Diciassette
Stefano si alza di scatto.
«Melissa, non è come…»
«Non dirmi che non è come penso, altrimenti giuro che rovescio il caffè sulla scheda madre del tuo portatile.»
«Non è come pensi» azzarda. «Ho dovuto assecondarlo, ma è stata solo una recita, un modo per guadagnare tempo.»
Allargo le braccia e rido. «Hai dovuto assecondarlo? Era solo una recita? Dio, Stefano, ma sei andato a scuola dai dialoghisti coreani?»
«Cosa stai dicendo?»
«La versione semplice è che mi disgustate, ecco cosa sto dicendo!»
Stefano fa per avvicinarsi, io arretro.
«Melissa, lascia che ti spieghi…»
«Cosa, una versione edulcorata e corretta dello schifo che si nasconde sotto il vostro codice etico e comportamentale?» sbotto. «Me l’avevi rivelato, ricordi? La MarsTech non è quell’oasi di pace che sembra, non per me. Be’, a quanto pare si è verificata un’estensione della condizione. Solo che io non sono nessuno, e le conseguenze le pago sulla mia pelle.»
«Non è vero, tu conti molto…»
«Per chi, per te? Che due secondi fa hai acconsentito a licenziarmi e pagarmi perché sono ‘bisognosa di soldi’?»
Stefano storce la bocca, sembra davvero affranto.
Ma, anche se è dispiaciuto, solo una versione di lui è pronta a battagliare. Una versione che tutte le altre stanno sedando a dovere.
«Non lo penso, e tu lo sai.»
«Come tu sai che non ho mai nuociuto alla tua azienda! Hai conosciuto Pietro. Sai che è un mio amico… avevi i suoi pantaloni addosso fino a tre ore fa! Ma nulla importa quando entri nel mondo dorato della MarsTech. Non importa che tu sia voluto entrare con prepotenza nella mia vita smantellando le mie difese una alla volta. Non importa che io non sappia mentire. Non importa, perché tu hai espedienti per entrambi, giusto?»
«Ti puoi calmare? Posso spiegarti?»
«Vuoi spiegarmi? Spiegami cosa vuol dire che sapevi a cosa mi stavi mandando incontro.»
Stefano si passa una mano tra i capelli. «È una storia lunga. Puoi sederti?»
«No, però posso andarmene senza una spiegazione» rispondo.
«Aspetta.»
Allunga di nuovo una mano verso di me, ma io sono più veloce. In piedi, con la barba di tre giorni e una piccola macchia di caffè sul colletto della camicia altrimenti linda, non ha niente del ragazzo che mi ha fatto innamorare.
Mi fa quasi pena.
«È cominciato tutto quando abbiamo iniziato a lavorare per il primo albergo di Las Vegas, con l’ultima versione del programma» racconta. «Enzo stava facendo un lavoro ottimale, il suo biglietto da visita per puntare alla nomina di CTO, quando io progredirò.»
Fa una pausa, per accertarsi che non me ne stia andando. Forse dovrei farlo, ma una curiosità morbosa mi trattiene in questo ufficio, nella palude che è la loro storia.
«Enzo è… siamo stati compagni di università, amici, colleghi. E poi sono diventato il suo capo. È stato allora che il nostro rapporto è cambiato. Non è stato un cambiamento brusco, ma era chiaro che la gerarchia gli stesse stretta, che lui ambisse a… a di più. Ha cominciato a lavorare duro per dimostrare a mio padre di essere un buon candidato. E lo era. Uno dei più preparati e dediti, oltre che quasi di famiglia. Così mio padre gli ha promesso il mio posto, più o meno un anno fa. E questo lo ha reso ancora più produttivo. Lavorava con un obiettivo, dava il massimo in ogni aspetto.»
Appoggia le mani sulla scrivania e sospira.
