tra di loro.

Sono i figli dello zio che vive a Lione e che solo di recente ha deciso di metter su famiglia. Lo zio svizzero, invece, vive con una psicanalista e due gatti; mentre zia è ufficialmente single, dopo un divorzio di dieci anni fa, causa di grandissima delusione e dolore nei miei nonni, che tuttora rappresenta una ferita aperta nella loro famiglia.

Quando nonno si alza per andare a fare il suo irrinunciabile pisolino e nonna lo accompagna, finalmente l’atmosfera si rilassa e volano risate, chiacchiere, pettegolezzi e domande rivolte soprattutto a mia zia: “Allora? C’è qualcuno all’orizzonte o sei sempre sola?» ”Libera, non sola» puntualizza zia, facendo intendere che non c’è nessuno neppure all’orizzonte.

Papà rimane mogio al suo posto, appallottolando le molliche di pane. Sembra ascoltare una voce interna, che lo separa dal resto e lo tiene occupato nell’immersione profonda dei suoi pensieri. Mamma se ne accorge e si alza dalla sua sedia, lontana da quella di papà perché come al solito nonna ha assegnato i posti in modo che nessuno sia seduto accanto al proprio consorte, tranne lei e nonno, vicini come due sovrani. Mamma poggia una mano sul braccio di papà, mentre gli si siede accanto in modo da trovarsi spalla a spalla come due giocatori in panchina. Allora papà si volta un po verso di lei, grato di quella presenza confortante.

Zelig-Alien, sotto ipnosi, dichiara di mimetizzarsi perché vuole essere accettato. Voglio piacere, dice.

“Tutti abbiamo questo problema» dico, un po amareggiata.

Sto pensando a quanto è difficile essere presa in considerazione da Taisir.

Sono tornata altre volte nel suo quartiere come una spia, e poi ho il coraggio di criticare Raimondo con le sue manie!

Mi sono comportata in modo stravagante, lo ammetto, mentre camminavo fingendo di passeggiare a casaccio nella sua strada: in quella via nessuno passeggia, tranne un tizio con un cane al guinzaglio, che infatti mi ha lanciato occhiate curiose perché camminavo su e giù con l’aria distratta.

Ho finto di aspettare qualcuno, guardando l’orologio e poi il cellulare: ma io non abito lì, chi dovrei aspettare?

A chi dovrei dare un appuntamento proprio in quel quartiere, e per di più in quella strada? Invece, volevo vedere la sua casa, il suo portone, e alla fine mi sono spinta fino a leggere le targhette sui campanelli per trovare il suo cognome, e già solo vederlo scritto li sopra mi ha dato un tuffo al cuore.

Se qualcuno mi avesse fatto osservazione, sarei stata pronta con la scusa di compiere un’intervista porta a porta, per qualche abbonamento televisivo: a me capita spesso che qualche tizia suoni il campanello del portone per chiedere se siamo abbonati a certi canali satellitari. Ma da me è diverso: Jimmi, il portiere, allontana subito gli estranei, qualunque sia il motivo per cui suonano. Ma in questi palazzoni con i mattoncini a vista come costruzioni del Lego non ci sono portieri né telecamere. Se Taisir fosse uscito proprio mentre scrutavo il suo campanello o mentre bighellonavo lì intorno, non avrei avuto scampo: avrei dovuto ammettere che si, in effetti, lo stavo seguendo e il perché sarebbe stato vagamente complicato da spiegare.

“È per questo che la storia è appassionante» commenta mio padre ”perché estremizza un problema che abbiamo tutti, volgendolo nel grottesco. In questo modo ridiamo delle nostre paure.» Ma poi, d’un tratto, solleva lo sguardo sopra gli occhiali: “Qualche delusione?» Alzo le spalle. ”Lo sai: non è facile con i ragazzi. Non capisco mai che cosa vogliono, cosa pensano.» “Non saranno tutti uguali, no? Tutti un’unica categoria misteriosa.» ”Be, parecchi.» Lo guardo, un po esasperata: “Papà! Non è come alla tua epoca.» ”E com’era alla mia epoca? Sembra tu parli della preistoria.»

“Ma si, l’ho sentito raccontare mille volte: tu e mamma vi siete conosciuti in una sezione di partito, avevate le stesse idee… Allora era più facile.» “Eravamo anche più grandi di te.» Lo sguardo di papà si scurisce: ”Alla tua età io vivevo ancora a Udine, andavo al liceo. Mamma l’ho conosciuta quando sono venuto a studiare all’università.» “Si. Aspetta e spera. Ho ancora quattro anni di calvario.» Le sopracciglia di papà schizzano in alto: ”Un calvario, addirittura! È così difficile? Non c’è modo di conoscervi, d’incontrarvi?» Ha compreso che sto parlando di uno in particolare. Forse pensa a qualcuno che abita lontano, magari un ragazzo conosciuto la scorsa estate. Acqua acqua, caro papà.

Il film sta continuando, papà non si è curato neppure di stoppare la cassetta: i miei travagli personali lo interessano assai di più. Ha un’espressione più vivace di prima, segno che il malumore lo ha abbandonato. Papà è come me: le nuvole nere stazionano pochissimo nel nostro cuore, subito diradate da venti d’ottimismo.

“Sai, papà; è un’impresa. Questo ragazzo è arabo.» ”Hai capito…» commenta lui, sollevando testa e spalle dal divano e mettendosi in una posizione più composta, quasi seduto.

Mi dà sui nervi questa sua gran sorpresa. Non si può conoscere un arabo in questa parte del mondo? “Voglio dire, lui è italiano, è nato e cresciuto qui…» ”Ma certo» sottolinea lui, con vigore. “E viene a scuola con te, immagino.» ”Si, appunto, non è che ci siano tanti posti per incontrarsi oggi come oggi.» “Be, c’è la scuola.» ”C’è sempre stata» attacco un po polemicamente.

“Dipende. Alla mia epoca, come dici tu, al liceo andavano solo i ragazzi delle famiglie diciamo benestanti. In teoria, potevano andare tutti, in pratica i figli degli operai e dei proletari andavano negli istituti professionali o a imparare un mestiere.» Lo interrompo prima che diventi una lezione di storia: “Non è che oggi sia molto diverso. In classe mia mi pare ci siano solo figli di professionisti, avvocati, dottori.» Papà si mette una mano aperta sul petto: ”Io sono un dipendente pubblico, e anche tua madre lo è.» “Papà!» Alzo gli occhi al cielo, esasperata: ”Mamma è assessore regionale! Tu sei professore e fai il poeta!» “D’accordo, d’accordo, ho capito.» Alza le mani al cielo, come arrendendosi. ”Si diceva di questo ragazzo. Dunque, è un tipo difficile.» Annuisco. “Sai papà, credo che abbia dei pregiudizi nei miei confronti.» ”Davvero?» Se le solleva ancora un po, le sopracciglia gli scompaiono nell’attaccatura dei capelli. “Di che tipo?» ”Lui pensa che io sia ebrea.» Papà rimane interdetto. Resta qualche secondo in silenzio, mi aspetto quasi che scoppi a ridere, invece resta serio: “Capisco. E cosa glielo fa credere?» ”Una scemenza: il nome. E poi il ciondolo con la stella di Davide, sai. Io non ho negato subito, così gli è rimasto il dubbio.» “Confonde un po troppo le acque, il tuo amico. Non è un problema di culture…» Lo interrompo di nuovo, perché immagino già dove va a parare: ”Lo so, papà, lo so a memoria.

Solo che per lui la faccenda rimane questa: io sono una nemica.»

“Be, trova il modo di dirglielo, che non sei ebrea e neppure cattolica.» Il tono si fa tagliente, perché il Natale è ancora lì in agguato nei suoi pensieri.

Di anno in anno, la tradizionale celebrazione dei nonni sembra un tuffo in ritualità antiche: nonno legge il brano della nascita di Gesù dal Vangelo e lo commenta con qualche frase esortativa a seguire la strada del Signore, poi nonna legge un brano tratto da qualche lettura edificante contemporanea, come la biografia di Madre Teresa di Calcutta o del papa.

Per loro sarebbe stata una grande consolazione che io da piccola partecipassi a questo momento emozionante con una preghierina o una poesia su Gesù, ma i miei genitori si sono sempre opposti. Con tutto, i nonni ci hanno sempre provato, perché il fatto che io non abbia ricevuto una sana educazione religiosa li atterrisce ancor più del divorzio di zia.

“Non so se è giusto. È un problema suo.» ”Anche tuo, a quanto dici.» Solleva una mano in aria e la fa ricadere su una coscia: “Per un nome! Ma pensa! Sapesse che è semplicemente quello di mia nonna, la tua bisnonna, una specie di eroina…» L’ho sentito dire mille volte, per cui ripeto la lezione, in tono annoiato: ”L’infermiera nella prima guerra mondiale.» Ma papà assume un’espressione beata: “E stata la mia fortuna aver vissuto con lei. Era sempre allegra, solare. Tutto il contrario di mia madre, con la sua aria funerea.» Stavolta mi stupisco: ”Papà, non parli quasi mai della nonna.» Lui s’irrigidisce appena: “Non ne vale la pena. Direi cose sbagliate, perché credo abbia avuto una vita difficile.» Emette un sospiro rassegnato: ”La famiglia di mamma è oro colato rispetto alla mia. I nonni sono tradizionalisti, ma tra tutti circola affetto, tra fratelli e tra genitori e figli. È una grande famiglia, c’è il calore meridionale, i sentimenti sono veri, superano i piccoli attriti.» “Pensavo ti seccasse passare le feste in questo modo.» ”Ma no.» “Anche il nonno ti sembra simpatico? Con quel modo di fare un po strano?» Papà sorride: ”Strano… be è un po formale, cerimonioso.

