I meriti misconosciuti di papa Montini

Giovanni Battista Montini fu eletto papa (alla quinta votazione) il 21 giugno 1963 e prese il nome di Paolo VI. Era nato a Concesio (Brescia) nel 1897, figlio di un editore di giornali contraddistintosi per il grande impegno politico e sociale. Montini era stato (dal 1937) uno stretto collaboratore di papa Pacelli ma quando nel 1954 venne nominato arcivescovo di Milano si mormorò di suoi dissensi con Pio XII. Partecipò in maniera assai attiva ai lavori del Concilio vaticano II convocato dal suo predecessore Giovanni XXIII. Promosse la riappacificazione con la Chiesa patriarcale di Costantinopoli e la revoca della reciproca scomunica del 1054. Nel 1964 con un viaggio in Terra Santa aprì la strada alle missioni dei pontefici fuori dai confini italiani. Si recò anche a Bombay, Bogotà e nella sede delle Nazioni Unite a New York. Nel 1967, con l’enciclica Populorum progressio, sostenne che la pace sarebbe stata irraggiungibile finché il mondo fosse stato diviso tra poveri e ricchi. Nel 1968 emanò l’enciclica Humanae vitae, con la quale ribadì la dottrina della Chiesa sulla regolazione delle nascite. Ampliò il collegio cardinalizio ed escluse dal diritto di essere eletti papa i cardinali ultraottantenni. Avviò una politica di distensione con il mondo comunista. Nel 1978, alla viglia della morte, si prodigò per salvare Aldo Moro dal «carcere delle Brigate rosse». Questo, in sintesi, il suo profilo storico. Ma – ovviamente – Paolo VI fu molto, molto di più.

In occasione della sua santificazione, lo storico Giovanni Maria Vian (che è stato direttore dell’«Osservatore romano») ha pubblicato un libro, Montini e la santità, in cui lo definisce addirittura «un papa dimenticato». Dimenticato, secondo Vian, «per l’incomprensione sofferta durante i difficili ma decisivi quindici anni del suo pontificato (1963-1978)» e soprattutto «per la rapida eclissi». Eclissi che si spiega con il difficile confronto tra Paolo VI, il suo predecessore Giovanni XXIII e il successore (suo e di Albino Luciani) Giovanni Paolo II: due papi popolarissimi. Da una parte, quello tra lui e Angelo Roncalli fu un confronto quasi insostenibile, «per la forza dell’immagine rappresentata dal “papa buono” dopo il ventennio pacelliano»; dall’altra, la comparazione con Karol Wojtyła fu ugualmente molto problematica, per la durata del lunghissimo regno e per la «personalità planetaria del primo pontefice non italiano da oltre quattro secoli e mezzo». Vian ricorda, ad ogni buon conto, che era stato papa Roncalli ad indicare se non proprio a designare Montini come suo possibile successore. E, quanto alla decisione di prendere un doppio nome, Giovanni Paolo, lo stesso Vian mette in risalto come Luciani prima e Wojtyła poi vollero sottolineare con quella scelta «un tentativo di composizione ideale tra i due pontefici del Concilio». Non solo Giovanni XXIII ma anche – e qui sta la sottolineatura – Paolo VI. Fu poi Wojtyła ad avviare nel 1993 la causa di canonizzazione di Paolo VI sollevando «decisamente il velo dell’oblio» che fino a quel momento aveva avvolto Montini. Infine papa Francesco fece un esplicito riferimento a Montini nel corso di una delle ultime riunioni precedenti il conclave in cui sarebbe stato eletto papa, lo ha beatificato nel 2014 e oggi non fa mistero di considerare Paolo VI come il predecessore a cui «più si ispira». Un intreccio che colloca il papa bresciano al centro di una tra le fasi più complesse della storia della Chiesa.

