Quindici
«Non avresti dovuto farlo.»
«Perché?»
«Ma è ovvio! Non si può provocare in quel modo e…»
«Io l’ho provocato?»
«Tesoro, hai lasciato che decidesse. È come se l’avessi provocato.»
«Scusa Sabry, ma dissento. E comunque, io lo amo. Quindi per me va benissimo.»
«Ah sì? Lo ami?»
«Esatto.»
Sabrina batte le mani sul tavolino. «Ma come puoi! Ha il finale non-finale più osceno di tutti i finali delle serie tv! E lo sai che Pietro non si tira indietro di fronte a un rewatch!»
Piè ridacchia. «Meli non mi ha provocato. Ha solo detto: ‘Ti ricordi quando Sawyer dice a Juliet che la sta tenendo…’»
«E lei sta per cadere e piange e dice che lo ama…» proseguo io.
«E quando dice che dovrebbero prendere un caffè insieme…»
«Maledetto Lindelhof! Vi rendete conto che ci ha presi in giro per sei anni? Sei maledettissimi anni?» sbotta Sabrina. «Io sto ancora aspettando un comunicato stampa che dica ‘Ehi, scusate, ho mandato in onda le scene tagliate! Adesso vi mostro quello giusto!’. E comunque, mi rifiuto di riguardarlo. Non posso devolvere un totale di tre giorni e quattordici ore a una serie tv che prima mi ha tolto il sonno, poi l’appetito e poi mi ha fatto maledire le notti in bianco e l’ansia e le elucubrazioni!»
«Sabry, tanto lo sappiamo che sei arrabbiata perché Desmond sta con Penny e non con te» interviene Giorgio.
Sabrina annuisce. «Appunto! Un po’ di vita vera in queste finzioni, no?»
Scoppiamo a ridere insieme.
Siamo in cinque sul divano, davanti a una tv. L’occhio di Jack si apre su una foresta e il nostro secondo dottore preferito è disteso a terra, un labrador gli si avvicina trotterellando. Il volo Oceanic 815 diretto a Los Angeles, California, è appena precipitato su un’isola selvaggia fuori dalle rotte navali, l’avventura dei nostri antieroi è appena iniziata.
Sabrina si alza dal divano. «Okay, stasera tocca all’Xbox, quindi o fate i bravi, oppure io e Melissa vi scacciamo.»
Francesco annuisce. «Per quanto supporti J.J., oggi passo.»
Mi alzo anch’io e seguo la mia coinquilina nel cucinino, mentre la poderosa sigla di Lost viene soppiantata dal jingle di accensione della consolle. Sabrina sta fingendo di sistemare nel lavello le posate che abbiamo usato per le pizze da asporto. Gliele sottraggo, prendo guanti e detersivo e inizio a lavarle.
«Ahi, tu che lavi i piatti?» Socchiude la porta e torna verso di me. «Allora, vuoi dirmi cosa è successo?»
Deglutisco.
Sa già di Stefano. Sa anche di Leonardo, anche se non gliel’ho detto. Lo sa dall’orario e dall’umore cupo che ho da quando sono tornata.
«Per la cronaca, io non ci sarei andata» commenta. «Oppure ci sarei andata per versargli in testa quel maledetto caffè. Aspetta. Gliel’hai versato addosso? Dimmi che l’hai fatto.»
«Abbiamo parlato.»
«Gesù.»
«Ma non di noi. Abbiamo parlato come due estranei che si ritrovano al supermercato e si intrattengono con un breve sommario. Capitolo uno, il lavoro. Capitolo due, la famiglia. Capitolo tre, va tutto bene grazie e addio.»
«Vi siete detti addio?»
«Be’, non esattamente. Ci siamo detti…»
«Arrivederci?»
«Ci siamo salutati.»
Sabrina arriccia le labbra.
«Mi ha abbracciata.»
Lei si copre la faccia con le mani.
«E io ho abbracciato lui.»
«Non ho parole» sbotta. «Perché ci sei andata? Perché? E non tirare fuori la storia che gli aeroporti ti fanno un effetto strano. Abbracciare l’ex ragazzo che detesti può essere giustificato solo dopo assunzione di funghi allucinogeni in cui lo scambi per Bradley Cooper!»
Mi mordo le labbra, colpevole. «È solo che, dopo stamattina…»
«Cosa? Hai improvvisamente realizzato che la tua massima ambizione in fatto di uomini sia un codardo vigliacco che non accetta che tu valga più di lui?»
