IMPOSTORE.
"Uno di questi giorni mi prenderò una vacanza" disse Spence Olham a colazione, guardando sua moglie. "Penso di essermi meritato un po' di riposo. Dieci anni sono tanti."
"E il Progetto?"
"La guerra sarà vinta anche senza me. Questa palla d'argilla su cui viviamo non è poi così in pericolo." Olham sedette al tavolo e si accese una sigaretta. "I distributori automatici di notizie alterano le informazioni per far sembrare che gli Invasori spaziali ci siano proprio addosso. Sai che cosa mi piacerebbe fare, in vacanza? Mi piacerebbe andarmene in campeggio su quelle montagne fuori città, dove siamo andati l'ultima volta.
Ti ricordi? Io mi punsi con una pianta velenosa, e tu per poco non mettesti i piedi su un serpente."
"Sutton Wood?" Mary cominciò a sparecchiare. "Il bosco si è incendiato qualche settimana fa. Pensavo che lo sapessi. Autocombustione, o qualcosa del genere."
Olham chinò le spalle. "Non hanno nemmeno cercato di scoprire la causa?" Contorse le labbra in una smorfia. "Nessuno si preoccupa più di niente. Quello che importa è solo la guerra." Serrò le mascelle, mentre il quadro della situazione prendeva forma nella sua mente: gli Invasori, la guerra, le astronavi.
"Come si fa a pensare a qualcos'altro?"
Olham annuì. Sua moglie aveva ragione, naturalmente. Le piccole e nere navi di Alpha Centauri avevano oltrepassato senza difficoltà gli incrociatori terrestri,lasciandoseli alle spalle come innocue tartarughe. Erano stati combattimenti a senso unico, nei quali Terra aveva sempre avuto la peggio.
Finché i Laboratori Westinghouse non avevano inventato la bolla di protezione. Montata dapprima intorno alle principali città terrestri,e poi intorno a tutto il pianeta, aveva costituito la prima vera difesa, la prima risposta efficace agli Invasori... come venivano definiti dai distributori automatici di notizie.
Ma vincere la guerra,quella era un'altra questione.Ciascun laboratorio,ciascun progetto erano al lavoro notte e giorno, infaticabilmente, alla ricerca di qualcosa di più: un'arma che garantisse la vittoria definitiva. Come il progetto a cui stava lavorando lui, per esempio. Per tutto il giorno, un anno dopo l'altro.
Olham si alzò in piedi, spegnendo la sigaretta. "E' come la spada di Damocle, sempre sospesa su noi. La cosa mi sta logorando. Tutto ciò che voglio è un lungo periodo di riposo. Ma credo che tutti la pensino come me."
Prese la giacca dall'armadio e uscì sul portico anteriore. Da un momento all'altro sarebbe arrivato il minuscolo e velocissimo razzo che lo avrebbe condotto al Progetto.
"Spero che Nelson non sia in ritardo." Olham guardò l'orologio. "Sono quasi le sette."
"Ecco il razzo" disse Mary, sbirciando attraverso le file di case. Il sole brillava dietro i tetti, riflettendosi sulle pesanti piastre di piombo. La colonia era tranquilla; in giro c'era solo qualche raro passante. "Ci vediamo più tardi. Non ti stancare troppo, Spence."
Olham aprì lo sportello e si infilò nel veicolo, sistemandosi sul sedile con un sospiro.
Insieme a Nelson c'era un uomo più anziano.
"Allora?" disse Olham, mentre il razzo schizzava in avanti. "Ci sono novità interessanti?"
"Il solito" rispose Nelson. "Qualche nave degli Invasori colpita; un altro asteroide abbandonato per motivi strategici."
"Andrà meglio quando il Progetto sarà entrato nella fase finale. Forse è solo colpa della propaganda dei distributori automatici di notizie, ma in quest'ultimo mese tutta questa 3
storia ha cominciato a stancarmi. Tutto sembra così grave e serio, e la vita non ha più colori."
"Lei pensa che sia una guerra inutile?" domandò a un tratto l'uomo più anziano. "In fondo ne è parte integrante lei stesso."
"Il maggiore Peters" disse Nelson. Olham e Peters si strinsero la mano. Olham fissò l'ufficiale.
"Cos'è che la porta qui così di buon'ora?" gli chiese poi. "Non ricordo di averla mai vista, al Progetto."
"No, io non faccio parte del Progetto" rispose Peters "ma so qualcosa di quello che state facendo. Il mio lavoro è diverso."
Peters e Nelson si scambiarono un'occhiata. Olham se ne accorse e aggrottò la fronte. Il veicolo stava guadagnando velocità, attraversando come un proiettile il terreno brullo e sterile che precedeva la lontana sagoma degli edifici del Progetto.