Si sente patriarca, sai. Se ti capita, se hai voglia, guarda Il Gattopardo di Visconti: nonno è identico a Burt Lancaster, l’interprete del principe.» Questa parola mi solletica un punto di recente sensibilità: “Che principe?» ”Il Principe di Salina, il Gattopardo.» Mi riprometto di guardarlo, questo film di Visconti, sono sicura che papà lo abbia nella sua videoteca. Nel frattempo, lui torna all’argomento principale:“Ma diglielo, che non sei ebrea, e chiudi il discorso.» ”Papà, è come in Zelig. Il problema non è mostrare quello che non sei, ma quello che sei.» Lui mi guarda con grande tenerezza, mentre allunga una mano verso la mia perché gliela stringa.

“Ho una figlia molto saggia» mi dice, un po commosso.

Speriamo.

 

***

Capitolo 2.

 

Mio padre si ricrederebbe a proposito della mia saggezza se fosse al corrente del mio peregrinare nel quartiere di Taisir.

Se sapesse qual è stata la mia inutile meta nei pomeriggi bui di dicembre, quando alle cinque è già notte e i lampioni sembrano galleggiare tra vapori gelidi.

Se sapesse che la sua saggia figlia corre di filato per le strade di una periferia sconosciuta, per passare davanti al palazzo dove abita uno di cui non sa niente se non che frequenta il suo liceo e va in giro su una tavola con le rotelle.

Uno che l’ha colpita la prima volta perché balzava nell’aria piovigginosa come se potesse abbandonare a suo piacere la forza di gravità e la seconda volta per quella voce morbida, una voce che ci giurerebbe ha sapore di cioccolato denso e zuccherato.

Dunque, la saggia Rachele diventa impavida mentre girella come un cane che fiuta la traccia nei pressi della casa di Taisir, e ormai conosce a memoria le pietre rotte del cortile davanti al portone, la vernice scrostata di quel portone e le targhette un po arrugginite, perché qui non c’è il portiere che ogni mattina le lucida con il Sidol, lasciando quell’odore ferroso che s’impasta nel naso.

La folle Rachele, ammalata di un morbo che la spinge a rientrare in casa con l’espressione scura e la costringe a sentirsi una belva in gabbia nella sua camera, la fa esaltare quando vede da lontano Taisir a scuola, perché sapendo di preciso dove vive, in quale palazzo, in quale piano, è convinta di avere un piccolo vantaggio su di lui; Rachele matta come un cavallo, perché non ci guadagna nulla a comportarsi in questo modo, anzi, si troverà prima o poi a fare una figura persino peggiore di quella al mercato. Proprio se li va a cercare i guai, questa zucca dura.

Ma questa Rachele vagabonda si è lasciata alle spalle ogni briciolo di orgoglio, e non cerca neppure di giustificarsi con se stessa, mentre salta sul tram e va laggiù: cammina per un po, entra nel famoso bar della prima volta dove ormai la conoscono. Beve qualcosa, gli occhi incollati al bicchiere o alla tazzina, evitando di attaccare discorso, così gli sguardi dei tizi che ciondolano li dentro si limitano a registrare la sua entrata e la sua uscita.

Alle amiche, Rachele stolta ha smesso di dire che continua le sue investigazioni, perché se all’inizio Erica si entusiasmava ai suoi racconti, poi ha iniziato a mostrarsi seccata e a guardarla con un’aria di aperta ironia mentre le chiede se davvero si diverte, a passare i pomeriggi in questo modo scemo.

“Non tutti i pomeriggi, solo quando mi viene l’ispirazione» dice Rachele l’invasata.

C’è quel pomeriggio che le pare proprio perfetto per andare giù al quartiere e farsi il solito giro di sbirciate appassionate.

 

È in uno di quei pomeriggi d’ispirazione che Rachele l’esaltata conosce Fatema.

Credo che fosse la terza o quarta volta che m’incrociava per strada e mi ha riconosciuto. Mi ha lanciato uno sguardo, un vago cenno di saluto con la testa.

Mi sono lanciata a capofitto, perché quella ragazza rappresentava un insperato appiglio, una mano tesa in mezzo a quel deserto immerso sempre in una foschia che scontorna le cose.

È buffo perché quando esco da casa mia quella nebbiolina non c’è e appena scendo alla fermata, sono avvolta in una specie di nube gelida, di microscopici cristalli di ghiaccio che s’addensano nell’aria. È anche un po più buio, qui, e l’effetto del freddo aumenta. così, appena questa ragazza solitaria che mi veniva incontro sul marciapiedi ha sollevato appena il mento per un vago cenno di riconoscimento, un’ombra di sorriso, io mi sono subito voltata, le ho detto un caloroso: “Ciao!» Ha avuto un lieve sobbalzo, ma si è fermata e mi ha guardata in faccia. Ha detto, quasi sottovoce: ”Sei nuova di qui?» Che potevo fare, se non mentirle?

“Si, sono nuova, abito qui da pochissimo, non conosco nessuno ancora.» E poi, via, come un fiume in piena, parlando in fretta senza quasi darle il tempo di replicare, di chiedere. “Vado a scuola in centro, mi chiamo Rachele, ti ho visto altre volte, abiti qui vicino, come ti chiami?» Lei abbassa gli occhi, sento a mala pena quello che dice: ”Fatema. Abito in quel palazzo.» Si volta rapida verso l’edificio proprio accanto al mio, cioè a quello di Taisir.

Mi rendo conto che mentre parliamo, il gelo serpeggia dai piedi su fino alle spalle, e istintivamente mi metto a battere i piedi per terra. Lei invece non si è mossa, forse la sciarpa che le avvolge la testa e quel cappotto lungo fin quasi ai piedi la tengono al caldo come un bozzolo; io invece ho i capelli al vento e le orecchie praticamente congelate, perché mi sembra di non sentirle più.

“È proprio qui di fronte» osservo, e la voce mi trema.

“Si» mi guarda per qualche istante. “Vuoi venire su? Sarà meglio bere qualcosa di caldo, non credi?» ”Si, volentieri, si. Grazie!» Ci dirigiamo in fretta verso il palazzo, lei apre il portone con una lunga chiave e siamo subito dentro. Fatema sceglie un’altra chiave dal mazzo e la gira nella serratura accanto al pulsante dell’ascensore, e rimaniamo in attesa della cabina.

“Perché la chiave?» osservo, un po ingenuamente.

“Perché? Nel tuo palazzo non ci vuole?» si stupisce lei, allora invento: “Non c’è l’ascensore. Non funziona.» ”Capisco» fa lei, aprendo la porta con un’altra chiave e poi le due porte di legno della cabina: è un trabiccolo piuttosto vecchio e malmesso, con una luce fioca che piove dal soffitto e restituisce ai nostri visi l’aspetto di due figure spettrali. Fatema preme un pulsante in alto, e la cabina parte cigolando. È la prima volta che provo un brivido di paura dentro un ascensore, ma lei pare del tutto tranquilla, anzi mi sorride, non so se imbarazzata o confusa, perché in effetti non sa neppure chi sono e mi ha invitata così sui due piedi a salire su in casa sua. Devo avergli dato l’impressione di un cucciolo smarrito.

Altre due chiavi girano in due toppe, una superiore che sembra nuova di zecca, una inferiore un po consumata e graffiata come se qualcuno ci avesse passato sopra una lima.

Finalmente, dopo un certo numero di giri di chiave, la porta si apre.

Vista la chiusura quasi da cassaforte, immaginavo che la casa fosse vuota, invece pare sia piena di gente, perché arrivano voci da altre stanze, e suoni da un televisore acceso.

Fatema mi dice, quasi in un sussurro: “Aspetta qui» ed entra in una porta aperta, sulla destra, lasciandomi in quel piccolissimo ingresso, a guardarmi intorno.

In realtà c’è poco da guardare: un attaccapanni sulla sinistra, proprio vicinissimo alla porta, già zeppo di giacche e cappotti; la porta dov’è entrata Fatema, l’unica aperta perché nella parete di fronte vi è un’altra porta chiusa e a sinistra una terza porta, anche questa chiusa, da cui proviene l’inconfondibile rumore di un televisore sintonizzato su qualche spettacolo dai continui applausi. Immagino sia un salotto o una camera, mentre Fatema dev’essere andata in cucina: sento parlare con una donna, in una lingua incomprensibile che presumo sia arabo. Quanto alla porta di fronte a me, potrebbe anche essere quella di Ali Babà e nascondere una grotta con favolosi tesori.

Per fortuna Fatema torna presto: sono così a disagio, piantata nell’ingresso come un’intrusa a fantasticare sulle porte di un appartamento sconosciuto, che le sorrido come se fosse rientrata da qualche viaggio lontano.

 

“Se vuoi toglierti la giacca…» mi dice, educatamente. Io mi libero del giubbotto e scuoto i capelli rimasti soffocati sotto la sciarpa. Lei aspetta che abbia finito, appende il mio giubbotto a quell’attaccapanni già pieno e passa a sbottonarsi quel cappottone lungo. Forse non c’è più posto nell’attaccapanni, perché Fatema ripiega il cappotto e lo appoggia su un braccio, e mi fa strada verso la cucina, dove una donna dall’espressione molto cordiale mi accoglie festosamente, cercando le parole giuste: ”Prego, comoda, prego, siedi.» Fatema appoggia il cappotto sulla spalliera di una sedia, ma non si toglie quella che avevo preso per una sciarpa avvolta sulla testa ma che ora mi accorgo è un fazzoletto scuro annodato sotto il mento.