Mi sfilo i guanti e li ripongo dentro il mobiletto. «Non è come sembra.»
«Ah sì? E com’è, allora? Illuminami, perché negli scorsi sei mesi c’ero a raccogliere i tuoi cocci, Meli, non quel deficiente che…»
«Leonardo sa.»
Sabrina s’ammutolisce.
Mi paro indietro i capelli, ho la fronte imperlata.
«Cosa sa? Di Stefano? Grazie tante, giovedì sera…»
«Giovedì sera non faceva che chiedere di lui, sbuffava come un indemoniato. Oggi mi ha chiesto di mia madre e di come va il lavoro e se ho installato l’ultima versione del sistema operativo in beta. Quindi sa che non è più una finzione. Non per me, almeno. Mi ha augurato buona fortuna. Ha aggiunto che ne avrò molto bisogno.»
«Il solito cretino.»
«Già. Ma, anche se tendenzialmente è un cretino, in questo caso ha ragione.»
«È per questo che l’hai abbracciato? Perché aveva ragione?»
«Volevo verificare che il suo augurio fosse appropriato. E lo era. Non ho sentito niente. L’ho abbracciato e non ho sentito niente. Solo un po’ di rancore, ma anche quello non era al massimo. Forse perché non ricambiarlo più è la vendetta migliore. Se non fosse stato per lui, non sarei dove sono adesso. Non avrei conosciuto Stefano, nel bene e nel male, e non… E non mi sarei…» Raccolgo le lacrime con il dorso della mano. «Che idiota sono.»
Sabry non dice nulla. Si avvicina e mi abbraccia, appoggiando il mento nell’incavo della spalla. «Non sei idiota. Sei innamorata.»
«Di un Principe Stronzo.»
«O del figlio di Maleficent.»
«Non la versione di Angelina Jolie, però.»
Sabrina mi stritola, i suoi capelli mi finiscono negli occhi. Prendiamo una birra a testa e torniamo di là.
Stefano non telefona. Aveva promesso che mi avrebbe chiamato, ma non mi chiama. Non lo fa la sera, non lo fa la notte, non lo fa la mattina dopo. Sabrina azzarda dei miserrimi tentativi di giustificazione, ma sappiamo entrambe che sono solo per l’espletamento delle funzioni amicali di base.
La mattina successiva sto facendo colazione con una brioche idrogenata, reperto storico della dispensa di casa Neri-Marin, quando realizzo che è inutile cercare scuse.
Sin dall’inizio ho avuto davanti la fine che mi avrebbe atteso se mi fossi lasciata andare con un tipo come lui e ho voluto ignorarla, ho voluto credere che a me sarebbe andata diversamente, che non sarei entrata nel Club delle Scaricate assieme a Sharon, con la differenza che forse nel mio caso ci ha impiegato più tempo per farmi capitolare. Oltre ad avermi usato come diversivo, come disturbatrice familiare, come…
Ci sono cascata.
Stefano mi ha usato e io ci sono cascata.
È un pensiero talmente semplice nella sua brutalità che il mio cervello lo formula senza grande sforzo, una mera presa di coscienza della realtà.
Non so se bruci di più il rimorso o l’umiliazione. È una mescolanza letale che mi attanaglia lo stomaco. È così che deve essersi sentita Sharon, anzi, a onore del vero lei stava addirittura peggio di me, mentre le tenevo i capelli sulla nuca. Solo che lei non lo vedrà mai più, invece io potrei incontrarlo in ogni momento della mia giornata lavorativa.
Quando arrivo al cancello automatico della MarsTech, mi sembra trascorso un secolo da quando Stefano mi ha convocato nel corridoio della fotocopiatrice. Invece sono passati solo cinque giorni. I miei colleghi sono già nell’ufficio-laboratorio e, quando entro, il loro chiacchiericcio si ferma e io ho la certezza che stessero parlando di me.
Miriam è l’unica che mi si avvicina. Mi fa un riassunto veloce del suo weekend: niente vernissage, solo una cena vegana e una degustazione di vini culminata in un incontro ravvicinato con l’economista.
L’ascolto appena, come ascolto appena le lamentele di Carti e Lanzotti su un nuovo bug del programma che invalida metà delle procedure già funzionanti per l’ordine destinato ad Amburgo, la cui consegna è prevista tra nemmeno un mese.
Non capisco perché questo dannato programma ogni settimana abbia qualche intoppo, soprattutto di lunedì mattina, quando il venerdì funzionava e dopo un weekend in cui nessuno ci ha lavorato sopra. Ma sono quasi contenta che ci sia un problema da risolvere che catalizzi altrove l’attenzione dell’ufficio.
