Ragazzi a Natale

 

19-21 L'ora del Cane

 

Questa è l'ora in cui il cane comincia a sorvegliare la casa

 

È agosto ma il sole su Kyoto tramonta presto. Anzi, mi pare quasi che il tempo dell'imbrunire sia più breve rispetto a quanto sono abituata. La luce si trasforma subito in buio, le ombre si allungano in un attimo fino a sparire. Kyoto è un Giappone che non potevo prevedere, senza la frenesia e le stranezze che mi sarei aspettata. Il caldo è intenso e io trascino un trolley pesante. Sono impaziente di raggiungere la mia stanza d'albergo anche se ci resterò per poco: tra neanche un'ora ho appuntamento con alcuni spagnoli che ho conosciuto all'ufficio turistico. Anche loro, come me, erano in cerca di informazioni sui festeggiamenti per Obon, la cerimonia in onore dei defunti che infiammerà la città questa sera. Nei giorni che vanno dal 5 al 16 di agosto vengono accese candele nei templi e fili di lanterne galleggianti costellano i corsi d'acqua. Le luci faranno da guida agli spiriti affinchè ritrovino la strada di casa. Ma a Kyoto succede qualcosa di più, perché grandi kanji, i caratteri della scrittura giapponese, vengono incendiati sulle colline che abbracciano la città.

"Uno degli spettacoli più belli di questa stagione" ribadisce il ragazzo dell'ente turistico mentre mi allunga alcuni volantini. È magro, con gli zigomi alti e pronunciati. La barba di un adolescente. Mentre si sforza di parlare in inglese non mi guarda mai negli occhi.

"Il primo fuoco viene acceso sulle pendici del monte Daimonji, sul lato est della città. Il significato dell'ideogramma è dai, 'grande'." Il tono del ragazzo è molto cortese anche se rimane serio. Mi raccomanda di non tardare perché la festa inizia alle 20 e la città sarà piena di gente.

"Qual è il posto migliore per guardarli?" chiedo.

"Le sponde del fiume Kamo, che attraversa Kyoto" risponde lui cerchiando alcuni punti sulla mappa.

Non so perché ma è in quel momento, mentre la sua penna blu scorre sulla carta, che percepisco tutta la distanza che mi separa da casa. E ripenso all'origine di questo viaggio.

Quando avevo immaginato il mio arrivo in Giappone, all'aeroporto doveva esserci Lorenzo. Si era offerto di ospitarmi. Ma lui, a pochi giorni dalla mia partenza, aveva deciso di modificare i propri programmi e di cambiare continente.

Ci eravamo conosciuti in Italia durante le vacanze di Natale, quindi non molto tempo prima.

Era un sabato mattina livido d'inverno. Avevo deciso di uscire da sotto le coperte solo a condizione di ricevere in cambio qualcosa di veramente speciale: per esempio, fare colazione nella nuova caffetteria in stile americano a pochi passi da casa. E Lorenzo, come avrei scoperto più avanti, era stato mosso da un sentimento simile.

Ero arrivata davanti al negozio e le serrande erano ancora abbassate. Per un attimo avevo temuto che fosse

chiuso per le festività. In vetrina, però, erano già state posizionate torte voluminose dai colori sgargianti. Così, dopo aver cercato invano gli orari di apertura, ero rimasta ad aspettare stretta nel cappotto. Di auto in strada ne passavano poche e la città sembrava vittima della mia stessa pigrizia. Mentre i minuti scorrevano lenti e qualche luce iniziava ad accendersi nel bar, alle mie spalle era spuntato un ragazzo che si era messo ad attendere a pochi passi da me. Impaziente avvicinavo il viso al vetro, facendomi schermo con le mani per vincere il riflesso e guardare dentro.

"Dovrebbero aprire alle dieci" aveva detto lui indicando l'orologio dall'altro lato della strada. Mancavano pochi minuti. Gli avevo sorriso.

Faceva molto freddo e il nostro respiro si condensava nell'aria.

In quel momento le serrande elettriche avevano cominciato a salire lentamente.

Lui mi aveva lasciata entrare per prima.

"Cosa posso offrirti?" mi aveva chiesto restando dietro di me.

Mi ero voltata, guardandolo finalmente in viso. In quell'istante mi era sembrato che tutto di lui, dalla barba leggermente sfatta alle labbra chiare, dal suo modo di tenere le mani in tasca a quello di sorridere, stesse già cominciando a piacermi. O forse desideravo che fosse così.

Dopo quella colazione ci eravamo visti tutti i giorni, senza annoiarci mai e senza pensare alla sua partenza imminente: poche settimane dopo sarebbe tornato a Kyoto, dove lavorava.

L'ultima sera ci eravamo salutati senza accordi, piani o promesse. Ma sulla porta di casa mia, con il taxi che lo

aspettava in strada, mi aveva detto: "Ad agosto avrò altre ferie, anche se solo una settimana. Questa volta però vieni tu a trovarmi". Lo avevo guardato aspettandomi un sorriso scherzoso, ma lui, non vedendomi convinta, aveva ribadito: "Ti consiglio di prenotare già ora i biglietti, così ti costeranno meno. Per il resto non preoccuparti, penserò a tutto io".

Da quel momento non avevo aspettato altro che l'estate.

"Non te la prendere Vittoria, ma devo lasciare il Giappone nel giro di qualche giorno."

Mancava meno di una settimana alla mia partenza per Kyoto quando avevo ricevuto la telefonata di Lorenzo.

In quel momento avrei voluto fargli del male, per restituirgli almeno in parte quanto provavo. Invece dall'altro capo del telefono avevo solo sospirato. Avevo bevuto un sorso d'acqua sperando di scioglierci dentro il magone. Non avevo nemmeno provato a insistere per fargli cambiare idea: continuava a ripetermi che per lui andarsene era diventato imprescindibile.

Mi aveva detto che non c'erano più le condizioni perché potesse stare bene, che aveva cominciato a non riconoscersi più, che si era trovato in situazioni davvero al limite. Cose del genere.

Io non capivo nulla e tacevo.

I dettagli me li avrebbe raccontati in un'altra occasione.

Mentre Lorenzo parlava io pensavo a come cancellare i voli. Avrei buttato tutte le guide che avevo comprato e avrei nascosto la valigia nel punto più dimenticato della cantina.

Secondo lui invece dovevo partire comunque.

"Il Giappone è un posto sicuro e, a modo suo, ospitale.

Sono certo che non avrai problemi a viaggiare da sola" mi aveva detto.

Io volevo solo raggiungere il letto e premere la faccia dentro il cuscino fino a togliermi il fiato.

"L'itinerario lo scegliamo insieme. Sarà un po' come se ci fossi anch'io, vedrai " aveva insistito.

"Mh" avevo risposto.

Mi trattava come una bambina che fa i capricci.

"Vittoria, ascolta, mi dispiace. Davvero. Ma non voglio che per questo cambio di programma tu perda la possibilità di conoscere un Paese che ho amato molto."

Parlava alternando frenesia a pacatezza. Perché ci teneva tanto che partissi comunque?

"Atterrando a Osaka potrai raggiungere Kyoto il giorno stesso e arrivare per la notte di Obon. Vai a vedere il fuoco del Daimonji, sarà emozionante."

Avevo appeso il telefono senza lasciargli iniziare una nuova frase. Ma dopo qualche ora tra pensieri, email e un'altra telefonata mi ero lasciata convincere. Anche perché avevo confidato alle mie amiche di essermi innamorata di lui e che avremmo passato l'estate insieme. I miei compagni di università sapevano che quell'estate l'avrei trascorsa in Giappone. L'idea di dovermi smentire mi faceva sentire a disagio.

E poi, a quel punto, una sorta di curiosa attrazione aveva cominciato a mettere radici. Il Giappone lo aveva accolto e poi lo aveva messo in fuga. Eppure non voleva che io ne stessi lontana.

Lorenzo mi aveva proposto di stare a casa sua, nella zona a nord di Kyoto.

"Il contratto non scadrà prima di alcuni mesi, e tu potresti risparmiare."

Ma l'idea di vivere nel suo appartamento mi pareva davvero pessima. Non avrei pensato ad altro che alla sua

assenza. Così gli avevo detto di no, chiedendogli di aiutarmi a scegliere un albergo non troppo costoso, magari vicino a una fermata della metropolitana. Lui mi aveva prenotato un ryokan, un albergo tradizionale a gestione familiare dove, mi aveva assicurato, parlavano un po' di inglese. La stazione era quella di Shijo e la padrona si chiamava Midori. Mi stavano aspettando.

Ho volato per dodici ore. Poi, per lasciare l'isola artificiale dove si trova l'aeroporto di Osaka ho preso il treno. Ora mi trovo nella stazione ferroviaria di Kyoto, all'undicesimo piano di un edificio che contiene ristoranti, negozi di abbigliamento, pasticcerie. Guardo oltre la finestra dell'ufficio turistico. Una moltitudine di persone cammina protetta da ombrellini parasole, il caldo umido mi fa incollare i vestiti alla pelle. In mano ho le cartine e le indicazioni per raggiungere il ryokan del quale non riesco a memorizzare il nome.

Mentre scendo le scale della metropolitana penso a Lorenzo e al fatto che sì, questa sera vedrò i fuochi di Obon illuminare la via.

Davanti alla porta dell'albergo mi accorgo di essere in ritardo per l'appuntamento con gli spagnoli. La padrona di casa deve avermi sentita arrivare perché non aspetta che bussi per accogliermi. È vestita con un kimono azzurro e ha i capelli ancora neri nonostante la pelle sia segnata dall'età. Sorride. Le spiego a fatica che salirò in camera solo il tempo di lasciare le valigie. L'inglese non lo parla bene come Lorenzo mi aveva fatto credere. Le dico che non mi fermerò per cena, ma sembra non capire. Mi indica la stanza dove mi verrà servito il pasto e mi chiede a che ora preferisco. La sua espressione cambia solo quando le dico che desidero andare a vedere l'accensione del Daimonji. Solleva la mia valigia con facilità e mi fa capire che devo uscire subito, devo fare in fretta.

Il buio si è definitivamente impadronito della città. Io avanzo svelta, un po' confusa, guardando la cartina alla luce dei lampioni. Dovevo incontrare gli spagnoli una mezz'ora fa e ormai è chiaro che non li raggiungerò. Mi accorgo di non avere modo di avvisarli, anzi, di non aver nulla per comunicare: in Giappone il cellulare italiano non funziona, Lorenzo me lo aveva detto, e non ho schede telefoniche. Ora che mi guardo intorno mi rendo conto di non saper neanche leggere le indicazioni stradali. Mi sembra di stare dentro una bolla. Però capisco di aver quasi raggiunto il luogo della festa: schiene femminili decorate da grandi fiocchi floreali riempiono le vie. Se non mi sono sbagliata dovrei essere a ovest del fiume. Finalmente, dopo un paio di svolte, mi trovo davanti al lungo greto, dove ragazze minute che paiono fuggite da una campana di vetro restano in piedi, in cerchio, a fissare in alto in attesa del fuoco sulla montagna. Lo spazio sembra saturo di ragazzi seduti su teli cerati e anziani piccoli e curvi che, con un vigore sorprendente, si fanno strada per cercare un buon punto da cui guardare. I corpi sono caldi, le bocche sanno di cibo fritto e frutta caramellata che decine di bancarelle vendono lungo la strada. La corrente mi trasporta e l'eccitazione sale anche per me. Però mancano ancora una decina di minuti alle 20, così ne approfitto per guardarmi intorno.

Non lontano dal punto in cui mi trovo noto i ragazzi che avrei dovuto raggiungere. Alzo la mano e faccio loro un cenno. Sono due giovani, sui trent'anni, non molto alti e abbronzati. Non si accorgono di me e preferisco lasciar perdere perché quell'isolamento, quell'estraneità, in fondo non mi dispiace. Però non smetto di osservarli: anch'io sono così evidentemente diversa1? I vestiti, le movenze e tutto il resto. È un po' come se mi guardassi allo specchio. La possibilità di mescolarsi, di nascondersi tra la folla mi è negata.

Accanto ai due spagnoli una ragazza con un kimono chiaro tiene per mano una bambina. Uno di loro la osserva mentre lei fissa il monte ancora buio. Appena lui distoglie lo sguardo, però, sono gli occhi di lei a cercarlo. La piccola le strattona il braccio, anche lei vorrebbe riuscire a vedere lo spettacolo. Ma è ancora presto per sollevarla oltre la folla. Intanto persone di ogni tipo si fanno avanti, cercano vuoti che non ci sono. Mi accorgo che i due hanno abbandonato il gioco di sguardi, ora parlano, si sorridono. Lei con una mano si nasconde la bocca, abbassa il viso ma è allegra.

Finalmente i monti intorno alla città iniziano a bruciare. Sulla collina compare prima solo una piccola fiamma. Poi un fuoco rosso disegna i tratti del primo ideogramma. Riluce nel buio, come un marchio prodigioso.

I presenti osservano e fotografano, restando composti e con il viso rivolto verso l'alto.

Dopo un po' l'entusiasmo comincia a diluirsi e così anche il mio. Riprendo a guardarmi intorno. Qualche anziano sta già voltando le spalle allo spettacolo per tornare a casa. L'orologio segna le 20.30, è presto e la notte non è ancora iniziata. Io non ho nemmeno mangiato e rivaluto la possibilità di coinvolgere gli spagnoli per cena. Li cerco con gli occhi. Uno di loro non c'è più, mentre l'altro chiacchiera ammiccante con la giovane giapponese. Posso aspettare ancora un po' o invitare anche lei. Ma non riesco a decidermi. Il pubblico lascia le rive disperdendosi per strade differenti. Io osservo il fuoco smorzarsi.

 

* * *

 

Lungo il fiume ormai siamo in pochi. Oltre a me, la ragazza con il suo nuovo amico straniero. Lei si volta sorridendo, si guarda intorno. In un istante l'allegria le si spegne sul volto: ha perso la bambina che teneva per mano. Non è da nessuna parte.

L'acqua scivola lenta, gli addetti alla sicurezza stanno facendo defluire la gente fermando il traffico per strada. La ragazza corre prima a destra, poi cambia idea e va a sinistra. Il kimono le si apre fino alle ginocchia, scopre la pelle chiara. Si accuccia e si mette le mani sul viso. Il ragazzo spagnolo invece di raggiungerla la lascia sola e si dirige verso di me, mi fa un cenno. Questa volta sono io a fingere di non notarlo, gli volto le spalle e mi avvio sul marciapiede.

Spero solo che i fuochi di questa notte rimangano accesi ancora un po', il tempo sufficiente perché quella bambina ritrovi la sua strada. Io, invece, non ho nessuna fretta di tornare indietro.

 

21-23 L'ora del Cinghiale

Questa è l'ora in cui il cinghiale dorme

 

Sono passati tre mesi dal mio arrivo in Giappone e non sono ancora ripartita. Più i giorni scorrono, più mi accorgo di quanto questo viaggio mi stia portando lontano dalla vita di prima. In Italia frequentavo l'università, ero in pari con gli esami e vivevo con mia madre. Qui ogni cosa si è capovolta. E, nonostante tutto, sento di avvicinarmi a una dimensione che non mi dispiace affatto.

Durante il volo dall'Italia mi ero quasi convinta che quella di Lorenzo fosse una messa in scena, uno scherzo, e che l'avrei trovato all'aeroporto di Osaka. Pur non conoscendolo a fondo mi sembrava che una cosa del genere gli assomigliasse. Invece non era accaduto niente di tutto questo. Ad aspettarmi al mio arrivo c'era solo un'email. Avevo scaricato la posta elettronica mentre facevo colazione da Starbucks, sfruttando la connessione wi-fi a disposizione dei clienti. Il suo messaggio, però, non l'avevo aperto subito. Mi ero presa un cappuccino e una fetta di torta al té verde che avevo mangiato con calma. Proprio come i miei vicini di tavolo giapponesi: piccoli

bocconi porzionati con lentezza. In questi mesi a Kyoto mi sono accorta che le velocità con cui si assaporano i cibi sono molto differenti: i ramen rapidamente, prima che scuociano, il sushi via via che il pezzo viene posto sul bancone. I dolci in caffetteria senza fretta, magari leggendo un libro.

Terminata la colazione mi ero decisa a leggere il suo messaggio: "Vittoria, mi sono dimenticato di lasciarti l'indirizzo di Yuya, un amico che vive in città. Chiamalo, l'ho avvisato del tuo arrivo. Sarà felice di farti compagnia o di aiutarti, se dovessi averne bisogno".

Non gli avevo risposto, ma il numero di telefono di questo Yuya me l'ero segnato.

Se ripenso a quella colazione e a quella mail, la delusione torna a galla in tutte le sue sfumature. La torta al té verde non l'ho mai più ordinata, ma il ragazzo l'ho chiamato. E così l'amico di Lorenzo è diventato il mio primo conoscente giapponese.

Questa sera aspetto Yuya per cena. Gli ho promesso di cucinare italiano. Non ho ancora trovato un appartamento in affitto e vivo in una guest house, una di quelle strutture con camere dotate di bagno e la cucina in comune. I miei coinquilini sono una coppia di ragazzi francesi e un'israeliana. Non ci sono mai e nessuno si sogna di usare la cucina anche se è ben attrezzata: molto più semplice una ciotola di cup ramen o un pranzo confezionato del minimarket.

Ho deciso di proporre a Yuya un menu italiano per ricambiare il suo invito di alcune settimane fa in un ristorante giapponese. Sua sorella Setsuko lavora come cameriera in un prestigioso locale di cucina tradizionale: "È possibile entrare solo se ti presenta qualcuno" aveva precisato lui. Avevo accettato subito: l'esperienza mi incuriosiva e il cibo giapponese era tra i miei preferiti anche in Italia.

La sera della cena al ristorante faceva già freddo. Yuya mi aspettava davanti ai grandi magazzini: "Se non sai dov'è, l'entrata del locale è impossibile da trovare".

Infatti senza di lui non ce l'avrei mai fatta: lo avevo seguito per un intrico di viuzze che sembravano portare nel nulla.

L'ingresso pareva quello di una casa antica. Anche il profumo era insolito, un misto di incenso e riso dolce.

Dopo esserci sfilati le scarpe, avevamo percorso un lungo corridoio di legno. I nostri passi non producevano alcun suono. Eppure una cameriera si era subito accorta di noi e ci aveva accompagnati fino a un piccolo tavolo. Poi, dopo una breve attesa, aveva appoggiato davanti a me un vassoio coperto da un rettangolo di legni intrecciati, qualche grumo di neve e delle foglie di acero.

"Sulle montagne ha nevicato proprio oggi" aveva detto la cameriera. Doveva essere Setsuko, la sorella di Yuya. Mi sembrava di intuire una leggera somiglianza.

Yuya aveva bevuto una tazza di té, ma non aveva ordinato nient'altro: "Perdonami, non ti terrò compagnia. Oggi non sono stato bene e preferisco non mangiare" si era giustificato.

"Ma avremmo potuto rimandare!" avevo esclamato.

"Trovare posto in questo ristorante non è così semplice."

Mi rendevo conto che per insistere era troppo tardi.

"Mi dispiace."

Lui aveva abbassato gli occhi: "Davvero, non ti preoccupare".

Anche il mio sguardo era sceso, fermandosi sul vassoio davanti a me. Toccare quel quadro alimentare mi sem

brava ingiusto. E poi era imbarazzante essere l'unica a mangiare. Quasi che, in tutto quel silenzio, i gesti, i movimenti e i suoni si amplificassero.

Il polso sottile di Setsuko, che era rimasta accanto a noi, era spuntato dalla manica del kimono. Con un gesto leggero aveva tolto la copertura di ramoscelli portando alla luce il cibo: uova di salmone, tartare di pesce palla, filetti di carne cotti su brace di pino. Avevo finito tutto.

Di tanto in tanto rivolgevo a Yuya un sorriso che lui, ogni volta, ricambiava.

"La cura degli ingredienti è fondamentale" mi aveva detto.

Io avevo annuito.

Setsuko era tornata per portare via i miei piatti vuoti.

"È una gioia vederti mangiare senza timore" mi aveva detto.

Timore per cosa? Quella frase mi era suonata strana. Ma l'avevo imputata al mito del pericoloso pesce palla che mi avevano offerto in uno dei piatti.

"Yuya, posso portarti almeno un po' di riso bianco?" Setsuko glielo aveva chiesto in giapponese ma avevo capito lo stesso. "Riso bianco" era un termine che compariva quasi in ogni menu e mi era familiare. Lui aveva scosso la testa e aveva abbassato il volto.

Avevo guardato Setsuko. Ma i suoi occhi cercavano quelli del fratello.

In quell'espressione avevo riconosciuto la premura di una sorella maggiore, o di una madre.

"È tutto così buono" le avevo detto, anche per cercare di sciogliere la tensione che mi pareva essersi creata. Lei aveva risposto con un piccolo inchino. E dopo poco era comparsa con una nuova portata.

I petali del sashimi erano un susseguirsi di pesci argentati, carni iridescenti o dalla polpa scura. L'abitudine a un

cibo occidentale fatto di fusioni, elaborazioni e mescolanze mi faceva sentire spaesata davanti alla naturalezza e alla pulizia degli ingredienti. E del loro sapore.