"Di cosa si occupa?" gli chiese Olham. "O forse non le è permesso parlarne?"
"Lavoro con il governo" rispose Peters. "Con la F.S.A.; l'organo della Sicurezza."
"Eh?" Olham sollevò un sopracciglio. "In questa regione c'è qualche infiltrazione nemica?"
"Per dire la verità sono qui proprio per lei, signor Olham."
Olham era sbalordito. Rifletté sulle parole di Peters, ma senza riuscire a capirne il significato. "Per me? E perché?"
"Sono qui per arrestarla come spia degli Invasori. E per questo che stamattina mi sono alzato così presto. LO PRENDA, NELSON..."
Olham si ritrovò una pistola puntata alle costole. Le mani di Nelson tremavano per lo sciogliersi della tensione;il volto era pallidissimo. Respirò a fondo per riprendersi.
"Lo uccidiamo adesso?" bisbigliò a Peters. "Io credo che sarebbe meglio. Non possiamo aspettare."
Olham fissò in volto il suo amico, e aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcuna parola. I due uomini lo osservavano anch'essi, rigidi e contratti per la paura, ma con la massima attenzione. Olham provò un senso di vertigine. La testa gli faceva male e gli girava.
"Non capisco" mormorò.
In quel momento il piccolo aviogetto lasciò il terreno e si lanciò verso l'alto. Sotto di loro il Progetto divenne sempre più piccolo, fino a scomparire del tutto. Olham chiuse la bocca.
"Possiamo aspettare un po'" disse Peters. "Prima voglio fargli qualche domanda."
Olham guardava istupidito davanti a sé, mentre il velivolo guizzava nello spazio.
"L'arresto si è svolto senza problemi" disse Peters al videoschermo, sul quale erano apparsi i lineamenti del capo della Sicurezza. "Sarà un bel peso tolto per tutti noi."
"Nessuna complicazione?"
"No. E' entrato nel veicolo, senza sospettare nulla. Non ha nemmeno dato l'impressione di ritenere insolita la mia presenza."
"Dove siete adesso?"
"Stiamo uscendo, proprio sul limitare della bolla, e ci stiamo muovendo alla massima velocità. Ormai possiamo ritenere superata la fase critica. Sono contento che i reattori fossero in perfetta efficienza. Se ci fosse stato qualche problema al momento del decollo..."
"Me lo faccia vedere" disse il capo della Sicurezza. E si mise a osservare Olham che se ne stava seduto con le mani in grembo, fissando davanti a se con aria imbambolata.
"Dunque è lui." Continuò a guardarlo con interesse. Olham non disse nulla. Alla fine il capo fece un cenno con la testa in direzione di Peters. "Va bene. Basta così." Sul suo volto 4
si era disegnata una lieve espressione di disgusto. "Ho visto ciò che volevo. Lei ha fatto una cosa che verrà ricordata a lungo. Stanno preparando, per voi due, una specie di citazione al merito."
"Non è necessario" si schernì Peters.
"Che pericoli ci sono, adesso? Ci sono ancora molte probabilità che..."
"Un po', ma non molte. Per quanto mi risulta, occorre una frase chiave. In ogni caso dovremo correre il rischio."
"Avvertirò Base Luna che state arrivando."
"No" Peters scosse la testa. "Farò atterrare il razzo all'esterno, lontano dalla base. Non voglio metterla a repentaglio inutilmente."
"Come preferisce." Il capo guardò un'ultima volta Olham con occhi scintillanti, poi la sua immagine scomparve, e lo schermo rimase vuoto.
Olham spostò lo sguardo verso l'oblò. La nave aveva già superato la bolla di protezione, e procedeva a velocità via via crescente. Peters aveva fretta; sotto di lui i reattori erano aperti al massimo e facevano vibrare il pavimento. Sia lui che Nelson avevano paura, a causa di Olham, e cercavano di giungere il più presto possibile.
Nelson, seduto accanto a lui, si mosse a disagio. "Io credo che dovremmo ucciderlo adesso" disse. "Darei qualsiasi cosa, pur di farla finita con lui."
"Non si agiti" disse Peters. "Vorrei che lei guidasse per un po' l'astronave, in modo che io possa parlargli."
Scivolò accanto a Olham, guardandolo in faccia. Poi allungò una mano e lo toccò con molta cautela, prima sul braccio e poi sulla guancia.
Olham non disse nulla. "Se potessi farlo sapere a Mary", pensò. "Se riuscissi a trovare un modo per informarla". Diede un'occhiata in giro. Come? Il videoschermo? Nelson era seduto davanti al quadro comandi, e stringeva la pistola. Non poteva fare nulla. Era in trappola.
"MA PERCHE'?"