“E mia madre» mi presenta Fatema con quel tono di voce basso, quasi un soffio. In arabo si rivolge a sua madre dicendole come mi chiamo, poi si volta verso di me e mi punta i grandi occhi scuri sul viso: ”Le ho detto che sei una mia compagna di scuola, è molto contenta di conoscerti.» Si aspetta una reazione di sorpresa da parte mia, invece io annuisco comprensiva: si vede che le madri sono uguali in tutto il mondo, in tutte le culture. Probabilmente se Fatema dicesse di avermi raccolto per strada succederebbe un mezzo finimondo, invece con questa bugia innocente c’è una gran cerimonia per Rachele l’impostora: viene preparato un tè profumatissimo, mi sono offerti dolcetti speziati e molto zuccherati fatti dalla mamma di Fatema, e soprattutto è tutto un sorridere sia dalla madre che da una bambina piccola che si aggira per la cucina e mi guarda con grandissima curiosità, sia da quello che immagino sia un fratello piuttosto grande, che a un certo punto entra in cucina con piglio aggressivo, e che di fronte a me smorza quello che mi par di cogliere come un tono di comando e mi sorride, mentre sua sorella mi presenta: la magica compagna di classe.

Comincio a essere a disagio per essermi intrufolata in questa famiglia gentile, tra queste persone premurose che sembrano così felici della mia presenza. Non so bene cosa dire, ma non c’è bisogno di dire né fare niente, solo assaggiare i biscotti, sorseggiare il tè e complimentarsi con la mamma seduta su una sedia con la bambina sulle ginocchia, intenta a giocare con i cucchiai sul tavolo.

“Fatema, vorrei dirti una cosa» le dico. “Possiamo andare nella tua stanza?» Le passa un velo d’imbarazzo nello sguardo: ”Non ho una stanza mia. Scusa.» Arrossisco: “Ti prego, scusami tu.» Di colpo, le s’illumina lo sguardo. ”Vieni» mormora, e si alza. Dice qualcosa a sua madre, e mi prende per mano.

Oltrepassiamo la porta misteriosa, di fronte a quella d’ingresso, ed entriamo in un secondo piccolissimo ingresso su cui si affacciano altre tre porte. Non ho mai fatto tanto caso alle porte come qui da Fatema. Forse perché a casa mia ve ne sono pochissime, giusto quelle del bagno e delle camere da letto, e negli appartamenti delle mie amiche è sempre tutto aperto. Ma qui gli spazi sono già angusti e le porte tutte sbarrate, come se dietro ognuna di esse vi fosse un mondo segreto, inviolabile. Fatema ne apre una che rivela un bagno stretto e lungo: “Qui possiamo stare qualche minuto in pace.» Appena dentro, chiude a chiave con due mandate ed emette un sospiro di sollievo, come se finalmente fosse approdata in uno spazio speciale.

Mi siedo su un panchetto, perché il bagno è così piccolo che mi sento ingombrante. Lei si siede sul water, come se fosse una comodissima poltrona.

A questo punto, mi coglie il senso del ridicolo di questa situazione: tappate nel cesso per starcene lontano da orecchi e occhi curiosi, neanche fossimo a scuola! Allora mi prende un accesso irrefrenabile e mi porto una mano alla bocca per non ridere troppo forte. Anche Fatema scoppia a ridere, e gli occhi le si accendono. Ridiamo insieme come due matte, quasi fino alle lacrime e quando infine tutta l’ilarità è sgorgata fuori, mi sento così vicina a lei, come se la conoscessi da sempre, e posso dirle senza timore: “Io non abito qui. Vengo da queste parti per incontrare una persona.» Lo sguardo le brilla di complicità: “Chi? Un ragazzo?» ”Forse lo conosci: Taisir.» “Ah!» Si porta una mano alla bocca. ”Perché proprio lui?» Se mio padre sapesse che da quando conosco Fatema me ne sono andata allegramente in questo quartiere, chissà se mi considererebbe ancora la sua saggia bambina. Non ho mai incontrato le pattuglie della polizia, non ci ho mai fatto caso. Scuoto la testa, vergognandomi del mio candore.

Non vi ho prestato attenzione, eppure giorno e notte girano le auto di carabinieri e polizia, perché questo è un quartiere“ dove abitano molti islamici, tutti considerati pericolosi, fanatici, amici di terroristi se non addirittura probabili terroristi.

“Nessuno ti ha detto nulla, vero? Nessuno ti ha infastidita?» domanda la mia amica, e al mio diniego prosegue, sarcastica: “Ci sono persone che non verrebbero qui neanche morte.» ”Mi spiace» dico, come se dipendesse da me, l’attribuire una fama così brutta a questo luogo.

“Hai visto mia madre com’era contenta? Perché qui nessuna mia compagna è mai venuta. Sei la prima.» “Fatema, perché non vieni tu a casa mia?» ”Mio fratello non mi darebbe il permesso» abbassa gli occhi.

“Che c’entra tuo fratello?» “Mio padre lavora lontano. È in Germania per un paio di mesi. Quando papà non c’è, è mio fratello il capofamiglia.» ”E decide che tu non puoi uscire.» Aggrotta la fronte e dice con convinzione: “Non decide: è giusto così. Deve proteggere le sue sorelle, sua madre.» Mi viene da sorridere: ”In casa mia è un po diverso. Credo che sia mia madre che protegge me e mio padre.» “Sul serio?» Gli occhi le si accendono di curiosità. ”Come sarebbe?» “Mamma è una donna molto forte, decisa. Invece papà è un tipo molto mansueto, è anche timido. E lei sembra proprio che lo protegga, lo incoraggi, lo sostenga. Lui non ci pensa neppure a controllarmi, è lei che lo fa, anzi tra poco vedrai che mi squillerà il cellulare e lei mi chiederà dove sono. Sapesse che sono qui, chiusa in un bagno!» ”Prigioniera in un hammam islamico» suggerisce Fatema.

“Che dirai a tua madre?» Alzo le spalle: ”Niente, che sono da Coin a fare un giro con qualche amica.» “Se sapesse la verità, chiamerebbe l’esercito, per portarti via» mi prende in giro lei. Ma io ribatto con una punta di amarezza: ”Molto peggio. Verrebbe lei di persona.» Sono sicura che mia madre verrebbe di volata e intavolerebbe una di quelle ‘discussioni democratiche tese a comprendere il punto di vista islamico sulla realtà cittadina.

Forse si accapiglierebbe con il fratello di Fatema che spadroneggia in casa come uno sceicco. Sicuramente si farebbe aprire tutte quelle stanze e scoprirebbe che nel salotto vivono gli zii di Fatema, appena sposati, in una camera dormono la madre con la bambina più piccola e Fatema, mentre nell’altra stanza dorme il fratello grande e un fratello più piccolo. Ma io non sono invasiva come mia madre, tutte queste cose le scopro con il tempo, dopo diverse volte che vado a casa di Fatema con i libri sotto il braccio, per studiare insieme sul tavolo di cucina. La madre lo sgombra amorevolmente per noi, ritirandosi svelta in camera con la piccola.

Lo stesso, tutto quello che ora so di Taisir l’ho appreso poco alla volta, nelle pause del nostro studio, io con i miei libri del liceo e lei con i suoi libri dell’istituto professionale per il commercio; parlando come due spie, sottovoce o chiudendoci nell’oasi del bagno.

Taisir, perché proprio lui?

Quella domanda mi ha fatto temere che anche Fatema ne fosse innamorata. Perché proprio lui? Perché non lui, invece?

Che cos’ha di strano, non è un ragazzo come gli altri?

“Non lo è,» mi dice la prima volta Fatema ”Taisir è impossibile.»

Resto di stucco, abbiamo pochi secondi ancora: non possiamo rimanere chiuse in bagno per tutta la sera.

“Perché impossibile?» ”Perché è complicato, te lo spiegherò un’altra volta.» “Non puoi lasciarmi con questa curiosità, Fatema, dimmi che significa: è un tipo pericoloso?» Lei scoppia a ridere: ”No, no, non in quel senso. È complicato perché è a modo suo, è l’unico che studia al liceo e vuol fare l’università, e per la sua famiglia è un grosso impegno.

I suoi non sono semplici immigrati, come i miei genitori e i miei zii: loro sono esuli politici.» Fatema si è alzata, sta aprendo la porta, io vorrei sapere di più ma lei poggia l’indice sulla punta del naso, sussurra: “La prossima volta.»

***

Capitolo 3.

 

La sala è inaspettatamente piena di gente che ha sfidato la gelida tramontana di questi giorni.

Volgo lo sguardo in giro, chiedendomi chi possano essere tutte queste persone che hanno risposto all’invito di mio padre con entusiasmo tale da costringere gli organizzatori ad aggiungere alcune sedie, giù in fondo. Eppure non è facilissimo trovare questo luogo, un vecchio palazzo in una stradina del centro. Io non ne conoscevo l’esistenza. Sono abituata a pensare alla mia città per grandi spazi, i viali, le piazze, i palazzi imponenti e non immaginavo che contenesse anche una dimensione quasi da paese, con viuzze, casette e una piccola chiesa romanica con tanto di selciato: il nucleo antico della città, rimasto come dietro le quinte dello scenario sfarzoso, il centro rutilante di grandi magazzini e immense vetrine.

Papà è stupito di avere un pubblico. Molti si avvicinano, lo salutano, e lui abbraccia, bacia, stringe mani, riconoscendo facce e ricordando in fretta, perché qualcuno emerge da un passato lontanissimo.