"Ogni stagione ha i suoi colori, i suoi frutti e i suoi pesci. Nella cucina giapponese questo non viene solo rispettato ma esaltato. Quasi a creare uno stretto legame tra l'ambiente esterno e il piatto, per potenziarne l'efficacia."

Setsuko con movimenti leggeri mi aveva versato dell'altro té mentre io stavo per dire una banalità: "È tutto così diverso rispetto al cibo occidentale".

"Non è solo il cibo a essere differente" mi aveva risposto restando immobile. "La vostra tavola apparecchiata, per esempio, a me fa uno strano effetto. La tovaglia bianca mi ricorda un sudario sul quale però ci sono piatti, vetri trasparenti. Posate metalliche con denti e lame per scavare, incidere e sezionare. Proprio come un tavolo anatomico imbandito con i suoi attrezzi."

"In effetti vista così non è per nulla gradevole."

Non aveva torto: rispetto alle ciotole dalle forme morbide e dai colori luminosi, alle lacche e ai materiali naturali che avevano accolto il cibo questa sera, l'apparecchiatura occidentale poteva sembrare poco confortevole.

Erano portate splendide quelle che mi avevano offerto.

Non mi ero sentita solo nutrita, avevo vissuto un'esperienza complessa, che aveva coinvolto i sensi e le emozioni. Yuya aveva cercato di non farmi pesare il suo digiuno sorseggiando di continuo del té. Ma io mi ero sentita scorretta: davanti al suo stomaco vuoto i miei denti affondavano in continui nuovi sapori.

"Mi farò perdonare cucinando una cena italiana per te" mi ero quasi scusata.

"Ne sarei onorato" aveva risposto sorridendo.

Quando Yuya suona il campanello di casa mia, prima di aprirgli tuffo gli spaghetti nell'acqua bollente. Ho preparato un sugo di pomodori freschi, pagando ogni frutto una cifra spropositata. Poi gli servirò delle polpette di carne, delle patate arrosto e un'insalata verde. Niente di speciale, ma la ricerca degli ingredienti non è stata semplice. Yuya, come d'accordo, ha portato un dolce. Una Chiffon cake, che da queste parti riscuote parecchio successo. Non pensavo che anche i dolci seguissero una moda e invece qui vengono trattati come i colori in una nuova collezione di abbigliamento.

Ho comprato forchette e coltelli per apparecchiare all'occidentale nonostante le immagini di Setsuko avessero dato tinte sinistre a ciò che per me era la normalità.

Yuya si ferma sulla porta, io mi pulisco le mani sul grembiule prima di stringere la sua. Qui baci e abbracci non sono previsti.

"Benvenuto, accomodati pure."

Si inchina.

"Ti ringrazio per l'invito" risponde guardandosi intorno. La cucina è anonima e di mio non c'è nulla.

"La pasta non ci metterà molto a cuocere."

Lui sorride. Non parla, mi sembra imbarazzato. Eppure quando gli ho proposto la cena mi era parso che gli facesse piacere.

"Lorenzo mi ha chiesto di lasciarti le chiavi del suo appartamento, l'affitto è già pagato."

Giusto, Lorenzo. Avrei voluto parlargli anche di questo.

Mi volto verso di lui e rispondo con una stizza che non può capire: "Lo sa benissimo che non voglio andarci in quella casa".

Yuya, senza aggiungere più nulla, appoggia il mazzo di chiavi sul mobile all'ingresso accanto a uno dei tanti giornali abbandonati lì. Ne prende uno di design e lo sfoglia.

Intanto io, mescolando l'acqua che non riprende a bollire, cerco di allontanare pensieri che rovinerebbero la serata.

Scolo la pasta e la condisco con il sugo e un giro d'olio.

"È fatta con il pomodoro fresco" dico orgogliosa.

Lui mi guarda.

"Non hai usato le conserve italiane?"

Vorrei dirgli che gli ingredienti freschi, proprio come mi spiegava al ristorante, sono la base della buona cucina. Ma lascio perdere. Mi siedo, prendo la forchetta e inizio a mangiare. Yuya mi versa dell'acqua. Non parliamo e quel sussurro liquido è l'unica voce tra noi.

"La scorsa settimana sono stata a Tokyo per la commemorazione del terremoto" gli dico. "Sembra passato così tanto tempo e invece è solo un anno."

I suoi occhi cercano qualcosa alle mie spalle, anche se non c'è nulla.

"A me invece non pare sia passato neanche un giorno."

Non so cosa rispondere e sento di aver detto qualcosa di sbagliato.

Assaggio la pasta, mi piace, ha tenuto bene la cottura. Anche le polpette arrostite profumano e sono invitanti. Ho servito gli spaghetti arrotolandoli nel mestolo per formare un piccolo nido, ma Yuya non li tocca. Non ha nemmeno sollevato le mani dalle ginocchia.

Io mastico, deglutisco. I sapori nella mia bocca liberano una piacevole energia. Lui guarda il piatto pieno davanti a sé, che si sta raffreddando ed è sempre meno attraente.

Sento il suo stomaco che gorgoglia.

"Non hai paura che il cibo sia contaminato dalle radiazioni?" mi chiede all'improvviso.

"Sì, ci ho pensato prima di partire. E ancor più quando ho deciso di fermarmi. Ma no, non ho paura." Mangio un pezzo di pane. Deglutisco. "E tu?"

Beve dell'acqua che non può saziarlo. Come il té quella sera al ristorante.

Io assaggio l'insalata, le foglie sono tenere e dolci.

"Da dove arrivano le verdure?" mi chiede. Non so rispondergli perché io sono tranquilla. È vero, la contaminazione non ha sapore, ma le autorità ci hanno rassicurati e io ci credo.

Yuya sospira, guarda l'orologio.

"Era tutto buonissimo" mi dice alzandosi.

I suoi spaghetti sono rimasti nel piatto e il pomodoro comincia a rapprendersi. Le posate sono sul tovagliolo, proprio come le avevo messe.

So che non c'è nulla che possa dire per rassicurarlo, ma vorrei almeno provarci. Ripenso a Setsuko, a quello che mi aveva detto al ristorante: "È una gioia vederti mangiare senza timore".

"Vado o rischio di fare troppo tardi, domani lavoro."

"Non vuoi nemmeno una fetta di torta?"

"No, mangiala tu. Ti ringrazio."

Infila il cappotto. Sembra andargli largo: cadente sulle spalle e vuoto sulla schiena. È lo stesso che indossava alcuni mesi fa, quando l'ho conosciuto. E allora gli calzava perfettamente.

 

23-1 L'ora del Topo

Questa è l'ora in cui i topi vanno alla ricerca del cibo

 

Da quando mi sono svegliata non ha smesso di piovere un istante. È marzo, e giornate primaverili si alternano ad altre profondamente autunnali. Oggi è una di queste. Sto tornando a casa in taxi dopo una serata con Miki, l'agente immobiliare che mi ha aiutato a trovare un appartamento in affitto.

Le chiavi di Lorenzo le porto sempre in borsa, anche se non ho voluto sapere l'indirizzo. Potrei chiederlo a Yuya e andare a curiosare. Ma alla fine preferisco lasciar perdere. Almeno per ora. Non che abbia paura di fare chissà quali scoperte. Anzi: ho il timore che sia tutto normale e che in realtà Lorenzo abbia deciso di allontanarsi da me.

Non è stato semplice incontrare qualcuno che si facesse carico di una cliente che parlava solo inglese. Ma Miki è stata disponibile fin da subito.

Come tante giapponesi ha un'età indecifrabile: ogni tanto sembra una ragazzina mentre in altri momenti pare quasi una donna dal passato burrascoso. Basta che cambi pettinatura o trucco. A volte è lo sguardo, come se passasse una nuvola rapida sul sole. Mi ricorda mia madre da giovane, nelle fotografie insieme a papà. Accanto a lui pareva molto più adulta. Mio padre invece per me avrà sempre l'età che aveva nelle foto sul comodino della mamma, in quelle a casa dei nonni. O nell'ovale in bianco e nero dietro a un mazzo di fiori che non dobbiamo lasciare appassire. Per me papà resterà eternamente un ragazzo.

Forse è anche grazie a questa somiglianza che, dopo avermi aiutata a trovare casa, Miki e io siamo diventate amiche.

Qualche giorno fa mi aveva invitata alla festa che la sua agenzia aveva organizzato per hanami, la fioritura dei ciliegi. Un picnic tra i petali a partire dalla mattinata. Ma poi, all'ultimo, aveva disdetto.

"Vittoria, piove troppo. La festa è stata annullata. Mi dispiace" mi aveva detto al telefono. Dal letto potevo sentire le auto sollevare l'acqua in strada.

Nel dormiveglia avevo sospettato che per festeggiare la primavera avrei dovuto aspettare ancora un po', e la sua chiamata lo aveva confermato.

"Sì, dispiace anche a me. Ma con questo tempo..."

"Se però ti va possiamo uscire a bere qualcosa, oggi sono comunque in ferie."

Miki lavora moltissimo, non sa mai a che ora finisce e ci possiamo vedere con calma solo se è il suo giorno libero.

"Volentieri, facciamo alle 21?"

Dopo aver appeso il telefono mi ero rimessa a dormire per alzarmi solo all'ora di pranzo. In realtà quegli orari non mi piacevano affatto, ma il clima e la giornata vuota mi avevano conciliata. Il pomeriggio lo avevo passato leggendo e guardando vecchi film sul Pc, in attesa di uscire.

Il locale era abbastanza pieno, ma avevo trovato comunque un posto. Miki era in ritardo e mi aveva avvisata.

Mi ero guardata intorno. Il giapponese per me era ancora un rumore di fondo e in quei contesti mi sentivo spaesata. Avevo aperto la borsa per cercare il cellulare e fingermi impegnata. Insieme al solito disordine avevo trovato anche una rivista gratuita per stranieri che avevo preso al supermercato. Avevo cominciato a sfogliarla: moda, cibo, libri, viaggi. Un articolo nella sezione Società mi aveva incuriosito e avevo iniziato a leggerlo.

Una soluzione c'è ed è sparire. Scappare da una persona, da molte. Da una quotidianità feroce. Diventare un ricordo, per poter essere ovunque e in nessun luogo. Evaporare.

Era un concetto che non riuscivo a comprendere se applicato alla vita.

Le persone che decidono di scomparire, in Giappone, sono chiamate johatsu, che significa "evaporare, sfumare nel nulla". Si tratta di un fenomeno antico che però negli anni '90 ha visto un deciso sviluppo a causa dello scoppio della bolla finanziaria. Infatti, a seguito della crisi, molti uomini, donne, ma anche intere famiglie hanno deciso di liberarsi del loro passato per provare a ricominciare. Nella letteratura giapponese dell'Ottocento il destino di questi fuggitivi veniva associato alle fonti termali, dove si diceva che questi si recassero per purificarsi. I vapori benefici degli onsen avrebbero avvolto il loro passato fino a dissolverlo. Alcuni di loro, una volta liberi, sceglievano di togliersi la vita. Altri di riapparire altrove.

Avevo guardato l'orologio: erano le 21.30 ed ero quasi tentata di chiamare Miki per capire cosa fosse successo. Ma prima volevo finire l'articolo.

I debiti non rimborsati, la pressione degli usurai, la perdita del lavoro. O ancora, l'ossessione per l'abbigliamento di lusso che porta alcune donne a trovarsi sommerse di debiti. Le violenze coniugali o la possibilità di svolgere solo professioni troppo faticose per riuscire a reggere e avere una vita. Queste sono alcune delle cause che possono portare fino al doloroso bivio: morire o perdere tutto e provare a ricominciare.

Ma si scompare anche per il disagio di non essere all'altezza delle aspettative della propria famiglia. L'umiliazione di farsi vedere in condizioni precarie dalle persone che si amano, la complessità di vivere nella paura, il timore di leggere la delusione - se non addirittura il disprezzo - sul volto dei propri cari. Allora meglio perdere il proprio nome, la propria identità. E diventare fantasmi. Per farlo ci si può rivolgere a un'agenzia specializzata in questi particolari tipi di traslochi. In Giappone sono numerose: quando il sole cala e il buio comincia a insinuarsi dove le luci violente delle insegne pubblicitarie non hanno la meglio, appaiono Loro. Attenti ed efficaci. È quasi ironico, ma l'efficienza giapponese si può manifestare anche in un trasloco notturno. Pulito, nitido. Emotivamente asettico. Lenzuola, tende nere, furgoni. E in un soffio, con la maggior rapidità e discrezione, dopo aver coperto le finestre, imballano gli oggetti personali e il mobilio. Destinandoli a un altrove segreto.

"Benvenuta, le lascio il menu." Ero così immersa nella lettura che avevo sussultato.

La giovane cameriera aveva appoggiato un foglio plastificato sul tavolo insieme a una salvietta calda per pulirmi le mani.

"Grazie. Ma per ordinare aspetto un'amica." Le frasi basilari in giapponese ero riuscita a impararle. Appena lei si era allontanata avevo ripreso il giornale.

Non sempre chi decide di evaporare però è una vittima. Anche i colpevoli svaniscono nel nulla.

Ebbe grande risonanza, alcuni anni fa, il caso di una ragazza che dopo aver brutalmente ucciso le proprie colleghe di lavoro aveva trovato un anonimo rifugio in una prestigiosa locanda termale. Qui aveva ottenuto un impiego come cameriera, tra gli stessi vapori che offrivano un nascondiglio ai fuggiaschi sin dall'epoca Edo. Con indifferente cortesia puliva le stanze e provvedeva alla biancheria degli ospiti fino a che non è stata scoperta. A seguito di questo e altri scandali, gli alberghi termali sono diventati più selettivi nel reclutamento del personale. Ma è tuttora possibile che tra i numerosi camerieri, facchini e addetti alle pulizie che affollano le onsen ryokan nei periodi di grande affluenza ci siano persone che hanno lasciato evaporare la loro identità precedente perché macchiata da qualche crimine.

Oltre alle terme dai vapori sulfurei, i luoghi dove gli "evaporati" trovano rifugio sono essenzialmente di due tipi, caratterizzati da una solitudine antitetica: le vaste e spopolate campagne del Nord oppure i popolosi e anonimi quartieri delle periferie urbane.

Nel Giappone delle metropoli, i giovani hanno da tempo abbandonato il legame con la terra preferendo un'esistenza più moderna e confortevole fra i grattacieli. Di conseguenza, nelle province settentrionali, si trovano ampi territori poco abitati, e si fatica a incontrare persone desiderose di coltivare i campi. Un contadino che compare dal nulla, con un passato ignoto e un nome qualsiasi, forse desterà qualche sospetto fra i proprietari confinanti, ma probabilmente nessuno arriverà al punto di fare domande.

Gli altri luoghi dell'impersonalità per eccellenza sono le grandi città, e in particolare i quartieri poveri. La civiltà giapponese, un tempo basata sulla coesione del villaggio e del quartiere, sta mutando verso una società di estranei. Se nei quartieri delle persone benestanti è ancora usuale presentarsi quantomeno ai vicini, nelle zone più povere queste cortesie sono andate perdute. E in alcuni rioni specifici sono accuratamente evitate: la presentazione potrebbe avvenire proprio tra due "evaporati".

In Giappone la legge riconosce alle persone il diritto di scomparire, anche se le famiglie degli "evaporati" non hanno nessun supporto. Sono decine di migliaia gli uomini e le donne che oggi vivono come delle ombre, che si svegliano ogni giorno con la consapevolezza che mai più potranno lasciare quella marginalità, uscire dall'anonimato.

Arrivata alla fine del pezzo avevo chiuso la rivista. Avevo cercato di immaginare quanto dovesse essere profondo il disagio di chi compiva una scelta simile. Poi avevo pensato alla mia camera in Italia, alla distanza che mi separava dagli oggetti che avevo toccato e visto ogni giorno da quando ero bambina. E forse qualcosa delle storie che avevo appena letto mi aveva raggiunto.

Mi ero guardata di nuovo intorno, il locale ora era quasi pieno. Io stavo occupando un tavolo senza aver ancora ordinato nulla e sapevo che non era buona educazione. Mentre cercavo di intercettare la cameriera mi ero accorta che, seduta in fondo al ristorante, c'era la custode dell'appartamento dove vivevo. Mi ero alzata per andare a salutarla. Era l'occasione che cercavo da tempo per scambiare

qualche parola. Mi incuriosiva la sua storia e il fatto che conoscesse un po' di italiano, come mi aveva detto Miki. Ma proprio mentre mi muovevo tra la folla per raggiungerla, la mia amica era arrivata trafelata.

"Scusami davvero, sono imperdonabile." E si era messa a raccontarmi le sue ultime disavventure amorose. Così mi ero dimenticata della custode e dell'articolo.

Miki ha avuto molta pazienza con me, nell'aiutarmi a trovare l'appartamento. Non avevo a disposizione parecchi soldi dato che ero riuscita a trovare solo un paio di lavoretti: uno serale in un ristorante italiano e un altro a casa di Setsuko, la sorella di Yuya. Suo marito, un ingegnere di Roma, desiderava che le figlie imparassero anche la sua lingua. Così io davo lezioni di italiano alle due bimbe.

Non ricercavo caratteristiche occidentali in una casa giapponese, ma era importante che mi facesse una buona impressione.

Erano quasi tutte piccole, con una cucina discretamente spaziosa e la stanza da letto con i tatami. Nessun appartamento era arredato. Gli armadi erano delle scaffalature che correvano lungo le pareti protette da pannelli di carta. Niente tavoli, sedie, divani. In realtà mi accorsi che quello spazio vuoto non mi dispiaceva affatto. Anzi, decisi che qualunque appartamento avessi scelto non l'avrei saturato come aveva fatto mia madre con la nostra casa. Ogni tanto mi chiedevo come fosse quella di Lorenzo.

Quando salimmo al quarto piano di una palazzina bianca che sorgeva davanti a una tavola calda con l'insegna a forma di coniglio, la trovai subito migliore delle altre. Ma a convincermi definitivamente fu la grande quantità di piante che popolavano l'ingresso e tutto l'atrio.

"Di queste se ne occupa la custode, è un suo passatempo" mi disse Miki. "Abita proprio dall'altra parte della strada. È una sicurezza averla tanto vicina, e parla anche un po' di italiano."

"Davvero? Come mai?" Quella sistemazione cominciava a piacermi sul serio.

"Prima di lavorare qui era una cantante lirica e l'italiano lo ha imparato dai libretti d'opera. Almeno, così mi ha raccontato."

"E come mai ha smesso?"

"Non te lo so proprio dire."

La donna non doveva avere un grande talento per il giardinaggio, visto che le piante non godevano di buona salute. Pareva di entrare in una piccola clinica per fiori malconci. Ma per qualche ragione mi piacque. Così, dopo aver visionato l'appartamento che era anche più ampio dei precedenti, lo scelsi. Miki, quando mi vide così decisa, sembrò preoccupata.

"C'è una cosa che non ti ho ancora detto."

Si era già rimessa le scarpe e mi aspettava sul pianerottolo, io intanto stavo ancora allacciando le mie.

"Spese straordinarie?"

"No. Qualche anno fa la persona che ci abitava è morta dentro casa. Per questo costa meno, nonostante sia migliore di quelle che hai già visto. Scusami se non te ne ho parlato subito."

Mi alzai in piedi, guardai ancora una volta l'appartamento. Era luminoso, sulle finestre non c'erano persiane o tapparelle. E nemmeno le tende. Le pareti bianche, il pavimento di legno di un colore caldo. Nulla che comunicasse una sensazione di morte. Niente che trattenesse qualcosa di sgradevole.

"A me questa casa piace" le dissi.

Mentre scendevamo in ascensore ripensai ai muri tra i quali avevo abitato in Italia. Quasi mai mi ero interrogata sulla sorte dei precedenti inquilini.

"Perché me lo hai detto? Normalmente questo ha qualche influenza sulla scelta di un appartamento?" le chiesi.

"In Giappone sì."

"Ma io non ho paura degli spiriti" dissi.

Lei mi guardò facendomi capire che la questione era molto più complessa di così.

Io, comunque, in quella casa mi trovai bene fin da subito. Il piccolo balcone dava su una strada per nulla trafficata e gli odori del ristorante erano quasi gradevoli. Qualche dolce, pollo arrostito e frittate leggere. Nel palazzo di fronte, allo stesso piano, ero certa che vivesse la custode. Lo capii dalla quantità di piccole piante, vasi vuoti, annaffiatoi e altri attrezzi da giardinaggio che occupavano il suo terrazzino. A pochi giorni dal mio trasferimento ne ebbi la conferma: la vidi trapiantare dei bulbi che poi comparvero proprio accanto al mio zerbino. Nel giro di qualche settimana quei cipolloni marroni fiorirono. E il loro profumo, passando da sotto la porta, mi raggiungeva intenso.

L'aspetto di quella donna aveva qualcosa di tenero. Non era minuta come molte kyotonesi ma, nella sua rotondità, esprimeva comunque leggerezza. Mi colpiva il disordine che riusciva a produrre nei piccoli angoli del giardino che erano sotto la sua disciplina. Era una stranezza che avevo già notato in altri scorci della città: un ordine impeccabile nei luoghi condivisi che contrastava con una confusione negli spazi personali. Garage stracolmi di oggetti inutilizzabili, il retro dei locali con casse e bottiglie coperte da polvere e muschio. Era un'ambivalenza che lasciava filtrare qualcosa.