"Mi ascolti" disse Peters. "Voglio rivolgerle qualche domanda. Lei sa dove stiamo andando? Siamo diretti verso Luna. Tra un'ora atterreremo sull'altra faccia, quella desolata. Subito dopo l'atterraggio lei verrà immediatamente consegnato a una squadra di uomini che sono già in attesa. Il suo corpo verrà distrutto all'istante. Lo capisce?"
Peters guardò l'orologio. "Entro due ore il suo corpo sarà ridotto a brandelli e diverrà parte del paesaggio.Di lei non rimarrà assolutamente nulla."
Olham lottò per riscuotersi dalla sua apatia. "Può dirmi..."
"Certo, le dirò tutto" rispose Peters, annuendo. "Due giorni fa abbiamo ricevuto un rapporto, nel quale ci veniva riferito che una nave degli Invasori era riuscita a penetrare all'interno della bolla di protezione, e aveva lasciato una spia sotto forma di un robot umanoide. Il robot doveva distruggere un certo essere umano e prendere il suo posto."
Peters fissò Olham con calma.
"All'interno del robot c'era una bomba U. Il nostro agente non ci ha saputo dire come si faccia a far esplodere la bomba, ma ha ipotizzato che possa succedere in seguito alla pronuncia di una certa frase, di un certo gruppo di parole. Il robot si sarebbe sostituito a questa particolare persona, svolgendo le sue normali attività, il suo lavoro, la sua vita sociale. Era stato costruito in modo da assomigliare a essa. Nessuno si sarebbe accorto della differenza."
Il volto di Olham divenne bianco come il gesso.
"La persona che il robot doveva sostituire era Spence Olham, un funzionario di alto rango impegnato in uno dei Progetti di ricerca. Poiché questo particolare Progetto si stava 5
avvicinando alla fase finale, la presenza di una bomba vivente, che si muoveva nel bel mezzo del Progetto..."
Olham si fissò le mani. "MA IO SONO OLHAM!"
"Una volta che il robot avesse localizzato e ucciso Olham, sarebbe stato facilissimo per lui sostituirlo nella vita di tutti i giorni. Il robot è stato sbarcato dalla nave otto giorni fa, probabilmente, e la sostituzione è avvenuta, altrettanto probabilmente, nel corso dell'ultimo week-end, quando Olham è andato a fare una passeggiata sulle colline."
"Ma io sono Olham." Si girò verso Nelson, che era seduto ai comandi. "Non mi riconosci?
Sono vent'anni che siamo amici. Non ti ricordi di quando andavamo all'università insieme?"
Si alzò in piedi. "Avevamo la stanza in comune." Si diresse verso Nelson.
"Stai lontano da me!" ringhiò Nelson.
"Ascoltami. Ti ricordi il nostro secondo anno. Quella ragazza. Come si chiamava..." Si grattò la fronte. "Quella con i capelli neri. La incontrammo al bar di Ted."
"Basta!" Nelson agitò concitatamente la pistola. "Non voglio più starti a sentire. Tu l'hai ammazzato! Tu... Una macchina!"
Olham guardò Nelson. "Ti sbagli. Io non so cosa sia successo, ma il robot non si è mai avvicinato a me. Qualcosa deve essere andato storto. Forse la nave è naufragata." Si voltò verso Peters. "Io sono Olham, lo so. Non c'è stata alcuna sostituzione. Sono lo stesso di sempre."
Si toccò, facendo scorrere le mani lungo il corpo. "Ci deve pur essere un modo per provarlo. Riportatemi su Terra. Un esame ai raggi X, un'analisi neurologica, quello che vi pare. Magari ritroverete anche l'astronave naufragata."
Né Peters né Nelson dissero nulla.
"Io sono Olham" disse lui di nuovo. "So di esserlo. Ma non posso dimostrarlo."
"Il robot" disse Peters "non avrebbe la coscienza di non essere il vero Spence Olham.
Diventerebbe Spence Olham tanto nel corpo quanto nella mente. Gli è stato fornito un sistema di memoria artificiale, dei falsi ricordi. Avrebbe il suo aspetto, i suoi ricordi, i suoi pensieri e interessi.Svolgerebbe il suo stesso lavoro senza difficoltà.
"Ci sarebbe un'unica differenza. Una bomba U nell'interno dei robot, pronta a esplodere alla frase prestabilita." Peters si scostò un poco. "Quella sarebbe l'unica differenza. Ecco perché la stiamo portando sulla Luna. La smonteranno e toglieranno la bomba. Forse esploderà lo stesso, ma lì non avrà alcuna importanza."
Olham si rimise lentamente a sedere.
"Siamo quasi arrivati" disse Nelson.