Di particolare interesse sono le considerazioni di Vian su Montini e il suo modo di intendere il culto di Maria. Montini non fu un «mariologo». Ma, prima di diventare papa, quando era arcivescovo di Milano, si dedicò a una serie di riflessioni – pubblicate poi, a cura di René Laurentin, in Sulla Madonna. Discorsi e scritti (1955-1963) – sulla madre di Gesù Cristo. La grande preoccupazione di Montini, scrive Laurentin, fu di «situare Maria al suo posto autentico nella vita della Chiesa, senza eccessi o negligenze, senza enfasi o minimizzazioni». Montini non volle far suo, prosegue Laurentin, «il trionfalismo del movimento mariano all’ultima moda». Che genere di moda? Secondo Laurentin (e Vian concorda con lui) negli anni Cinquanta «la mariologia o il fervore mariano non furono privi di eccessi o di esagerazioni». Fu perciò salutare che Montini si preoccupasse di «ritornare alle origini, di ristabilire l’equilibrio» del culto mariano. In un discorso del 16 maggio 1961 l’allora arcivescovo di Milano denunciò esplicitamente questo genere di eccessi: «Alcune volte la fantasia associa alla Madonna dei titoli che non sarebbero molto convenienti; in bassa Italia ho trovato persino una Madonna… delle galline!» denunciò. Talvolta la nostra pietà si fa «interessata», proseguì Montini; diventiamo «devoti della Madonna quando v’è un esame da sostenere, o abbiamo mal di testa, o una malattia o un’operazione da superare, e così via; allora è la Madonna dei miracoli, la Madonna delle grazie». Questo «è bello, ma è un po’ una devozione che […] tira giù la Madonna». I nostri bisogni, proseguiva Montini, «soverchiano l’amore e la dedizione che dobbiamo a Maria Santissima». In questo modo, quello della fede diventerebbe nient’altro che «un mutuo soccorso, un’associazione contro le disgrazie».

Importante fu anche, secondo Vian, l’intervento di Paolo VI in materia di proclamazioni di santi e beati. Chi conoscesse la complessità e il rigore dei processi che precedono beatificazioni e canonizzazioni, sa bene – disse Montini – che la Chiesa è «cauta ed esigente» nel pretendere le prove delle virtù in grado «eroico». Un raggiungimento delle prove «superlativo, eminente, comprovato da inconfutabili testimonianze, analizzato con rigore critico e con metodo obiettivamente storico, anzi convalidato da due verifiche: una negativa, quella così detta del “non culto”, la quale assicura i giudici del processo non esservi l’influsso di qualche eventuale mistificazione popolare; l’altra, quella positiva dei miracoli, quasi come attestato trascendente d’un divino beneplacito all’eccezionale riconoscimento della santità che la Chiesa intende venerare nei singoli e singolari candidati agli onori degli altari». Al riparo da «considerazioni politiche».

Molto «significativo», in rapporto a ciò, appare «il blocco imposto alle cause dei martiri della guerra di Spagna (circa settemila tra sacerdoti, religiosi, suore e seminaristi, mentre mancano statistiche per i laici)». Alla fine degli anni Cinquanta, ricorda Vian, cominciarono a giungere a Roma i processi informativi, ma subito dopo l’elezione di Paolo VI vennero impartite alla congregazione disposizioni, «non rese note», che di fatto sospesero l’iter delle cause. Lo storico Justo Fernández Alonso ha scritto che all’origine della decisione, sicuramente riconducibile a Paolo VI, ci furono «motivi di opportunità, tra cui la convenienza di lasciar passare un prudenziale lasso di tempo». Un lasso di tempo «che permettesse di contemplare con più obbiettività gli avvenimenti della Spagna all’epoca della persecuzione». Furono questi i motivi che, scrive Alonso, «consigliarono di rallentare il corso di quei processi». Tale decisione spiacque ad ogni evidenza al dittatore Francisco Franco il quale da quelle beatificazioni e canonizzazioni avrebbe tratto legittimazione per il proprio regime. Tutto ciò ebbe grande importanza, prosegue Vian: la volontà di non riaprire polemiche e di evitare strumentalizzazioni politiche da parte franchista spiegano la decisione di Paolo VI. Ad inquadrare la cui ostilità a Franco va aggiunto che, quando era ancora arcivescovo di Milano, Montini si era visto rifiutare dal capo dello Stato spagnolo una pubblica domanda di clemenza per un giovane oppositore minacciato di condanna a morte.