Ogni giorno la custode, anche se si occupava di terriccio e cesoie, si truccava, raccoglieva i capelli e li appuntava con un pettine dal quale scendevano fili di minuscole pietre preziose. Quando lavorava sul balcone o la incontravo in giardino indossava sempre dei lunghi guanti bianchi che si sporcavano subito. E una visiera scura, che la proteggeva anche se non c'era il sole.

"Alcune donne hanno ancora il terrore che la luce possa rovinare il loro pallore" mi aveva spiegato Miki.

In diverse occasioni avrei voluto scambiare qualche parola con quella signora ma lei, anche se mi salutava sempre, era rapida a tornare con gli occhi sulle sue piante.

Il nostro dialogo passava attraverso i fiori. Non lasciava mai sguarnito di boccioli pronti a schiudersi lo spazio accanto alla mia porta.

Ero l'unica per cui aveva tali attenzioni. Accanto agli altri appartamenti non cresceva mai nulla.

Quando questa notte, dopo aver riso e bevuto in compagnia di Miki, scendo dal taxi davanti a casa, per un istante temo di avergli dato l'indirizzo sbagliato. Forse sono un po' brilla ma non abbastanza da commettere un errore simile. Eppure non riconosco il lastricato bianco e il giardino senza più nemmeno un vaso. Il ristorantino con l'insegna a forma di coniglio però è sempre al suo posto. Pago la corsa e, quasi come se stessi entrando in casa di qualcun altro, raggiungo il quarto piano. Nemmeno nell'atrio e accanto al mio zerbino ci sono i fiori.

La testa mi gira, ho una leggera nausea. Appena entro in casa mi stendo sul futon. E mi addormento.

È il suono del telefono a interrompere il mio sonno. "Buongiorno Vittoria. Stavi ancora riposando?" mi chiede Miki.

Ci metto un po' a ricomporre gli ultimi frammenti della serata. Sono ancora vestita, gli occhi mi bruciano perché non mi sono struccata.

"Hai fatto bene a svegliarmi, sono crollata appena entrata in casa. Ho bevuto troppo."

"Ti sto chiamando dal lavoro."

Da quella frase capisco che non è il momento di chiacchierare.

"Dimmi."

"Mi ha telefonato poco fa il proprietario del tuo appartamento. Da domani avrete una nuova custode."

Ripenso alle piante che non avevo più trovato la sera prima.

"Come mai? L'hanno licenziata?"

"No. È lei a essere sparita questa notte. Con tutte le sue cose."

"Non è possibile, l'ho vista ieri mentre..." Ma poi decido di non concludere quella frase. "Ma sono sicuri? Non ha un parente da contattare? Magari è solo andata da lui per qualche giorno."

"No, nessuno. Era lei ad abitare nel tuo appartamento prima che arrivassi. E suo marito, come ti ho detto... Le indagini sulle cause della sua morte non si sono ancora concluse."

Vorrei chiederle qualcosa di più, ma sento chiamare Miki a gran voce.

"Ora ti saluto, devo scappare. Ci sentiamo più tardi."

Torno a sdraiarmi cercando di mettere in ordine le informazioni, le sensazioni. Quello che avevo visto e quello che stavo cercando di capire.

Mi alzo dal letto, vado in bagno. Il mio viso dal trucco disfatto sembra quello di un'artista derelitta, una cantante d'opera, una circense. Non mi lavo via il rossetto troppo

acceso e il mascara sbavato. Mi metto il cappotto e gli stivali e, come sovrappensiero, raggiungo il fioraio dell'isolato. Compro un giacinto viola che metto accanto alla mia porta. Mi ricorda chi se n'è andato, chi è evaporato, e me ne prendo cura ogni giorno.

 

 

1-3 L'ora del Bue

Questa è l'ora in cui il bue comincia a ruminare con lentezza e metodicità

 

Il locale di Hiro è buio e fumoso, ma mi piace molto. Così tanto che da quando sono arrivata qui a Kyoto è l'unico che frequento. Forse nella mia fedeltà c'è anche un po' di pigrizia o una sorta di impressione di familiarità: è il locale di cui Lorenzo mi ha sempre parlato, quello dove aveva fatto gli incontri più interessanti. E alla fine io ci vado soprattutto per questo. Non per le persone che potrei conoscere ma proprio per Lorenzo, quasi che i suoi ricordi e i suoi racconti fossero diventati i miei.

Il bar è piccolo e si trova al secondo piano di un edificio malconcio. Ecco un'altra cosa della quale continuo a scordarmi: il fatto che qui i negozi non si sviluppino solo in orizzontale ma anche in verticale. Parrucchiere al quarto piano, agenzia immobiliare al terzo e pasticceria al primo. In questa città bisogna imparare ad alzare gli occhi.

Da Hiro ordino sempre una birra, lui si avvicina, mi appoggia un piccolo bicchiere davanti. Sfodera delle bacchette e, usandone il retro, stappa la bottiglia. Mi piace quel suo gesto sicuro. Io ci ho provato una volta e i bastoncini mi si sono spezzati tra le mani.

Nel suo locale ci sono volti sempre nuovi, solo qualcuno è una presenza costante. Spesso sono l'unica occidentale. Come questa sera, ad esempio.

"Ciao, di dove sei?" mi chiede in inglese la ragazza che occupa, insieme a un gruppo di amiche, il tavolo alle mie spalle. Ha un viso dolce, fine, rovinato però da una dentatura sconnessa. Mi volto sorridendo. Ho imparato che rispondere "Indovina" è la cosa più apprezzata.

"Americana? Francese?"

"Ci sei quasi."

"Italiana?"

"Esatto!"

Anche questa sera, come altre volte, si scatena una sorta di euforia per la mia provenienza. Una delle ragazze mi racconta subito di essere stata in Italia: vestiamo tutti benissimo, dice. Altre due mi confessano che è lì che vorrebbero andare appena avranno una settimana di vacanza. Poi c'è sempre qualcuno che conosce i classici della letteratura e che sottolinea quanto sia buona la nostra cucina, persino se mangiata qui a Kyoto. E poi se sono italiana sono anche socievole, simpatica e via di questo passo. Tre ragazze lasciano il loro posto per sedersi accanto a me, mi offrono altra birra e ordinano qualche piatto di sashimi da condividere. La serata è allegra e, prima di lasciare il locale - abitano tutte fuori città e non possono perdere l'ultimo autobus -, mi invitano alla loro festa lungo il fiume il giorno dopo. Potrei portare un piatto italiano, ne sarebbero entusiaste.

Me lo domandano ma non sorrido. Quando ho cucinato per Yuya una cena italiana non è stata esattamente una serata riuscita. E poi, in quel momento, si fa avanti un altro ricordo. Riguarda Lorenzo. La nostra distanza.

"Niente di complicato, non vogliamo farti lavorare! Le lasagne sono difficili da preparare?" mi chiede la prima ragazza che mi aveva avvicinata.

"Sì sì, le lasagne!" dice un'altra che indossa un corpetto rosa leopardato. "Mi piacciono tanto!"

"Le lasagne andranno benissimo" dico. Ma in realtà sto ripensando a una sera italiana, quando, dopo essere stati al cinema, Lorenzo e io ci siamo infilati nel primo ristorantino tranquillo della via. Era una trattoria siciliana con pochi coperti. Io avevo ordinato una pasta alla Norma, mi avevano portato una porzione immensa. Le melanzane fritte traslucide, il profumo di basilico, la ricotta dura che si scioglieva. Non pensavo di ricordarmi così bene di quegli odori.

"Vero che mi aiuti a mangiarla?" gli avevo chiesto. Lorenzo mi aveva sorriso. "Certo che ti aiuto, e intanto ti racconto dove ho mangiato la mia ultima pasta alla Norma." La nostra relazione era iniziata proprio con i suoi racconti. E su quella scia era continuata.

Così, mentre arrotolavo gli spaghetti sulla forchetta, lentamente, come ciocche intorno a un dito, ascoltavo la sua storia.

"Ero in quel locale di Kyoto, da Hiro, quello di cui ti ho già parlato. Tra le persone sedute al mio tavolo c'era anche una ragazza, o forse una donna. Non sono bravo ad attribuire l'età ai giapponesi. Si chiamava Asako, mi offrì da bere, parlammo a lungo di non ricordo cosa. Era lì con altre colleghe, lavorava come commessa in uno dei grandi magazzini più chic della città. Prima di andarsene mi propose di raggiungerla una sera del fine settimana perché avrebbe dato un piccolo party a casa sua. Accettai."

Masticavo lentamente, senza guardarlo. Non era la prima volta che mi raccontava delle donne che gli erano piaciute o di quelle di cui si era innamorato. Quella sera, forse perché mancava così poco alla sua partenza, mi stava dando fastidio. Anzi, temevo che fosse un modo per ricordarmi che quello che c'era tra noi non era poi così serio.

"Quando uscii dall'ascensore, Asako era già sulla porta, indossava uno yukata corto, rosso e oro, e aveva i capelli raccolti in maniera disordinata. Mi mostrò la casa e anche se io la seguivo distratto mi accorsi che, in ogni stanza, aveva appeso una riproduzione di un dipinto di Botero. Quei corpi dilatati mi colpirono. E quando riportai lo sguardo sui fianchi sottili di Asako mi parvero ancora più belli."

Mi ero pulita la bocca dal sugo della pasta, avevo bevuto un sorso di vino bianco fresco. Questa volta l'avevo guardato: mi raccontava tutto questo per prendere le distanze, mi stava dicendo: "Non fare affidamento su di noi". Ora basta, lo avevo capito quindi poteva anche smettere. Ma lui non si accorgeva di nulla.

"La cucina era in assoluto la stanza più vissuta, anche se ogni cosa era rigorosamente in acciaio, elettrodomestici compresi. Acciaio anti-impronta, mi aveva precisato lei. E per dimostrarmelo mi aveva preso il polso per farmi appoggiare la mano sul piano di lavoro, dove non lasciò traccia. Tutto quel metallo gelido aveva qualcosa di chirurgico ma anche di sensuale. Sulla parete vicino al frigorifero un immancabile Botero: una donna grassa sdraiata con un'arancia a spicchi davanti a sé. Senza ombre e con lo sguardo fisso nel vuoto." "A me Botero non piace" avevo detto a Lorenzo. Ma solo per ricordargli che ero lì.

"Mh, nemmeno a me. Ma non è questo il punto. Asako mi disse che la sera del nostro incontro da Hiro aveva ripensato all'Italia, alle vacanze che ci trascorreva da bambina. E alla pasta con le melanzane e la ricotta salata che mangiava con suo padre in trattoria sopra una tovaglia immacolata. Aveva cercato su internet e aveva comprato gli ingredienti perché io gliela preparassi.

Pasta alla Norma, proprio come l'opera, giusto?' Poi mi aveva sorriso e, passandomi un braccio intorno alla vita, aveva canticchiato a mezza voce un brano famoso della Norma di Bellini. Le sue labbra mi sfiorarono ma poi sfuggì."

Io intanto mi ero messa ad appallottolare un pezzo di mollica che avevo scartato. Era così indisponente, avrei voluto alzarmi di scatto dalla sedia e dirgli: "Ma credi che questa storia mi interessi davvero?". E invece avevo ridotto il pane a una sfera grigiastra senza ricevere attenzioni. Mentre parlava tracciava con la lama del coltello delle grate sul tovagliolo.

"Affettai le melanzane mentre lei preparava le cose da bere, intanto chiacchieravamo del più e del meno, anche se parlavo molto di più io. Mi aiutò a spellare i pomodori. Avevamo entrambi le mani sporche e cotte dal liquido della verdura, lei strinse tra le dita il pomodoro facendolo schizzare ovunque. Rise, mi venne accanto e dopo avermi tolto un seme dalla barba mi baciò. Aveva un sapore amarognolo e mi sembrava quasi che la sua lingua spingesse via la mia. Come se volesse ricacciarmela giù. Me lo ricordo perfettamente."

Intanto il cameriere ci aveva portato gli involtini di pesce spada e le sarde al beccafico.

"Ma quante cose abbiamo ordinato?" avevo esclamato con una voce più alta di quanto avrei voluto.

"Non ti preoccupare, devo farmi le scorte di cibo italiano. Quello che non ti va lo finisco io.

Comunque in realtà quel bacio era eccitante, una piccola lotta. Appena le misi le mani sulle spalle per farle scivolare via lo yukata, lei si divincolò, buia in volto. Io rimasi interdetto, temetti che mi rimproverasse di essere il solito italiano. E invece mi sorrise, mi strizzò l'occhio e cantò di nuovo sorridendo l'aria di Casta diva.

In quel momento suonò il campanello: iniziavano ad arrivare i primi ospiti.

Quando la festa finì, sul tavolo erano rimasti solo piatti sporchi e qualche avanzo. Asako, in compenso, non aveva toccato cibo per tutta la sera.

Glielo feci notare, ma mi disse che non le piaceva mangiare e chiacchierare insieme e che poi, cucinando, aveva assaggiato tutto.

'Tranne la mia pasta' le avevo detto sorridendo.

'Ne è avanzata, la mangerò domani, non temere.'

'Ma come, hai scelto il piatto, mi hai detto che ti ricordava l'Italia e ora nemmeno l'assaggi?' Mentre insistevo cominciai a metterle i maccheroni nel piatto. Mi guardò e mi parve sul punto di tirarmi uno schiaffo. Ma forse avevo solo bevuto troppo. Poi si sedette, prese una forchetta dal cassetto e mangiò.

'È buonissima.' Lo disse come se la cosa, in qualche modo, le dispiacesse. Guardavo le sue labbra sporcarsi di pomodoro, la sua lingua abbassarsi per accogliere ciò che le avevo preparato. Questa volta fui io a baciarla e lei mi lasciò fare.

Iniziò a sbottonarmi la camicia e io le misi le mani sui glutei, sotto lo yukata.

'Arrivo subito, solo un istante' mi disse, e io decisi di seguirla, immaginando di poterla spiare mentre si metteva qualcosa di provocante."

L'appetito mi era scomparso. Le sue storie riuscivano sempre a portarmi altrove, lontana da quanto credevo di aver capito di lui. Comunque ormai mi ero rassegnata ad ascoltarlo fino alla fine.

"Dalla porta socchiusa del bagno intravedevo la sua figura riflessa nello specchio. Indossava un reggiseno color ocra; sterno e costole premevano sotto la pelle sottile.

Vestita non mi era parsa così magra. Mi eccitava davvero e fui quasi tentato di entrare. Di non aspettare. Ma quando lei prese in mano lo spazzolino da denti mi arrestai pensando che forse non era il caso. Lo capovolse, impugnandolo dalla parte con le setole. Aprì la bocca, e lo usò come un abbassalingua di quelli dei medici. Non si guardava allo specchio ma fissava un punto oltre le piastrelle. Lo sguardo vuoto come quello dei volti di Botero, finché gli occhi non le si riempirono di lacrime per lo sforzo e vomitò. Quasi in silenzio e con un movimento flessuoso. Come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Improvvisamente mi sentii solo, lontanissimo da tutto ciò che mi era familiare. E poi quei corpi grassi che troneggiavano su ogni parete. La città che scorreva fuori. Volevo solo allontanarmi. Senza toccare nulla, come se Asako avesse una malattia contagiosa.

Lei non premette subito lo scarico, rimase a guardare. Ma appena lo fece io raccolsi la giacca e, mentre l'acqua lavava via i resti della mia pasta italiana, infilai la porta e scesi le scale a due a due.

Fermai il primo taxi, ma prima buttai nel cestino i preservativi che avevo comprato lungo la strada."

Aveva concluso proprio così. Ero rossa in viso, ma alla fine quel racconto mi scatenava più disagio che gelosia.

"In effetti è una storia che non si dimentica facilmente" avevo detto irritata. Bevvi dell'altro vino. Già.

Aveva mangiato il pesce in silenzio, poi aveva finito anche la mia pasta, che intanto si era raffreddata nel piatto. Di solito dividevamo il conto: in fondo non eravamo una coppia. Ma quella sera aveva insistito per offrire lui.

"Ti sei dovuta anche sorbire la mia ondata di ricordi non proprio gradevoli." Io avevo sorriso in silenzio. Non ero certa che avesse capito perché quella storia mi avesse disturbata. O forse lo sapeva anche meglio di me.

Dopo qualche minuto trascorso ascoltando le auto passare per strada, avevamo deciso di andare a casa sua.

Fu bello fare l'amore e io non ripensai più a Asako.

Fino a questa sera da Hiro.

"La vuoi un'altra birra?" mi dice Hiro. "Te la offre quel ragazzo seduto là in fondo."

"Grazie" rispondo e guardo il giapponese con la camicia a scacchi che occupa un tavolo in penombra. Abbassa subito gli occhi.

Hiro apre la birra, il tappo finisce sul gruppo che siede alle mie spalle. Lui ride imbarazzato, si scusa. E mi scuso anch'io perché la birra, dopotutto, è la mia. Intanto il ragazzo mi ha raggiunta con in mano il suo bicchiere e mi chiede di dove sono. Non mi guarda in volto, a me i giapponesi sembrano tutti timidi.

"Indovina."

"Americana? Francese?"

"Quasi."

"Italiana?"

"Ci sei vicino." Non so perché mi sia venuta voglia di rispondere così. Lui guarda la ragazza seduta lì accanto in cerca di aiuto. Lei gli suggerisce: "Tedesca?".

"Sono austriaca" rispondo sorridendo. "Non avete sbagliato di molto." Il ragazzo mi guarda, annuisce. Annuiscono tutti e si dicono qualcosa che non riesco a sentire, coperto da una vecchia canzone dei Japan. Mi sorridono ancora, ma presto tornano alla loro conversazione. Anche il ragazzo che mi aveva offerto la birra preferisce aggregarsi ai suoi concittadini piuttosto che faticare in inglese con me.

Sono austriaca, ho ripensato a Lorenzo e a quella sua storia assurda e mi ritrovo qui, da sola, a sorseggiare birra tiepida. Non il massimo, come serata.

Quando vado al bancone per pagare, Hiro mi fissa con l'aria di chi ha capito fin troppo: "Nemmeno a me è chiaro dove sia l'Austria. Ma tu sei italiana, sei l'amica di Lorenzo, vero? Mi aveva detto che ti avrei riconosciuta".

"Sì, sono io." Sarei tentata di chiedergli cosa gli abbia raccontato di me. Invece tiro fuori il portafoglio per pagare.

"Veniva spesso qui, era simpatico. Poi conosceva sempre tante persone. Ogni tanto gli capitava anche qualcuno di strano. Pensa che una volta ha incontrato una donna..."

Non gli lascio concludere la frase. Appoggio i soldi nel piattino di plastica azzurra: "La conosco quella storia" dico sbrigativa.

"Ah" sussurra lui mettendo gli yen nel cassetto del registratore di cassa.

Ci salutiamo e ci auguriamo una buona serata.

Scendo i gradini del locale e continuo a pensare a Lorenzo. Mi chiedo se davvero Hiro mi avrebbe raccontato la storia di Asako. O quella di qualcun'altra.

 

 

3-5 L'ora della Tigre

Questa è l'ora in cui le tigri sono più aggressive con le loro prede

 

Fin da bambina, quando non riuscivo a dormire mi inventavo i sogni.

O meglio: mi inventavo di aver fatto un brutto sogno per andare da mia madre e poterglielo raccontare. Lei mi faceva entrare nel suo letto, sotto le coperte, e mi ascoltava stringendomi forte. All'inizio erano solo immagini spaventose, poi, con il tempo, dopo aver esaurito le scene ovvie, avevo cominciato a crearne di più articolate. E spesso, proprio durante la ricerca, crollavo addormentata, facendo sogni a volte agitati, altre piacevoli.

Questa era una delle cose per cui Lorenzo, quando gliel'avevo raccontata, si era entusiasmato.

"Ma lo fai anche ora?"

In realtà, quando me lo aveva domandato era da molto che non mi capitava di trovarmi sveglia nel cuore della notte. Ma gli avevo promesso che se mi fosse successo dormendo nello stesso letto mi sarei inventata un sogno anche per lui.

A Kyoto la notte è iniziata da qualche ora. Non è la notte luminosa della metropoli che non si addormenta mai, anzi. Nel quartiere dove abito io non ci sono insegne sempre accese, karaoke e sale dove giocare fino all'alba a pachinko, una sorta di strano incrocio tra un flipper e una slot-machine. Anche la tavola calda davanti a casa chiude alle 21. Il buio in queste strade sembra fatto solo per dormire. Ma io, negli ultimi giorni, non faccio che svegliarmi a un'ora che detesto: le tre e trenta. Non accendo la luce perché non voglio cedere. Mi dico che non devo pensare e mi tiro le coperte fin sopra la testa. Ma è troppo tardi: mi sto già chiedendo dove si trovi Lorenzo ora. Ho solo il suo indirizzo mail ma non ho ancora provato a scrivergli. Per paura di non ricevere risposta o forse per paura di conoscere la ragione della sua fuga. Mi giro sul fianco destro e porto le ginocchia al petto. Da lui sarà giorno o sarà notte? Il futon è duro e ancora freddo. Chiudo gli occhi.