«Un giorno, ad aprile di quest’anno, eravamo nella tenuta di famiglia fuori città. Alla sera mio padre ha convocato Enzo in privato e, con molto garbo, ha revocato la promozione. ‘Ci saranno altre occasioni, non sei ancora pronto…’. In realtà, data la prossima acquisizione di Amburgo, uno degli accordi in valutazione era inserire un tedesco nel direttivo, per ufficializzare l’unione societaria. Così Enzo ha sorriso, ha ingoiato il rifiuto. E, dal lunedì seguente, ha cominciato a non dedicarsi più al cento percento al progetto.»
Non mi interessa di Enzo, vorrei rispondergli.
Eppure Enzo c’entra tanto quanto me.
«Ha cominciato a essere inflessibile con chi non aveva scelto lui stesso nel team. Tutti commettiamo errori, Melissa, e lui ha attivato monitoraggi sui suoi sottoposti, nell’attesa di coglierli in fallo. Ha smesso di svolgere straordinari, la sua attenzione ai dettagli è diminuita e questo ha favorito il proliferare di bug, ritardi con le partenze dai clienti, funzionalità incomplete o mancanti. Considerate le ore che svolgeva al di fuori dell’orario di lavoro e la sua motivazione diminuita, è naturale che il progetto si fosse impantanato. Ma niente era riconducibile in modo univoco a lui, anzi, spesso gli errori ricadevano sui suoi sottoposti. Come è successo ad Antonio, il programmatore che hai sostituito.»
Ahimè, comincio a capire.
«Come sarebbe successo a me, se tu quella sera a casa mia non mi avessi aiutato» deduco. «Non c’entrava la storia che non programmavi da tre anni, che ti mancava la parte pratica del mestiere. Mi hai aiutato perché ti sentivi in colpa. Perché sapevi quello che c’era sotto, che il mio posto di lavoro era... cos’era?»
«Lo chiamavamo ‘parafulmine’. Era vacante perché, chiunque avessimo assunto, sarebbe entrato in conflitto con lui.»
Non solo mi ha raccomandato, ma l’ha fatto per un ruolo in cui avrei incontrato dei problemi che non sarebbero dipesi dal mio operato.
«Tutto il discorso delle mie capacità, del fatto che credevi in me» mormoro. «Non significava nulla. Ero un tappabuchi.»
«Non è così, Melissa, era un posto di lavoro regolare che…»
«Che mi hai assegnato perché sapevi che ero disoccupata e che non avrei avuto il coraggio di rifiutare, nemmeno se le circostanze che mi hanno portato ad averlo non erano cristalline.»
«Melissa…»
«Chi lo sapeva?» domando. «Del posto parafulmine, chi lo sapeva a parte Enzo e tuo padre? I miei colleghi? Miriam? Lucilla Grandi?»
«Era un’informazione riservata. Nessuno sotto il direttivo ne era a conoscenza.»
Mi mordo le labbra. «Olivia?»
Stefano ammutolisce.
«Olivia lo sapeva» dico, senza bisogno di conferme. «Sapeva che ero una pedina nel tuo Grande Disegno. Lei lo sa perché non se n’è mai andata. È solo una finta, un trucco.»
«È mia madre che è affezionata a lei, non c’entra…»
«Non c’entra? Cosa non c’entra, Stefano? Hai calcolato tutto dall’inizio. Da mezz’ora dopo che ci siamo conosciuti. Mi hai ingannata, mi hai costretta in una situazione assurda, e per cosa? Per una scopata?»
«Per favore, non parlare così. Teniamo le due cose separate.»
Una frase ridicola che mi provoca un moto di ilarità improvvisa.
«Ma certo, è così facile compartimentare la vita! Aspetta, non è quello che fai tu, dividerti in versioni ed esporre quella più adeguata all’occasione?»
«Si chiama ‘adattarsi alle circostanze’, Melissa. E ho fatto tutto quanto in mio potere per non mettere il tuo lavoro a rischio.»
«Provocando tuo padre e facendomi licenziare. Molto premuroso, grazie!»
«Non verrai licenziata» si affretta a rispondere. «Sono errori circostanziali, al massimo prenderai una multa. Conosco un rappresentante sindacale che…»
«Tuo padre ha detto che vi sono servita per accordarvi con Enzo. Perché?»