Mi metto al lavoro, anche se ogni minuto guardo la porta nel terrore che arrivi il capo progetto, Enzo, che mi ha visto seduta a fianco di Stefano durante il pranzo e non ha alcun dubbio sul tipo di legame che ha unito, anche se per poco, il CTO aziendale e me.
E mi vergogno. Per aver permesso una situazione del genere, perché adesso tutti sapranno il motivo per cui sono stata assunta, perché mi ero ripromessa che non sarebbe successo di nuovo e invece di nuovo ho lasciato che i sentimenti interferissero con la mia realizzazione.
Lascio che il ticchettio delle dita sulla tastiera prenda il sopravvento sui pensieri e trascorro le successive due ore scrivendo codice. È il mio lavoro. Sono pagata per farlo. Sono pagata per ignorare il fatto che Stefano in questo esatto istante si trovi nello stesso edificio. Sono pagata per non pensare che non mi ha richiamato. Che non mi richiamerà.
Enzo arriva poco prima di mezzogiorno e si ferma alla mia scrivania. Mi rivolge un sorriso storto che mi ribalta lo stomaco.
«Melissa, tutto bene? Mi sembri stanca.»
Enzo sa che sono una raccomandata che è andata a letto con il capo.
Ecco quello che sono diventata: una raccomandata che è andata a letto con il capo. Il mio senso etico si è appena suicidato.
«Senti, capisco tutto, ma ho bisogno che tu sia produttiva, intesi? Il bug… Carti e Lanzotti non lo possono risolvere, sono impelagati con la consegna della catena di Roma. Quindi me lo devi sistemare tu.»
«O-okay sì, cert…»
«Entro oggi, Melissa. Entro oggi pomeriggio lo voglio risolto.»
E senza aiuti, stavolta, sembra voler insinuare.
Enzo sa e io mi sento un marasma di agitazione e insicurezza e lacrime che non possono uscire. Serro le labbra e annuisco, ma non dico nulla per paura che la voce mi si spezzi.
Resto incollata al computer fino alla pausa pranzo; quando Miriam e gli altri scendono nel bistrot, prendo il PC sottobraccio e m’infilo nella stanza della conciliazione vita-lavoro al settimo piano, che è talmente funzionante da essere sempre vuota – non so se è perché la conciliazione non funziona, o perché i dipendenti della MarsTech non abbiano una vita con cui conciliarsi al di fuori del lavoro.
Mi chiudo dentro, sprofondo in una morbida poltroncina blu e continuo a lavorare sul bug. Che non è un vero bug, quanto una mappa disomogenea di problemi della più disparata natura. Tra le altre cose, trovo un segmento incompleto e una parte scritta da me invalidata da un commento idiota che credevo di aver cancellato. A culminare il tutto, la comunicazione con l’interfono – che ho portato con me – è di nuovo problematica, visto che al comando da programma non corrisponde alcun tipo di azione fisica dell’hardware. Sembrerebbe un altro guasto, ma prima di rassegnarmi a consegnare gli aggiustamenti in ritardo, faccio un disperato tentativo e controllo il protocollo di comunicazione con l’hardware.
Che è… sbagliato.
La parte software comunica con gli elementi fisici tramite alcuni livelli di linguaggio, e il livello che veicola lo standard è sbagliato. Ora, potrei essere talmente fusa da non saper più riconoscere un errore software e voler trovare da qualche altra parte una giustificazione plausibile che esuli dalla mia responsabilità… oppure potrei aver trovato il motivo dei continui malfunzionamenti.
Faccio una stampa della schermata e la inoltro a Pietro, il massimo esperto sui datalink layer che conosco. Mi risponde quasi subito, confermando la mia teoria: il protocollo è stato cambiato.
Ripristino quello corretto e riavvio il programma, che funziona. Esco dalla stanza, ignoro l’ascensore e inforco le scale di servizio, boicottate dalla maggior parte dei dipendenti.
Il panorama è desolante: un cielo grigio plumbeo ricopre Milano con grosse nuvole cariche di pioggia che scende a rigagnoli sulle vetrate. Eppure il grigiore dei casermoni, dei pochi condominii e delle fabbriche ha un effetto lenitivo sul mio umore, sembra volermi consolare perché, almeno per oggi, non sono la sola a essere guastata. Anche se ho scordato l’ombrello e dovrò buttare le ballerine che, se prendono di nuovo acqua a carrettate, si ritroveranno con la suola scollata.