Olham si appoggiò contro lo schienale, pensando freneticamente, mentre la nave cominciava a perdere quota. Sotto di loro c'era la superficie bucherellata della Luna, una distesa interminabile di rovine. Che cosa poteva fare? Che cosa lo avrebbe salvato?
"Si prepari" disse Peters.
Tra pochi minuti sarebbe morto. Giù in basso poteva scorgere un puntolino minuscolo, un qualche edificio, e intorno degli uomini, la squadra di demolizione, pronta a farlo a pezzi. Lo avrebbero aperto, squartato; gli avrebbero strappato braccia e gambe. E non trovando nessuna bomba, sarebbero rimasti sorpresi. Avrebbero capito, allora, ma sarebbe stato troppo tardi.
Olham si guardò intorno, nella stretta cabina. Nelson stringeva ancora la pistola. Da quella parte non c'era alcuna possibilità. Se avesse potuto far venire un dottore,farsi esaminare...Era l'unica soluzione. Mary poteva aiutarlo. Pensò a ritmo frenetico, con la mente in subbuglio. Solo pochi minuti ancora, pochissimo tempo. Se solo fosse riuscito a mettersi in contatto con lei, a comunicare in qualche modo.
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"Tutto bene" disse Peters. La nave scese lentamente, posandosi con un sobbalzo sul terreno irregolare. Poi vi fu silenzio.
"Senta" disse Olham con voce impastata. "Io posso dimostrare di essere Spence Olham.
Faccia venire qui un dottore..."
"Ecco la squadra." Nelson indicò col dito. "Stanno arrivando." Poi lanciò a Olham un'occhiata nervosa. "Spero che non succeda nulla."
"Noi ce ne andremo prima che comincino il loro lavoro" disse Peters.
"Tra un attimo saremo fuori di qui." Si infilò la tuta pressurizzata, e quando ebbe finito prese la pistola di Nelson. "Lo guarderò io, per un po'."
Anche Nelson indossò la tuta, con gesti frettolosi e impacciati. "E lui?" disse poi, indicando Olham. "Ne avrà bisogno?"
"No." Peters scosse la testa. "Probabilmente i robot non hanno bisogno di ossigeno."
Il gruppetto di uomini era quasi arrivato alla nave, e si fermò, aspettando. Peters fece loro dei segnali.
"Venite avanti!" Agitò la mano, e gli uomini si avvicinarono con circospezione; figure rigide e grottesche nelle tute rigonfie.
"Se lei apre la porta" disse Olham "io morirò. Sarà un omicidio."
"Apra la porta" disse Nelson, e avvicinò lui stesso la mano alla maniglia.
Olham lo guardò. Vide la mano stringersi intorno alla leva di metallo. Tra un attimo la porta si sarebbe aperta, e l'aria sarebbe uscita dall'abitacolo. Lui sarebbe morto, e subito gli altri si sarebbero resi conto dell'errore. Forse in una situazione diversa, in tempo di pace, gli uomini non si sarebbero comportati in quel modo, condannando un loro simile a morte certa solo per paura. Tutti erano spaventati, e tutti sacrificavano senza esitare l'individuo per la paura del gruppo intero. Stava per essere ucciso perché gli uomini non potevano perdere tempo ad accertarsi della sua colpevolezza.
Guardò Nelson. Erano stati amici per anni, erano andati a scuola insieme. Adesso Nelson stava per ucciderlo. Ma Nelson non era cattivo; non era colpa sua. Era colpa dei tempi.
Forse era successa la stessa cosa nel periodo delle pestilenze. Quando gli uomini rivelavano qualche difetto venivano uccisi, senza un attimo di esitazione, senza prove, sulla base del solo sospetto. In tempi di pericolo non c'era altra via.
Non poteva biasimarli. Ma doveva vivere. La sua vita era troppo preziosa per essere sacrificata. Olham pensò in fretta. Che cosa poteva fare? C'era una soluzione? Si guardò intorno.
"Eccoci" disse Nelson.
"Avete ragione" disse Olham. Il suono della sua voce lo sorprese. Era la forza della disperazione a guidarlo. "Non ho bisogno di aria. Aprite la porta."
Si fermarono. Guardarono con curiosità e preoccupazione.
"Avanti, aprite pure. Non fa alcuna differenza." La mano di Olham scomparve nella giacca. "Mi domando fin dove riuscirete a correre."
"Correre?"
"Avete quindici secondi di vita." Le dita si mossero sotto la giacca, il braccio si irrigidì.
Olham si rilassò, e si concesse un pallido sorriso. "Vi siete sbagliati sulla frase chiave. In quel senso, vi siete sbagliati. Quattordici secondi, adesso."
