La «congiura» di Tommaso Campanella

Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo, in Calabria, nel 1568. Il nome Tommaso, in onore del santo, lo prese nel 1582 quando entrò nell’ordine domenicano. Nel 1591 fu arrestato una prima volta (e l’anno successivo condannato) per la sua mancanza di ortodossia alla dottrina di san Tommaso d’Aquino. Un anno di carcere e poi iniziò un lungo viaggio per sfuggire all’inquisizione: Firenze, Bologna, Padova. Nel 1594, secondo arresto (per aver disputato questioni di fede con un «giudaizzante», senza denunciarlo). Nel 1595, terzo arresto, stavolta per «intelligenza con i protestanti». Nel 1597, quarto processo, in questa occasione perché «eretico». Ogni volta riesce, per così dire, a cavarsela. Fino al per lui fatidico 1599.

Il 10 agosto di quell’anno due cittadini di Catanzaro, Fabio di Lauro e Giovan Battista Biblia lo denunciarono quale «mente di una cospirazione», guidata da Dionisio Ponzio, diretta a «rivoltare ed ingannare i popoli» contro il re di Spagna Filippo III. Questo il punto di partenza di un affascinante libro di Saverio Ricci, Campanella. Apocalisse e governo universale. I due denuncianti erano personaggi «non proprio esemplari», rifugiati nel convento dei frati zoccolanti «poiché soverchiati da debiti e reati»: dichiararono di aver «fintamente aderito» al complotto antispagnolo «con il proposito di svelarlo». Il re di Spagna era accusato dai cospiratori di essersi servito di ministri «avidi e malvagi». Alla cospirazione avrebbe dato man forte il papa Clemente VIII che avrebbe deciso di sottrarre quelle terre alla «tirannia» spagnola, dando a esse «libertà di repubblica» purché i popoli meridionali «riconoscessero la Chiesa come loro signora» e fossero disponibili a versarle un «mediocre contributo». Tutto qui? No, l’intero piano sarebbe stato ordito d’intesa con «il Turco», cioè i musulmani che avrebbero dato il loro apporto a Chiesa e calabresi nella sollevazione antispagnola. Due emissari dei rivoltosi sarebbero stati inviati alla flotta turca al largo delle coste calabresi affinché alcune loro navi si accingessero a coprire i ribelli che avrebbero occupato Catanzaro, Squillace, Nicastro, Castelvetere, Locri e Reggio.

Eppure – contraddizioni interne alla Chiesa – la denuncia dell’intrigo venne a fine agosto dal vescovo di Catanzaro che chiese di perseguire i domenicani implicati. Le denunce giunsero al viceré Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos e, suo tramite, a Filippo III. Lemos non credette alla concertazione tra il papa e i turchi («me paresce» scrisse «que es grande disparte mesclar al papa con el turco»; e ancora: «gran vellaqueria era meter al papa en esta dança»). Fu istruito lì per lì un processo per eresia e ribellione contro Campanella, Dionisio Ponzio, Giovan Battista Pizzoni e altri frati. Il 6 settembre Campanella fu preso a Castelvetere. I soldati che lo catturarono, racconta Ricci, «gareggiavano a straziarlo, ma gli chiedevano di nascosto benedizioni e segreti rimedi; se ne sarebbero finanche spartite le vesti, proprio come nella Passione del Cristo, ma per verificare se avessero effetti taumaturgici, il che testimonia della fama del filosofo Campanella anche quale guaritore». Il viceré raccomandò di «trattare rispettosamente i vescovi che si fossero scoperti complici della congiura, dicendosi certo, in una lettera al sovrano, che ove quegli ecclesiastici si fossero dimostrati colpevoli, il papa o glieli avrebbe affidati o avrebbe loro inflitto un castigo esemplare». Ordinò anche agli inquirenti di «non mettere agli atti le accuse contro vescovi e nobili» e di «comunicargliele in cifra». Appare evidente, nota Ricci, «la sua intenzione di ridimensionare il coinvolgimento di alte personalità o di farne uso discreto». Contro i vescovi nominati nelle deposizioni non saranno avviati procedimenti giudiziari. Lo stesso accadrà a Roma. Nei confronti degli ecclesiastici «si sarebbe proceduto dandone notizia al pontefice, ora probabilmente imbarazzato dal fatto, sapientemente esibito, che i cospiratori avevano preteso di agire in suo nome».