Emerge, nelle pagine di Vian, la volontà da parte di Montini di trovare costantemente un equilibrio nella mediazione tra tendenze diverse nella storia della Chiesa, la sua convinzione della necessità di sottolineare più gli elementi di continuità che quelli di discontinuità tra i pontificati di Pio XII e di Giovanni XXIII. E infine la sua intenzione di rispettare le procedure senza strappi eccessivi o inutili. Va anche sottolineata la vicenda personale di Montini, «per un quindicennio tra i primi collaboratori di Pio XII» e, dopo l’«allontanamento a Milano» (dove entrò come arcivescovo il 6 gennaio 1955), nominato cardinale da Giovanni XXIII al suo primo concistoro nel 1958, fu certamente legato alla memoria di entrambi i suoi predecessori.

Nell’elenco dei successori di Pietro da molti secoli, ricorda Vian, sono tradizionalmente considerati santi, «e per di più martiri», tutti i vescovi di Roma fino alla cosiddetta pace costantiniana. Poi santi quasi tutti quelli fino all’età di Gregorio Magno, «e si tratta evidentemente di una sorta di idealizzazione agiografica fondata sulla mitizzazione delle origini». Appare quasi come «qualcosa di scontato» che tutti quei papi fossero considerati santi. Del resto in pieno Medioevo Gregorio VII sostenne che «il romano pontefice, se sia stato ordinato canonicamente, per i meriti del beato Pietro senza dubbio diviene santo». Poi, a poco a poco, la santità papale di fatto scomparve per riapparire «non a caso» dopo la perdita del potere temporale nel 1870 («e in un trasparente tentativo di compensarla») con il riconoscimento formale del culto di alcuni pontefici medievali da parte di Pio IX e soprattutto di Leone XIII. Ma il vero rilancio si colloca alcuni decenni più tardi, quando Pio XII tra il 1951 e il 1954 beatifica e canonizza Pio X e nel 1956 proclama poi beato Innocenzo XI. Nel 1954 papa Pacelli introduce la causa di Pio IX che peraltro proprio Roncalli avrebbe voluto beatificare. Ma per questa beatificazione si dovrà attendere l’anno 2000 allorché verrà appaiata a quella di Giovanni XXIII.

«Complesso» è giudicato da Vian il rapporto di Paolo VI con Pacelli e Roncalli. Aveva incontrato il secondo nel 1925 e il primo nel 1930. Li conobbe «da vicino» ma – eletto, nel 1963, loro successore – negli anni finali del Vaticano II, Paolo VI, per fermare la proposta di canonizzare in concilio Giovanni XXIII (in evidente contrapposizione a Pio XII), dispose l’avvio delle cause di beatificazione di entrambi i papi «per via normale». Questo per evitare – sono parole dello stesso Montini – «che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione». Alla proposta della «sinistra» conciliare di arrivare ad una proclamazione di santità di Giovanni XXIII da parte del concilio stesso appena due anni dopo la morte di Roncalli («proposta interpretata generalmente come canonizzazione della tendenza progressista degli stessi proponenti, una sorta di implicita contrapposizione tra quinquennio giovanneo e ventennio pacelliano e alla stregua di un superamento della prassi ordinaria delle cause» precisa Vian) Paolo VI reagì con l’annuncio dell’introduzione, secondo la prassi consueta, di entrambe le cause, quella di Pio XII e quella di Giovanni XXIII. In seguito quella di Pio XII – contestato per non aver preso sufficientemente le distanze dal regime hitleriano – si arenerà e, al momento della beatificazione di Roncalli, il nome di Giovanni XXIII sarà, come si è detto, «bilanciato» da quello del papa ostile al Risorgimento, Pio IX.

Quanto a Wojtyła, verrà canonizzato nel 2014 – assieme a papa Roncalli – poco tempo dopo la sua morte, dal successore Benedetto XVI. Ma è con Paolo VI che «un cristiano divenuto papa viene proclamato santo assieme ad altre figure esemplari». Ed è la prima volta.