Due volti spauriti lo osservarono dall'interno delle tute pressurizzate. Poi essi si lanciarono precipitosamente verso la porta, e la spalancarono. L'aria uscì sibilando, perdendosi nel vuoto, mentre Peters e Nelson schizzavano fuori dal velivolo. Olham venne trascinato anche lui verso l'apertura, ma riuscì ad afferrarsi alla porta e a richiuderla ermeticamente.Poi il sistema di pressurizzazione automatica entrò freneticamente in funzione, ripristinando l'aria nell'abitacolo. Olham lasciò andare il respiro con un brivido.
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Un altro secondo, e...
Vide dal finestrino che i due uomini avevano raggiunto il gruppo. Poi si divisero, sparpagliandosi in tutte le direzioni, e uno dopo l'altro si gettarono a terra, nascondendosi il volto fra le mani. Olham sedette al posto di guida, e cominciò a maneggiare i comandi.
Mentre la nave prendeva quota, gli uomini si rialzarono e sollevarono lo sguardo verso l'alto, spalancando la bocca per lo stupore.
"Mi dispiace" mormorò Olham "ma devo proprio tornare sulla Terra."
E puntò il velivolo nella stessa direzione dalla quale era venuto.
Era notte. Intorno alla nave i grilli cantavano, spezzando il silenzio della notte. Olham si chinò sul videoschermo. Pian piano si formò l'immagine. La chiamata era giunta a destinazione senza problemi.
Olham respirò di sollievo.
"Mary" disse. La donna, nel vederlo, spalancò la bocca e rimase senza fiato.
"Spence! Dove sei? Cosa è successo?"
"Non posso dirtelo. Stammi a sentire, non ho molto tempo. Possono interrompere la comunicazione da un momento all'altro. Vai al Progetto e cerca il dottor Chamberlain. Se non c'è, trova un dottore qualsiasi. Portalo a casa e fallo aspettare lì. Digli di portarsi appresso tutta l'attrezzatura, raggi X, fluoroscopio. Tutto quanto, insomma."
"Ma..."
"Fai come ti dico. Sbrigati. Fa' in modo che sia tutto pronto fra un'ora." Olham si piegò verso lo schermo. "Va tutto bene? Sei sola?"
"Sola?"
"C'è nessuno con te? Ti... Ti ha chiamato Nelson, o qualcun altro?"
"No. Spence, non capisco."
"Ci vediamo a casa fra un'ora. E non dire niente a nessuno. Inventa qualsiasi pretesto per fare venire Chamberlain. Digli che stai malissimo."
Interruppe la comunicazione e guardò l'orologio. Un attimo dopo abbandonò la nave e si avviò a piedi in mezzo all'oscurità. Doveva percorrere circa mezzo miglio. Cominciò a camminare.
C'era una finestra illuminata, quella dello studio. Olham la guardò inginocchiandosi dietro il recinto. Non c'era nessun rumore, né alcun movimento. Sollevò il polso per leggere il quadrante dell'orologio alla luce delle stelle. Era passata quasi un'ora. Lungo la strada sfrecciò un razzo, che proseguì oltre senza fermarsi.
Olham guardò ancora verso la casa. Il dottore doveva essere già arrivato. Doveva aspettarlo dentro casa, insieme a Mary. Un pensiero lo colpì. Sua moglie era riuscita a lasciare casa? Forse l'avevano bloccata e lui stava per cacciarsi in una trappola.
Ma che altro poteva fare? Con le prove fornite da un medico, fotografie e rapporti, poteva avere una possibilità. Se solo fosse riuscito a farsi esaminare,se fosse riuscito a sopravvivere abbastanza a lungo da essere sottoposto a tutte le ricerche del caso...
In quel modo avrebbe potuto dimostrarlo. Ed era probabilmente l'unico modo. La sua speranza si trovava dentro quella casa. Il dottor Chamberlain era un uomo stimato; era il medico dell'équipe che lavorava al Progetto. Lui avrebbe capito, e la sua parola avrebbe avuto il suo peso, nella questione. Lui avrebbe potuto controbattere, con i fatti, il loro isterismo, la loro follia.
Follia... ecco cos'era. Se solo avessero atteso, avessero agito con calma, senza frenesia.
Ma non potevano aspettare. Lui doveva morire, e subito, senza alcuna prova senza il minimo esame né ombra di processo.
8
Il test più elementare avrebbe potuto dir loro come stavano le cose ma loro non avevano tempo nemmeno per i test più elementari. Riuscivano a pensare soltanto al pericolo. Al pericolo, e a nient'altro.
Si alzò in piedi e si diresse verso la casa. Giunse fin sul portico, e davanti alla porta si fermò, tendendo l'orecchio. Ancora nessun suono.
La casa era assolutamente silenziosa.
Troppo silenziosa.
Olham rimase immobile sul portico. Stavano cercando di non farsi sentire, là dentro.