E li riapro in un posto dove non sono mai stata.

Di paesi ne avevo cambiati molti e, ormai, dipendevo dalla sensazione estraniante che mi avvolgeva appena sveglia: niente mi era familiare e a volte nemmeno io ero certa di chi e che cosa fossi.

Quando cominciavo a sentirmi legata a un luogo significava che era arrivato il momento di fare quello che dovevo e andarmene. Quella era la mia regola.

Sull'isola di Okinawa però avevo incontrato un uomo con una cicatrice sul labbro. Forse mi ero innamorata e le cose erano andate diversamente.

Ci eravamo incrociati all'alba, lungo una via costellata da bidoni dell'immondizia. Io avevo preso casa lì, dove le ventole dei condizionatori fiatavano il loro alito caldo e odoroso di cibo. La affittavano per pochi yen. Giusto lo spazio per un materasso, un wc e una doccia come quelle delle navi. Non era fatiscente, solo triste.

L'uomo con la cicatrice sul labbro una notte mi aveva colpita con un sacchetto della spazzatura: ovviamente non lo aveva fatto di proposito. Lo aveva lanciato dal retro del locale dove lavorava, un sordido bar con le tende unte e molta gente ubriaca. Era tardi e stavo rientrando dal mio girovagare. Mi muovevo con il buio perché solo in sua compagnia ero al sicuro. I miei bioritmi, da quando facevo quella vita, erano capovolti. Persino la mia pelle cominciava a risentirne. Me ne accorsi proprio su quell'isola dove tutti erano così abbronzati.

Quella notte l'uomo con la cicatrice sul labbro non mi vide arrivare. Nell'oscurità del viottolo, stando in piedi sul gradino della porta sul retro, lanciò i rifiuti mirando al bidone. Ma il mio corpo intercettò la massa nera. Non mi fece male, però la plastica si lacerò rovesciandomi addosso resti di cibo. Imbarazzata accettai le sue scuse, era davvero affranto.

"Sono desolato" continuava a ripetere. "Entri, la prego, l'aiuto a ripulirsi. Posso offrirle dell'awamori? Qui serviamo il liquore di riso migliore dell'isola." Ma io mi allontanai svelta, senza dargli il tempo di memorizzare i miei lineamenti. Anche se a me bastarono quei pochi istanti per imprimermi i suoi.

Trascorsi alcuni giorni nel mio piccolo appartamento a pensare a lui, a come avvicinarlo di nuovo. Non riuscivo a fare altri programmi. Mi piaceva come nessun altro uomo incontrato fino a quel momento. Forse, per lui, avrei persino potuto fermarmi, smettere di vagare da un mondo all'altro.

Quando qualche sera dopo entrai nel locale, la notte era appena cominciata. Le luci erano basse e dense, l'aria odorava di alcol. Mi sedetti sullo sgabello di legno e una scheggia mi ruppe le calze. Indossavo il mio unico vestito e le mie uniche parigine, e ora si erano rovinate.

Avevo sentito che gli altri clienti, alcuni già allegri, chiamavano a gran voce l'uomo con la cicatrice sul labbro. Così feci lo stesso e lui mi raggiunse.

Un gruppo di musicisti che miscelava strumenti tradizionali con batteria e sintetizzatore si esibiva sul palco ma non li guardai. L'uomo con la cicatrice sul labbro mi raggiunse e io gli chiesi di scegliere per me qualcosa da bere e da mangiare. Mi portò dei bocconcini di manzo con una salsa rossa e vischiosa, del tofu saltato e un liquore cristallino. Lo spillò direttamente da un otre di terracotta. Sembrava più un solvente che una bevanda. Masticavo la carne trattenendo le lacrime tanto era piccante.

Lui, chiaramente, non mi aveva riconosciuta. Non sapeva che ero la stessa dell'incidente con la spazzatura.

Continuai a bere e a mangiare sperando che si accorgesse di me, se non altro perché ero l'unica donna, e per di più occidentale. Sentii una mano tiepida scivolarmi lungo la coscia, ma mi bastò incrociare gli occhi ubriachi del tizio che mi sedeva accanto per farlo desistere. L'uomo con la cicatrice sul labbro, però, anche se si muoveva svelto dietro al bancone, aveva visto tutto.

"Signorina, è certa di voler restare ancora qui?" mi chiese.

In effetti l'atmosfera si stava alterando, il suono secco degli strumenti giapponesi si mescolava ai ritmi rapidi e ossessivi di quelli moderni. Percussioni e alcol rendevano l'ambiente quasi tribale. Gli scaffali del locale erano po

polati da piccoli mostri di terracotta blu. Avevano denti sporgenti e grandi occhi, e sembrava che traessero energia dalla situazione che stava degenerando. Ma io volevo restare. Ordinai dell'altro awamori e ancora qualcosa da mangiare. In realtà non avevo fame ma ripulii il piatto. Dopo aver sparecchiato, l'uomo con la cicatrice sul labbro mi guardò negli occhi. Stava per scoprire qualcosa di me, lo sentivo chiaramente. Poi li abbassò. Gli sorrisi, e lui ricambiò. Si allontanò per riapparire quasi subito: mi consegnò una lattina di birra con dentro un ramoscello dalle bacche rosse.

"Tenga, è per lei. Ha bisogno di qualcosa di bello questa sera." La sua bocca si stirò in un sorriso. Non aveva denti regolari, ma quel disordine che scoprii fra le sue labbra lo rendeva come indifeso e mi piacque. Poi si voltò e raggiunse gli altri clienti.

Era molto tardi.

"Ti chiedo il conto, per oggi mi fermo qui" gli dissi. Me lo portò subito, scribacchiato su un taccuino. Misi la mano in tasca per pagare ma non trovai il portafogli. Me lo avevano rubato. Avvampai dall'imbarazzo. Cercai subito nella tasca interna del giacchino, tremando. Ma per fortuna lì le mie cose non erano state toccate. Vergognandomi per la brutta figura che stavo per fare mi decisi ad alzare lo sguardo per incrociare il suo.

"Scusami, sono senza contanti e me ne sono accorta ora. Ma abito qui accanto, esco un istante a prenderli e arrivo. Non preoccuparti che torno." Lui mi guardò e sorrise di nuovo.

Uscii stretta nella mia giacca anche se faceva caldo. Temevo che lui notasse quella calza smagliata. Andai dritta al 7-Eleven che si trovava nella via accanto. Entrai. Un commesso allampanato stava sistemando il bancone. Mi avvicinai e, prima che i nostri occhi si incrociassero, gli sparai in fronte.

Ricordo solo che portava una divisa ed era alto. Mi sporsi verso la cassa, lui era a terra in una pozza densa. Presi diecimila yen e uscii.

Mi diressi con calma verso il locale. Ero certa che l'uomo con la cicatrice sul labbro mi stesse aspettando.

In effetti non mi sbagliavo. Ma purtroppo non era solo.

Capii subito che era inutile opporre resistenza. Seguii i poliziotti che mi ammanettarono soddisfatti. Finalmente, dopo anni di inseguimenti, erano riusciti ad avermi. L'uomo con la cicatrice sul labbro teneva gli occhi bassi, non sorrideva più. Ripensai ai suoi denti e questa volta li trovai disgustosi e freddi.

"Avevo bisogno di soldi, sono stufo di lavorare in questo posto" mi disse mentre mi portavano fuori. "Voglio andarmene, cambiare Paese." Lo aveva fatto solo per la taglia che avevano messo su di me.

Ridestarsi in prigione fu angosciante, avevo paura. E non riuscivo a respirare. Ogni notte mi addormentavo sperando di aprire gli occhi in un luogo nuovo, diverso. O almeno di sognarlo.

Mi sveglio di soprassalto. Ho dormito poco, agitandomi fino a restare senza coperte. Guardo l'orologio del cellulare, sono solo le cinque. Niente sonno. Chissà Lorenzo cosa mi avrebbe detto di questo sogno. Mi rendo conto di quanto mi abbia ferita lasciandomi sola senza una spiegazione. Per qualche ragione, dal nostro primo incontro alla caffetteria, con lui mi ero sentita al sicuro. Ma poi, come nel sogno, le cose erano andate diversamente.

Mi alzo, bevo un bicchiere d'acqua del rubinetto. Qui quella in bottiglia costa quanto un qualunque altro soft drink. Accendo il computer, quasi quasi gli mando una mail. "Lorenzo, ho un sogno da raccontarti..." Ma sono sicura di volerlo cercare? E se anche lui avesse una cicatrice sul labbro?

Forse è meglio aspettare domattina.

 

 

5-7 L'ora del Coniglio

Questa è l'ora in cui il leggendario coniglio di giada va a prendere le erbe mediche sulla luna

 

Quando mi fermavo a dormire da Lorenzo, per arrivare puntuale al lavoro dovevo alzarmi presto. La libreria dove avevo un part-time era dall'altra parte della città e per raggiungerla prendevo due autobus. Lorenzo sarebbe rimasto in Italia per due mesi scarsi e non mi andava di rinunciare a nessun momento con lui. Mi piaceva il suo corpo caldo di notte, i suoi occhi chiusi e le labbra rilassate. Lo baciavo, lui mi accarezzava. Mi stringeva a sé e facevamo l'amore finché l'alba non brillava sui vetri.

Poi si accendeva sempre una sigaretta. "Un'abitudine decisamente démodé" diceva sorridendo. Io gli tenevo compagnia, godendomi il suo odore sul mio corpo, la stanza in penombra e il luccichio di quel fuoco senza fiamma. Quando aveva finito illuminavo la camera con l'abat-jour e mi preparavo per uscire.

"Hai il viso piccolo e gli occhi grandi, saresti l'invidia di ogni giapponese" mi aveva detto lui una mattina mentre mi raccoglievo i capelli. "In che senso?"

"Le orientali si fanno tanti problemi per il loro viso a forma di luna piena, per le guance ampie e gli occhi senza palpebre. Tu hai gli zigomi alti e gli occhi incavati, l'esatto opposto."

Non ero certa che mi stesse facendo un complimento.

"Ma tu sei mai stato con una ragazza giapponese? Le trovi belle?"

Lui si mise a giocare con il mozzicone della sigaretta nel posacenere, premendolo contro il fondo. Com'era già accaduto, quando una questione non era di suo gradimento fingeva di non aver sentito o non rispondeva.

Non gli feci più quella domanda, anche se la curiosità mi era rimasta.

Nel mio appartamento a Kyoto, come in molte case giapponesi, fino all'arrivo del grande caldo estivo si soffre il freddo. Complici, insieme al clima, le pareti sottili e le finestre ampie. Il riscaldamento è delegato ai condizionatori che creano un calore fasullo e troppo secco. E appena vengono spenti il freddo umido si riappropria delle stanze.

Soprattutto durante l'inverno non sopporto l'idea di fare colazione in quel gelo, le tazze ghiacciate, il té che si raffredda subito. Anche lavorare al pc non è piacevole, così di solito vado a fare colazione in un piccolo caffè sotto casa dove rimango per qualche ora.

È abbastanza normale che nei bar o nei locali ci si fermi ben oltre il tempo della consumazione. Per leggere, lavorare. O addirittura fare colloqui di lavoro.

La mia caffetteria preferita apre molto presto e io, che non riesco mai a dormire a lungo, sono tra le prime clienti. Svegliarmi a quell'ora, quando il buio della notte non ha ancora lasciato le strade, mi fa pensare alle mattine con Lorenzo. Sono stata sciocca a credere che mi sarei potuta

appropriare di questo Paese portando a termine il mio viaggio, dimenticandomi gradualmente di lui. Mi interrogo spesso su come sarebbe averlo accanto, cosa mi mostrerebbe del suo Giappone e di sé stesso. Le chiavi del suo appartamento, che tengo sempre in borsa, mi capitano spesso fra le mani. Sono attaccate a un anello con appeso un pupazzetto a forma di orso giallo, una sorta di Winnie the Pooh. Sporco e annerito. Un oggetto femminile che non si addice affatto alle tasche di Lorenzo. Potrebbe essere il regalo di una ragazza o il mazzo di chiavi di una fidanzata. In un paio di occasioni ho pensato di liberarmene, di buttarle nel fiume. Ma poi, dopo essermele rigirate lungamente tra le dita, le ho sempre lasciate ricadere sul fondo della borsa.

Il bagno è uno dei luoghi più gelidi della casa e, se non accendo il calorifero a olio, farmi la doccia è una tortura. Sembra di stare in una baita. Per fortuna il wc, che è in una stanzina a parte, ha l'asse riscaldata. Quando Lorenzo mi aveva parlato di questo dettaglio avevo riso.

"Ma cosa se ne fanno di un aggeggio simile? È solo uno spreco di energia." Invece ora capisco quanto sia confortevole.

Quando sono partita dall'Italia non avevo certo idea che avrei trascorso tanto tempo in Giappone, che avrei assistito al susseguirsi delle stagioni. E il mio guardaroba ne aveva risentito.

Ho dovuto comprare tutto qui, facendomi accompagnare da Setsuko perché mi aiutasse a chiedere le taglie e i colori.

In ogni caso, il fatto di non avere molti vestiti mi aiuta a scegliere rapidamente cosa indossare.

Ogni mattina mi lavo il viso e metto un po' di fard, il minimo indispensabile per darmi colore, visto che il

freddo e il digiuno notturno mi donano sfumature spettrali.

Prendo la borsa e raggiungo le luci accoglienti e il profumo di zucchero bruciato della caffetteria.

Oltre a me, nel locale, trovo quasi sempre un paio di uomini in giacca e cravatta e alcune ragazze. Mi piacerebbe scambiare con loro qualche parola o qualche sguardo. Però non ci sono ancora riuscita. Molte di loro sono indaffarate con il trucco. Non un maquillage banale come il mio, ma un'attività meticolosa che compiono dopo aver sfoderato diversi attrezzi, tubetti, pennelli, ciprie.

C'è una ragazza che ha un'aria più simpatica delle altre. Arriviamo quasi sempre allo stesso orario e scegliamo tavoli vicini. La prima volta che l'ho notata era seduta di fronte a un uomo che credo le stesse facendo un colloquio di lavoro. L'uomo la interrogava e riportava le sue risposte su una scheda. Mi aveva colpito perché la ragazza, durante tutto l'incontro, non aveva mai spostato le mani dal proprio grembo. Non si era toccata i capelli né aveva giocato con il filo d'oro che aveva al collo. Io non ci sarei riuscita. Aveva i palmi sovrapposti sulle ginocchia accavallate, quasi volesse tenersi ferma. Io li fissavo e solo in alcuni momenti venivano percorsi da un tremito che però non si trasformava mai in un vero movimento.

L'intervistatore era imperscrutabile, aveva incontrato una decina di candidate ma poi aveva scelto lei. O almeno questo era quanto mi ero immaginata visto che, dal giorno successivo, l'avevo incontrata tutte le mattine al bar, alla stessa ora e con addosso lo stesso completo.

Credo che faccia un lavoro d'ufficio perché porta tailleur scuri con camicie bianche.

A un primo sguardo sembrava tutto perfettamente anonimo in lei, ma con il passare delle settimane qualcosa aveva cominciato a cambiare. Le sue unghie, che all'inizio erano rosicchiate quasi oltre il polpastrello, erano diventate lunghe e decorate con piccoli brillanti; al polso le era comparso un orologio costoso e il filo d'oro che portava al collo era più spesso. Un giorno vidi anche che indossava delle mutandine di pizzo rosa: le avevo notate quando si era chinata per raccogliere il rossetto che le era rotolato sotto il tavolo.

Il suo sguardo ero riuscita a incrociarlo solo per pochi istanti: aveva occhi profondi, con un taglio allungato che trovavo bello. Un po' glielo invidiavo. Al contrario di quanto mi aveva detto Lorenzo, dal mio arrivo qui nessuno mi aveva fatto i complimenti per il mio aspetto. E anzi per me la media delle ragazze giapponesi era di una bellezza unica. Il pensiero che avessero un viso troppo largo e occhi piccoli non mi attraversava mai.

Durante le operazioni di trucco i gesti della ragazza sembravano rispettare un rituale. Apriva uno specchietto costellato di pietre luccicanti, si osservava con attenzione. Si tastava le guance con le dita, come se non fossero le sue o le scoprisse per la prima volta. Poi cominciava a incollarsi ciglia finte, a spennellarsi ombretti chiari e scuri intorno agli occhi. Ogni tanto si interrompeva per bere con la cannuccia un sorso di cappuccino raffreddato con cubetti di ghiaccio. O per mangiare un pezzetto di cookie. Dopo essersi asciugata le labbra e spolverata da eventuali briciole riprendeva il suo lavoro. Applicava una sostanza trasparente alcuni millimetri sotto le sopracciglia, si pizzicava la pelle con i polpastrelli. E quando abbandonava la presa compariva la riga della palpebra che prima non c'era. Ogni mattina si preparava nello stesso modo, con la stessa cura. Quando finiva era così diversa da sorprendermi. All'inizio osservarla durante quell'attività aveva su di me un effetto rilassante, come guardare qualcuno che accarezza un gatto sulle proprie gambe. Cercavo di farlo in modo discreto, per non sembrare maleducata, anche se ero certa che se ne fosse resa conto. Con il passare dei giorni però il risultato finale di quella sua trasformazione aveva iniziato a disturbarmi. Mi ricordava le bocche rosse dei clown che ridono sempre. Da bambina una volta mi avevano portata al circo e, nell'attesa che lo spettacolo cominciasse, mio padre e io avevamo passeggiato intorno al tendone. C'erano gabbie vuote, panni stesi, roulotte chiuse. Davanti a una di queste avevamo incontrato un clown che stava finendo di prepararsi. Indossava grosse scarpe verdi e un abito giallo. Il suo viso era truccato in parte: della grande bocca c'era solo il contorno sorridente. Le sue labbra invece erano serrate e per nulla allegre. Mi aveva guardato negli occhi: soltanto il trucco rideva e io mi ero spaventata.

Anche quello che la mia compagna di colazioni si disegnava sul viso aveva una funzione simile: la nascondeva, mimetizzava i suoi occhi a mandorla, le guance ampie e il naso piccino. Cercava di annullare quello che era.

Oggi c'è un po' di sole, in casa mia non fa così freddo ma al bar ci vado lo stesso. Mi piacerebbe trovare l'occasione per parlare a quella ragazza. Il mio giapponese non è un granché, ma il vero ostacolo che c'è tra noi è un altro: lei sembra non vedermi.

Quando arrivo in caffetteria è più tardi del solito. Dato che non ho l'urgenza di fuggire dal freddo ho fatto tutto con più calma. Appena entro mi accorgo però che non solo il mio tavolo è vuoto ma anche il suo. Magari è in ritardo come me.

Invece non arriva. Altre ragazze si stanno truccando, ma sento la sua mancanza.

E la sento ancora di più nei giorni successivi.

* * *

 

Dopo quasi una settimana finalmente la vedo dalla vetrina. Il solito tailleur, i soliti gambaletti di lycra color carne. Le solite scarpe di pelle nera con il tacco di gomma anche se è arrivato il caldo. Entrando fa tintinnare lo scacciaspiriti sulla porta. Io la guardo, vorrei salutarla. Ma lei va dritta al suo posto senza togliersi il grosso cappello di cotone fatto all'uncinetto che ha calato in testa. È la prima volta che indossa qualcosa di simile.

Ordina cookie e cappuccino con ghiaccio, come sempre. Ma oggi non li posiziona vicino al bordo del tavolo per attrezzare la sua specchiera provvisoria. Non estrae il suo astuccio e i trucchi. Tiene la colazione davanti a sé. Mescola i cubetti con la cannuccia, fa colare lo sciroppo di zucchero sulla schiuma. Si porta alle labbra piccoli bocconi di cookie e poi beve, lasciando che le briciole restino sul suo viso. Quando finisce appoggia i polsi ai lati del piatto. Vedo le sue spalle che salgono e scendono seguendo il ritmo del respiro. Non la sto osservando in maniera più insistente del solito, ma forse questa volta sceglie di accorgersene perché, con lentezza, si volta verso di me. Affonda i suoi occhi nei miei. Sono gonfi, arrossati. Lividi giallognoli sfumano sulle sue tempie. Dei cerotti chirurgici le coprono le palpebre. Ha uno sguardo che sembra spaventato ma forse è solo innaturale, fisso. Mi sorride appena.

Io sono a disagio, faccio finta di nulla. Non mi sembra più lei. E preferisco guardare altrove.

 

7-9 L'ora del Drago

Questa è l'ora in cui i draghi rimangono sospesi nel cielo per fare piovere

 

Setsuko e io partiamo la mattina presto per evitare il caldo soffocante e le orde di giapponesi in gita. L'appuntamento è alla stazione di Kyoto, davanti al negozio che vende i dolci tipici della città, gli yatsuhashi: fatti di un impasto di farina di riso, zucchero e cannella sprigionano un odore stranamente familiare, simile ai profumi della mia infanzia. Mi piace questa sensazione, e potrei aspettare Setsuko a lungo. Ma lei è puntuale.