Negli occhi di Stefano passa un’ombra. «È stato Enzo a fare la segnalazione su di te. Ha contattato mio padre portandogli del materiale… quello che hai visto. Si è detto disposto a darglielo, in cambio di un avanzamento.»
«Cosa… perché…»
«Perché, ha visto una possibilità in te e ha tentato il colpo. Ma le schermate che hai inviato al tuo amico… in uno di questi, compare la sua firma digitale. Non è la prova di un danno, ma è stata sufficiente per ridimensionare le sue richieste.»
«Cioè, avete il sospetto che vi abbia danneggiato e gli offrite un avanzamento» dico. «La tua ex fidanzata porta via contatti e maggiora i prezzi delle prestazioni, e voi la assumete come consulente. E io vengo sospesa?»
«È in via cautelare. Tornerai quando Enzo acquisirà la nuova posizione.»
«E la buonuscita? Cos’è?»
Lui sospira. «Non devi accettarla per forza. Sei tutelata dalla legge, Melissa, e puoi dimostrare di non aver prodotto un danno. A quel punto, Enzo non potrà danneggiarti.»
«Enzo no, ma tuo padre? Quanti metodi troverà per dimostrare che non valgo abbastanza?»
«È per questo che ti daremmo una buonuscita. Se non ti senti più serena qui, hai la possibilità di ripartire altrove con un giusto compenso per il disagio.»
Il senso di repulsione che provo è infinito.
«Vuoi che me ne vada?»
«No» risponde subito. «No, non voglio che te ne vada. Vorrei che tu restassi. Lo vorrei davvero… Ma posso capire se accetterai i soldi.»
Perché sono una ragazzina bisognosa di soldi. «E la raccomandazione di tuo padre su carta intestata.»
«So che sembra molto complicato, ma…»
«A dir la verità, mi sembra tutto molto semplice.»
«Davvero?»
«Certo. E la versione semplice è che mi disgustate» ribatto. «Sono stata usata da tutti. Da tuo padre, da Enzo. Soprattutto, da te.»
Stefano fa una smorfia di dolore. «Non ti ho mai usata. Sin dalla vasca da bagno, ho sentito qualcosa che…»
«L’unico amore che senti è quello per la MarsTech» sentenzio. «Tutto il resto sono satelliti che ci orbitano attorno.»
«Melissa, per favore.» La sua voce trema. «Possiamo risolvere tutto. Siamo pragmatici, analizziamo i problemi. Sono sicuro che possiamo…»
«Siamo pragmatici? Analizziamo i problemi? Per chi mi hai preso, per uno studio di fattibilità? Io parlo di sentimenti e tu mi chiedi di essere pratica?»
Stefano si ferma di colpo.
«Oh, non preoccuparti, non dovrai averci a che fare ancora per molto, con i miei sentimenti. Quando uscirò da questa porta, non li vedrai mai più.»
«Te ne vai?»
«Pensi che potrei ‘lavorare con serenità’ dopo quello che è successo?»
«Capisco.» Sorprendentemente, torna pacato. «Ti farò preparare l’assegno, lo potrai ritirare alla fine della sospensione. È una cifra che coprirà i prossimi sei mesi. Chiederò a mio padre che mantenga la parola sulle referenze e…»
La mia risata lo interrompe.
Non so con che coraggio rido quando mi sento a pezzi, sepolta da un dolore sordo.
«Non hai capito niente: io non sono in vendita» rispondo. «Forse hai pensato di potermi comprare perché ho accettato il lavoro pur sapendo di non meritarlo fino in fondo. O perché tuo padre ha comprato la fedeltà della tua ex fidanzata e quella del tuo ex amico. Io, comunque, più che sul resto mi concentrerei sulla pioggia di ex nella frase.»
«Non ho mai pensato di…»
«Ma forse è solo colpa mia. Non avrei mai dovuto accettare la tua offerta. E ti risparmio altra fatica, perché qualsiasi cosa dirai, non rimarrò.»