Dopo il weekend quasi estivo, l’ultimo dell’anno, è arrivato l’autunno. Vento, pioggia, foglie ingiallite ai lati dei marciapiedi e quella sensazione d’inizio che ogni settembre porta con sé. Un nuovo inizio e la promessa che un giorno andrà meglio, anche se quel giorno non è oggi.
A dispetto delle previsioni, Enzo non è molto entusiasta della risoluzione dei bug entro i termini, ma immagino che dall’esterno nemmeno io avrei molta stima di me. Alle sei di sera Carti, Lanzotti, Enzo e Miriam recuperano il badge aziendale ed escono per il consueto aperitivo. Io, invece, timbro l’uscita ma mi trattengo ancora un po’ nella sala della conciliazione vita-lavoro. Apro l’ambiente di sviluppo di Fun in Space, protetto da un paio di password, e svuoto la mente digitando codice.
Quando esco sul pianerottolo incontro la donna delle pulizie, e questo mi dà l’idea di quanto sia tardi. La sera sta calando fuori dalle vetrate, la pioggia ancora battente sciama attorno alle luci paglierine dei lampioni. Scendo usando le scale, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e la giacchina di felpa con il bavero alzato.
Anche il piano terra è deserto. È rimasta solo una receptionist, che saluto con un cenno mentre mi dirigo verso le porte automatiche. Sono pronta a immergermi nella pioggia e a schivare le pozzanghere sciaguattando sull’asfalto bagnato, quando qualcuno mi afferra per un braccio.
«Dobbiamo parlare.»
La mano di Stefano mi tiene sul tricipite. Scrollo la spalla per scacciarla, un gesto più infantile che di effettiva utilità. È vestito di tutto punto, con i capelli ordinati e un giubbino di fustagno. Ma sono i suoi occhi a colpirmi: gelidi, inospitali. È per questo che distolgo subito lo sguardo.
«Be’, non dici niente?»
«Pensavo che stessimo giocando a chi ignora di più l’altro.»
Stefano si rabbuia. «Mi stai evitando?»
«Io ti starei evitando?»
Lancio un’occhiata alla receptionist, che finge di non ascoltarci leggendo un protocollo sulla gestione delle fotocopiatrici o qualcosa del genere. Una finzione che le riesce piuttosto male.
Anche Stefano deve pensare lo stesso. «Usciamo. Ti accompagno a casa.»
Non mi lascia nemmeno il tempo di protestare: mi spinge verso le porte automatiche, che si aprono di colpo. L’acqua mi sorprende di traverso, la pioggia mi bagna i jeans, il viso. Stefano apre l’ombrello e io ne approfitto per sgusciare dalla sua presa e avviarmi a grandi passi verso l’uscita della MarsTech, a costo di buscarmi una broncopolmonite.
«Melissa, maledizione!»
Mi stringo nelle braccia e cammino imperterrita nella pioggia che s’intrufola dentro il colletto, si ferma sulle ciglia, mi bagna i capelli. Ma non m’importa. Voglio solo andare a casa mia, voglio solo essere lasciata in pace.
Supero il cancello che sono già fradicia e proseguo spedita sul marciapiede che costeggia la strada urbana, in cui si susseguono i fanali delle macchine.
Stefano ha smesso di seguirmi.
Ma cosa mi aspetto da uno che dopo aver trascorso la notte insieme non ha neanche una parola carina per me, che dice di chiamarmi e poi non si fa sentire, che promette un ‘per adesso’ senza specificare che il suo tempo scorre secondo i dettami di The Flash?
«Melissa!»
Da un automobile accostata che avanza a passo d’uomo sul mio senso di marcia, Stefano si sporge appena dal finestrino abbassato.
«Per favore, sali.»
Mi stringo nelle braccia, ignorando il freddo e l’acqua che mi entra anche in bocca. Un’automobile gli suona, lampeggia con i fari, lo supera strombazzando e mandandolo al diavolo.
«Maledizione, sali in macchina.»
«Lo stalking è un reato, lo sai?»
«Melissa, sei fradicia. Sali. Spieghiamoci.»
Mi fermo di colpo, allargo le braccia e rido. Devo sembrare ancora più pazza di quanto già mi sento.
«Spieghiamoci? Hai proprio bisogno di sottolineare l’evidenza?»
«Non so a cosa tu ti stia riferendo, ma ti conviene salire in macchina e…»
«Non ci salgo sulla tua merdosa macchina!» sbotto. «Lasciami in pace.»