"Sei in Giappone da tempo e non sei ancora stata in un onsen, non è possibile" mi aveva detto un giorno al telefono.

"Parli delle stazioni termali, vero?"

Così, da brava ospite, aveva organizzato tutto: anche se ne aveva pochissimi, si era presa due giorni di ferie dal ristorante e le figlie sarebbero rimaste dai nonni. Noi avremmo trascorso il fine settimana in montagna a visitare antichi templi buddisti e a goderci il riposo termale.

"Perché non lo diciamo anche a tuo fratello?" le avevo chiesto. Non parlavamo di Yuya da un po' ma sapevo che il suo timore delle radiazioni stava diventando un pensiero ossessivo, limitante, e l'idea di passare qualche giorno tutti insieme mi pareva buona. Setsuko non mi aveva risposto subito e temetti di averla offesa: forse pensava che non fossi felice di rimanere sola con lei.

"Alle terme uomini e donne usano strutture separate" mi aveva spiegato. "Passeremmo con lui solo il tempo della cena, per il resto starebbe da solo. E poi la temperatura dell'acqua, anche se ho scelto uno stabilimento all'aperto, può superare i 40 gradi. Viste le sue condizioni, temo non gli farebbe bene".

Ovviamente non avevo replicato. Ma sapere che anche fisicamente stava peggiorando mi aveva intristito.

Scese dal treno prendiamo un taxi che, costeggiando il fiume, ci porta fuori dal centro abitato. Quando arriviamo in albergo è troppo presto per il check-in, così Setsuko mi propone di fare una passeggiata nei dintorni. Anche se fa caldo trovo che immergerci nel verde sia una buona idea. Ci incamminiamo in salita, lungo una strada asfaltata che, dopo poco, diventa terrosa. Rispetto a Miki, la mia amica agente immobiliare, Setsuko non parla molto. Forse è Miki a essere una giapponese anomala o forse è il lavoro che fa ad averla resa più espansiva. Setsuko è gentile con me, ma non riesco a definirla un'amica. Anche se ci vediamo due volte alla settimana per la lezione di italiano delle bambine e facciamo merenda tutte insieme, non so quasi nulla di lei. Non ha mai cercato un'intesa, non si è mai mostrata curiosa. Infatti la sua proposta di fare una piccola vacanza insieme mi ha sorpresa.

Nell'aria si sente un forte odore di pesce arrostito e di zucchero. Gli alberi sono di un colore brillante e la luce è confortevole. Incrociamo un gruppo di ragazze in shorts e tacchi alti. Hanno gambe bianche e sode. Alcune man

giano un gelato, altre sgranocchiano un cetriolo infilzato su uno stecchino. Le abitudini alimentari di questo Paese continuano a restarmi incomprensibili.

"Avranno fatto una gita al tempio per esprimere il loro desiderio e ora tornano in città" mi dice Setsuko. "Tu ne hai preparato uno?" In realtà non sapevo nulla di questa usanza dei desideri. Ma subito la mia mente si affolla di piccole e grandi ambizioni, finché qualcosa predomina. Riguarda Lorenzo.

"Devi scrivere la tua richiesta su un foglio, che poi dovrai piegare e annodare ai rami di quell'albero" dice Setsuko indicandomi il lato sinistro della strada che, nel frattempo, si è ridotta a un sentiero.

"Ma dici che gli spiriti la capiranno anche se non è in giapponese?"

Lei sorride.

"Hai ragione, forse è meglio che te lo traduca io."

"Magari ci penso ancora un po' e torniamo prima di ripartire" le dico. Mi vergogno a confidarle la verità.

Poco oltre il ciglio della strada mi accorgo di un piccolo tempio. Un uomo con una camicia chiara e dei pantaloni eleganti, dopo aver legato il suo desiderio accanto agli altri suona una pesante campana, batte le mani, si ferma un istante. Poi si inchina lentamente, riprende la sua ventiquattrore e riparte.

Ci addentriamo nel bosco e Setsuko mi racconta delle forze della natura, degli animali e degli spiriti ancestrali che vivono negli elementi naturali. Sono i kami. A ospitarli possono essere pietre dalla forma curiosa, o piante dai rami nodosi. Per celebrare la loro presenza vengono usate delle corde. Così incontro massi circondati da funi di iuta nera e tronchi con grandi cinture bianche. La foresta di bambù si snoda lungo tutta la montagna insieme alle lapidi del cimitero buddista. Ci sono piante sottili ma con alti fusti di un verde compatto. Ondeggiano dolcemente appena si alza il vento. La superficie liscia, interrotta da quelli che sembrano bracciali di bronzo, mi fa venire voglia di accarezzarla. I bambù sono così fitti che il rumore dei nostri passi non si alza nemmeno. Le radici spuntano lungo il sentiero, entrano ed escono dalla terra come serpi. Setsuko inciampa, si appoggia alla mia spalla. Nonostante il caldo la sua mano è fredda.

 

"Scusami tanto" mi dice imbarazzata.

"E di cosa?"

"È che mi gira un po' la testa."

Il suo incarnato è più chiaro del solito e i suoi occhi non mi guardano, non guardano nulla. La maglia blu che indossa è bagnata di sudore lungo la schiena e intorno al collo.

"Vuoi che ci fermiamo un attimo? Sarà sicuramente un calo di pressione, con questo clima." L'aria è acquosa, soffocante. Lei scuote la testa, prende dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa e si asciuga il viso tamponandoselo leggermente.

Siamo ferme in mezzo al bosco. Si alza un soffio lieve e un fruscio lo segue.

"Dai, sediamoci un attimo" insisto. Accanto a noi ci sono due grosse pietre e ci appoggiamo a quelle. Setsuko beve un po' di té dal thermos che porta sempre in borsa, io alzo gli occhi. Le foglie guizzano come piccoli pesci presi all'amo.

Rimaniamo lì, ferme, a respirare tranquille e Setsuko riprende colore.

Tra gli alberi vedo due statue, sembrano gatti. Hanno il collo lungo e il muso aguzzo.

"Sono le volpi di Inari, messaggere della divinità dei raccolti. Una tiene in bocca una chiave, l'altra una boccia di sakè." La voce di Setsuko è leggermente roca, ma parola dopo parola si rischiara. "Dobbiamo fare attenzione a che il loro spirito non ci si infili sotto le unghie: possono essere creature malvagie, e da lì passano per impadronirsi degli esseri umani."

Setsuko parla con naturalezza e non riesco a capire se davvero creda all'invisibile, alla sua forza, agli influssi positivi e a quelli distruttivi degli spiriti dei quali racconta.

Sospira. "Direi che ora possiamo rientrare."

Torniamo sui nostri passi per raggiungere l'albergo e fare finalmente il check-in. Alla mia sinistra noto un gruppo di tombe isolate che all'andata mi era sfuggito: coperte da uno spesso muschio si mimetizzavano perfettamente con il verde delle piante. Un sacerdote shinto abbigliato di viola e di bianco appare dal bosco e, camminando svelto, ci passa accanto.

Una bambina sovrastata da un monumento funebre di pietra grigia, prega. Affonda le mani nel fumo spesso dell'incenso acceso vicino alla lapide e lo invita a sé. Gli insetti producono un rumore inquietante, ronzano e ticchettano. Ogni tanto un gong risuona in lontananza, e la bolla sonora con tutte le sue onde fa sussultare il silenzio. Tra i rami e le tombe ci sono ragni grossi, scuri e con lunghe zampe puntellate di giallo. Immobili. A terra hanno lasciato tante ali senza più un corpo da far volare. Sulle braccia sento i fili delle ragnatele che si strappano.

Con la punta del sandalo Setsuko tocca i resti di un insetto.

"Non sarebbe bello poter abbandonare il proprio corpo per uno nuovo almeno una volta nella vita?" mi dice lei.

"Ti riferisci ai bruchi che diventano farfalle?" le chiedo.

Lei prende una farfalla tra le dita e me la mostra. È sfuggita dalla ragnatela ma le sue ali si sono sbriciolate. È ridotta a un cilindro nero, ricoperto da una leggera peluria: sembra di nuovo una larva.

"Non credo che una persona possa cambiare davvero la propria essenza" dico. Poi penso che lei, forse, crede nella reincarnazione.

Setsuko, senza aggiungere altro, posa l'insetto a terra.

Ci passa accanto un bimbo paffuto che scende dalla montagna. Ha una mano stretta in quella del padre mentre nell'altra tiene una valigetta trasparente con dentro il trofeo della sua giornata: un cervo volante nero e lucido grande come una noce.

"Guarda!" dico a Setsuko indicandolo.

"Tra i bambini delle elementari è molto popolare andare a caccia di coleotteri in questa stagione. Vedrai che anche le mie figlie ne vorranno uno. In alcuni mercatini ci sono addirittura delle bancarelle che li vendono."

Io rabbrividisco pensando a quella gabbietta sul comodino mentre dormo, o al centro della scrivania. Ma forse le tartarughe d'acqua che avevo da bambina non erano poi così diverse. Una volta mi avevano persino morsa.

Finalmente siamo nella nostra stanza. Indossiamo vesti simili a kimono, forniteci dall'albergo. Il cotone stirato è così rigido che quasi scricchiola sulla pelle. Setsuko mi annoda la cintura alla vita fermandola con un fiocco perfetto: "Di solito le occidentali non stanno bene con lo yukata. Ma a te dona" mi dice, anche se io mi sento un po' ridicola, come in maschera. Poi ci inginocchiamo attorno al basso tavolo al centro della camera per prendere il té.

Quando Setsuko affonda la forchetta di bambù nel dolce di benvenuto, sussulto. Mi ricorda il corpo di quel

cervo volante: una sfera nera e vischiosa con un ripieno bianco. Mi disgusta, ma non posso offendere i miei ospiti. Vorrei far cadere il pasticcino nella manica del vestito, ma lei se ne accorgerebbe. Così mastico e spingo quel sapore zuccheroso sul palato. La gola si stringe e mi aiuto con un sorso di té.

"E ora, finalmente, un bagno termale prima di cena?" le chiedo. Ho voglia di lavarmi via la giornata, il calore e anche una sensazione sgradevole che non so definire.

Setsuko annuisce, ma è di nuovo pallida e si preme il fazzoletto sulle labbra.

"Tutto bene?"

"Sì, tutto bene. Andiamo pure."

Setsuko mi insegna tutto sull'onsen, come ci si prepara e quando si scopre il proprio corpo. Sotto lo yukata indossiamo solo le mutandine e il reggiseno, lasciamo tutto in una cesta delle tante disposte sugli scaffali dell'anticamera che precede le vasche. Prima di entrare però ci si deve lavare accuratamente. Seduti su un piccolo sgabello, ci si insapona, si riempie d'acqua un catino di bambù e ce lo si versa addosso. Setsuko lo fa per me, e il calore liquido che mi scivola sulla testa mi toglie il fiato per un istante. Tutte sono nude: giovani, anziane e bambine. Osservo i dettagli: le rotondità pallide del seno, i capezzoli scuri. Il ventre piatto che nelle donne adulte si riempie appena, per poi svuotarsi nelle anziane, facendo affiorare le ossa del bacino. Schiene ampie, dritte, che affiorano dall'acqua. Ginocchia arrossate dalla tipica seduta orientale, piedi divergenti. Un'armonia che le rende belle.

Un altro fiotto d'acqua calda mi copre gli occhi. "Ora siamo pronte" mi dice Setsuko.

Per raggiungere i punti di immersione è più elegante coprirsi, anche se si percorrono pochi passi. Setsuko

prende il telo che abbiamo usato come spugna e me lo appoggia sul petto. Lascia che il tessuto sottile e bagnato si srotoli fino a coprirmi dal seno alle cosce. Poi fa lo stesso per sé. La stoffa aderisce perfettamente al corpo, anzi sembra quasi che ne esalti le forme, gli avvallamenti e le piccole curve.

Setsuko e io scivoliamo lentamente nell'acqua, senza smuoverla. Come la polvere di qualcosa che va in frantumi. Non so perché, ma penso allo tsunami che ha travolto il Giappone nel 2011. Quando è accaduto non ero qui. Ma ora, vivendoci, è come se quelle immagini viste e ascoltate tante volte si fossero trasformate in ricordi autentici.

Sono certa che Setsuko ha avuto paura, ma sono anche sicura che, con coraggio, non ha mai smesso di guardare avanti, di accudire le sue bimbe. Vorrei chiederle cos'ha provato in quei momenti, quando ha preso coscienza di ciò che stava accadendo. Ma i vapori e il calore dell'onsen mi sciolgono a tal punto che preferisco chiudere gli occhi. Almeno un istante.

Con noi ora non c'è nessuno, la temperatura è molto alta e dopo qualche minuto Setsuko mi propone di spostarci sul bordo della vasca che, in alcuni punti, diventa roccia naturale. Intorno ci sono piante dalle foglie ampie, muschio. Ci sediamo e Setsuko affonda lo sguardo nel verde che ci circonda.

Si avvicina una bimba, sembra voglia dirci qualcosa ma è timida. Setsuko finge di ignorarla e si rivolge a me.

"Vittoria, conosci la fiaba di Kaguya Hime?"

"No, non l'ho mai sentita" le rispondo.

"È una storia tradizionale giapponese: un vecchio e una vecchia per bene vivevano di umili lavori nei campi. Erano

molto poveri e non erano riusciti ad avere figli. Un giorno il vecchio, tagliando un bambù molto grosso, trovò all'interno della canna vuota una neonata. Era bellissima, e la sua pelle chiara brillava di luce dorata."

La bambina timida è ancora accanto a noi, ha ascoltato tutto e ora fissa Setsuko con insistenza. Lei smette di raccontare.

La piccola immerge un piede nell'acqua.

"Vuoi entrare?" le chiede Setsuko.

"Non so, è molto calda" risponde lei, e scappa via.

Siamo di nuovo sole, il silenzio è incrinato solo da un leggero sciabordio. Aspetto di sentire la fine della storia, ma la mia amica resta in silenzio. Lascia la roccia per immergersi un poco. Si accarezza il ventre liscio, sotto la superficie dell'acqua.

 

"Tu ci pensi mai alle radiazioni?" mi chiede.

"A volte."

"È successo di pomeriggio, le bambine erano a scuola e io stavo ritirando il bucato. Avevo steso fuori, la primavera era quasi arrivata. A un certo punto mi è sembrato di perdere l'equilibrio, mi girava la testa. 'Forse mi sono alzata troppo velocemente dal cesto della biancheria', mi sono detta. Eppure la sensazione non passava. Intorno a me continuava a muoversi tutto. In Giappone i terremoti sono frequenti, ma non a Kyoto. Ho pensato alle mie bambine e ho sperato che stessero lasciando la scuola. Io però non sono scesa in strada: sono rimasta sul balcone a guardare la gente che riempiva le vie. Avevo paura ma non riuscivo a reagire. Ho raccolto il bucato, sono rientrata e ho acceso la televisione. Una giornalista urlava: 'Chi si trova sul lungomare scappi immediatamente!'"

Setsuko si alza, le gocce le scivolano lungo il corpo. Si appoggia al bordo, affonda la mano nell'acqua, la muove prima lentamente e poi con più energia. Finché non alza un'onda che le raggiunge il bacino, le scivola sui peli lisci del pube e poi fra le cosce.

"Il fatto che le radiazioni non si vedano e non si sentano mi spaventa. E poi dove si depositano? Come si attaccano al corpo? Tu lo sai?"

La bambina di prima torna accanto a noi, questa volta tenendo per mano la madre.

"Non lo so davvero, Setsuko. Però hai ragione, il fatto che siano invisibili e pericolose è angosciante."

Lei sospira, si passa le mani sui fianchi bagnati come se volesse asciugarli.

"Vittoria, aspetto un figlio."

Sto per dire qualcosa, ma la bimba mi anticipa: "Be', non la racconti più la storia di Kaguya Hime? O non sai come va avanti?".

Gli occhi di Setsuko si riempiono di lacrime. Sfiora la guancia della piccola con le dita, gocciolandole sulle spalle esili.

"Ho capito, non sai come va a finire" dice la bambina sospirando. "Pazienza, te la racconto io. L'ho appena studiata a scuola." E si siede sul bordo tra noi due con i piedini nell'acqua.

"Però tu smetti di piangere, capita a tutti di dimenticarsi le storie. La maestra dice che le lacrime non servono a niente."

 

9-11 L'ora del Serpente

Questa è l'ora in cui i serpenti lascianole loro tane

 

Sto viaggiando verso Tokyo a trecento chilometri all'ora sullo Shinkansen Hikari, uno dei treni più veloci del Giappone. Hikari significa "luce". Me lo ha detto Miki. Lei, certa che mi attenda una giornata di shopping sfrenato, è la più entusiasta di questa mia gita nella capitale.

"Non avete tanta fantasia con i nomi" ho replicato scherzosa. "L'abbinamento 'velocità' e 'luce' non è certo una gran trovata."

"Forse. Però un altro dei treni rapidi si chiama Nozomi. Che vuol dire 'speranza'. Non trovi che sia un nome meraviglioso per qualcosa che ti porta altrove?"

Annuisco. E vorrei aver scelto di viaggiare proprio su quel treno.

Quando raggiungo i binari lo Shinkansen sta arrivando. Bianco, lucido. Ha forme arrotondate. I finestrini sono ampi e i sedili sembrano confortevoli. Accanto a me, un uomo in giacca e cravatta attende di salire. Quelli come lui vengono chiamati salaryman: abbigliamento classico, vita stabile, fedeltà al lavoro. Con sé, però, ha una valigetta color carta da zucchero che stona con tutto il resto.

"Hai finalmente deciso di vedere Tokyo?" mi aveva chiesto Yuya in chat. Dopo la sera della mia cena italiana non ci siamo più incontrati. Ci scriviamo ogni tanto, ma non parliamo di nulla di significativo. Credo che passi molto tempo da solo da quando ha cambiato impiego per poter lavorare da casa ed evitare di dover uscire. A volte mi sembra che sia sul punto di farmi una domanda che potrebbe mettermi in imbarazzo. Forse vuole sapere qualcosa di sua sorella Setsuko, o di Lorenzo. O forse le mie sono solo suggestioni. Il Giappone continua a farmi questo effetto, una sorta di vulnerabilità che mi fa tornare bambina: fatico a leggere, scrivere è un po' come disegnare, e sono disposta a credere a tutto. O quasi.

"Sono curiosa di visitare la città ma anche di salire su quel treno così veloce da sembrare una giostra. Perché non vieni con me?" gli domando senza pensare.

La finestra della chat rimane vuota, lui non scrive nulla. Il bianco sotto la mia ultima frase sembra dilatarsi nell'attesa. Poi realizzo: non verrà. Ci sono le radiazioni, il cibo non è sicuro e tutto il resto.

"Be', ora ti saluto" aggiungo, "passa una buona giornata".

Lui digita immediatamente: "Divertiti".

Gli ho risparmiato una risposta faticosa e credo me ne sia grato.

È un bel ragazzo Yuya, e non so perché me ne accorgo solo ora. Forse mi sto abituando agli uomini giapponesi. È alto, l'orlo delle palpebre scuro, come ripassato con una matita. Ha i capelli rasati, la pelle ambrata. L'orecchino. Sarà molto cambiato dall'ultima volta che ci siamo visti? Setsuko mi ha detto che non vuole nemmeno che lei passi a trovarlo con le nipotine. Forse è dimagrito ancora. Vorrei essergli d'aiuto ma non so come, così faccio finta di nulla e spengo il computer.

Ho prenotato in una carrozza per non fumatori, anche se l'idea di stare immersa in quella nebbiolina grigia, tipica dei viaggi d'altri tempi, un po' mi attirava. Ma lo Shinkansen è troppo moderno per conciliarsi con le mie fantasie alla Orient Express: le geometrie morbide che ho visto entrare in stazione rimandano più a viaggi intergalattici, tra pianeti iridescenti e stelle pulsanti.

La locomotiva, con i suoi finestrini riflettenti simili a occhi d'insetto, è scivolata verso la banchina. Si è fermata in perfetta corrispondenza dei segni per le porte riportati sulla pavimentazione. Le addette della ferrovia indossano un tailleur e un fazzoletto rosso e bianco legato al collo; gli uomini un abito blu, elegante. Sembra di essere un po' in aereo e un po' in hotel. Ma al tempo stesso mi sento emozionata come se stessi per salire sull'ottovolante.

Perdo qualche minuto a trovare il mio posto. Non ho bagagli ed è davvero piacevole viaggiare senza fastidiose appendici. Il sedile accanto al mio, verso il corridoio, è occupato dal salaryman di prima. Lui si è già sistemato e tiene la nuca ben appoggiata allo schienale, quasi volesse guardare in alto. Ha gli occhi chiusi ma, nonostante i giapponesi riescano ad appisolarsi con facilità sui mezzi pubblici, non è possibile che stia già dormendo. Gli passo davanti e mi siedo, cercando di non urtarlo. Il treno parte subito.

Guardo fuori, la velocità non mi permette di fissare nulla, non riesco a trattenere i dettagli. Solo colori e qualche forma confusa. Il grigio delle case intorno alla stazione di

Kyoto si trasforma nel verde delle campagne. E poi tornerà il grigio, o forse il bianco trasparente dei grattacieli di Tokyo.