Stefano fa un passo avanti, mi prende per un polso. «Ti aiuterò» dice. «Ho un amico nell’automazione, là non ci sarà nessuno che ti importunerà, che…»
Sfilo il polso dalla sua presa.
«Ancora, Stefano? Ancora? Ancora raccomandazioni, ancora giochetti?»
«Voglio solo aiutarti. Pensa al tuo futuro…»
Rido senza entusiasmo. «Fidati, ci penso da molto prima che arrivassi tu. Hai deriso Leonardo per l’opportunità che mi ha portato via, e tu ti sei comportato ancora peggio. Da quando ti conosco, non ho visto alcun cambiamento, alcun passo in avanti. Solo distrazioni. Quello che sono stata io. Una distrazione» sottolineo. «Sei il degno figlio di tuo padre.»
«Ti sbagli. Io… non sono come lui. E tu non sei mai stata… Cioè, forse all’inizio un po’ lo eri, va bene. Ma di sicuro non dopo l’altra notte. Non dopo stanotte» dice. «Ci tengo a te. Capisci cosa sto dicendo? Ci tengo a te.»
«Anche io da bambina tenevo ai miei due pesci rossi. Ci tenevo così tanto che davo loro da mangiare le mie merendine preferite e per sbaglio li ho uccisi.»
«Lo so che ti ho fatto del male. Ma posso rimediare.»
Faccio un passo indietro.
«Non è questione di potere. È che non mi interessa lo Stefano CTO. Non ti apprezzerò mai così. Mai.»
«Non puoi chiedermi di scegliere tra te e la MarsTech, Melissa.»
«Forse non hai capito, ma tu hai già scelto. Adesso non spetta più a te. Sono io che scelgo per me.»
Stefano impallidisce, io ne approfitto per arretrare.
«Per la cronaca, ho davvero creduto che fossi il principe della situazione. La storia di Cenerentola, ricordi? Mi sbagliavo. Non tanto perché le mie due sorellastre sono più principesse di me, la mia zucca è sempre in ritardo e, tutto sommato, preferisco un Pirata Onesto a un Principe Stronzo. Il fatto è che tu non sei un Principe e io non sono una Principessa. Tu sei un uomo intrappolato nella tua rete di demoni e io non ho bisogno di te per salvarmi.»
Approfitto dell’adrenalina accumulata per uscire sbattendo la porta, correre giù dalle scale di servizio, infilarmi al sesto piano e domandare alla segretaria di Lucilla Grandi un modulo prestampato di dimissioni.
Lo compilo con la penna che sbava sul foglio, lo firmo veloce e glielo consegno.
È fatta.
Sono fuori. Fuori da questa follia.
Quando ci sono entrata, sapevo che non sarebbe stato semplice. Ma non pensavo nemmeno che sarei andata incontro a una fine così ignobile. Pensavo... non so cosa pensavo. Ariel che cammina su due gambe al posto della coda da sirena. Pinocchio che diventa un bambino vero. Dumbo che impara a volare.
Scendo di nuovo usando le scale di servizio. Più distanza pongo tra me e l’undicesimo piano, più sento l’affanno bruciare nel petto, come dopo una corsa che ti lascia senza ossigeno.
Non piango mentre mi avvio verso il treno, né quando appoggio la testa sul finestrino della metropolitana. Non piango nemmeno quando scendo dal vagone o mentre cammino verso casa.
Le lacrime arrivano nel cucinino, dopo che ho sfilato la borsa e il parka, dopo che ho tolto le scarpe e sciolto i capelli.
Arrivano quando vedo il post-it accartocciato sul tavolo, quando leggo il ‘Ti penso’ e il ‘Mi manchi’. Arrivano quando realizzo di aver detto addio all’uomo di cui sono innamorata, perché l’alternativa era perdere la stima di me.
Arrivano quando, nonostante le parole spavalde, la collera e l’audace uscita di scena, mi sento di nuovo un disastro, di nuovo a terra, di nuovo con il cuore spezzato.