Io e mamma siamo sedute in prima fila, mentre papà si muove nervosamente in mezzo a una piccola folla mutevole di gente che va a complimentarsi con lui, emettendo versi compiaciuti, sfiorandogli una spalla o la mano, per poi staccarsi e venirsi a posare su una delle sedie.

Mia madre è rimasta modestamente in disparte, si è limitata a scambiare quattro chiacchiere con un certo assessore comunale e qualche altro tizio che appartiene al suo mondo.

Dopodiché si è defilata, perché è il momento di papà, il quale, prima di uscire di casa, si è seduto in poltrona, dicendo con aria preoccupata: “Non so se me la sento.» ”Stai scherzando» mia madre si è accigliata. “Ti aspettano tutti.» ”Non verrà nessuno. Figurati.» “Tanto per cominciare ci siamo io e Rachele. E di sicuro la professoressa e l’assessore.» Papà ha sospirato: ”Sono molto agitato.» Mamma ha sorriso, gli ha teso una mano: “Lo credo. Non capita tutti i giorni di presentare il proprio libro. È meraviglioso e io sono molto in soggezione di fronte a un poeta.» Papà le ha preso la mano, ma anziché sollevarsi dalla poltrona, ha tirato a sé mamma che non se l’aspettava ed è caduta in avanti. Papà è scoppiato a ridere e l’ha afferrata con delicatezza, abbracciandola stretta. Ho alzato gli occhi al cielo, sbuffando: ”Dio! Sempre queste scene!» Ma quei due niente: ridevano e si sbaciucchiavano, ignorandomi.

Allora ho intimato: “Avete finito? Guardate che facciamo tardi, io me ne vado.» Mia madre si è divincolata e si è alzata un po a fatica, facendo scricchiolare pericolosamente la poltrona mentre si aggrappava a un bracciolo come un’arrampicatrice su una roccia. Papà ne ha approfittato per assestarle una leggera pacca sul sedere.

“Villanzone!» ha riso lei.

“Non vedi? Ti do una spinta, non ce la fai.» Mamma si è aggiustata i vestiti spiegazzati e papà si è sollevato d’un balzo, battendo entrambe le mani sui braccioli: “Andiamo, su» ha detto più allegro. ”Leggerò le mie poesie alle sedie.» Invece, come un flusso inarrestabile, si è creato un gran pienone di uomini intabarrati in strani cappotti di fogge antiche, giovani con barbette e occhialini, e soprattutto tante donne: signore anziane con acconciature uguali a nuvole, donne con cappelli rossi e rosse labbra malgrado le rughe, ma anche ragazze scalpate o al contrario con chiome fluenti.

Come fa mio padre a conoscere tutte queste donne?

“Ne frequenta di gente, papà» commento all’orecchio di mia madre.

“Non sono tutti amici» mi spiega, inorgogliendosi. ”E anche un pubblico di amanti della poesia, artisti, letterati. Papà è molto stimato in questo ambiente.» Hai capito. Mia madre ha un’adorazione per la poesia di papà, anche se lui deve tradurgliela perché è scritta in un dialetto che lei non conosce: ma il suono, dice lei, parla da solo. E poi c’è il famoso impegno, perché queste poesie raccontano storie difficili, di emarginazione e violenza. Per mia madre questo è il più autentico senso dell’arte: dare voce all’umanità dimenticata.

Papà si siede dietro l’imponente tavolo scuro, e parla al microfono: “Sono commosso dal vostro calore. Confesso che mi aspettavo una sala vuota, visto il freddo e l’ora non proprio felice di un martedì pomeriggio. Invece siete impavidamente accorsi e io vi ringrazio perché siamo qui a presentare un libro di poesie, ed è questo che insieme celebriamo, non una persona o un libro, ma la poesia.» Mentre tutti applaudono, papà si sistema gli occhiali sul naso per leggere un paio di sue composizioni. La voce è più ferma, dopo l’emozione iniziale, e mio padre leggendo acquista sicurezza, padronanza del suono, e libera le parole.

Ho l’improvvisa sensazione che non legga semplicemente, né reciti, ma canti.

La poesia è di tutti, dice mio padre. La poesia salva la vita. Lo dice con un tono così profondo e sentito e commosso che mi salgono le lacrime agli occhi e non so se è per quello che ha detto o per come lo ha detto. Guardo papà e registro i suoi capelli radi scompigliati sulla testa, gli occhiali quasi sulla punta del naso, una mano che regge i fogli, l’altra abbandonata lungo il fianco. Per una volta, ha rinunciato ai maglioni e i pantaloni di velluto e si è messo la giacca e la cravatta.

Chi dice che è più facile per un uomo vestirsi, non ha mai assistito al rito dell’abbigliamento maschile. A differenza di quello femminile, è fatto di dettagli che sembrano del tutto insignificanti, invece risultano importantissimi: la scelta dei calzini, da accompagnare all’abito e alle scarpe; l’individuazione della camicia adatta tra tante bianche e azzurre che l’occhio di falco di mia madre scartava perché i bottoncini fanno sportivo, la tasca non va bene, le righe non si sposano neppure quelle sottilissime, meglio un colore unico, bianca fa troppo cerimonia e via disquisendo; fino alla fatidica, delicatissima operazione cravatta, da vagliare attentamente tra le poche in possesso di mio padre e poi da annodare sul colletto della camicia con pochi, esperti gesti compiuti da mia madre, come se fosse lei a farsi ogni giorno il nodo della cravatta.

Ecco lì il mio papà bello ed elegante che ci dice con trasporto che la poesia salva la vita, perché è voce profonda, eco del mondo. E io mi metto a piangere e anche mamma si commuove, si accorge delle mie lacrime e mi prende una mano, me la stringe.

Mentre papà dice che la poesia è profonda comprensione, posa il suo sguardo su di noi, che siamo lì ad ascoltarlo e piangiamo e sorridiamo perché capisca che queste nostre lacrime sono di gioia e di partecipazione. Lui sorride, gli trema un po la voce mentre confessa pubblicamente che questo momento è molto toccante. Ripete che non è una frase d’effetto, è semplicemente un’esperienza reale: la poesia salva la vita perché ha salvato la sua.

Subito dopo abbassa la testa, inviando un cenno al percussionista che finora ha commentato sonoramente le sue poesie con cupi suoni sotterranei o frenetici ritmi, sciabolate d’acciaio e aerei timbri. Adesso, il musicista batte i palmi su un grosso tamburo e sembra scuotere la terra, risvegliando la profonda coscienza dell’anima, ma quando le bacchette passano sulle lamine d’acciaio del vibrafono, io sento distintamente come in questo istante noi tutti lì dentro siamo un’unica vibrazione, un unico sentimento.

Papà sfida il gelo serale, appoggiato alla balaustra del terrazzino. In questi momenti sembra tornar fuori la sua tempra nordica, perché è lì fermo, un’ombra scura contro le luci cittadine, con addosso nient’altro che la giacca e una sciarpa al collo.

M’infilo il giaccone e lo raggiungo. Sta fumando una sigaretta e lo rimprovero: “Papà!» “Questa me la sono proprio meritata, no?» Divento subito Rachele l’infermiera, preoccupata dello stato dei suoi polmoni: ”Ma papà, sono mesi che hai smesso.

Rischi di ricominciare.» Lui alza una spalla, borbotta: “Per una sigaretta non succederà.» Appoggio le mani guantate sulla balaustra di ferro: anche attraverso il pile i palmi si ghiacciano, così mi stacco in fretta e metto le mani in tasca, con la sensazione di aver toccato una lama d’acciaio.

Papà sembra insensibile all’aria pungente. È piegato un po, in avanti, un braccio poggiato sulla ringhiera, l’altro mollemente abbandonato in fuori, con la punta della sigaretta arroventata per il vento.

Alle nostre spalle, la cucina illuminata appare nitida, bianca: l’esposizione di un negozio di arredamenti. Mamma la tira a lucido tutte le volte, come se dovessimo chiudere casa e partire. Dalla fessura della porta finestra arriva il rassicurante ronzio della lavapiatti.

Io e papà siamo sospesi sul terrazzo, sopra la soglia della notte e aspettiamo. Aspettiamo in modo diverso: lui che la sigaretta finisca, io che lui dica qualcosa. Non oso interrompere il suo silenzio, immagino sia strettamente legato al piacere di fumare all’aperto l’unica sigaretta che si è concesso dopo mesi.

Vorrei chiedergli perché la poesia gli ha salvato la vita, che cosa significano quelle parole, dette di fronte a tanta gente, poi. D’un tratto mi accorgo di vivere accanto ai miei genitori e di non sapere niente della loro vita, della loro storia.