Il respiro del mio vicino è calmo e regolare. Ha una nota dolce nel fiato. Dorme per tutta la prima ora di viaggio e mi trasmette pace, serenità. Poi apre gli occhi con un leggero sussulto e comincia a muoversi, a sciogliere le articolazioni. Fa roteare il collo, solleva le spalle, apre e chiude le mani. Seguo i suoi movimenti nel riflesso del finestrino. Finché anche lui, dal vetro, comincia a guardarmi.

Inizialmente trovo piacevole quello scambio di occhiate, ma poi incomincio a sentirmi a disagio. Mi aspetto un sorriso, una parola. Mi immagino che voglia conversare, che stia aspettando l'occasione per iniziare a parlare. Invece nulla. I suoi occhi si fanno sempre più fissi su di me. Vorrei scrollarmeli di dosso come l'acqua dalla pelliccia di un cane. Abbandono il paesaggio e torno a guardare il retro del sedile davanti a me. Anche lui, come se imitasse i miei movimenti, gira il volto. Appoggia le mani sulla sua valigetta di pelle azzurra che ha sempre tenuto sulle ginocchia, dilata le dita per far aderire i palmi. Poi fa scattare le chiusure e la apre. Sarei curiosa di guardare cosa contiene, ma mi trattengo. Lui estrae un sandwich e una lattina di Fanta alla pesca e poi la richiude. Guardo l'orologio: sono solo le 11. Mi sembra presto per pranzare, ma in pochi minuti mi accorgo che anche altri passeggeri cominciano a mangiare. Polpette di riso o ravioli alla griglia, tramezzini con dentro una cotoletta e spaghetti freddi di grano saraceno. Alcuni, invece, posizionano davanti a sé una scatola che assomiglia un po' a quella dei cioccolatini occidentali. Dentro, assaggi di vari cibi salati e dolci.

Io non ho nulla con me, e tutti quegli odori risvegliano i miei succhi gastrici. La hostess che avevo intravisto sul binario prima della partenza ora indossa un grembiule

bianco smerlato e spinge un carrellino carico di cibo e bevande: snack e panini, ma anche qualcuno di quei box alimentari. Non è rimasta molta scelta e comunque mi sarei affidata al caso. Ne acquisto uno con la sensazione di comprare un sacchetto di caramelle gommose al parco dei divertimenti.

Il mio pranzo si presenta come un portagioie da sole 751 kcal per 400 g. Questa è l'unica informazione che viene data in caratteri immediatamente comprensibili anche a me.

Il colpo d'occhio è meraviglioso, ci saranno almeno quindici pietanze differenti, ognuna riposta all'interno di una coroncina di carta dai colori sapientemente abbinati. Anche il cibo, la consistenza e il colore sono accostati rispettando dettami poetici. Separo le bacchette, inizio a mangiare e subito comprendo che il periodo della mia costrizione macrobiotica sarà la mia salvezza: da bambina, infatti, per alcuni anni mia madre aveva preso a seguire quel regime alimentare insieme a un'altra amica. Il marito di lei, dopo mesi di riso integrale e gomasio, si era dato all'import-export di salumi dall'Austria e si erano trasferiti. Io mi chiedevo come avrebbe reagito mio padre se fosse stato ancora con noi. Per fortuna le nonne mi tenevano al sicuro da una dieta troppo rigida passandomi, sottobanco, Oro Saiwa spalmati di burro e risotto con la salsiccia.

"Non date porcherie a Vittoria" diceva mia madre quando mi lasciava da loro a cena. Poi anche lei, dopo qualche tempo e senza più la complicità dell'amica, aveva ceduto e quell'incubo era finito. Se ripenso alla cucina di casa dei nonni, a mia madre, al profumo di biscotti, mi sembra si tratti di un'altra vita. Distante. E invece è sempre lì, anche se ultimamente l'avevo scordata.

Guardo il mio pasto, lo ispeziono.

Angolo di riso bianco con sesamo nero. Questo lo chiamo Sono al sicuro, perché non può nuocermi.

Angolo delle sostanze verde torbido. Qualcosa sa di nervetti di manzo lessi. Mia nonna i nervetti in insalata li preparava sempre e ci metteva le cipolle crude, il sedano e i peperoni. Ora ne capisco il motivo: dare sapore ma anche coprirlo. Poi c'è una fettina di qualcosa che ha la consistenza della cotognata. Il sapore però mi ricorda il legno marcio di un pontile. Do due morsi timidi e poi la abbandono. Questo lo chiamo Il giardino del mare.

Angolo delle verdure. Sollevo una fetta di un ortaggio cilindrico non meglio precisato, la cui sezione è interamente traforata. La addento, offre la resistenza della zucca cruda ma ha il sapore dolciastro e polveroso di un Arbre Magique lasciato in auto da troppe estati.

Ora è la volta di quella che sembra una borraccia floscia in miniatura, viola intenso. La sollevo, la perlustro e decido che è una melanzana. La mangio tutta ed è dolce e piccante. Le abbino un po' di riso e sento l'esofago che si rilassa. Il fungo lesso e viscido lo ignoro. Magari un lato mi avrebbe fatto crescere a dismisura e l'altro rimpicciolire, ma non voglio tentare.

Poi provo con una verdura bianca a forma di diamante: la consistenza di una patata, il sapore di un cassetto lasciato chiuso per anni. Le palpebre, mentre mastico, mi si strizzano come se fossi su una distesa di neve con il sole alto nel cielo. Non posso farcela, provo con un secondo boccone ma sento che la lingua combatte.

Passo a uno spicchio di qualcosa a forma di cono, al cui interno ci sono degli spoiler, tipo trippa di bovino anche se questo è un vegetale. Il sapore è la negazione del sapore, e la consistenza è quella di una susina acerba lessa

(non l'ho mai mangiata ma sono certa che sia così). Provo a deglutirla, gli zigomi mi salgono verso l'alto. Una valida alternativa alle iniezioni di botox, penso. Questo lo chiamo Niente è ciò che sembra. E sorrido da sola.

Torno a guardare fuori dal finestrino per prendermi una pausa dalla mia esperienza culinaria e vedo che il mio vicino mi sta osservando di nuovo. Sorride anche lui. Ricambio e torno al mio gioco.

Angolo delle cose gialle. Il primo morso lo dedico a un cubetto molle e sugoso che identifico subito come tofu fritto. Ai denti offre la stessa resistenza di una spugna da doccia intrisa d'acqua. Questo lo chiamo Acqua in bocca.

Infine i dolci. Tutto fino a quell'istante mi era sembrato dolce, persino le carote lesse, ma ciò che stavo per assaggiare lo sarebbe stato infinitamente di più: frittata zuccherata. Poi tocca a quattro fagioli neri schierati come le tessere del domino. Sono morbidi come le castagne cotte ma la loro dolcezza è così intensa che mi scende un brivido lungo il collo. Al secondo boccone gli occhi spingono per fuggirmi dalle orbite. Questo lo chiamo Dimmi amore mio.

Oltre agli avanzi, nella scatola è rimasta una piccola sfera che in origine troneggiava sul riso, la ispeziono. È color mattone e sembra un sottaceto. La metto in bocca. È salata come un sorso di acqua dell'oceano. Persino le spalle mi si arricciano. Questa la chiamo Bassa marea.

Il signore seduto accanto a me ha abbandonato la postura rigida, e ormai mi guarda con insistenza. Ha gli occhi allegri, forse per merito delle mie buffe espressioni.

"Le è piaciuto il pranzo?" Il suo inglese è tremolante.

Io annuisco.

"Oishikatta" dico. So che significa "era delizioso". Lui questa volta ride di gusto.

"A lei piace la cucina giapponese?" gli chiedo tornando all'inglese perché il mio giapponese è ancora minimale.

"Mi spiace ma non parlo inglese, lei parla giapponese?"

Ecco, fine della conversazione. Peccato.

"No, non parlo giapponese."

Lui sorride ancora e poi si scusa.

Di nuovo in silenzio, continuiamo a guardarci ogni tanto durante il tragitto. Quando lui lascia il manga che sta leggendo e io abbandono il vetro ci scambiamo qualche sorriso, annuiamo. Ci mancano le parole. Vorrei chiedergli del suo lavoro, se ha una famiglia. Dov'è nato e se, dopo il terremoto, ha avuto paura delle radiazioni. Ma devo tenermi tutte queste curiosità.

Il treno rallenta, entra in stazione. Il viaggio è stato rapido, solo due ore e quindici minuti per i cinquecento chilometri che separano Kyoto da Tokyo.

Aspetto che il mio vicino si alzi per muovermi anch'io. Lui indugia anche se il vagone è fermo da qualche istante e tutti stanno scendendo. Sono impaziente ma non voglio essere scortese. Ha di nuovo le mani sulla valigetta, le dita aperte e il respiro calmo. Forse si è dimenticato della mia esistenza o forse sta cercando in qualche modo di trattenermi. Mi schiarisco la voce per farmi notare, lui si volta di scatto verso di me.

"Oh, mi scusi" dice in giapponese.

Si alza di fretta ed esce, mescolandosi alla folla. Una folla brulicante ma ordinata che non ho mai incontrato prima.

Io so che devo prendere la linea della metropolitana Hanzomon per raggiungere il primo quartiere che voglio visitare, Shibuya. Sulla guida ho letto che qui sono nate alcune delle mode più bizzarre seguite dai giovani giapponesi. Viene descritto come un luogo dinamico, luminoso. Miki mi ha imposto una tabella di marcia serrata tra negozi di accessori, grandi magazzini, grattacieli. Sbaglio direzione tre volte, mi rigiro la cartina delle linee della metro di Tokyo tra le mani - sembra un piatto di spaghetti dai diversi colori - e mi assale lo sconforto. Ma quando sulle scale mobili vedo la valigetta azzurra del mio vicino di treno ho un guizzo. Potrei chiedere aiuto a lui, magari addirittura di accompagnarmi alla fermata. Un po' in inglese e un po' in giapponese dovrei farcela. Salgo i gradini due a due ma non faccio in tempo, lui mi sfugge e scompare di nuovo. Il flusso di persone mi riporta al punto di partenza. Mi siedo su una panchina, mi viene voglia di non muovermi più. Ma poi decido di alzarmi e provare a capire. Salgo due piani e ne scendo uno. Percorro un lungo corridoio che porta verso un binario all'aperto. Prima di prendere le scale verso l'ultimo tunnel controllo sul cartellone che gli ideogrammi corrispondano a quelli che ho sul foglio che mi ha preparato Miki. Sento lo spostamento d'aria del treno in arrivo, devo fare in fretta perché non voglio restare un minuto di più in questo traffico umano e ferroviario. Scendo altri gradini ma una sirena di emergenza mi trattiene. I freni del convoglio stridono. Penso subito a una scossa di terremoto ma non vedo nessuno scappare. Magari un attentato. Solo qualche impiegato risale le scale flemmatico. Forse un problema tecnico, ma sono curiosa e voglio comunque andare a vedere. Sulla banchina la gente non è molta e resta immobile. La motrice è ferma a metà stazione, degli addetti in divisa blu scuro e guanti bianchi transennano la banchina. Mi superano dei barellieri con tute dai colori fluo. Li seguo con lo sguardo.

Un telo è steso sui binari, davanti alla locomotiva. Copre qualcosa che pare un fagotto. Né gli infermieri né i controllori si muovono concitati. E nemmeno la gente. Io mi faccio avanti per cercare di capire cosa sia successo. Mi fermo solo quando vedo, oltre la linea gialla, proprio accanto al treno, la valigetta celeste. Il mio compagno di viaggio, quando si è gettato, non l'ha portata con sé. Questo lo chiamo Fine, o forse Inizio.

Il riverbero del sole sui grattacieli è accecante, dai negozi escono profumi, jingle, clienti. Ma io non riesco a vedere gli oggetti, le cose. Guardo in alto e poi cerco occhi da incrociare, parole da scambiare. Ma tutti quelli che incontro percorrono la propria strada come se si muovessero su una linea tratteggiata e senza poterla abbandonare.

Provo una solitudine nuova. Cerco di immaginare cos'avrei fatto se la stessa cosa mi fosse successa in Italia: avrei telefonato a mia madre, ne avrei parlato alle mie compagne di corso.

Da un negozio di macchine fotografiche esce un ragazzo vestito da polaroid. Urla qualcosa dentro a un megafono, e io sussulto. Mi accorgo di aver camminato senza una direzione, di essermi persa. Prendo il foglio con gli appunti di Miki, ma non ho più voglia di restare in città. Così cerco le prime scale per riprendere la metropolitana.

 

11-13 L'ora del Cavallo

Questa è l'ora in cui il sole è alto e, mentre gli altri animali si distendono per riposare, i cavalli restano in piedi

 

L'autobus procede lentamente nel traffico di una mattina qualunque a Kyoto. La giornata è fredda ma brillante e ho deciso di andare a vedere il mercato dell'antiquariato. Ogni mese viene allestito nel parco di un tempio buddista poco a sud della stazione ferroviaria. Il clima ultimamente non è stato dei migliori, ma stare chiusa in casa cominciava a pesarmi davvero.

Oltre a me sull'autobus ci sono pochi passeggeri e trovo posto per sedermi. In prevalenza sono anziani, anche se attribuire con esattezza un'età ai giapponesi per me è sempre abbastanza complicato. Gran parte di quelli che ho conosciuto potrebbero avere tra i 20 e i 45 anni. Quando me lo raccontava Lorenzo non ci credevo: "Noi occidentali sembriamo più maturi, i giapponesi invece mantengono un aspetto giovanile". Pensavo fosse lui a essere disattento o incapace di cogliere i segni del tempo, e invece aveva ragione.

Scendiamo tutti alla fermata in corrispondenza del grande tempio lasciando solo l'autista, e ci disperdiamo tra le bancarelle. Ce ne sono di vario tipo, da quelle di porcellane antiche a quelle che vendono cibo di strada: banane infilzate su uno stecchino e glassate con del cioccolato, ma anche frittate con pollo e verdure poi ricoperte di maionese. Ci sono oggetti d'epoca, calligrafie, kimono usati e vecchi orologi che riportano le dodici ore dell'antico sistema orientale. Lorenzo ne aveva uno da tasca fermo alle 12.30, che teneva sempre con sé. Quando gli avevo chiesto cosa se ne facesse di un orologio rotto mi aveva raccontato di averlo trovato in un negozietto, bloccato sull'ora della sua nascita: "Nell'astrologia dell'Asia orientale ci sono dodici animali che, oltre a governare l'anno cui sono assegnati, rappresentano uno dei dodici periodi di due ore in cui veniva divisa la giornata". La sua era l'ora del Topo, me lo ricordavo. Ne avevamo riso insieme anche se, mi aveva poi spiegato, quello del Topo era un bel segno, il primo dello zodiaco, carismatico, lavoratore, intelligente e astuto.

Gli odori sono intensi, quello delle rape sotto aceto poi è davvero pungente. I frequentatori del mercato assaggiano, toccano, ispezionano. E alcuni comprano. Io sono sempre un po' in imbarazzo, non so quello che posso e non posso fare. E non so chiedere. Così guardo e scatto qualche fotografia.

Dopo vari giri decido di assaggiare quelle che sembrano delle patate dolci saltate in padella. Sono tagliate a spicchi e poi cosparse di sale grosso. Me le servono in un grande bicchiere di carta. Vedo una panchina libera poco oltre il chiosco, vicino a uno degli ingressi laterali del tempio, e mi ci dirigo a passo spedito. Un uomo, proveniente dalla direzione opposta, ha avuto la mia stessa idea. Ci troviamo una di fronte all'altro, anche lui con in mano un bicchiere, ma riempito di bocconcini di pollo agliato e fritto. Il loro odore è inconfondibile. Ci guardiamo negli occhi, mi fa cenno di accomodarmi e io faccio lo stesso con lui.

"Possiamo sederci entrambi, c'è posto" dice lui in inglese con un tono molto garbato.

Ha i capelli bianchissimi e grossi occhiali con lenti leggermente oscurate. Del suo abbigliamento da elegante signore di mezza età mi colpiscono le scarpe: delle sneakers gialle e argento.

Finisce subito il pollo, mentre io non sono nemmeno a metà del mio spuntino.

Intanto, davanti all'ingresso del giardino del tempio è arrivato un gruppo di bambini, tutti in fila, ognuno con un berretto giallo in testa. Appena superano la soglia le due maestre che li accompagnano li autorizzano a rompere le righe. Alcuni si dirigono verso il padiglione centrale, dov'è custodito l'altare con la statua del Buddha, altri si rincorrono tra le piante. Una bambina con una gonna a salopette rossa raccoglie sassolini dal manto di ghiaia. Poi alza il viso, mi osserva seria per qualche istante e mi saluta, tenendo il suo bottino nel pugno.

Oltre ai bambini cominciano ad arrivare altre persone per le preghiere del mattino. Molte donne e qualche anziano che, visti i sacchetti che ha al braccio, deve aver fatto acquisti al mercato. Le voci dei monaci che recitano i sutra arrivano fino a noi.

Il mio vicino, dopo aver accartocciato il bicchiere, comincia a rosicchiare qualcosa, attingendo da un sacchettino di carta. Denti che frantumano e labbra che sbattono sprigionando un profumo di orzo tostato. Con la coda dell'occhio cerco di capire che cosa stia mangiando con tanta soddisfazione. Ma prima che io possa rendermene conto lui mi sta porgendo il sacchetto. Alzo gli occhi e incontro il suo sorriso. Ha i denti profilati d'oro e il suo giaccone è costellato di briciole.

"Ne prenda uno, signorina."

Guardo nella busta, ci sono piccole sfere scure. Non mi decido. Lui mi osserva per un po' senza smettere di sorridere.

"Non vorrà mica che i demoni la tormentino per tutto l'anno, vero?"

In un inglese semplice ma corretto mi racconta che in Giappone, a febbraio, si celebra Setsubun, il passaggio di stagione. Ci si libera dei guai dell'anno vecchio e si compiono rituali per tenere lontane le sciagure dall'anno nuovo. In questa lotta contro il male, i fagioli di soia tostati hanno un ruolo centrale.

"Mangiare i semi di soia crudi è difficile come sbarazzarsi di un demone" mi dice lui. "Sono duri e cattivi. Per questo vanno cotti sul fuoco che li purifica e li rende commestibili. Dovrà mangiarli per digerire il male dell'anno passato e lanciarli fuori dalla porta per colpire i demoni futuri. È tutto chiaro?"

Per un istante mi viene il dubbio che mi stia prendendo in giro. Ma poi capisco che è serio.

"Tutto chiaro, grazie. Lei parla molto bene inglese" gli dico.

"Lo insegnavo a scuola, ma ora sono in pensione. Ho tanto tempo libero e non so bene cosa farmene." Quella frase mi intenerisce. E penso agli anziani che normalmente incontro durante le mie giornate qui in Giappone: il custode del parcheggio delle bici che le mette in ordine ossessivamente, gli addetti alla sorveglianza dei cantieri che non fanno altro che avvisare i passanti di prestare attenzione, la signora che tiene pulito il piccolo santuario accanto a casa, sempre curva a strappare i fili d'erba che nascono in mezzo alla ghiaia e a spostare sacchi di foglie secche. Nessuno sembra farsi mancare un lavoretto.

"E poi" prosegue, "invecchiando ci si accorge di cose che da giovane non avresti mai nemmeno immaginato:scompaiono le persone vicine a te. Una dopo l'altra".

Quest'ultimo non è esattamente il tipico argomento di conversazione tra sconosciuti, ma non mi disturba. E poi trovo che abbia ragione.

"La cosa che ora faccio con più frequenza rispetto a quando andavo al lavoro, è parlare con la gente. Perché penso che parlare con gli altri sia una cosa buona, buona come il sakè, il cibo, i viaggi. Non crede?"

"Certamente." Lo seguo incuriosita.

"A lei piace il sakè? Deve piacerle se vuole vivere qui. In realtà in giapponese il termine sakè è riferibile a qualsiasi bevanda alcolica mentre quello che voi occidentali chiamate sakè per noi è il nihonshu. Significa 'spirito del Giappone', lo sapeva?"

 

Me lo aveva raccontato Lorenzo, ma fingo di essere sorpresa.

"Sì, mi piace, anche più del vino."

"Questo è bene. Lei da che Paese arriva?"

Quando gli dico che sono italiana il suo viso si illumina.

"La cultura, la musica, che bella l'Italia!" Poi prosegue: "E a lei cosa piace del Giappone?".

In effetti è la prima volta che mi trovo a rispondere a quella domanda, e forse è anche la prima volta che me la pongo.

"Mi piacciono i contrasti, la sensazione di sicurezza."

Annuisce ma non sembra soddisfatto. Mi chiede come mi chiamo.

Gli rispondo e gli spiego il significato del mio nome.

"Ha un nome importante, mi piace. Vittoria, non si dimentichi quello che sto per dirle: il Giappone è un Paese sicuro per il corpo, ma pericoloso per la mente."

Intuisco il significato della sua affermazione, ma non so se voglio approfondire.

"Del Giappone mi piace anche la tranquillità" aggiungo.