Perché? La casa era piccola; qualche metro al di là, oltre la porta, dovevano esserci Mary e il dottor Chamberlain. Eppure lui non riusciva a sentire niente, nessuna voce, nemmeno un sussurro. Guardò la porta. L'aveva aperta e richiusa migliaia di volte, tutte le mattine e tutte le sere.
Posò la mano sulla maniglia. Poi, all'improvviso, allungò la mano e suonò il campanello.
Il suono riecheggiò, da qualche parte della casa, sul retro. Olham sorrise. Adesso udiva del movimento. Mary aprì la porta. Appena la vide, Olham capì.
Si lanciò di corsa tra i cespugli. Un ufficiale della Sicurezza fece scostare di lato Mary, poi fece fuoco. I cespugli esplosero. Olham strisciò sul fianco della casa, poi si alzò di scatto e si mise a correre come un forsennato nell'oscurità. Si accese un faro, e la luce sciabolò il terreno intorno a lui. Attraversò la strada e saltò al di là di un recinto, addentrandosi in un cortile. Alle sue spalle si sentivano gli inseguitori gridare.
Olham si fermò un attimo per riprendere fiato, col petto che gli andava su e giù. Il volto di sua moglie... Olham l'aveva capito subito. Le labbra serrate, gli occhi sgomenti, inorriditi. Se lui fosse entrato, se avesse oltrepassato la soglia e fosse entrato in casa!
Evidentemente avevano intercettato la sua chiamata ed erano intervenuti all'istante, appena lui l'aveva interrotta. Probabilmente sua moglie aveva creduto alla loro storia, e ormai anche lei lo riteneva un robot.
Olham riprese a correre. Si stava lasciando indietro gli uomini della Sicurezza. Pareva che non fossero buoni corridori. Si arrampicò su una collina e ridiscese poi lungo il versante opposto. Tra un attimo sarebbe giunto alla nave. Ma dove avrebbe potuto andare, stavolta?
Rallentò, fino a fermarsi. Poteva già vedere il velivolo che si stagliava contro il cielo, dove lo aveva lasciato. Si era lasciato alle spalle la colonia e si trovava ormai in prossimità della zona selvaggia, lontana dai centri abitati, dove cominciavano le foreste e le lande desolate. Attraversò un campo brullo e si addentrò fra gli alberi.
Mentre si avvicinava alla nave, la porta si aprì.
Ne uscì Peters, stagliato contro la luce, stringendo in mano una grossa pistola Boris.
Olham si fermò, irrigidendosi, e Peters si guardò intorno, cercando di penetrare le tenebre.
"Lo so che ci sei, da qualche parte" disse. "Vieni qui, Olham. Gli uomini della Sicurezza ti hanno circondato."
Olham non si mosse.
"Ascoltami. Ti prenderemo comunque, fra poco. Evidentemente non sei ancora convinto di essere il robot. La tua telefonata a quella donna indica che sei ancora preda dell'illusione creata dai tuoi ricordi artificiali.
"Ma tu sei il robot. Tu sei il robot e dentro di te c'è la bomba. La frase prestabilita può essere pronunciata in ogni momento,da chiunque. Quando ciò succederà, la bomba distruggerà ogni cosa per miglia e miglia tutt'intorno. Il Progetto, la donna, tutti noi moriremo. Capisci?"
Olham non disse nulla, limitandosi ad ascoltare. Udiva il fruscio degli uomini nel bosco.
Stavano per raggiungerlo.
9
"Se non vieni fuori, verremo a prenderti noi. E' solo una questione di tempo. Non vogliamo più portarti su Base Luna. Verrai distrutto a vista, e dovremo correre il rischio che la bomba esploda con te. Ho fatto venire tutti gli uomini disponibili in questa zona.
L'intera contea viene frugata palmo a palmo. Non c'è alcun posto in cui tu possa fuggire.
Intorno a questo bosco c'è un cordone di uomini armati. Ti rimangono circa sei ore prima che la rete si chiuda definitivamente."
Olham si allontanò, mentre Peters continuava a parlare. Non lo aveva visto; era troppo buio. Ma Peters aveva ragione. Non c'era alcun posto in cui potesse fuggire. Si trovava al di là della colonia, sul limitare della zona boscosa. Poteva nascondersi per un po', ma alla fine lo avrebbero preso.
Solo una questione di tempo.
Camminò tranquillamente attraverso il bosco. Palmo a palmo stavano frugando la contea, studiandola, esaminandola, radendola al suolo; il cordone si stava stringendo inesorabilmente, limitando via via il suo raggio di azione.
Cosa gli rimaneva da fare? Aveva perso la nave, la sua unica possibilità di fuga. Casa sua era in mano loro, e sua moglie era senza dubbio convinta che il vero Olham fosse stato ucciso. Strinse i pugni.