“Non hai freddo, papà?» chiedo premurosa. Lui si volta e alla luce proveniente dalla cucina vedo i lineamenti che si allargano in un sorriso: “Macché. Tu hai freddo, invece. Entra in casa.» ”Sto ancora un po.» Papà spegne il mozzicone della sigaretta e l’avvolge in un fazzoletto di carta. Ora si volta del tutto, mi dice: “Grazie.» Spalanco gli occhi: ”Di che, papà?» “Della tua presenza, oggi. Tu e mamma mi avete dato molta forza. Sono un uomo fortunato.» Allora colgo la palla al balzo: ”Perché quella frase sulla poesia che ti ha salvato la vita?» “Perché ci sono stati momenti difficili nella mia vita, come per tutti. Ma la letteratura, il cinema, mi hanno aperto la mente, per esempio mi hanno fatto capire che c’erano pensieri condivisi, esperienze umane simili alle mie.» ”Momenti difficili» rifletto qualche istante. “Da ragazzo?» ”Da giovane, si. Allora vedevo le cose in modo estremo, ho covato molta rabbia dentro di me, parlavo di cambiare il mondo, ma come potevo pensare di cambiarlo, io con i miei compagni, quando non sapevo neppure che cosa volevo? La poesia mi ha salvato perché mi ha portato dentro me stesso e mi ha dato la forza per affrontare la mia aggressività e la mia paura, per scoprire le mie debolezze e le mie vigliaccherie e insieme la mia forza interiore.» Sono sopraffatta dalla confessione di papà. Non riesco a immaginarlo un debole, un vigliacco. Ma d’improvviso mi rendo conto che sta parlando di una sensazione conosciuta: quel disagio che in certi momenti s’impossessa di me in modo inspiegabile, la rabbia che mi cattura per inezie, il tormento che mi porta pensieri nerissimi, fortunatamente fugaci, questo malessere che non so capire e poco comunicare, se non nascondendolo dentro l’ovatta di piccoli problemi di cui chiacchierare fino allo sfinimento con le amiche, discorrendo e discorrendo per far fluire con le parole, le frasi ripetute, la puntura dell’angoscia che mi ha catturato.

Pensando a quella sensazione di malessere temporaneo che ti fa scivolare verso insondabili tristezze, mormoro: “Crescere è dura.» Papà mi passa un braccio sulle spalle: ”Si, crescere è difficile, ma si deve e si vuole crescere, vero?» “Penso di si.» Sentendolo così accanto mi stupisce il calore che emana con la sua semplice giacchetta di lana. ”Era dura per te, con i tuoi, vero?» “Abbastanza.» ”E il nonno?» “Erano molto simili: come si dice? Chi si somiglia si piglia» cerca di scherzare, ma mi arriva distintamente la sua leggera tensione. Mi esce quasi un sussurro: ”Non ti volevano bene, papà?» “No» lo dice con calma, con sicurezza, come se parlasse di qualcun altro. ”Forse non avrebbero dovuto avere figli.

Vi sono persone così.» Mi sembra una cosa di una crudeltà estrema, eppure papà ne parla con serenità: forse è questo che intendeva con la frase sulla poesia salvatrice, riuscire a sopravvivere alla mancanza d’amore, a un deserto affettivo.

“È per questo che hai vissuto con la bisnonna?» Papà prosegue con tono piatto: ”Mi hanno affidato alla bisnonna quando avevo dodici anni: sono partiti per l’Africa.

Mio padre lavorava su una piattaforma nell’Oceano, di fronte alla costa d’Avorio. Hanno vissuto in Costa d’Avorio per diversi anni, quando sono rientrati io mi ero iscritto all’università e me n’ero andato.» “Povero papà.» “No, Rachele, non compiangermi» scoppia a ridere. ”Tutto sommato è stata una fortuna. Della mia vita, i miei genitori si sono del tutto disinteressati, e poi io avevo idee politiche opposte alle loro. Ma soprattutto avevo qualcosa che non potevano capire.» “La poesia, vero?» ”Non ancora, allora avevo un forte senso di libertà. Volevo studiare e cambiare le cose. Leggere e leggere: questo mi è servito tanto.» Sono abbracciata a lui: credo di non averlo mai sentito tanto vicino da quando ero piccola e papà mi leggeva le fiabe prima di addormentarmi. C’era questo rituale meraviglioso: lui leggeva, poi mi abbracciava, mi baciava e mi rimboccava le coperte e io mi addormentavo istantaneamente, senza sognare. Forse avevo già sognato prima, mentre papà leggeva per me.

Mi accorgo di essere proprio ora caduta in una specie di torpore pieno di immagini: un ragazzo che è lui, ma che non ha volto perché non riesco a immaginare papà da giovanissimo, che legge, studia, e parte in treno, solo.

“Ti sei sentito solo?» Papà mi stringe a sé: “No, amore mio, mai. Vedi, Natalia Ginzburg dice che ci si sente soli perché non si ha una vita interiore. Ma io, questa dimensione, l’ho sempre coltivata.» ”E quello che dicevi prima, la violenza, la paura?» domando, le labbra che mi tremano.

“È un’altra faccenda, era l’epoca. Eravamo tutti dei ribelli.

Tesoro, stai tremando, rientriamo.» “Come fai tu a non sentire freddo?» “Perché provengo dal Polo Nord» scherza lui. Sta per aprire la portafinestra, quando ha una specie di ripensamento: ”E con quel tuo amico, quel ragazzo arabo, com’è andata?» “Niente papà» scuoto la testa. ”Non ci siamo più visti.» “Ma andate a scuola insieme, no?» ”Certo, ma lui mi evita e a questo punto anch’io.» Papà apre la porta, una folata di aria calda m’investe rinfrancandomi. “Parlagli» mi dice, quasi sottovoce. ”Cerca di chiarire.» Vorrei dirgli che è proprio quello che sto tentando di fare, parlare con Taisir. Non posso farlo a scuola, in mezzo a mille orecchi e occhi curiosi, né aspettandolo all’uscita né allo skatepark o alla stazione, perché ci ho già provato.

Ma questa faccenda è solo mia, questa è la mia privatissima vita interiore.

 

***

Capitolo 4.

 

Quando mi apre la porta il fratello di Fatema, provo sempre un brivido di disagio per quella sua aria imbronciata.

Ho il sospetto che non approvi l’amicizia di sua sorella con me, perché mi guarda con quella fronte aggrottata, borbottando un saluto, e mi pianta gli occhi in faccia come in un muto interrogatorio. Ma io sostengo lo sguardo, cercando di apparire il più possibile candida e infantile mentre sbatto le ciglia e chiedo in tono lieve, lievissimo: “Ciao. C’è Fatema?» Mi spalanca la porta e fa un cenno verso la cucina, continuando a fissarmi. Vorrei dirgli scherzando di stare tranquillo, non ho intenzione di rapire sua sorella per convertirla alle pericolosissime tentazioni occidentali come spalmarsi due dita di trucco sul viso e portare una minigonna vertiginosa e tacchi alti. Neanche io mi trucco e non ho mai portato una minigonna in vita mia, figurarsi i tacchi, anche se nessuno me lo proibisce, mentre credo che Fatema, a giudicare dall’occhio di lince del fratello, pagherebbe chissà quali conseguenze per un gesto ardito come mettersi il rossetto.

“Non sto simpatica a Khalid» le dico, facendo cadere pesantemente lo zaino sulla sedia di plastica, che traballa un po.

Lei mi sorride e, al solito, il viso le si illumina tutto, come se le si accendesse in fronte una lampada fluorescente che le fa brillare gli occhi, la bocca.

“Ma che dici? Assolutamente no, anzi, è contento della nostra amicizia, e poi studiamo. Ma lui è così, non può farsi vedere espansivo e non vuole offenderti.» ”Offendermi in che senso?» “Mostrandosi troppo interessato, sai.» Spalanco gli occhi: ”Cioè se un uomo ti saluta un po gentilmente vuol dire che ci prova?» Fatema scoppia a ridere: “È possibile!» Mi scocca un’occhiata maliziosa, abbassando la voce: ”Stai molto attenta, con Taisirà se ti saluta tutto sorridente e magari ti sfiora una mano, e ti fissa negli occhi… vuol dire che ti vuole!» Scrollo le spalle: “Figurati, non c’è pericolo.» ”Invece io non sarei così sicura.» Continua ad avere quell’espressione maliziosa sul viso.

“Che vuoi dire? Gli hai parlato?» Il cuore mi fa un balzo.

“Lui ti ha parlato» scandisce lei, con quella voce leggera, che sembra provenire da dietro un paravento. ”Me lo hai raccontato tu, no? Ti ha salutato, ti ha parlato.» “Chiamalo parlare: si è arrabbiato e mi ha accusato di essere una specie di spiona.» ”Via Rachele!» alza gli occhi al cielo. “Mi hai detto tu che ti ha sorriso, ti ha fatto una domanda molto particolare: se credi nel destino, e tu non gli hai ancora risposto.» ”Non mi pare che aspetti una risposta da me.» Il mio tono è amareggiato, ma dentro di me sono tutta in subbuglio: dove vuole arrivare Fatema? Mi sta dicendo che non ho saputo cogliere certi segnali importanti, fermandomi solo ai dettagli, alla superficialità. “A scuola non mi degna di uno sguardo.» ”Davanti a tutti, mi sembra logico.» Mi scruta con curiosità: “Invece dovrebbe avvicinarsi, parlarti davanti ai suoi amici?» ”Ah, no!» scuoto la testa. “Sarebbe tremendo, sprofonderei dalla vergogna.» Sorride di nuovo, sembra rassicurata dalla mia reazione in cui vede rispecchiarsi il proprio comportamento: ”Anche per una ragazza araba è così. Lui ti può lanciare degli sguardi e provare a parlarti fuori della scuola. Però ricordati che lui l’ha fatto. Ti ha parlato mentre eri con le tue amiche.» “Non so neanche se si è accorto di loro. Mi ha fissato tutto il tempo, come un poliziotto.» Fatema solleva il viso al cielo, di nuovo, abbandonando le lunghe mani sul tavolo con i palmi verso l’alto, come in una muta preghiera: ”Rachele!» Torna ad allungarsi verso di me, gli occhi scuri che mi guardano con intensità. Passa qualche istante in questo modo, e io aggrotto le sopracciglia, sentendomi in imbarazzo: “Be, che c’è?» ”Ti sto guardando come un poliziotto?» chiede, e si accende una luce d’ironia nello sguardo.