"In effetti qui è tranquillo, qui abbiamo la vera pace. Non so se conosce la storia del Giappone."

Scuoto la testa.

"Da sempre si alternano periodi di pace a periodi di tremenda malvagità. Abbiamo vissuto epoche durante le quali si poteva viaggiare per miglia e miglia senza che accadesse nulla di male. Ma a queste sono seguiti periodi in cui uscivi di casa e ti tagliavano la testa senza motivo. Anni in cui le donne venivano aggredite, le famiglie massacrate. Poi tornava la pace. Ora c'è la pace, in Giappone la chiamiamo heiwa".

"Heiwa" dico ad alta voce. Ha un bel suono, riempie la bocca. Un suono importante e intenso, quasi stessi pronunciando una potente formula rituale. Più avanti, però, stando a quanto mi dice, dovrebbe tornare la malvagità. O forse, nonostante lui parli di alternanza, con il passare del tempo le due condizioni si sono fuse e oggi nella pace serpeggia già la crudeltà.

Il mio viso dev'essere diventato serio. Lui sgranocchia qualche altro fagiolo.

"Che bel sole c'è nonostante la stagione" dice. "Ci pensa mai che anche i suoi cari guardano lo stesso sole e la stessa luna? Non la fa sentire più vicina a loro?"

È un pensiero piacevole. Anche Lorenzo guarderà identiche stelle. Un brivido mi corre lungo la schiena. Ma perché ritorno sempre all'origine di questo viaggio? Mi do un pizzicotto sulla coscia. Un gesto infantile per scacciare qualcosa che non mi va.

Suona il cellulare: è Setsuko. È tardi e devo raggiungere le sue figlie per la lezione di italiano.

"Grazie per i suoi racconti, è stato un piacere incontrarla" dico all'uomo alzandomi dalla panchina.

I bambini stanno ancora giocando in mezzo alla ghiaia, la piccola con la salopette rossa ha messo in fila tante piccole pietruzze.

Lui mi fa un inchino con il capo.

"Il piacere è stato mio. Anche se lei, Vittoria, non mi crede, vero?"

Lo guardo perplessa.

"Parlo della questione dei fagioli che tengono lontani i demoni."

Io sorrido mentre mi avvolgo nella mia sciarpa.

"Li prenda, io li ricomprerò. E non si dimentichi di mangiarli, sono anche ricchi di proteine. Le faranno bene, in tutti i sensi."

E così dicendo mi allunga il sacchetto di carta sul quale sono stampate maschere demoniache rosse e blu.

Raggiungo la fermata dell'autobus senza smettere di pensare a Lorenzo, allo stesso cielo che ci osserva. Apro la borsa per cercare il biglietto e sento le chiavi di casa sua tintinnare. Il cuore comincia a battermi forte. È deciso, domani andrò a vedere il suo appartamento. Mangio una di quelle sfere nere tostate che mi ha dato lo sconosciuto sulla panchina. Non gli ho nemmeno chiesto il nome, sono stata scortese. Il fagiolo ha un sapore forte, simile al tabacco. Prima amaro e poi più dolce.

Continuo a camminare verso la fermata senza più alzare la testa dall'asfalto. Ascolto il suono del mio cuore come se stesse battendo in mezzo al nulla. E mi godo quegli istanti di pace ai quali non so cosa seguirà.

 

13-15 L'ora della Pecora

Questa è l'ora in cui le pecore mangiano l'erba

 

Ho chiesto a Setsuko di poterla accompagnare alla prima ecografia dato che suo marito lavora sempre, e così ora siamo in taxi, dirette verso l'ospedale. I finestrini sono abbassati, l'aria circola nell'auto ma solo per portarsi via il profumo di sapone che lei ha sempre addosso. Tiene le mani sulle ginocchia velate da calze leggere. Non capisco come faccia a stare tanto coperta con questa temperatura. È quasi arrivata l'estate, i mesi scivolano via veloci da quando sono in Giappone. Setsuko ha i capelli raccolti e la sottile peluria sulla sua nuca sembra sollevarsi. Un brivido di calore, o forse di preoccupazione.

Dopo quel giorno alle terme non abbiamo più parlato delle radiazioni e delle sue angosce. Anzi, asciugate le lacrime aveva sentito il bisogno di scusarsi, insistendo perché le promettessi che mi sarei scordata di tutto quanto. Da vera kyotonese, Setsuko è stata educata a non mostrare i suoi sentimenti, a proteggere dietro l'impassibilità ciò che le passa per la mente. Ma sono sicura che questo per lei sia un momento importante e spaventoso.

Credo che lo sia per ogni donna che aspetta un figlio, ma ancora di più per lei, così preoccupata per la salute del suo bambino.

Dall'ultima volta che ci siamo viste, le sue occhiaie si sono fatte più intense e la sua pelle sembra trasparente. Il ventre si è gonfiato ma il resto del corpo è rimasto esile come sempre. Anzi, sembra persino dimagrita.

"È solo che la pancia più grossa fa sembrare il resto più asciutto" mi aveva detto quando gliel'avevo fatto notare.

L'auto procede lenta nel traffico. L'interno dei taxi giapponesi mi ricorda il salotto dei miei nonni: i sedili sono spesso decorati all'uncinetto, regna un odore lievemente polveroso e l'autista indossa guanti bianchi. Quelle macchine paiono non appartenere al tempo presente. Respiriamo l'aria morbida e calda della stagione delle piogge e mi sembra che i polmoni si riempiano di vapore. Mi accorgo di essere un po' agitata per questa visita, anche se fino a ora non ho mai dubitato della salute del piccolo. Mi tornano in mente le parole di Setsuko: "Le radiazioni non si vedono". Ed è proprio lì che si è invischiata anche la mia paura.

Le porte di vetro della clinica si aprono appena arriviamo in prossimità del sensore e ci accoglie un piacevole fresco. Si respira meglio, l'afa sembra essere rimasta fuori. Ma dopo pochi passi ci si rende conto che il sollievo è solo momentaneo perché il corpo si abitua subito. Setsuko indossa un vestito di maglina a righe orizzontali bianche e blu lungo fino ai piedi e sopra una t-shirt dal taglio ampio. Suda e si tampona con una stoffa decorata con coniglietti rosa.

"Aspettami qui" dice indicandomi la sala d'attesa dotata di macchinette per le bevande e di una grande televisione. Prendo una bottiglia di té verde e mi siedo davanti allo schermo. I programmi giapponesi riguardano spesso cibo e viaggi. Gente che assaggia piatti strani, esplora prodotti tipici e ne decanta le qualità superlative. Anche se si tratta di alghe poco invitanti o semplici mele. Non mi capita spesso di guardare la tv, ma quando lo faccio mi rilassa e mi distrae. Non mi sorprende che in una sala d'attesa, come intrattenimento, abbiano messo un grande schermo. Ora stanno trasmettendo un documentario sottotitolato in inglese. La traduzione è una rarità, ma forse, trattandosi di una clinica situata in una zona turistica della città, hanno attenzioni particolari per i loro ospiti. Nel filmato i due presentatori, un uomo e una donna, sono in riva a un lago e la donna mostra alla camera un dolce ancora impacchettato. Lo apre: ha un colore ambrato, sembra un bignè liscio. Sull'incarto, l'effigie battagliera di un monaco che, come racconta il presentatore con voce tenebrosa, "non era affatto un tipo qualunque. Si tratta di Benkei, un monaco guerriero, da alcuni ritenuto addirittura il figlio di un demone".

"Ohhh" aggiunge subito la commentatrice sgranando gli occhi abbondantemente truccati.

"A un certo punto della sua vita si appostò sul ponte di Gojo a Kyoto. Chiunque cercasse di attraversarlo veniva sfidato dal monaco. In questo modo Benkei collezionò presto ben 999 vittorie."

Ora sullo schermo cominciano a scorrere ritratti del monaco: un omone inquietante, dalle vesti variopinte, agghindato con una spada e un'alabarda. Poi la camera torna sul conduttore mentre, con un tono serio, spiega che al millesimo combattimento Benkei venne disarmato da un generale del XII secolo, Minamoto Yoshitsune. E da allora il monaco guerriero, a dimostrazione della sua lealtà, divenne fedele servitore del condottiero.

La storia prosegue, ma io mi distraggo a guardare una rondine che fa avanti e indietro dal sottotetto, sfrecciando accanto al finestrone della sala d'attesa. Si muove rapida, non riesco a intuirne la traiettoria che cambia all'improvviso. Temo che sbagli e che sbatta sul vetro con forza. O forse lo spero, perché in quel caso scenderei subito nel parco per soccorrerla: da bambina mi piaceva andare a caccia di animaletti di cui prendermi cura.

Finalmente la presentatrice, che aveva annuito costantemente durante la narrazione, dà un piccolo morso al dolce. Si immobilizza, guarda il collega come se l'avesse scoperta con le dita nella marmellata: nei programmi sul cibo quando assaggiano qualcosa fanno sempre così. Poi mastica piano e mugola soddisfatta. Il dolce non mi convince, invece questa storia, per quel poco che ho capito, mi piace, come tante delle leggende giapponesi.

Guardo l'orologio, da quando siamo arrivate sono passati solo quindici minuti e ci vorrà ancora del tempo. La rondine è scomparsa, così torno alla televisione, in attesa del nuovo video. Questa volta si parla di granchi. Su questo tema sono più preparata perché su suggerimento di Yuya, proprio durante il mio primo mese a Kyoto, ero stata in visita sul mar del Giappone, sul lato dell'isola che guarda verso l'Asia. Il luogo, mi aveva assicurato Yuya, era suggestivo e il sushi di granchio, specialità della zona, delizioso. Non era passato molto tempo da quando avevo lasciato l'Italia, eppure vedevo già le cose in maniera diversa. Mi sembrava di essere scesa dall'aereo una vita fa. La decisione di non tornare nel mio Paese credo di averla maturata un po' ogni giorno, e me ne accorgo ora. Le emozioni che mi davano alcuni luoghi, oggetti e storie aumentavano di intensità anziché dissolversi. Mi accorgevo di sentirmi al posto giusto nonostante non avessi nient'altro oltre a me stessa. Forse avevo bisogno di ritrovare un po' di silenzio, uno spazio solo per me. E di capire cosa fosse accaduto a quella storia di fascinazione e distanza sulla quale avevo tanto investito.

Il viaggio in treno verso il mare interno non era stato breve, ma quando avevo visto dal finestrino il paesaggio a valle, ogni noia era svanita.

A separare il mare dalle montagne c'era un villaggio di pescatori. Catturavano granchi, in particolare.

Quando sono arrivata, però, non era la stagione giusta. Il periodo dell'anno in cui vengono pescati solitamente va da gennaio a marzo e invece era estate. Yuya, probabilmente confuso dal suo stato di agitazione, si era scordato di questo dettaglio. Ma non mi ero arrabbiata, tanto per me ogni cosa era una novità.

Il villaggio aveva un'aria dimessa, più dimenticata che abbandonata. Le numerose pescherie erano chiuse, sui grandi banconi di acciaio solo qualche cassetta vuota o qualche carapace rinsecchito. I negozi parevano ospedali fatiscenti in cui non era possibile curare più nulla. Un luogo destinato solo a produrre un'eco. Le reti gettate a terra, i bidoni per il ghiaccio, le casse per il pesce: tutto era prosciugato. Quasi l'acqua fosse sparita dal pianeta.

Svoltato l'angolo mi ero trovata davanti alla gigantesca statua di un granchio. Era di un rosso stinto come gli scivoli dei vecchi parchi giochi. Gli mancava anche una chela: si era spezzata lasciando intravedere la polpa di gesso bianco.

Un altro mondo, se paragonato alle immagini piene di vita e colori che passavano ora sullo schermo.

In quel paesino avevo incontrato un vecchio. Stava seduto sul ciglio della strada e al mio passaggio si era alzato per salutare. L'età, o forse le albe trascorse gettando le reti, lo avevano ripiegato su sé stesso come una chiocciola.

Non sapendo che altro fare in quel deserto, avevo deciso di raggiungere la spiaggia. Mi ero tolta le scarpe e le calze, avevo camminato nell'acqua fresca. E, dopo aver ascoltato per un po' la voce delle onde, ero tornata in stazione.

Granchio alla brace, sashimi di granchio, tempura di granchio, zuppa con chele di granchio. Sono solo alcune delle ricette tipiche della zona che i due presentatori stanno mostrando ai telespettatori.

Alle loro spalle il mare è azzurro e l'acqua è ferma. Le nuvole schiacciano l'orizzonte. Parte una musica tradizionale, di quelle delicate e riposanti. E in quel momento torno a sentire il caldo.

I documentari su di me hanno sempre avuto un effetto piacevolmente soporifero, e ancor più in questo caso, complici l'orario e la temperatura. Sento le palpebre appesantirsi. Seduta nella fila di fronte a me c'è una ragazza che dà le spalle al televisore e tiene al collo il suo bambino. Nonostante l'aria condizionata, sono madidi di sudore. I capelli sottili del piccolo sono incollati alla nuca e le pieghe della pelle in corrispondenza delle articolazioni sono arrossate. Potrebbero avere entrambi la febbre alta. O forse hanno solo camminato sotto il sole. I bambini di solito non mi entusiasmano, ma quelli giapponesi li trovo dolci e allo stesso tempo molto seri.

"L'infanzia, prima che comincino le scuole, è un periodo davvero speciale per molti giapponesi: i bambini sono liberi di esprimersi in tutta la loro fanciullezza, senza aver ancora sperimentato la rigidità della vita sociale" mi aveva raccontato Miki una volta. "Pensa che già il rendimento della seconda metà del ciclo delle scuole elementari condiziona il successo della carriera lavorativa."

Osservando quel bimbo dormire abbracciato alla sua mamma, mi sento fortunata per la serenità con cui sono cresciuta, senza il timore di deludere i miei familiari o di non avere un futuro radioso per colpa di qualche insuccesso scolastico.

Il respiro della madre è lento e ritmato, il piccolo fa su e giù insieme al suo petto. Solo ogni tanto un dito della mano viene percorso da uno scatto. Quell'immagine mi dà un profondo senso di pace e anch'io chiudo gli occhi.

Cammino a un'andatura costante. Nella luce color malva, gli edifici si susseguono addossati l'uno all'altro senza che se ne riesca a intuire la fine. Alcune case sembrano garage tanto sono piccole e desolanti. Tende sporche appese alle finestre: chissà quale vita si agita lì dietro.

Procedo: file di auto parcheggiate, negozi sovrapposti, grandi magazzini con le insegne spente. Con la mano destra stringo il manico di un sacco di tessuto plastificato. È pesante, e quando mi fermo al semaforo lo appoggio con cautela per terra. Le estremità si schiudono, guardo dentro: contiene un uomo seduto nella posizione del loto. I suoi occhi sono chiusi, le palpebre distese, non per evitare di guardare ciò che c'è fuori, ma per osservare ciò che avviene dentro di sé. Il semaforo diventa verde e simula il frinire delle cicale. Sollevo la borsa e riprendo il mio viaggio in uno scenario destinato a non mutare mai.

Mi sveglio con un sussulto, Setsuko è davanti a me. Non ho bisogno di chiederle come sia andata perché il suo viso raggiante non lascia dubbi. Mi mostra con orgoglio le immagini dell'ecografia che a me sembrano foto scattate durante una tempesta di pioggia.

"Avevo così tanta paura, Vittoria" mi dice. Invece è tutto a posto: è un'altra bambina.

Mi alzo e le vado di fronte. È tornata bellissima, le guance rosate, gli occhi limpidi. Le sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio. È buffo che in quell'istante sia io a compiere un gesto materno.

"Ora sono in debito con te, mi hai accompagnata, ti sei preoccupata per me."

"Non ricominciare con questa storia dei debiti" le dico sorridendo. "Se proprio vuoi andiamo da Starbucks e mi offri un muffin."

Lei intanto sta riaccendendo il cellulare.

"Lascia almeno che ti inviti in una pasticceria vera. Ce n'è una francese molto buona, non lontana da qui. Proprio vicino a dove abitava Lorenzo, ci sei mai stata?"

No, non ci sono mai stata. Né alla pasticceria né dove abitava Lorenzo.

"Forse, le dico."

Setsuko ferma il taxi con un cenno, ci sediamo di nuovo nel caldo. Ma ora sembra meno opprimente.

"È così bello liberarsi di un peso" mi dice.

Infilo le mani nella borsa per cercare una caramella e le chiavi di Lorenzo sono sempre lì, sul fondo. Le faccio tintinnare un po', conficco le unghie nell'orsetto portachiavi. Credo che sia arrivato il momento di usarle.

 

 

15-17 L'ora della Scimmia

Questa è l'ora in cui le scimmie sono più vivaci

 

L'appartamento di Lorenzo è all'ultimo piano. Entro e non è buio come mi aspettavo. La luce penetra indisturbata da tutte le finestre, ampie, coperte da tende chiare. L'odore è quello di una casa chiusa da mesi, ma pulita. Non ci sono mobili, non c'è il televisore e neanche un divano. Il futon è arrotolato in un angolo della camera da letto. Nella stanza accanto, un angolo cottura e un tavolo. Sul tavolo una busta. Di quelle giapponesi, con l'apertura sul lato corto del rettangolo.

PER VITTORIA

La apro malamente, strappo la busta. La carta è morbida forse per colpa dell'umidità.

Vittoria, benvenuta. Siediti a terra anche se c'è polvere e ascolta la mia storia. Non decidere nulla fino alla fine, vorrei domandarti di non pensare. Ma so che è impossibile. Quindi di nuovo ti chiedo solo: ascoltami. Per due interi mesi ho filmato la famiglia Hayato dalla finestra di casa. Madre, padre e due figli. L'ultimo, nato da poche settimane. Ti starai domandando chi sono queste persone. Ovviamente non le conosci e non sono tra quelle che ti ho suggerito di contattare a Kyoto. Ma se mentre leggi questa lettera scosti la tenda della mia sala, potrai vedere la loro. Vivono all'ottavo piano della palazzina dall'altra parte della strada.

Forse sto facendo una cosa sciocca a fidarmi di te, ho rischiato molto lasciando tutte le mie cose qui. Ma sono convinto che tu farai la scelta migliore.

Quando mi trasferii a Kyoto, i signori Hayato furono estremamente gentili con me e mi aiutarono a trovare casa in pochi giorni. L'appartamento che mi proposero si trovava nello stabile di fronte al loro. A separarci c'era solo il traffico che scorreva inesorabile anche di notte. "Dopo il lavoro venga a cena da noi, ne saremmo felici." Il signor Hayato, che seguiva gli aspetti commerciali nello studio di architettura dove lavoravo, si preoccupava di coinvolgermi sempre. "Non è piacevole rientrare in una casa vuota e per mia moglie Naoko non è certo un problema preparare per una persona in più." E così accettai.

Naoko fin da subito ebbe per me attenzioni e premure che non avrei mai immaginato. Dopotutto ero uno sconosciuto e per di più straniero. Invece cominciammo ben presto a frequentarci anche in altri momenti della giornata, o quando Hayato era via per qualche meeting. Non saprei dire che cosa ci legasse.

Ora la straccio questa lettera, altro che ascoltare una storia. È un modo insopportabile di confessare una relazione con un'altra, anche se risale a prima che ci conoscessimo. Una donna da cui forse era tornato. Gli occhi mi bruciano. Appoggio la lettera nell'incavo tra le gambe incrociate. Guardo in alto, per non piangere. Vedo l'impianto antincendio e il bianco sporco della tintura. Sospiro. Ricomincio a leggere.

Passavo gran parte delle mie giornate in studio, e a cena andavo sempre dagli Hayato: mangiare ciò che le dita di Naoko avevano preparato mi faceva sentire accudito. Suo figlio Jiro mi chiedeva sempre di parlargli dell'Italia, della sua storia, delle battaglie. Quelle vicende erano la sua passione e io, mentre Naoko sparecchiava la tavola, gliele raccontavo con piacere.

Naoko era già incinta del secondo figlio quando cominciammo a frequentarci. La sua pancia era ancora piatta, quasi leggermente incavata. Ma presto cominciò ad aumentare rendendoci sempre più distanti, anche fisicamente. Quando la data del parto fu prossima, Hayato, scusandosi infinite volte, mi chiese di non andare più a cena da loro: "Jiro è molto agitato e Naoko anche". Ma forse il motivo non era soltanto quello.

Non potevo biasimarli, anche se ci rimasi male. Soprattutto perché Naoko non venne neanche a salutarmi. Fu quel giorno che andai a comprare una telecamera e iniziai le riprese. Li avrei osservati attraverso la grande vetrata della loro sala, che fronteggiava la finestra della mia cucina. Montai il cavalletto, scelsi l'inquadratura. Sarebbe stata sempre la stessa, per due mesi. Poi avrei riguardato il materiale e lo avrei montato. Un regalo per Naoko, per farle capire che non mi ero mai davvero allontanato da lei. Che nella sua vita c'ero anch'io. Avremmo condiviso il passaggio dall'inverno alla primavera, dalla luce al buio. Dal freddo ai primi tepori. Quei mesi trascorsero per me nella routine più triste. Mi fermavo da Family Mart a comprare dei ramen istantanei per cena o una cotoletta di maiale da riscaldare.