Fisso lo sguardo sul marciapiede e continuo a camminare. La sua auto sparisce. Non mi volto per vedere che direzione imbocchi. Non mi volto nemmeno quando sento dei passi schiaffeggiare l’acqua sull’asfalto, un’imprecazione, uno «Scusi» urlato a chissà chi. Sarò anche infantile, ma tutto sommato la maggior parte delle forme di orgoglio lo è.
«Fermati, per favore. Ti ammalerai!»
Lo ignoro.
Lo ignoro come lui ha ignorato me da quando mi sono ‘lasciata andare’. Lo ignoro quando mi supera e mi si para di fronte. Lo schivo, supero un paio di uomini che fumano sotto la cappotta verde impermeabile di una pizzeria d’asporto, e lo ignoro.
Sono quasi arrivata al passaggio pedonale prima della fermata dell’autobus, quando la sua voce mi chiama di nuovo.
«Issa, fermati!»
È un attimo.
Sento la rabbia montare, cresce veloce come un palloncino che si gonfia dentro la gola.
Inchiodo in mezzo al marciapiede, quasi collutto la valigetta di un signore bardato in un k-way. Mi volto e sono furente.
«Non azzardarti a chiamarmi così! Non osare.»
Stefano si avvicina a passi corti, la pioggia gli riempie i capelli, gli scivola sulle spalle, sul naso. Mi chiedo perché mi abbia seguito, cosa gli interessi ridursi in questo stato. Poi lui storce le labbra in un sorriso amaro, che ha il potere di aprire un varco tra gli strati di orgoglio e delusione.
Mi dispiace vederlo amareggiato. So che non dovrei essere dispiaciuta. Se non provassi niente, non lo sarei.
«Ah, di qualcosa allora ti interessa! Non un passaggio, non una spiegazione, non il rischio di una febbre. Il soprannome che ti ha dato il tuo ex fidanzato sì, però. Vero?»
«Stai scherzando? Dimmi: ‘Melissa, sto scherzando e, ah sì, sono un idiota’.»
Stefano non dice niente.
«Si può sapere che diavolo vuoi ancora da me? Che ti autorizzi a non sentirti in colpa?» sputo, parandomi indietro i capelli fradici. «Per quanto mi riguarda, meriti di sentirti uno schifo. Anzi, sentiti come vuoi, ho un treno da prendere.»
Per un secondo credo che mi fermerà, invece infila le mani dentro le tasche dei pantaloni e arretra di un passo.
«Cos’è, lo raggiungerai nei weekend? Hai deciso che vale la pena riprovarci? Caspita, devo essere stato molto significativo per te, se qualche ora dopo eri già tra le sue braccia. Ma tranquilla, Issa, in fondo sono io quello che deve sentirsi uno schifo.»
Le sue parole mi colgono di sorpresa. «Cosa?»
«Ora capisco anche tutta la fretta che avevi di scappare, ieri mattina. Con il tuo grande amore che ti aspettava…»
Scuoto la testa, ormai non mi curo nemmeno più di essere zuppa. «Sei pazzo o cosa?»
Stefano è immobile, statuario sotto la pioggia. «So che sei andata da lui.»
Uno scenario peggiore della follia mi si paventa davanti.
«Mi hai fatto seguire?»
«Cristo, hai un’opinione così bassa di me? Ti sembro quel tipo d’uomo?»
«Mi sembri il tipo d’uomo che dice che ti chiamerà e poi non lo fa. Quindi sì, mi riservo di pensare male.»
«E perché ti interessa? Perché ti interessa la mia chiamata, dopo quello che è successo all’aeroporto? Perché?»
Apro la bocca per rispondere, ma non ne esce alcun suono.
Guardo Stefano, i suoi occhi che mi sondano, le goccioline che gli imperlano i capelli dividendoli in ciocche, l’incertezza che gli leggo sul volto.
È un’incertezza reale, una primordiale forma di smarrimento, come quando sogni la tua casa che però non assomiglia nemmeno un po’ alla tua casa, è senza finestre e piove dentro e non sai come svegliarti e non sai nemmeno se vuoi svegliarti. Il fuggiasco e l’imbucata si ritrovano di nuovo, nessuno dei due fugge, nessuno dei due ha il coraggio di proseguire oltre.
Siamo sotto la pioggia come nei film, solo che non c’è niente di romantico nella presa della mia ultima resistenza.