Da qualche parte doveva esserci un'astronave degli Invasori che si era schiantata al suolo, e dentro i resti del robot. Quella nave doveva essere naufragata lì intorno.
E dentro c'era il robot, distrutto.
Una debole speranza riprese vita in lui. E se fosse riuscito a ritrovare quei resti? Se fosse riuscito a mostrare loro il relitto, gli avanzi dell'astronave, il robot...
Ma dove? Dove poteva trovarla?
Continuò a camminare, immerso nei suoi pensieri. Un posto non troppo lontano, probabilmente. La nave avrebbe dovuto atterrare vicino al Progetto, e il robot avrebbe dovuto percorrere a piedi il tragitto. Si arrampicò in cima a una collinetta e diede un'occhiata intorno.
Naufragata e distrutta dal fuoco. C'era qualche traccia, qualche segno? Aveva letto, o udito qualcosa, in proposito? Un posto vicino, a una distanza facilmente percorribile a piedi. Un posto selvaggio, remoto, dove non ci fosse gente.
A un tratto Olham sorrise. Naufragata e distrutta dal fuoco...
Sutton Wood.
Aumentò l'andatura.
Era mattina.La luce del sole filtrava attraverso gli alberi smozzicati sopra l'uomo accovacciato sull'orlo della radura. Di tanto in tanto Olham sollevava lo sguardo, ascoltando attentamente. Non erano molto lontani, solo a qualche minuto da lui. Olham sorrise.
Sotto di lui, proprio in mezzo alla radura e ai tronchi bruciacchiati, che una volta avevano formato Sutton Wood, giaceva una massa metallica contorta e aggrovigliata.
Scintillava debolmente alla luce del sole, lanciando riflessi opachi. Non era stato difficile trovarla. Conosceva molto bene Sutton Wood; ci si era recato molte volte, quand'era più giovane. Aveva capito subito dove poteva trovarsi il relitto dell'astronave. C'era un solo picco che si levava dal bosco, inaspettato.
Una nave in fase di atterraggio, che non conoscesse la zona, aveva ben poche possibilità di evitarlo. Adesso Olham se ne stava accucciato a osservare quel poco che ne rimaneva.
A un certo punto si alzò in piedi. Poteva sentirli, vicinissimi, che avanzavano insieme, parlando a bassa voce. Olham si irrigidì. Tutto dipendeva da chi sarebbe stato il primo a vederlo. Se fosse stato Nelson,non aveva nessuna possibilità. Nelson avrebbe sparato 10
all'istante, e lui sarebbe morto prima che loro avessero il tempo di vedere la nave. Ma se invece avesse avuto il tempo di richiamare la loro attenzione, di trattenerli per un attimo...
Era tutto ciò che gli serviva. Una volta avvistata la nave, sarebbe stato salvo.
Ma se per prima cosa avessero sparato...
Un ramo carbonizzato scricchiolò, e apparve una figura che avanzava con passo circospetto. Olham trattenne il respiro. Rimanevano pochi secondi, forse gli ultimi della sua vita. Sollevò le braccia, continuando a guardare con molta attenzione.
Era Peters.
"Peters!" Olham agitò le braccia. Peters alzò il fucile e prese la mira. "Non spari!" Gli tremava la voce. "Aspetti un attimo. Guardi dietro di me, nella radura."
"L'ho trovato" gridò Peters. Dal bosco spuntarono numerosi uomini della Sicurezza.
"Non spari! Guardi alle mie spalle. La nave, l'astronave nemica, degli Invasori. E' lì!
Guardi!"
Peters esitò. Il fucile tremò nella sua mano.
"E' laggiù" disse concitato Olham. "Lo sapevo che l'avrei trovata qui. Il bosco bruciato.
Adesso mi crederete. Nella nave troverete i resti del robot. Guardateci, d'accordo?"
"C'è qualcosa, laggiù" disse nervosamente uno degli uomini.
"Sparategli!" disse una voce. Era Nelson.
"Aspettate." Peters si girò di scatto. "Sono io che comando. Che nessuno spari. Forse dice la verità."
"Gli spari" ripeté Nelson. "Ha ucciso Olham, e da un momento all'altro può uccidere noi.
Se la bomba esplode..."
"Stia zitto." Peters avanzò verso il pendio, e guardò in basso.
"Laggiù." Fece un cenno a due dei suoi uomini. "Andate a dare un'occhiata."
I due uomini si misero a correre giù per il pendio, e si chinarono a osservare i resti della nave.
"Allora?" domandò Peters.
Olham trattenne il respiro. Sorrise debolmente. Doveva esserci; non aveva avuto tempo di guardare lui stesso, ma doveva essere là.