Finalmente, dopo centinaia di ore di girato, potei mettermi al lavoro.

I primi giorni di riprese li volli guardare interamente, gustandomi anche i momenti vuoti. Volevo immergermi nella quotidianità di Naoko, farne parte. Poi sarei partito per l'Italia, dove sarei rimasto un mese. Al mio ritorno, con la mente libera, avrei cominciato a selezionare e a montare il materiale.

Al mattino la sua ombra con il ventre gonfio appariva dietro le tende che proteggevano la vetrata, poi Naoko le scostava, mostrandosi. Era avvolta in una vestaglia rosa e soffice. La guardavo muoversi in quella trasparenza come un pesce in una grande boccia. Mi mancava. Ogni tanto il piccolo Jiro apriva la finestra di nascosto per dare da mangiare ai corvi.

In Italia ti conobbi, e al mio ritorno in Giappone non avevo più così tanta voglia di riprendere quel lavoro. Per un paio di giorni pensai addirittura di buttare via tutto senza nemmeno guardare il materiale. Ma poi mi dissi che sarebbe stato sciocco e che, nonostante ora avessi la mente altrove, Naoko si meritasse quel mio dono.

Solo per un istante il mio pensiero si alleggerisce. Ma alla fine di questa lettera mancano ancora due fogli.

Quando cominciai a lavorare alle riprese della seconda settimana qualcosa di quello che vidi mi innervosì. Senza accorgermene dovevo aver urtato il cavalletto: l'inquadratura si era spostata privandomi della vista del divano di Naoko e coinvolgendo una finestra dell'appartamento accanto. Le ore di girato scorrevano sul video e alle 18 due tubi luminosi si accesero nella casa dei vicini di Naoko mostrandomi l'interno di una camera da letto e la ragazzina che ci viveva.

Rotondetta, con lisci capelli corvini lunghi fin sotto il mento e la divisa della scuola. Aveva scostato le tende ed era rimasta a fissare nella mia direzione a lungo, senza fare altro, fino all'ora di cena. Immediatamente guardai il girato del giorno successivo, incuriosito da quella nuova presenza. Era una domenica e lei apparve fin dal primo mattino con una camicia da notte celeste e dei collant rosa. Mandai avanti veloce, lei ogni tanto spariva e poi tornava a guardare fuori. Passai quella notte a verificare se anche negli altri video ci fosse la ragazzina: ogni giorno della settimana alla stessa ora, si metteva alla finestra.

Iniziai ad andare controvoglia al lavoro, desideravo occuparmi delle mie riprese, guardare la mia nuova amica. Appena rientrava da scuola si metteva alla finestra a fissare il mondo. Non poteva sapere di me, non poteva vedermi: da quella distanza era impensabile che a occhio nudo mi notasse e quella condizione mi sembrava perfetta. Una mattina, mentre ero in metropolitana, lessi sul giornale del mio vicino che una ragazzina delle medie era stata trovata morta a scuola. Si era impiccata in palestra. Sembrava fosse vittima di bullismo da diverso tempo, i suoi compagni le dicevano "Puzzi, non ti lavi", "Hai gli occhi piccoli e la testa grande come le rane dello stagno" e cose del genere. Chissà perché, temetti che si trattasse della mia giovane vicina, la scuola era proprio quella del mio quartiere. Passai tutta la giornata in preda all'ansia e solo quando arrivai a casa e la vidi comparire alla finestra riuscii a sentirmi meglio. Aprii una birra alla sua salute.

Nei giorni successivi non solo guardai il materiale che già avevo, ma continuai le riprese: ero affamato di quelle scene. Non mi rendevo conto di nulla, Vittoria. Non sentivo quel disagio che ora tu, che hai il cuore pulito, stai certamente provando.

Una mattina lei cominciò a spogliarsi fino a rimanere in reggiseno davanti alla finestra. Ogni giorno compiva gli stessi gesti: si toglieva la camicetta della divisa, la maglia intima e restava così.

Durante il mese di dicembre mostrò al mondo i suoi seni piccoli, sfiorandoli delicatamente.

Mi alzo e vado decisa verso la tenda della sala. La scosto. La luce dell'ottavo piano è accesa e lascio subito che la stoffa ricada sul vetro. Torno a sedermi a terra disturbata e triste. Immagino i vetri freddi, i capezzoli piccoli di quella ragazza simili a more verdi.

Nell'appartamento accanto, i signori Hayato conducevano la loro vita come sempre, ma a me non interessava più. Quasi nulla mi interessava più. Dipendevo da quella ragazzina. I video successivi riguardavano le vacanze scolastiche. E questo significava che la mia nuova amica sarebbe stata a casa fin dal mattino.

Intorno alle 10 apriva le tende ancora in pigiama, poi lentamente se lo toglieva rimanendo completamente nuda. I suoi movimenti erano lenti, accurati.

Sul balcone accanto, Jiro sfamava i corvi: quei due mondi così vicini non collidevano e questo mi piaceva, mi teneva bloccato. Lei intanto continuava, aveva preso la sedia dalla sua scrivania e si era seduta a gambe incrociate. Rivolta nella mia direzione raggiunse con le dita i peli neri del suo sesso. Non avrei mai immaginato che una ragazzina di quell'età fosse già una donna.

Cominciò a toccarsi, senza mai guardare il suo corpo. Vedevo solo un movimento: una mano tra le cosce, l'altra sul seno. Andò avanti così finché abbandonò la testa sullo schienale della sedia, e socchiuse la bocca. Cominciai a masturbarmi.

Poi lei risollevò il capo, si sistemò i capelli dietro le orecchie e guardò dritto in camera.

Sussultai: avevo paura di essere stato scoperto. Rimasi fermo davanti al video, come se lei dallo schermo mi stesse davvero guardando. Non respiravo più, ma l'erezione non accennava a diminuire.

Mi alzai di scatto, corsi in cucina e presi un sacco della spazzatura. Anche se mi ripetevo che non poteva avermi scoperto, ci buttai dentro tutte le mie riprese. Legai il sacco e lo abbandonai accanto alla porta: lo avrei portato in discarica il mattino dopo.

Andai a letto ma non riuscivo a dormire, la città lampeggiava.

Pensavo a tutte quelle ore di filmato che non avrei mai visto, chissà fin dove era arrivata. Chissà quanto ancora aveva damostrarmi.

So a cosa stai pensando, Vittoria.

Dopo nemmeno un'ora senza sonno mi alzai, andai in cucina.

La luce della sala di Naoko era accesa, accesi anche la mia. Era il nostro segnale per incontrarci di nascosto: volevo tornare alla mia vita di prima. Aspettai che lei venisse da me, come aveva sempre fatto prima che quella gravidanza ci separasse. Volevo stare con qualcuno mentre tutta la città dormiva.

Naoko spense la luce ma non mi raggiunse.

Così tornai a letto e quando riuscii ad addormentarmi sognai.

Ma sognai quella ragazzina. La mattina dopo non solo non mi liberai di quei video, non andai nemmeno al lavoro. E così il giorno successivo.

Poi è arrivata la tua email, nella quale mi chiedevi i dettagli del viaggio. Non mi ero reso conto di quanto tempo fosse già passato e tu mi sembravi lontanissima. Però in quell'istante capii quello che dovevo fare: lasciare il Giappone. Ora sai tutto e sono certo che potrai capire.

Ho deciso di tornare in Italia, anzi quando leggerai questa lettera ci saremo avvicendati già da qualche tempo. E ti invidio perché ti trovi dove vorrei essere anch'io. Mi servirà tempo per comprendere quello che mi è successo, ma intanto possiamo sentirci, se ne hai voglia. Di nuovo da una parte all'altra del mondo. Mi troverai a questo numero o a questo indirizzo email. Le caselle di posta e i numeri di telefono che usavo prima li ho cancellati. I video però non sono riuscito a buttarli tutti. Te li affido, fanne ciò che credi. Lo chiedo a te perché penso faccia parte del nostro legame, per ricominciare. Li troverai nel frigorifero, spento.

Sto tremando. Arrabbiata, delusa.

Apro il frigo: ha un odore di gomma vecchia, ma più acido. I video sono nel cassetto della verdura.

Estraggo il tagliere dallo scolapiatti e prendo il pestacarne. Ero sicura che Lorenzo avesse una cucina attrezzata, gli piaceva stare ai fornelli.

Frantumo le sue riprese.

Sento che finalmente mi sto liberando di qualcosa.

Scendo le scale di corsa, non ci sono porte da superare per arrivare in strada. Sul marciapiede urto una ragazzina, anche lei di fretta. Sento nitidamente i suoi capelli sulla mia bocca, la mia spalla sul suo viso. Non ci chiediamo scusa, ci guardiamo negli occhi.

"Magari è lei" penso.

Ma alla fine non mi importa. E in ogni caso è già una figura minuscola in fondo alla via.

 

17-19 L'ora del Gallo

Questa è l'ora in cui il gallo rientra nel pollaio

 

Quel giorno, all'imbrunire, ero andata insieme a Miki a vedere uno dei matsuri più popolari della zona. Una festa nata secoli prima.

Mentre pedalavamo per raggiungere la stazione del treno, Miki mi aveva raccontato la storia di guerre e spiriti che aveva dato origine a quella processione. Io indossavo un vestito smanicato e corto, il calore trattenuto dall'asfalto mi arrossava la pelle e quella sensazione mi piaceva. Miki invece, come tante giapponesi, già da qualche settimana era vestita interamente di scuro, con tanto di guanti lunghi fin sopra il gomito e una visiera simile a quella dei saldatori. Non voleva abbronzarsi. Mi aveva rassicurata dicendomi che si trattava di tessuti speciali che, nonostante fossero neri, respingevano i raggi solari. Ma nulla mi levava dalla testa che facessero comunque soffrire il caldo. Solo una piccola striscia di pelle restava nuda, di solito sul braccio, candida e molto sensuale.

In alcuni momenti pensavo che, lei come le altre, lo facessero solo per quel gioco di dettagli più che per proteggersi dal sole.

"Certo che la conosci bene la storia della tua regione" le avevo detto.

"In realtà su questo matsuri mi sono dovuta preparare, nemmeno io ci sono mai stata. Da quando ti conosco ho imparato molte cose nuove, ti devo ringraziare."

Miki aveva sempre un modo cortese di capovolgere le situazioni. Ovviamente ero io a doverle essere grata, per questo e per molto altro.

Negli ultimi giorni stare da sola mi pesava moltissimo, le figlie di Setsuko frequentavano la scuola estiva e quella settimana erano in campeggio. Avevo decisamente bisogno di distrarmi prima di compiere passi importanti: dal mio arrivo in Giappone era passato parecchio tempo, e non avevo ancora scelto se tornare in Italia o restare. Se chiamare Lorenzo o dimenticare. Sentivo che c'era qualcosa di incompiuto nel non aver replicato alla sua lettera, limitandomi a distruggere i suoi filmati.

Miki aveva deciso che la sfilata di carri del matsuri avrebbe catturato i miei sensi. E i fatti non l'avevano smentita.

Le vibrazioni dei tamburi taiko che sfilavano in strada mi avevano fatta piangere. Sembrava che stesse succedendo solo a me che mai avevo ascoltato simili sonorità. Nessun altro pareva impegnato a trattenere le lacrime. O forse non conoscevo così bene i volti giapponesi da poterci leggere qualcosa di diverso dall'ignoto. Miki, per esempio, era uguale a sempre, labbra rosse e pelle candida. Impassibile.

Inizialmente il suono arrivava da lontano e le vie erano vuote. La gente stava accalcata sui marciapiedi, compatta. Poi, progressivamente, i tamburi si erano avvicinati e con questi avevo sentito le lacrime salire. Era una sensazione che assomigliava solo in parte a quella del pianto, come se al mio interno ci fosse una pozza d'acqua che si increspava a ogni rintocco fino a traboccare.

Finalmente uno dei tamburi stava passando davanti a me. Lo suonava una donna minuta con il volto infiammato e teso. Indossava calzoncini corti, il busto fasciato da bende bianche, i capelli legati. Sembrava una bambina intenta nell'impresa di domare un orso. A seguire, un'infinità di baldacchini decorati fin nei minimi dettagli, trasportati a spalla dai fedeli dei vari santuari. Lungo i marciapiedi intere famiglie si erano organizzate con stuoie, seggioline e sgabelli per assistere allo spettacolo in maniera ordinata. I negozi di generi alimentari avevano allestito una serie di banchetti dove venivano grigliati spiedini di carne, arrostiti pesci interi o vendute vaschette di riso. Come in ogni festa popolare che si rispetti non mancava il tipico cibo di strada, tofu fritto e ammollato nel brodo bollente, mele caramellate, polpettine a base di polpo coperte di fiocchi di pesce e maionese. Il paese era eccitato, la festa proseguiva. Migliaia di lanterne avevano cominciato ad ardere, facendo avvampare le illusioni di chi le osservava. E anche le mie.

Al termine della sfilata le persone erano scivolate con rapidità verso casa. Miki e io non avevamo fatto in tempo ad arrivare in stazione che già le strade erano deserte, non c'era più nessuna traccia né di cibo, né di gente, né dei bagliori delle lanterne. Era stato ripulito tutto, i bambini erano certamente a letto, stanchi ed emozionati.

Nei miei occhi, invece, erano rimaste annidate minuscole gocce di pianto.

"Tutto bene?" mi aveva chiesto Miki.

"Sì, sto bene. Non sono lacrime del cuore quelle che vedi." Non sapevo come altro spiegare quello che mi era successo.

"Perché non stiamo fuori tutta la notte e poi andiamo a vedere l'alba sul Daimonji a Kyoto?" Il Daimonji, il

kanji infuocato della mia prima notte in questa città. Era una coincidenza che non potevo ignorare.

"Possiamo dormire un po' in treno, il viaggio non è breve."

E così avevamo fatto.

Tornate a Kyoto, avevamo realizzato di non aver neanche cenato e avevamo fame. Il fascino della festa mi aveva assorbita e il calore nell'aria, combinato agli intensi odori di cibo, si era portato via l'appetito. Ci eravamo infilate nella prima ramenya lungo la strada senza badare alle tende sudice che coprivano l'ingresso. Era molto tardi e oltre a noi c'era solo qualche uomo visibilmente ubriaco. Dicono che il brodo bollente e salino del ramen insieme al grano degli spaghetti siano un ottimo rimedio contro la sbornia.

Le ciotole fumanti erano arrivate subito. Avevamo mangiato sudando. Miki aspirava i ramen facendo un verso che in Occidente sarebbe sinonimo di maleducazione e che qui invece esprime gradimento. Io non ne ero capace. Così, pescando la pasta con le bacchette in modo goffo, avevo mandato schizzi di brodo un po' ovunque. Poi avevamo girato un paio di locali bevendo succhi di frutta ghiacciati fino a che non era arrivata l'ora della passeggiata verso la cima del monte. Miki portava tacchi abbastanza alti, come sempre, ma mi aveva rassicurata che non avrebbe avuto problemi.

Avevamo camminato nel bosco ansimando un po', la salita era dolce ma l'afa, nonostante fosse quasi mattino, era comunque intensa. Procedevamo in silenzio, ognuna assorta nei propri pensieri. O forse avevamo solo sonno. Usavamo le luci dei cellulari per farci strada. Radici che entravano e uscivano dal terreno, muschio brillante e crisalidi di libellule: doveva essere il periodo della nascita, vive per poche settimane e morte per l'eternità. Osservavo i loro gusci sottili e perfetti in ogni dettaglio, grigi con la forma dell'insetto, le ali chiuse e le zampe raccolte. Con il mutare delle lune il corpo che vi abitava aveva cambiato forma, e ora aveva bisogno di volare. Così aveva aperto il guscio come un sarcofago per abbandonarlo.

Quando eravamo arrivate allo spiazzo in cima alla collina del Daimonji il buio si era fatto luminoso. Dall'erba spuntavano i supporti di pietra nei quali venivano accese le fiamme del kanji durante la festa di Obon.

Sedute a gambe incrociate sull'erba fresca, Miki e io aspettavamo l'alba.

Un luce calda era apparsa lenta all'orizzonte. Gli occhi mi bruciavano ed era come se la sfidassi con le mie ciglia.

"È valsa la pena di arrampicarci fino a qui, no?" mi aveva detto lei. Intanto aveva preso dalla borsa un thermos decorato a fiori rosa e aveva versato due bicchieri di té. Il sapore era dolce e tostato. Aveva qualcosa di erbaceo in sintonia con la montagna che ci circondava. Miki conosceva alla perfezione molti tipi di té e me ne proponeva sempre di nuovi. Questo era perfetto, sembrava quasi che togliesse la stanchezza e che distendesse i pensieri.

Miki vuotava a piccoli sorsi il suo bicchiere.

"Hai deciso cosa farai ora?"

Io continuavo a bere mentre la luce del sole aumentava inarrestabile.

"Forse."

"Torni da lui? Ti ha detto che ti sta aspettando?"

Avevo allungato il mio bicchiere verso Miki, lei mi aveva versato dell'altro té freddo. Non era limpido, c'erano piccoli frammenti di foglie verdi che si depositavano sul fondo.

"Perché non vieni in Italia con me? Ti prendi una decina di giorni di ferie dall'agenzia. Conoscendoti non avrai mai fatto vacanze da quando ti hanno assunta!"

Miki aveva sorriso.

"Mi piacerebbe visitare l'Italia, magari Venezia. Venezia è in Italia, giusto?"

"Certo che è in Italia, e se verrai faremo un bel giro."

Era già caldo, il sole arroventava l'aria con rapidità. Il viso di Miki si era coperto di gocce di sudore che tamponava con il suo piccolo asciugamano.

"C'è un'umidità infernale" avevo sbuffato.

"Ma in Italia esiste l'inferno?" mi aveva chiesto lei.

Quella domanda mi aveva stupito.

"Sì. Be', per chi ci crede."

La mia risposta, invece, l'aveva contrariata.

"Ma se c'è, il problema non è crederci o no. C'è e basta."

"Già, forse è come dici." Non avevo voglia di parlarne.

"E voi italiani vi reincarnate dopo la morte?"

Morte, inferno. Mi sembrava che quei pensieri stridessero con il giorno che stava nascendo.

"No, direi di no."

"Noi giapponesi ci reincarniamo, invece."

Così dicendo aveva avvitato il tappo del thermos stringendolo forte.

Io mi ero alzata: "Che dici, torniamo a casa? Potremmo guardare i voli per l'Italia anche per te". Volevo cambiare argomento.

Anche Miki si era alzata in piedi, si era pulita i jeans dal terriccio e da qualche filo d'erba.

"Non credo di poter lasciare il Giappone."

Intanto aveva cominciato a scendere verso valle.

Questa volta fui io a guardarla con aria interrogativa.

"Qualche anno fa mi sono innamorata di un ragazzo, anzi eravamo entrambi innamorati. Volevamo andare a studiare negli Stati Uniti, avevamo grandi progetti. Ma né i miei genitori né i suoi ci hanno sostenuto. Anzi, i miei lo detestavano e ci rendevano la vita impossibile. Eravamo giovani e disperati. Così abbiamo deciso di toglierci la vita. Ci siamo suicidati insieme."

Mentre Miki mi parlava non riuscivo a guardarla, non mi aveva mai fatto confessioni tanto intime. Avanzavamo una accanto all'altra sul sentiero. Gli insetti erano già in piena attività: formiche che scavavano i tronchi delle canfore, ragni dalle lunghe zampe. Libellule. Le stesse che erano rinchiuse in quelle tristi carcasse grigie ora volavano rifrangendo la luce.

"Solo che lui è morto e io sono sopravvissuta. Hanno aperto le indagini, mi hanno accusata. E mi hanno condannata per omicidio anche se con una serie di attenuanti."

Avevo trattenuto il fiato lasciando che fosse la voce del bosco a muovere il silenzio.

"Un anno fa ho provato ad andare negli Stati Uniti, ma non ho ottenuto il visto per via della mia fedina penale. Non so se potrei venire in Italia. E poi forse preferisco stare qui."

Era una storia spaventosa e mi ero chiesta come facesse a parlarmene tanto tranquillamente. Ma probabilmente mi sbagliavo, la sua non era tranquillità. Era solo un modo diverso di filtrare le emozioni.

Avevamo camminato in silenzio fino a valle. Non so se per merito della discesa o della luce del sole, ma era come

se avessi percorso un tratto molto più breve rispetto alla salita. In effetti scendere è sempre più semplice che salire.

Eravamo di nuovo sui marciapiedi screpolati della città.

"Comunque io non ho nessuna fretta di partire per l'Italia" le avevo detto. In realtà mi ero accorta che non solo non avevo fretta, ma non ne avevo proprio il desiderio. "Anzi, penso che mi cercherò un lavoro per i prossimi mesi. Ho voglia di restare."

"E Lorenzo?"

Il semaforo cinguettava la sua cantilena che segnalava il passaggio al verde. Miki aveva aperto il parasole. Il riverbero della luce sulle strisce pedonali era forte, avevo strizzato gli occhi.

"Se desidera stare con me potrà sempre venire a trovarmi in Giappone."

E, mentre lo dicevo, avevamo attraversato la strada insieme.