Ma torniamo a Tommaso Campanella. Nel processo gli viene attribuito il piano di un’insurrezione diretta contro il sovrano «per tutto il regno». A Stilo Campanella avrebbe fissato la capitale della sua «repubblica» nella quale si sarebbe stabilita «libertà di vivere senza conoscere Dio né Chiesa» e il filosofo si sarebbe offerto «messia della verità e della libertà». Fu però subito chiaro che Clemente VIII intendeva sottrarre gli imputati domenicani alla giurisdizione secolare anche nel caso in cui le corti fossero state assistite da un delegato del nunzio. Copie degli interrogatori dovevano essere spedite a Roma e si sarebbe dovuto procedere «d’intesa con i vescovi con segretezza e diligenza». Si trattò, secondo Ricci, di una «svolta decisiva», dal momento che nella trattazione della vicenda si segnalava la volontà romana di applicare al caso calabrese la «più rigorosa osservanza della normativa vigente» nel Sant’Uffizio. D’altra parte, «l’istigazione esercitata sugli imputati ecclesiastici ad abbondare nelle accuse e confessioni di eresia, lasciando balenare la possibilità del deferimento al Sant’Uffizio, aveva già trovato sponda in quanti, anche laici, erano persuasi che l’ammissione di quel reato li avrebbe assicurati a una giustizia più equanime». Strano processo. L’inchiesta «ne risultò vieppiù intorbidita». Anche dal procedimento contro i laici intanto arrestati, sottoposti a torture e pressioni, venne indirettamente confermato il ruolo di Campanella nell’arruolamento di congiurati e nella ricerca di una «intesa col Turco». Il vescovo di Cosenza Giovanni Battista Costanzo disse di aver previsto che «un giorno questi frati calabresi, harebbono fatto alcun grande eccesso per la loro scelerata vita»; ancora tremando per l’apparizione della flotta turca evocata dai congiurati e infine avvistata, scrisse al Sant’Uffizio che quei frati avevano concepito «una delle maggiori sceleraggini che sia stata commessa da molti secoli in qua». Tra l’altro il filosofo domenicano fu accusato anche di voler prendere tra le otto e le dieci mogli ammazzando prima i loro mariti e di aver intenzione di «tener un seraglio nel castello di Stilo».

Tornando alla dimensione politica del caso, l’accusa più insidiosa ebbe per oggetto un libro del filosofo: La monarchia di Spagna. In esso Campanella stabiliva fin dall’inizio che l’unica monarchia universale cristiana possibile avrebbe dovuto essere «dipendente dal papato». Essa doveva essere frutto di un innesto tra burocrazia imperiale e burocrazia ecclesiastica. Ma non è questo, o solo questo, che attirò sospetti sul libro. Fu piuttosto la parte destinata alle cospirazioni. Là dove Campanella – spiega Ricci – parte dalla premessa che «le congiure di più persone, se non si pongono subito a effetto, vengono facilmente scoperte» e «sono destinate del pari a fallire quelle che non abbiano un santo scopo di giustizia». Quelle per giusta causa, organizzate da «uomini da bene», anche se «tardive» non vengono scoperte facilmente. Ma se una congiura, pur avendo giusta causa, è frutto dell’accordo di pochi «e non buoni», e non viene presto eseguita, «è presto svelata». A Campanella appare «più potente» la congiura «ordita da un’unica mente capace di dissimulare le proprie intenzioni»: il capo «dà a credere a suoi seguaci che voglia altro fare, e fra tanto si sforza legarli con vincolo d’amore». Questo tipo di cospiratore «vincerà certo».