“No, ma è diverso.» “Rachele, lui ti fissava come fanno i nostri ragazzi. Non ti staccano gli occhi dal viso, anche se vicino a te c’è la regina Elisabetta. In quel momento l’attenzione di un uomo è tutta su di te, stabilisce un contatto profondo solo con te.» ”Un contatto profondo?» Sono sicura di essere arrossita perché sento lingue fiammanti che mi salgono sulle guance.

“Ma no, ti sbagli, Fatema.» “Sono sicura di non sbagliarmi» dice con fermezza. ”Si, siamo in Occidente, siamo nati qui, ma la nostra cultura è araba. Si, viene al liceo e frequenta quasi tutti occidentali, ma Taisir è arabo, vive in una famiglia attenta alle tradizioni.»

“Il destino…» mormoro. ”Pensavo fosse una specie di provocazione.»

“Devi trovare un modo per rispondergli. Forse una lettera?»

“Sei matta?» Fatema spalanca gli occhi, come se le avessi lanciato un anatema, allora mi affretto a dirle: ”Scusami, Fatema. Voglio dire: una lettera! Chi scrive più lettere? E poi, se la legge a tutti? Se ti sei sbagliata e come penso io mi ha solo voluto prendere un po in giro con una frase a effetto…» “Se, se, se…» sbuffa lei. ”Ipotesi. Ma la realtà è che non gli sei indifferente.» “Da cosa lo capisci?» ”Senti, quando uno non vuole conoscerti ti evita apertamente, non fa caso a te, non ti fissa ma evita il tuo sguardo.

Invece lui ti è sempre venuto vicino e ti ha sempre guardato.

Soprattutto ti ha guardato.» “Insomma, è tutta una faccenda di occhi.» “Proprio così.» Rimugino qualche istante: ”Niente lettera. Troverò il modo di parlargli a quattr’occhi.» Come se fosse facile avvicinarlo. Potrei chiedere a mia madre qualcosa sul papà di Taisir, forse ne sa qualcosa.

Perché in questi pomeriggi con Fatema, a poco a poco si è dipanata la storia della sua famiglia e del motivo per cui sono venuti a vivere qui vent’anni fa lasciando il loro paese, quel paese dal nome evocativo di sacralità che è la Palestina.

Ma è un paese che non c’è: non è uno stato, non ha confini, non ha un territorio definito, eppure i palestinesi esistono. Quelli come la famiglia di Taisir sono dovuti partire quando l’esercito israeliano ha occupato Ramallah, uno sputo di terra contesa, dove da vent’anni si combatte una guerra civile.

“Il padre di Taisir insegnava all’università e non volle firmare una dichiarazione contro l’OLP» mi diceva Fatema, sussurrando sopra i libri aperti.

“Arafat» mi era uscito, collegando a quell’organizzazione il nome di un leader famoso, morto a Parigi.

“Si, esatto. Il papà di Taisir si rifiutò di firmare la dichiarazione.

I militari avevano dato una possibilità di scelta: o firmare contro l’OLP oppure lasciare il lavoro ed essere cacciati dal paese. E il papà di Taisir ha scelto questa seconda ipotesi, l’esilio.» Ero sconvolta: da quando l’esercito decideva la vita delle persone? Solo sotto le dittature più atroci accadevano queste cose. E perché nessuno faceva niente? Avevo quasi le lacrime agli occhi, ma mi ero trattenuta. Non potevo farmi sempre sopraffare dal pianto, non volevo passare per una che ha le lacrime in tasca.

“Quando è successo?» ”Tanto tempo fa, nel 1982» mi disse con precisione, Fatema.

 

“E tu come fai a sapere tutte queste cose? Tu non sei palestinese, i tuoi sono egiziani.» Lei aveva scosso le spalle: ”Conosco la famiglia di Taisir, ha una sorella che ha un anno meno di me, siamo andate alle elementari e alle medie insieme.» Sia lei che Taisir sono nati qui, avevo osservato sentendomi un poco confortata perché erano nati in un paese in pace, lontani e protetti dalla violenza quotidiana.

“Tutti sono nati qui, tranne il fratello più grande che è nato a Ramallah.» ”Tutti… chi?» ero sorpresa.

“Sono cinque figli: un fratello e una sorella sono più grandi, due sorelle sono più piccole. L’ultima ha otto anni.» Fatema si era messa a ridere per il mio evidente stupore: ”Anche i miei genitori avrebbero voluto una famiglia più numerosa, noi siamo solo tre fratelli.» Solo tre fratelli: io che sono figlia unica, che avrei dovuto dire? Per non parlare delle mie amiche: la sola che ha un fratellino è Ludovica e non sembra particolarmente contenta di questa condizione perché lo definisce sempre con certi appellativi dispregiativi come gnomo malefico o bestia, e sono i più carini.

Abitiamo nella stessa città e andiamo nella stessa scuola e leggiamo gli stessi libri, guardiamo gli stessi film, ascoltiamo la stessa musica eppure sembriamo abitanti di due pianeti lontani che s’ignorano. Solo ora che sono passata in questo altro mondo mi accorgo di tutto quello che do per scontato di trovare in una casa, come la lavapiatti che qui non c’è. Solo adesso che vengo In questo buco di casa dove vivono addirittura due famiglie, mi rendo conto di come la mia presunta normalità, e quella delle mie amiche diventi un lusso che Fatema non può permettersi: possedere uno spazio esclusivo in cui è vietata l’intrusione, perché Fatema ha appena una parvenza di quello spazio nella scatola di cartone con dentro le sue due cose che tiene sotto il letto; per il resto, lei non ha neppure uno scaffale dove mettere i libri, che rimangono chiusi dentro lo zaino o al massimo sono ammucchiati su un piccolissimo tavolo accanto al suo letto, nella camera che divide con i genitori.

In questo pianeta dell’essenzialità, Taisir invece ha il privilegio di una porzione di spazio proprio (una camera a metà con il fratello maggiore) semplicemente perché è un maschio. E questo motivo neppure sfiora me e le mie amiche: la palese e indiscutibile differenza di trattamento tra un ragazzo e una ragazza. Un maschio può, anzi deve avere l’intera stanza per sé come il fratello di Fatema o perlomeno una mezza camera come Taisir, che a quanto mi racconta la mia amica ha un suo scaffale per i libri e i CD e un armadio per quelli che mi viene da definire in termini militari gli effetti personali. Perché qui siamo in un mondo tutto maschile e gerarchico, dove le donne più giovani, le ragazze e le bambine, non hanno diritto a vedere riconosciuta la propria individualità in una dimensione concreta, uno spazio personale in cui proiettare ed esprimere la propria interiorità.

Persino gli abiti, Fatema li tiene nel grande armadio con quelli della madre e del padre. Le femmine sono attaccate insieme in una specie di unico grappolo, come le api intorno alla regina.

“Hai detto che la famiglia di Taisir sta attenta alle tradizioni» le dico. ”Anche le sue sorelle portano l’hijab?» Ho finalmente imparato a pronunciarla correttamente, questa parola.

Ne sono fiera come se sapessi parlare un po di arabo.

“No. Nessuno porta l’hijab in casa sua. Se è per questo non lo porta neppure mia madre, hai visto.» ”Pensavo lo mettesse per uscire.» “No.» Mi scocca un’occhiata divertita: ”Va in giro come te, con i capelli al vento. A meno che proprio non faccia un gran freddo, allora si calca in testa un cappello di lana.» Restiamo in silenzio per qualche istante. Io non oso farle la domanda, ma lei capisce benissimo qual è.

“Io porto l’hijab per una mia libera scelta, non perché qualcuno mi obbliga.» Mi punta gli occhi addosso, e vi leggo una sfida di cui mi sfugge il senso. Non credo di essere io quella da affrontare temerariamente o provocare o stupire, ma in quel momento io sono quello che non è lei, e divento il fantasma di un avversario.

“Per voi occidentali è assurdo che una ragazza osi portare il velo anche qui, dove le donne sono libere di vestirsi come vogliono. Diventa quasi» cerca la parola più adatta, fissandomi con ostilità “un indumento osceno.» Non ho alcuna intenzione di ficcarmi in una faccenda così complicata di cui non so niente, per cui le chiedo semplicemente: ”Lo credi sul serio?» Lei resta qualche istante in silenzio, l’espressione un poco perplessa. Ho il dubbio che si aspettasse da parte mia una difesa d’ufficio delle libertà democratiche e che in quella piccola cucina s’inscenasse la ritualità esasperante di certe discussioni noiose e irrisolte che appaiono in televisione, i discorsi dogmatici condotti da preti o esperti di vario genere, filosofi o politici che pretenderebbero di avere dalla loro parte l’assoluta verità.

Non ho questa presunzione, io, che non so niente della religione di Fatema, né delle abitudini della sua famiglia e che approdo in questa cucina in cui aleggia sempre il profumo di qualche spezie molto forte, un odore che mi resta nel naso per tutto il viaggio di ritorno, fin quasi sulla soglia di casa mia. Io non sono un prete né un filosofo, sono piuttosto una viaggiatrice interplanetaria.

“Non sono io a crederlo, sono gli altri ad attribuire una connotazione sessista all’hijab.» Il tono si è calmato, è tornata la Fatema dalla voce dolcemente sottile. ”Comunque io lo indosso per mia scelta, perché voglio mostrare che sono orgogliosa della mia appartenenza islamica.» Ho poggiato una guancia sul palmo aperto e aspetto che prosegua. È la prima volta che sento una ragazza islamica parlare della propria fede in prima persona, è una scoperta sentirmi dire proprio da lei che il velo è un segno di appartenenza da esibire con gioia, come le kippà dei ragazzi ebrei a scuola o il crocifisso al collo di alcune mie compagne.