Gli argini con cui ho impalcato la mia sicurezza franano miseramente. Frana l’orgoglio, frana la collera. Restano solo il rumore della pioggia, la dolorosa consapevolezza del sentimento che provo per lui, le lacrime che scendono senza permesso, che dichiarano ciò che io non ho il coraggio di chiamare con il proprio nome.
Stefano si avvicina, mi prende per un gomito. Faccio per ribellarmi, quando capisco che sta puntando al piccolo porticato dall’altro lato della strada. Così mi lascio trascinare fino al riparo di fortuna, poi divincolo il braccio.
«Ehi.» La sua voce è un sussurro. «Perché… perché stai piangendo? Ehi… Sono un idiota, Melissa. Sono un idiota.»
Catturo le lacrime con il dorso della mano. Lui la ferma, me la tiene stretta. Ha le mani ghiacciate. Sia quella che tiene la mia, sia quella che mi passa sulle guance. Ghiacciata e bagnata. Non asciuga nulla, è peggio di un cubetto di ghiaccio.
«Avrei dovuto chiamarti. Avrei dovuto… maledizione, non avrei dovuto badare a… Mi dispiace, quando ho visto quella fotografia, te e lui abbracciati davanti al gate, ho pensato che…»
Tiro su con il naso. «Sono stata fotografata con Leonardo?»
«Saliamo in macchina? Stiamo congelando. Per favore, ti accompagno a casa e ti spiego…»
«Va bene» cedo. «Ma è solo un passaggio, Stefano, non vuol dire niente.»
Stefano annuisce, mi dice di aspettarlo lì, corre verso la macchina parcheggiata poco distante, corre e un minuto più tardi accosta al marciapiede. Apro la portiera dell’auto e m’infilo nell’abitacolo. I vestiti bagnati lasciano aloni di acqua sulla pelle del sedile, sul tappetino ordinato. La pioggia ticchetta con insistenza sulla carrozzeria, si frantuma sul parabrezza della macchina, spazzata via dal ritmo cadenzato dei tergicristalli.
«Accendo il riscaldamento» dice Stefano, prima di armeggiare con i comandi. «Resisti.»
Sto battendo i denti, ho la pelle d’oca e sto tremando. Stefano mi prende le dita congelate, le stringe, mi tasta la fronte.
«Hai bisogno di bere qualcosa di caldo. La tua coinquilina è in casa? Può prepararti qualcosa?»
«Anche tu sei gelato.»
Stefano commenta con un’alzata di spalle, controlla l’aria calda che esce dai bocchettoni, la direziona verso di me. Appoggio la testa al finestrino e resto in silenzio, ascolto il rumore dell’acqua che cade sul traffico della tangenziale lenta.
«Il soprannome me l’ha dato mio padre» mormoro. «È solo una parola, eppure quel soprannome ridicolo è una delle poche cose che è rimasta invariata quando lui se n’è andato di casa. Era il suo modo per dirmi che continuava a volermi bene, nonostante la distanza. Leonardo mi chiama così, ma non significa nulla per lui.»
«Melissa…»
«E sì, ieri sono andata all’aeroporto. Crederai che sia stata una debolezza, che provi ancora qualcosa per lui. Se lo credi, sbagli. È stata una persona importante, anche se è finita come è finita, e forse avremo sempre qualcosa che ci legherà, un po’ come tu e Olivia…»
Stefano scuote appena la testa. «Melissa, io…»
«Ma non sono più innamorata di lui. Ho la coscienza pulita, non ho niente da nascondere. E, se mi avessi chiamato, te lo avrei detto.»
Forse sono stata troppo esplicita, ma non m’importa. È la verità e io non devo esserne spaventata. Anche se la verità spaventerà lui.
«Non avrei dovuto dar retta alla foto e saltare alle conclusioni sbagliate. Mi dispiace.»
«Chi te l’ha mandata?»
«Non ha importanza. Non avrei dovuto badarci. Avrei dovuto chiamarti. Volevo farlo, poi…»
La sua non risposta mi mette in allarme. È stata Olivia? Oppure sua madre? Sono così disperate da usare simili mezzi per screditarmi?
Stefano solleva la mano destra dal cambio e l’allunga verso la mia, ma io mi scosto.
«Volevi chiamarmi, ma eri troppo impegnato.»
«Non è così. Cioè, ero molto impegnato, ma…»
«Ma la MarsTech ha la precedenza su tutto.»
«So che te ne ho parlato io, ma non dare per scontato di aver chiara la situazione. Non è così semplice.»