Il modo di guardare ai complotti di Tommaso Campanella è molto differente da quello assai più pessimista di Machiavelli. Diverso tra i due è anche l’angolo prospettico da cui guardano alla cospirazione. Campanella, scrive Ricci, «prefigura un tipo di complotto fondato proprio su quella capacità di simulazione e dissimulazione che Machiavelli aveva eletto a tratto essenziale del principe e che qui diventa una dote del congiurato». La casistica campanelliana si occupa anche del «dopo congiura». Cioè del caso che essa fallisca o sia scoperta. Se il principe viene avvisato che qualcuno congiurò, se ne dovrebbe «burlare» dal momento che «o son dicerie», o «non ne sanno», cioè «gli accusatori sono falsarii». Ma quali sarebbero i rischi? Se il principe reagisce con violenza alla notizia di «congiure false», ne patiscono ingiustamente i popoli che «per questo odieranno il sovrano». Per paradosso meglio sarebbe se il principe dissimulasse la congiura ancorché vera, «poiché si farebbe titolo di non meritare un complotto». Molto peggio è «infamare un Paese di ribellione o congiura se non è provatissima», poiché i popoli se ne offendono e i nemici ne profittano per invadere il regno. Talvolta i principi profittano di simili «rumori» per spegnere nemici interni, ma i popoli hanno memoria lunga, «e con ogni occasione e aiuto forastiero si sollevano»; così «non si sfugge la congiura, ma si differisce». E, se pure è stata ordita, «meglio con benefici che con maleficii scancellar la memoria di tale ribellione». Qui si arriva al capitolo più celebre del libro, il ventisettesimo, dedicato a come estinguere la rivolta delle Fiandre. Operazione che avrebbe dovuto essere condotta «sottilmente» invece che imponendo, nel modo in cui si è fatto, soffocanti tributi e la «severa» Inquisizione spagnola. La rivolta – secondo Campanella – avrebbe dovuto essere contrastata con abili governanti italiani o tedeschi e con predicatori capaci di profittare delle divisioni interne dei ribelli, piuttosto che con rozzi capitani spagnoli. Si è sbagliato inoltre a mandare in guerra, contro gente che difendeva «religione, patria, figli e moglie», ufficiali più desiderosi di prolungare il conflitto per «avarizia» (qui il termine sta per sete di denaro) che di vincerlo rapidamente. Resta un ultimo tema: il libro fu scritto prima (come sostenne il domenicano) o dopo la congiura calabrese? Tema che ne sottende un altro: se queste pagine della Monarchia siano state «il breve manuale per la congiura del 1599 o il bilancio del suo fallimento». È probabile che il testo abbia avuto due stesure: la prima nel 1598 che fu poi rivista successivamente. In ogni caso stavolta per Campanella la pena fu oltremodo severa.

Il domenicano restò in prigione ventisette anni, nel corso dei quali scrisse, assieme a molti libri di grande qualità, il suo capolavoro, La città del Sole (1602). Fu un cardinale, Maffeo Barberini, che prese a cuore il suo caso e ottenne dal re di Spagna il suo trasferimento a Roma (1626). Tre anni dopo Barberini, divenuto papa Urbano VIII, ne decretò la liberazione e lo volle con sé come consigliere per le questioni astrologiche. Nel 1634 venne alla luce in Calabria una nuova cospirazione e Campanella rischiò di essere nuovamente coinvolto come «ispiratore». Urbano VIII ritenne prudente mandarlo in Francia dove Campanella conquistò i favori e la protezione di Luigi XIII e del cardinale Richelieu. Fu ospitato nel convento parigino di Saint-Honoré e morì nel 1639. Da uomo libero.

Per chi si è occupato di lui – scrive Ricci – è stato a volta a volta un «machiavellico libertino», un «cospiratore repubblicano», oppure «cattolico medievalizzante» o «indisciplinato interprete della Controriforma»; «utopista» o «teocratico»; filospagnolo o filofrancese, per tattica o per convinzione; capace comunque di costanti finzioni o dissimulazioni, in un’epoca che peraltro «ne faceva uso tanto corrente che spesso le sue non furono credute dai contemporanei» (a molti dei quali – pur essi spesso inclini o obbligati a doppiezze e autocensure – prima ancora che ad alcuni storici moderni, egli parve «simulatore», «volubile», «oscuro»). Ma in ogni caso – e su questo concordano tutti, o quasi – fu una delle più importanti e misteriose personalità dei suoi tempi. Il cui tratto biografico (oltreché il pensiero) è una chiave indispensabile per comprendere l’epoca in cui visse a cavallo tra Cinque e Seicento.