Niente a che vedere con quello che Fatema, senza alcuna timidezza, definisce connotazione sessista, lasciandomi di stucco per una definizione così complicata ed esplicita, lei di solito tanto cauta nell’esprimersi. Ma tutto quanto è collegato all’hijab, propriamente o impropriamente, sembra scatenarle un’intima asprezza che le fa uscire le parole in fretta, con foga: “Non è come vi lasciano credere. L’Islam incoraggia le ragazze a studiare e a migliorarsi, a essere rispettate come persone.» “Ci credo» le dico. Spero che il mio tono riesca a convincerla ad abbandonare ogni difensiva. Con me non serve, non la sto giudicando. So di toccare un tasto molto delicato, ma io sono fatta così. Non posso tacere, e allora le faccio notare con un tono d’evidenza: ”Però, dai, Fatema! Lo sappiamo tutti che ci sono paesi nel mondo dove non è affatto così, dove per le ragazze la vita è durissima. Non mi dirai che in Iran sono tutte felici di andare in giro vestite di nero da capo a piedi!» Aggrotta la fronte, mi guarda piegando un po la testa. Il foulard si tende come una vela sul collo mentre sbuffa: “Ah, no certo! Ma è chiaro, quello è il fondamentalismo… E poi… ci sono paesi al mondo dove le donne sono trattate come spazzatura» mi dice, provocatoria, ”e sono paesi cristiani.

Questo vuol dire che tutti i cristiani odiano le donne? Se accendo il televisore, vedo solo donne poco vestite, sembrano prostitute, ma non è la realtà, no? È questo lo specchio della vostra società? È quello che le donne sognano di essere?» Scuoto la testa: “È solo una specie di luna park. Quella si chiama voglia di esibirsi, Fatema, di farsi notare.» Lei si scalda: ”Ma non hanno dignità! Offendono se stesse e le altre.» Abbassa gli occhi, furiosa: “Io sono offesa, quando le vedo.» ”Per delle cretine che mostrano le tette, non vale la pena che tu ti offenda!» Lei alza lo sguardo e si porta una mano alla bocca, come se quella parola l’avesse pronunciata lei.

Mi accorgo che è sul punto di scoppiare a ridere e la provoco ancora: “Contente loro! Quelle non hanno altri argomenti che mostrare tette e culo.» Mi batto una pacca sul sedere e Fatema non resiste più, scoppia in una risata che cerca di trattenere portandosi tutte e due le mani alla bocca. Tutta quella rabbia contro le donne offese è sparita di colpo, e, Fatema ride proprio come me quando ero più piccola di fronte a una parolaccia. Ho l’improvvisa certezza che tutto quello che mi ha detto finora, compresa la strana frase sulla connotazione sessista, non sia affatto farina del suo sacco.

Forse l’ha sentita pronunciare da qualcuno che, come direbbe mamma, sa concettualizzare l’hijab. Smettiamo di ridere e dico: “Allora, facciamo fuori tutti gli esibizionisti?» Spalanca gli occhi, come se davanti a sé si profilasse una simile opportunità: ”Ma che dici! Mi hai preso per una fanatica?»

La guardo in modo apertamente ironico: “Mah, non si sa mai. Hai continuato a dire voi, voi… Ma voi chi? Con chi mi metti insieme?» Arrossisce un po. E la prima volta che vedo salirle il calore sulle guance, che si accendono con due chiazze rosa scuro proprio sugli zigomi: ”Voi, cioè l’Occidente, i cristiani…» A questo punto, protesto con vivacità: “Ma io non sono cristiana! Invece, anche tu sei italiana, come me. E ti piace la musica che ascolto io. E ti piacciono le storie che piacciono a me. Siamo molto più noi io e te che io e una cretina della televisione.» ”Hai ragione» ammette.

Il rossore è defluito lasciandole appena una traccia sulle guance. Finalmente mi guarda senza più alcuna ostilità: quel sorriso antipatico e freddo scompare, sembra la scia di una cometa inghiottita dalla luce del sole.

 

***

Capitolo 5.

 

“Ramallah!» esclamo, abbandonando il mio corpo all’abbraccio del divano che cigola un po come se si lamentasse del catapultarsi inaspettato del mio peso morto.

Mamma ha un sussulto: “Rachele.» Alza lo sguardo da sopra gli occhiali da lettura e mi guarda più sorpresa che irritata: ”Non puoi sederti in maniera meno devastante?» Mi rendo conto che la mia caduta verticale le ha scompigliato certi fogli che teneva sul cuscino accanto a sé. Mi sollevo appena e cerco di rimediare, ma lei ha già allungato le mani e ricompone i fogli in una specie di pila che sbatte sul tavolo, come fa la nostra professoressa quando raggruppa i compiti in classe.

“Scusa» le dico, porgendole un foglio che mi era rimasto sotto una gamba, un po spiegazzato. Mamma emette un breve sospiro, ma non fa commenti. Allungo la mano verso il telecomando, e sto per premere il tasto d’accensione, quando lei mi dice: “Che c’entra Ramallah?» ”Niente.» Accendo il televisore e comincio a girare velocemente tra i programmi. Mamma si toglie gli occhiali con cautela: si ostina a portare una curiosa montatura all’apparenza fragilissima, con le stanghette così sottili che le deve sfilare come fossero nastri, e non vuole saperne delle catenelle che portano certe professoresse, in modo da mollare gli occhiali senza preoccuparsi di riporli nella custodia come invece sta facendo lei, mentre mi chiede: “Come sarebbe a dire: niente? Ti sei buttata sul divano all’urlo di ‘Ramallah’ Qualcosa vorrà dire.» È l’ora più futile per la televisione: ovunque mi sintonizzi, vi sono telequiz e giochi. Mi aggrappo a un canale musicale e cerco di capire che video è, mi pare di non averlo mai visto. Mamma prosegue, imperterrita: ”È una città palestinese.»

“Lo so cos’è.» ”È diventata un modo di dire?» s’informa lei, incuriosita.

Allora mi viene da ridere, e spengo il televisore: “Ma no. Ci vivevano delle persone che ho conosciuto.» “Ah.» Mamma poggia il mento sulla mano chiusa a pugno, protesa verso di me. I suoi occhi chiari mi scrutano, ma si sforza di non essere intrusiva, lo vedo da come si frena e lascia uscire di bocca solo un breve commento: ”Davvero?» Annuisco, mi accomodo meglio sul divano, la testa incassata nello schienale imbottito, le gambe sollevate sul poggiapiedi. È talmente spazioso, questo divano, che mi è capitato parecchie volte di addormentarmi qui sopra. Da piccola, papà o mamma mi prendevano di peso e mi portavano a letto: ora sarebbe un’impresa perché ormai ho superato mamma in altezza. Se mi capita di assopirmi qui dopo cena, loro devono svegliarmi e accompagnarmi in camera come si fa con un ubriaco che sbanda, facendomi appoggiare su una spalla, su un braccio.

“Uno faceva il professore, lo hanno cacciato perché non firmava una cosa contro l’OLP.» Gli occhi di mamma s’incupiscono di un’istantanea preoccupazione, mi sembra di leggerle nel pensiero la domanda di come io possa conoscere un uomo del genere, perciò mi affretto a rispondere: ”È il papà di un mio compagno di scuola.» È stupefacente come mia madre nel lavoro possa avere tanta faccia tosta e freddezza e imperscrutabilità, quando con me è un simile libro aperto dove leggo l’immediato sollievo davanti a questa mia semplice rivelazione. Annuisce, mentre aspetta che io prosegua senza incalzarmi con fastidiose domande. Ha imparato a non farlo da pochissimo tempo e devo dare atto al suo autocontrollo se si attiene alle promesse di non abusare della mia confidenza, di non essere invadente.

“Perché l’esercito ha occupato la città, ha cacciato la gente?

Con quale diritto? Si sta parlando di Israele, no?» “Si. È una storia tormentata.» Mamma si raddrizza un po, accavalla le gambe e si porta le mani in grembo. Ho il terribile sospetto che attacchi una delle sue disquisizioni sulla situazione politica, in questo caso internazionale.

“Credo che qualcosa tu sappia già» mi dice ”sul conflitto mediorientale. Il problema è nato quando Israele è diventato uno stato a tutti gli effetti…» Lo sapevo che l’avrebbe presa alla larga. Ma io voglio accuratamente evitare una dissertazione geopolitica, perciò la interrompo bruscamente: “Mamma! Che succede ora?» Mi guarda perplessa, resta qualche istante in silenzio, poi emette un sospiro e abbassa gli occhi sulle mani, come fa sempre quando riflette: ”È difficile da spiegare se non si guarda il passato. A mettere giù le cose in modo semplice, diciamo che c’è un problema irrisolto di due popoli e un’unica terra dove succede il peggio, perché se un male non si cura, si acuisce.» Alza lo sguardo davanti a sé, assorta, parla sommessamente con un tono un po da predicatrice: “La miseria e il dolore portano violenza, che produce altra violenza e altro dolore e così via.» ”Perché nessuno fa niente?» Il mio tono di voce è esasperato, come se la colpa di tanta spaventosa inettitudine fosse di mamma. Lei aggrotta la fronte, sembra infastidita dalla mia veemenza e spiega, un po sulla difensiva: “In realtà si fanno le cose possibili, con le armi della politica…» Sbuffo: ”Si, intanto la gente muore o deve andarsene, intanto comandano i generali che radono al suolo le case di gente indifesa… Israele se ne frega della politica e della tua cara democrazia, altro che!» Alla fine, ho alzato la voce e al mio grido angosciato segue qualche istante di rabbioso silenzio in cui mi rendo conto che ho esagerato, che sono stata davvero odiosa.