«E invece lo è, Stefano! È semplice!» sbotto. «Basterebbe solo che lo ammettessi, che capissi che la vasca da bagno e il giardino notturno e la sera a casa mia… quelle sono le tue eccezioni, ma per la maggior parte del tempo tu non sei quella persona. Sei l’uomo che non telefona, sei quello che la mattina dopo sta già contattando qualche fornitore, sei quello che fa piangere le fotomodelle in bagno!»
«Faccio piangere le fotomodelle in bagno?»
«Forse non lo ricordi, ma Sharon l’ho conosciuta mentre era disperata per te.»
Stefano alza un sopracciglio. «Mi sembra una reazione un po’ azzardata, ci conoscevamo appena.»
La superficialità della sua affermazione mi raggela più del freddo dentro le ossa.
«Non è questo il punto. Il punto è che questo…» dico, indicandoci. «Questo non è altro che del tempo rubato alle circostanze.»
«E allora? Cosa c’è di male se ce lo godiamo per quello che è?»
Cerco di interpretare la sua frase con accezione positiva. Invece, per quanto mi sforzi, il mio cervello traduce in modo diverso. Non vuole andarci piano, è che non vuole partire affatto.
Arrivati sotto il mio condominio, la pioggia si è trasformata in un nubifragio. I posti auto vicini all’ingresso sono tutti occupati. Parcheggiamo lontani e Stefano insiste per accompagnarmi fino alla porta. Fa il giro della macchina e mi raggiunge con un ombrello, che il secondo successivo è rovesciato dal vento. Entriamo nell’atrio e siamo ancora più grondanti d’acqua. Il tepore della macchina è già un lontano ricordo e io ricomincio a tremare.
Stefano mi prende sottobraccio, mi scalda la pelle con i palmi delle mani. Saliamo le scale impregnate del solito odore di brodo della signora del piano di sotto, del ciabattare oltre gli zerbini, di voci che si mescolano alle televisioni accese. Tiro fuori le chiavi dalla borsa, ma Stefano è più veloce: me le ruba dalle mani e le infila nella toppa.
Entra come se fosse a casa sua, chiude la porta e mi sfila la tracolla del portatile.
«Sono capace» protesto, ma non mi sento addosso nemmeno la metà della forza che pavento.
Sul pavimento, in corrispondenza dei nostri piedi, si sta formando una pozzanghera d’acqua. Sto sbottonando la felpa fradicia, quando Sabrina si palesa sull’imbocco del cucinino.
«Meli, ma dov’eri fin… oh. Ciao, Stefano. Che avete combinato?»
«Melissa ha bisogno di stare al caldo. E di una bevanda bollente.»
«Okay, niente piadina, quindi.» La mia coinquilina si pulisce le mani su una carta assorbente, scavalca il divano e mi mette una mano sulla fronte. «Sei ghiacciata! Vieni, ti accompagno.»
«Ce la faccio. Smettetela. Ce la faccio da sola!»
Il secondo dopo le palpebre mi si abbassano, neanche fossero le tre di notte e io fossi sveglia da settantadue ore di fila, e nel tentativo di reggermi allungo una mano verso il muro, rischiando di ruzzolare a terra.
Sabrina e Stefano si scambiano un’occhiata, poi la mia migliore amica mi prende sottobraccio e mi scorta verso la camera da letto.
«Pensavo…» balbetto. «La doccia… l’acqua calda…»
«Tesoro, stai andando in ipotermia. Niente docce calde per l’ipotermia. Adesso fai la brava, ti togli questi stracci bagnati, ti stendi a letto e ti copri con il plaid di Snoopy.»
Sento la stanchezza nella braccia, nelle gambe. Credo mi stia salendo anche un po’ di febbre, perché ho difficoltà a formulare un pensiero compiuto.
«Ma Stefano… la porta… e…»
«Al tuo Mister MarsTech ci penso io. E non mi guardare con l’occhio assassino, sarò bravissima anche se non ti ha chiamata.»
Mi aiuta a togliere i vestiti fradici, ad asciugarmi i capelli con un asciugamano prima e con il phon poi, a stendermi a letto. Mi copre con la coperta leggera, con il suo copriletto e con la trapunta dei Peanuts che ho ereditato dalla mia infanzia e che porto sempre con me rispettando la tradizione di Linus.
Mi ci rannicchio sotto, alla ricerca di un po’ di tepore. I brividi non se ne vanno subito ma, quando Sabrina più tardi torna nella mia camera, inizio ad avere un po’ di tregua.