Improvvisamente il dubbio lo assalì. E se il robot fosse sopravvissuto abbastanza a lungo da allontanarsi? O se il suo corpo fosse andato completamente distrutto, ridotto in cenere dall'incendio?
Si umettò le labbra. Il sudore gli colava dalla fronte. Nelson lo fissava, livido in volto. Il cuore sembrava volergli esplodere dentro il petto.
"Uccidetelo" disse Nelson. "Prima che lui uccida noi."
I due uomini si alzarono in piedi.
"Che cosa avete trovato?" domandò Peters, sempre tenendo il fucile puntato. "C'è qualcosa?"
"Sembra di sì. E' proprio un'astronave nemica, non c'è dubbio. E c'è qualcosa, accanto."
"Guarderò io." Peters passò accanto a Olham, il quale lo seguì con lo sguardo mentre scendeva lungo il pendio dirigendosi verso i due uomini. Anche gli altri lo seguirono, cercando di vedere.
"E' una specie di corpo" disse Peters. "Guardate!"
Olham li raggiunse. Gli uomini si erano radunati in circolo e stavano guardando per terra.
Stesa al suolo, ripiegata in una posizione innaturale e contorta, c'era una forma grottesca. Sembrava umana, in parte, ma era piegata in modo strano, con le braccia e le gambe disposte ognuna in una direzione diversa. La bocca era aperta, e gli occhi vetrosi fissavano il vuoto.
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"Come una macchina che si sia inceppata" mormorò Peters. Olham sorrise debolmente, e disse: "Allora?".
Peters lo guardò. "Non riesco a crederci. Lei diceva la verità."
"Il robot non è mai arrivato fino a me" disse Olham, accendendosi una sigaretta. "E'
stato distrutto nel naufragio dell'astronave. Voi eravate tutti troppo presi dalla guerra per domandarvi come mai un bosco così isolato potesse prendere fuoco all'improvviso e bruciare. Adesso lo sapete."
Continuò a fumare, e osservò gli uomini. Stavano spostando quei resti grotteschi. Colpo, braccia e gambe erano stranamente rigidi.
"Adesso troverete la bomba" disse Olham, mentre gli uomini posavano il corpo al suolo.
Peters si chinò.
"Mi sembra di vederne uno spigolo." Allungò una mano, e toccò il corpo.
Il petto del cadavere era squarciato, e all'interno di quello squarcio c'era qualcosa che brillava, un oggetto metallico. Gli uomini lo guardarono senza parlare.
"Ci avrebbe distrutti tutti, se fosse sopravvissuto" disse Peters.
Quella scatoletta metallica.
Vi fu silenzio.
"Credo che le dobbiamo qualcosa" disse Peters a Olham. "Deve essere stato un incubo, per lei. Se non fosse fuggito, noi l'avremmo..." Si interruppe.
Olham spense la sigaretta. "Sapevo, naturalmente, che il robot non era mai giunto fino a me. Ma non potevo dimostrarlo. A volte non è così semplice dimostrare una verità. Era tutto lì, il problema. Non c'era alcun modo per convincervi che ero me stesso."
"Che ne direbbe di una vacanza?" chiese Peters. "Credo che potremmo concederle un mesetto di vacanza. Potrebbe prendersi un po' di riposo, rilassarsi."
"Credo di avere solo voglia di tornare a casa, per il momento" replicò Olham.
"D'accordo, allora" disse Peters. "Come preferisce."
Nelson si era acquattato sul terreno, accanto al cadavere. Allungò la mano verso l'oggetto scintillante di metallo inserito dentro il petto.
"Non toccarla" disse Olham. "Può ancora esplodere. Sarà meglio che se ne occupi più tardi la squadra degli artificieri."
Nelson non disse nulla. All'improvviso infilò la mano dentro il petto, afferrò l'oggetto metallico. Poi lo tirò fuori.
"Che stai facendo?" esclamò Olham.
Nelson si alzò in piedi, stringendo in mano l'oggetto. Il volto era pallidissimo per il terrore. Si trattava di un coltello, un coltello ad ago degli Invasori, coperto di sangue.
"Questo l'ha ucciso" disse Nelson, con un filo di voce. "Il mio amico è stato ucciso da questo." Guardò Olham. "Tu l'hai ucciso con questo coltello e l'hai lasciato accanto alla nave."
Olham stava tremando, e batteva i denti. Spostò lo sguardo dal coltello al corpo.
"Questo non può essere Olham" disse. La mente gli girava vorticosamente. "Mi sono sbagliato?"
Poi spalancò la bocca.
"Ma se quello è Olham, allora io devo essere..."
Non completò la frase.Furono sufficienti le prime parole.
L'esplosione fu vista perfino da Alpha Centauri.
Titolo originale: "Impostor" (1953).
Traduzione di Vittorio Curtoni.
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