D’un tratto è come se mi vedessi da fuori: una ragazza saccente e antipatica, che interroga sua madre come se volesse coglierla in fallo. Da quando sono diventata così esasperante?

Mi riscuoto, sollevando un po la testa: guardo mia madre in faccia e mi accorgo della sua espressione stanca, tirata. La mia collera è scomparsa con quella breve esplosione, di fronte all’espressione stupita di mamma, che osserva: “Non sapevo che tu avessi tanto a cuore la causa palestinese. Ne avete discusso a scuola?» Mantengo per un poco ancora l’espressione imbronciata, ma parlando lascio defluire la diffidenza e il tono si fa conciliante.

Mi giro una ciocca di capelli tra le mani mentre racconto l’inizio di tutto: l’incontro a scuola con l’esperta di ebraismo che ci ha spiegato la storia millenaria degli ebrei, della lunghissima diaspora e della nascita dello Stato d’Israele, mai accettato dai paesi arabi circostanti: “Ti dà l’idea di una specie di riserva indiana, il piccolo stato circondato dai nemici che vogliono farlo fuori.» Si risolleva un’increspatura di rabbia nel mio tono accorato: “Invece la faccenda non è in questi termini. Israele è una potenza militare che cerca di conquistare territori e far fuori tutti i palestinesi.» Mamma resta qualche istante in silenzio, poi esclama, come fulminata da un’idea: ”Voglio farti vedere una cosa.» Mi alzo controvoglia dalla comodissima posizione che ormai avevo assunto. Non vorrei con la mia veemenza essermi rovinata questo scorcio di tardo pomeriggio lasciando che mamma mi stordisca con le sue chiacchiere idealiste. Perciò la seguo nello studio caricandomi di una buona dose di ostilità in modo da respingere ogni accenno d’indottrinamento.

Immagino che mi metta in mano un saggio sull’argomento o mi mostri qualche articolo, invece mamma si toglie le scarpe, e mentre le chiedo, scandalizzata: “Ma che fai?» solleva ben sopra il ginocchio la gonna troppo stretta, per potersi arrampicare su una sedia e raggiungere la parte alta dello scaffale. Non è proprio un gesto atletico, il suo: la sedia traballa e lei mi chiede di reggere la spalliera, mentre allunga le mani verso uno scatolone verde.

“Guarda tu che polvere, qui nessuno arriva mai a pulire» commenta in una specie di autorimprovero, mentre mi allunga la scatola per poter scendere senza impacci.

Mi aspettavo un certo peso, invece la scatola è sorprendentemente leggera: resto lì con questo contenitore polveroso tra le mani e osservo mamma scendere con gran cautela, come potrebbe, fare un gatto dalla cima di un albero.

Mentre s’infila le scarpe, mi dice: “Apri pure il coperchio.» Devo avere l’espressione di Pandora quando scoperchiò il famoso vaso: ci sarà dentro qualche potere misterioso, la chiave che mi farà capire tutto?

Ci siamo sedute sul tappeto dello studio, io a gambe incrociate, mamma con le sue ripiegate di lato. Non dev’essere una posizione tanto comoda per lei, ma sul momento non dà segni di insofferenza. Estrae dallo scatolone una busta ingiallita dal tempo, e legata con un elastico. Sopra, c’è scritto qualcosa, ma non vi presto troppa attenzione, perché lei toglie in fretta l’elastico e apre la busta.

“Prima o poi devo mettere un po d’ordine» sta dicendo, come si sentisse in dovere di giustificarsi con me che trovo già molto ordinato lo scatolone zeppo di buste chiuse. Ogni busta, evidentemente, contiene delle foto come quelle che mamma mi squaderna ”sotto gli occhi: fotografie dai colori che sembrano sporchi, come se sopra l’immagine fosse stata spruzzata della cenere. Mostrano paesaggi piuttosto brulli, con case basse e squadrate, alberi un po stenti, gente sorridente.

 

“E questa chi è?» Sollevo una foto che ritrae una ragazza in jeans e camicia militare. Mamma emette una specie di risolino: ”Non la riconosci? E zia.» “Zia?» Sono esterrefatta: ”Con questi capelli ricci?» “Ora se li liscia» spiega mamma. ”Via, si vede che è lei: guarda l’espressione del viso, gli occhi.,.» Osservo la ragazza nell’immagine e provo a sovrapporla a quella attuale di mia zia: una donna con un caschetto di capelli neri e una figura lontana anni luce da quella quasi filiforme della ragazza in foto. Sembra che zia abbia subito una completa metamorfosi.

“È… travolgente!» esclamo, piegandomi un poco in avanti, vacillando per la scoperta. Mia madre mi porge un’altra immagine: qui c’è una ragazza in primo piano, i lunghi capelli castano chiari e riccioluti che piovono sulle spalle e incorniciano il viso rotondo, aperto in una risata felice. ”Chi è?» le chiedo, stupita.

“Come sarebbe chi è? Sono io.» Sbarro gli occhi e apro la bocca come potrebbe fare l’attrice di un film di fronte a un inaspettato colpo di scena: ”Tu? Ma scherzi?» Mia madre si acciglia: “Via, Rachele, non esagerare con la sorpresa. Sei un tantino offensiva, non credi?» ”Ma io non esagero!» Ho ancora gli occhi spalancati dalla meraviglia: “Tu! Non ci credo! Ma… non le somigli!» ”Davvero?» Mamma lancia un’occhiata al ritratto. Sta smazzettando le foto, ne trova altre due con lei da giovane e me le passa, aspettando la mia reazione: in una, indossa una salopette di jeans ed è fotografata davanti all’ingresso di una casa bianca, in un’altra è in mezzo a un gruppo di ragazzi e ragazze, tutti allacciati tra di loro come fossero una squadra sportiva.

Non riesco a staccare gli occhi da queste immagini: mia madre è una ragazza magra e dall’aspetto atletico, le braccia muscolose e abbronzate che spuntano da una maglietta senza maniche, le gambe che sembrano più lunghe, forse perché sono più magre, e ai piedi quelle che non le ho mai visto indossare né immaginerei di vedere: un paio di vecchie scarpe da ginnastica senza lacci. Mia madre, qui, non rassomiglia neppure a se stessa bambina, almeno come appare nelle foto in posa della prima comunione che nonna ha sistemato in certe massicce cornici d’argento; e neppure alla persona, che è già molto più simile a lei, ritratta insieme a papà, nelle foto scattate durante i loro viaggi o il giorno del matrimonio. Questa ragazza selvaggia, dalla pelle scura e i capelli ribelli, i jeans strappati e le scarpe sporche sembra una variabile impazzita dello sviluppo di mamma. Ho l’impressione che questa foto testimoni una fase della sua vita in cui mia madre è stata sostituita da una fantastica replicante.

“Ma sai che forse hai ragione?» sta dicendo mentre osserva la foto che ho in mano. ”Non mi somiglia molto. Somiglia più a te.» Mi scocca un’occhiata maliziosa, mentre io rimango esitante, perché una volta tanto sono ben felice di sentirmelo dire. Questa ragazza nella foto è molto più che carina: per usare un termine esatto, direi che è radiosa.

“Quanti anni avevi?» le chiedo a bassa voce, accorgendomi che il mio tono è emozionato.

“Diciannove, mi pare. Si, era il ‘70.» Mentalmente faccio un calcolo frettoloso, e la distanza di tempo mi risulta vertiginosa: trentacinque anni fa.

“E dove sei? In campagna dai nonni?» ”No, tesoro. Sono in Israele.» Di colpo, mi gira la testa e devo appoggiarmi a qualcosa, altrimenti rischio di finire a faccia in avanti, ammesso che riesca a ripiegarmi su me stessa con scioltezza tale da posare il naso sul pavimento.

“Che c’è? Ti senti male?» Il tono si accende subito d’ansia e mamma s’affretta a sorreggermi, anche se non è proprio stabilissima, così seduta come una damina su un praticello.

Perciò traballiamo rischiando di cadere tutt’e due in modo un po goffo, quando io mi raddrizzo, sostenendo mia madre che sta pendendo pericolosamente di lato. Scoppio a ridere e la mia risata la tranquillizza. Mamma si riappoggia alla mano, commentando allegra: “Se finisco sdraiata per terra, chi mi tira più su? Ci vuole un argano.» Ne approfitto per scrutarla, cercando d’intravedere sotto il casco di capelli color mogano, sotto le pieghe del viso, le tracce di quella ragazza affascinante. D’un tratto realizzo che quell’immagine solare è racchiusa nei suoi occhi, più chiari, più brillanti rispetto ad allora. Mi accorgo come dentro il suo sguardo sia compresa tutta lei, con la sua vigorosa radiosità.

“Sono sconvolta» le dico. “Si parla d’Israele ed ecco, ci sei stata da giovane con tutta questa gente… Perché non me lo hai mai raccontato?» Alza una spalla: ”Perché non posso farti il resoconto di tutta la mia vita, no? Finora eri piccola, non avevi bisogno di sapere quello che tua mamma ha fatto da ragazza, viaggi e avventure…» “Ragazzi?» la provoco, ma lei svicola con abilità: ”Qualcuno.

Ma niente di che. Lì per esempio eravamo tutti amici…» “Figurati! Secondo me eri andata in Israele per un ragazzo.