«Grazie per aver studiato in una facoltà di medicina. Ti sono debitrice» mormoro, da sotto le coperte e i cuscini. «Non mi lamenterò più la prossima volta in cui mi costringerai a formattarti il comput…»
Alzo il lembo di coperta e mi blocco.
Sulla soglia della mia camera da letto non c’è la mia coinquilina. C’è Stefano. Tiene in mano una tazza da colazione, quella con scritto ‘Accio Coffee’ che mi ha portato Piè da Londra. E non è nemmeno l’unica cosa che ha di Pietro.
Ha tolto il completo elegante e indossa un paio di vecchi pantaloni della tuta del mio migliore amico, riesumati dai lavori in appartamento per togliere la muffa dalle pareti e riposti nel fondo dell’armadio di Sabrina. Sopra ha la mia t-shirt extralarge di Batman che deve aver recuperato dallo stendibiancheria nel corridoio, la stessa che avevo addosso io la sera in cui lui e Leonardo erano entrambi qui. L’insieme è talmente discordante dalla solita immagine di lui, che quasi mi viene un colpo.
«Sabry ha detto che se vado in ipotermia potrei avere le allucinazioni. Sei un’allucinazione?»
Stefano si siede sul bordo del letto, mi porge la tazza calda, sorride. È un sorriso divertito, ma con un fondo di dolcezza che mi scioglie anche più della febbre.
Ha i capelli puliti e asciutti. Deve essersi fatto una doccia. Ha usato il nostro infimo bagno, ha visto le lamette che io e Sabrina per pigrizia non togliamo mai dal portasapone, il disordine di deodoranti e profumi sul ripiano del lavandino, il bicchiere degli spazzolini con il disegno di Jack sul campo delle zucche di Nightmare Before Christmas.
E non sta scappando.
«Okay, sei un’allucinazione. Cosa ci fai qui?»
«Ti ho portato il tè» dice, indicando la tazza.
«No, voglio dire, perché sei qui?»
Stefano aggrotta le sopracciglia. «La tua amica mi ha detto che potevo usare la doccia e che potevo prendere i vestiti. Ha anche aggiunto che il dazio sarebbe stato non trattarti da Principessa Scema.»
«Oh» mormoro. «Ma non puoi restare. Voglio dire, vorrai andare a casa e…»
Faccio per scostare le coperte e alzarmi, ma la testa mi gira ancora. Stefano mi sfila la tazza e l’appoggia sul comodino, mi mette le mani sulle spalle. Sono nude, indosso solo un reggiseno sportivo orrendo che ho infilato prima di rifugiarmi sotto le coperte. Faccio per allontanarlo, ma le sue mani restano salde, non mi lasciano.
«Melissa, restare non è un problema.»
So che è una frase circostanziale, che non lo sta dicendo in generale, che intende qui e ora, adesso, per la sera, per il momento. Eppure vorrei azzardare, vorrei chiedergli che resti finché ho bisogno, che resti vicino a me.
«Va bene» dice la sua voce. La sua mano destra sale sui capelli. «Certo che resto.»
Non credo di averglielo chiesto. Non lo so. Ma so che mi si riempie il cuore perché lui mi è accanto mentre il tè mi scalda prima l’esofago e poi lo stomaco, perché mi accarezza le dita che sfuggono dalle coperte, perché si accerta che io stia bene. So che mi si riempie il cuore quando si stende accanto a me solo per starmi vicino.
La pioggia imperversa contro le finestre, il primo freddo d’autunno serpeggia fuori dalle coperte, io mi cullo nel calore del suo corpo che abbraccia il mio. Ed è una pace che mi devasta.
Forse sto sognando.
Eppure il suo naso nell’incavo del mio collo, il suo respiro sulla nuca, le sua braccia che mi stringono i fianchi mi sembrano reali. La sua voce, un sussurro accennato tra i miei capelli, mi sembra reale.
Le sue labbra poggiate sulla spalla, la disperazione con cui mi abbraccia, aggrappandosi come se potessi scivolare via all’improvviso, la nota di dolore nella sua stretta decisa. La penombra della stanza, il suo addome contro la mia schiena. Mi sembra tutto reale.
E, anche se non ci siamo promessi niente, anche se domani sarà già cambiato tutto, so che una parte di lui, forse infima, forse irrilevante, prova quello che provo io. So che, anche se nessuno dei due lo ha mai nominato, questa è una forma d’amore.
Forse non sarà un amore per sempre, però è un amore sufficiente a capire che sono disposta a rischiare il mio adesso per lui.