La telefonata di Spiros...

 

Notte fonda. Il telefono squillò.

Giorgio sollevò il ricevitore. Non gli fu risposto subito. Ma lesse in quel silenzio, dove qualcuno aspettava una sua parola, perché aveva bisogno di un'umana parola. Ormai coglieva da un nulla il desiderio di dialogo, gli bastava un respiro. Chiunque fosse, al telefono, importante era la sensazione che quell'attesa gli sollecitava: di una solitudine che si specchiava nella sua, benché di opposta natura. Udiva distintamente una musica dolce, sul fondo. Nel silenzio che si prolungava, cercando e aspettando le parole, l'ascoltarono insieme. Giorgio si impose la calma, persino la gentilezza. Ruppe il ghiaccio:

- Parlami.

Rispose una voce che non avrebbe potuto attribuire a nessuno. Ma subito:

- Sono Spiros, il fascista... Ti ricordi, al Bosco Rosso, quando stavamo per ammazzare il Bonafini?

Giorgio apprendeva solo ora che Spiros era stato un fascista. Si erano immersi insieme nella confusione delle armi, senza qualificarsi, senza amicizia, nemmeno quel tanto che consente reciproche confessioni:

- Sono Spiros. Incontrami.

Si erano lasciati male. Anche un capriccio traverso, un colpo di collera, Spiros era capace di trasformarli, all'istante, in una raffica del suo Sten... E il tono della sua voce si manteneva sempre inalterato. Nemmeno ora Giorgio avrebbe saputo dire se quell'"Incontrami" suonava come un imperativo o una richiesta umile:

- Dove e quando?

Spiros glielo disse.

... Era la Pietà che usciva dall'ombra fitta dei pioppi, fra gli alti fusti che si alternavano alle siepi, esponendosi al taglio obliquo della luce lunare.

L'uomo che si era chiamato Spiros, con l'arroganza dell'uccisore, veniva avanti facendo capire, col suo portamento, che la tristezza che si portava nelle ossa, e si rendeva manifesta prima ancora di quella del volto, si legava al ricordo di qualcosa, di bello e prezioso, che un tempo aveva posseduto, che poi gli avevano distrutto. Trascinava i piedi, col senso di resa, diventato ormai un ritmo della mente, un automatismo degli arti, di chi ritorna da una sconfitta. Giorgio pensò: c'è chi vive una vita che altro non è che un lungo ritorno da una battaglia persa, anche se ha cercato di ribellarsi con violenza e rabbia.

Spiros era molto più magro e vestiva malamente. Ma nelle mani lunghe, pallide, nelle linee del viso che sempre più si rivelavano incise e nette, Giorgio afferrava, stupefatto, le vibrazioni spirituali di una natura nobile. Poteva restare un assassino, ma anche essersi trasformato nel più innocente. In lui, evidentemente, i poli opposti si erano toccati, fusi, come quando accade che in una coscienza cadono le frontiere, si vanificano le norme. Nel suo sguardo concentrato si leggeva che se era stato pronto a dare la morte, ora, con un disgusto di tutto se stesso, desiderava piuttosto morire. Si fermò a una certa distanza da Giorgio. Aveva calcolato la distanza che gli consentiva di essere scrutato con chiarezza sotto la luna. La sua immobilità non era certo dovuta al timore: appariva calmo, infatti, e di una rassegnazione che si sarebbe potuto definire sacra, in quanto Giorgio subito l'associò a certe figure nei dipinti dei grandi maestri che hanno raffigurato l'uomo stremato di fronte al proprio destino, o a un Dio inclemente.

Il suo urlo era silenzio.

Giorgio continuava a non capire. Fu allora che, dal buio dei pioppi, venne avanti una seconda figura. Giorgio impiegò qualche attimo per distinguere che non si trattava di una bestiola, ma di un bambino. Dapprima, sembrò normale. Anzi, colpiva la grazia del suo volto, dai grandi occhi chiari, la perfezione nei tratti. Era uno dei più bei volti di bambino che Giorgio avesse mai visto. Poi, una stretta al cuore. Com'era successo con Spiros, fu di nuovo la camminata non più a suggerire, bensì a manifestare in modo brutale la verità di quel piccolo essere. Il dondolio delle spalle richiamava quello dei buoi sotto il giogo. E le spalle non erano spalle, erano un'appendice appuntita, una gibbosità triangolare, grottesca perché spuntava dietro la nuca, avvolta nel giubbotto scuro.

Il bambino procedeva ciondolando, disarticolato nei movimenti, quasi l'anca di destra fosse di vetro, non in grado di reggere il peso del corpo. Un bambino dal volto bellissimo, ma immerso in una disarmonia totale di deformazioni evidenti. Un mostro.

Senza girarsi, Spiros tese il braccio ed accolse, strinse contro di sé colui che certamente era suo figlio:

- È mio figlio.

E gli accarezzò la testa, la guancia, e il piccolo si strinse a sua volta a lui con un'automatica e immediata riconoscenza. Lo abbracciò ai fianchi, con la minuscola mano risali al cuore del padre, come per verificarne i battiti. Ora l'immobilità fondeva le due figure in una sola, in una rappresentazione della Pietà.

Ecco cosa Spiros voleva dire a Giorgio. E lo stava dicendo giustamente a distanza, perché quelle parole si affidavano ai soli occhi, al solo prendere visione. La fede fanatica di Spiros nell'Apocalisse, il suo sogno che tutto potesse scomparire nel nulla sotto le raffiche del suo Sten, ogni essere umano, ogni animale, ogni albero, qualunque fibra vivente, la vita stessa, erano nati dal fatto che egli aveva generato un mostro. Giorgio contemplava quella rappresentazione della Pietà e capiva che la pietà è talmente forte e assoluta da non richiedere altra spiegazione che se stessa.

Si abbracciarono ancora più stretti, il padre e il figlio. E Spiros disse:

- Fai qualcosa per mio figlio!... Puoi farlo. Ora che voi rossi avete vinto.

Non c'erano stati vinti o vincitori, nel Triangolo.

- Nessuno di noi ha vinto, Spiros... Rossi o neri -. Esitò ad aggiungere: - E io non posso fare niente nemmeno per me... Guardami con altri occhi, e lo capisci.

Spiros scrutò Giorgio con altri occhi. Poi, con mitezza:

- Non è possibile. Non mentirmi.

- Nessuno. Te lo giuro, Spiros.

- Qualcuno deve aver vinto...

Il padre e il figlio si girarono, dopo un'ultima occhiata verso Giorgio, per scomparire nel buio dei pioppi da cui erano venuti. L'ultima immagine, l'ultimo dettaglio visivo della Pietà, fu l'incespicare del figlio che subito si aggrappò al padre, sia per non cadere, sia per la paura, nel gesto scomposto, di essere abbandonato.

La voce di Spiros si dissolse, ripetendo:

- Qualcuno ha vinto, vedrai... Qualcuno ha vinto e potrà aiutarti.