La fucilazione di Uber Pulga
Gli occhi si aprono lentamente, guidati dall’inerzia di chi è costretto a risvegliarsi ma vorrebbe continuare a dormire per non affrontare il supplizio che lo aspetta. È l’alba del suo ultimo giorno, il 24 febbraio 1945. Uber socchiude le palpebre ascoltando il suo respiro e pregando di non trovarsi più in cella. La prima forma che scorge è una parete che odora di stantio, proprio di fronte alla sua faccia.
Dietro di lui una luce fioca illumina la stanza e Uber tentenna, non vuole girarsi per non scoprire di essere nello stesso posto in cui si è addormentato. Rimane immobile a contemplare la parete. Ha addosso una vecchia coperta che gli offre un tepore materno. Anche se è una vecchia coperta militare gli ricorda quella del corredo della mamma che lo aveva protetto dal freddo e dalla paura degli incubi negli anni, la coperta bianca di lana grossa che la mamma aveva sempre pronta e teneva custodita nel cassetto basso del comò.
Con la mano destra inizia a sfiorare il muro. Cerca i buchi fra i mattoni e ne trova uno col dito. Spinge nella fessura, immaginando che sia il foro di un proiettile del suo plotone d’esecuzione. Si ricorda tutto, si ricorda della morte che lo aspetta con l’orologio in mano. L’odore di umido gli ha penetrato le narici e le ha rese insensibili. La può masticare nella bocca, quell’essenza putrida di ragnatele e muffa, che gli fa pensare di essere già morto e sepolto. Corre ancora con le mani sul muro scalcinato e si ricorda tutto, proprio tutto.
“Si infileranno qui, e poi anche qui” sussurra tra sé. Sì, è vero, alcuni colpi forse lo avrebbero passato da parte a parte, per andarsi a conficcare in qualche muro dietro di lui. Fra i proiettili perforanti e i mattoni spessi e resistenti ci sarà lui, in mezzo, sarà come un foglio di carta velina, bucato dal semplice tocco di una matita.
Vuole essere di pietra e non di carne, vuole essere un blocco di roccia che non si lascia scalfire dai proiettili degli uomini. E invece è solo Uber Pulga, degradato e reso borghese. È solo un esile foglio contro un pugnale che lo vuole togliere di mezzo in pochi istanti.
Gira lentamente la testa verso il centro della stanza. Il cappellano è lì vicino. Se ne sta su una sedia e le sue braccia grosse di trentino traboccano da un banchetto. Il prete sfoglia attento le sue Scritture, scorre e confronta, come se stesse cercando qualcosa, che non riesce a trovare.
Uber alza piano la testa e poi tira su con fatica la schiena, emettendo un rantolo di dolore per le ossa rotte.
«Sei sveglio?» gli chiede il prete.
«Sì – gli risponde Uber mezzo tramortito –, quanto manca?»
Il cappellano controlla l’orologio da taschino, quasi nascondendolo. Non gli piace proprio scandire gli ultimi minuti di vita di un cristiano. Non dice mai l’orario esatto ai condannati a morte. Ci gira intorno, per non dare un’altra sentenza a quei poveracci che nella loro testa contano i minuti, i respiri e i battiti del cuore.
«Ancora un po’, ancora un po’» fa il cappellano, che invece sta con le orecchie e gli occhi attenti per cogliere i primi segni dell’alba. Ha imparato a riconoscere quando il momento si sta per avvicinare. Basta uno schiarirsi impercettibile della notte o gli uccelli minacciosi del mattino che iniziano a fischiettare sicuri di portare gioia in chi li sente. Al prete, nelle notti delle esecuzioni, mettono solo ansia, per lui non inizia un giorno ma finisce una vita.
«Mi pare di aver dormito un anno» fa Uber, che sente il corpo intorpidito e inizia ad avvertire il freddo che gli scava le ossa.
«Più o meno un’ora, eri sfinito.»
«Non ricordo, non ricordo bene, ma vi ho raccontato tutto?» chiede Uber.
«Penso di sì – fa il prete –, mi hai raccontato fino al processo.»
Uber cerca di mettersi in piedi sulle gambe ma inizia a barcollare. Il prete lo afferra per un braccio e lo puntella a un tavolo. Ricorda poco della sua lunga confessione. È ancora stordito da quell’ora di sonno che è arrivata dopo giorni in cui non ha mai chiuso occhio. C’è ancora il tempo per l’assoluzione e per cercare di liberarsi dell’ultimo peso che lo trattiene.
«Meglio se resti seduto» fa il cappellano, avvicinando la candela che si è consumata e ripiegata su se stessa.
«Devo dirvi un’ultima cosa» fa Uber, che tenta di sedersi e trovare un po’ di pace.
«Dimmi pure.»
«Non è proprio facile ma, come dire, io mi sento un giuda, e mi sento un assassino. E da tutto questo forse non c’è scampo.»
«È questo che ti angoscia più di tutto?»
«Sì, Don Sani, c’è la paura di morire, ma c’è la paura di come muoio, come lascio questo mondo, e cosa lascio dietro. Purtroppo – continua Uber –, non posso chiedere a Dio cosa pensa di me e di quello che ho fatto.»
«Capisco» replica il cappellano, che ormai sente dove sta sconfinando la confessione.
«Ve lo posso chiedere?»
«Certo, chiedimi pure.»
«Potete dirmi se mi credete un giuda e un assassino?»
Il prete prende due boccate di quell’aria mefitica. È la prima volta che un soldato gli fa una domanda tanto difficile. Lui è un semplice cappellano militare, lì per confortare i soldati che sanno di dover morire. Sanno già tutto, di solito dicono cose semplici e chiedono perdono, e basta, non giudizi a un prete come lui, che non è il Papa o un vescovo. Che è un semplice uomo con la croce, messo lì ad accompagnare i condannati a morte. C’è un tacito accordo fra condannato e confessore: il primo racconta, l’altro perdona. Non ci sono giudizi personali. Ma non è sempre così. Può esserci anche nella confessione un giudizio che non è la penitenza ma il giudizio dell’uomo su un altro uomo. Don Sani annuisce, prende coraggio, si fa forza, se chiede il coraggio di morire all’uomo di fronte a lui, deve avere il coraggio di giudicarlo.
«Certo – fa, sicuro, Don Sani –, certo che ti rispondo.»
«Grazie – dice Uber –, è quello di cui ho più bisogno.»
«L’avevo intuito. Lasciamo però stare la politica – esordisce il prete, cauto –, quella è meglio lasciarla stare, che già troppo male ha causato. Hai fatto le tue scelte, giuste o sbagliate, ma non siamo qui a giudicarle. Hai anche ucciso e fatto uccidere. Questo lo sai bene, meglio di chiunque altro.» Don Sani fa una breve pausa. «Per quei morti spero siano state dette molte preghiere e altre ne verranno dette. I morti ti fanno delle domande nei tuoi incubi. E tu sei qui a risponderne. Loro ti chiedono ragione delle vite che gli hai sottratto e tu offri tutto quello che hai. Da quello che posso dire non hai mai tradito la tua coscienza. Questo ti deve confortare. Fidati.»
Uber osserva il prete, fermando l’emozione tra la fronte corrugata e gli occhi sfiniti. Ha paura di morire, ma le parole dell’ultimo suo amico gli fanno bene alla coscienza e forse all’anima. «I miei “grazie” non bastano per ringraziarvi» fa il condannato.
«Bastano, certo che bastano.»
Don Sani capisce che Uber potrebbe essere chiunque. Sul suo volto e sulla sua divisa malconcia le differenze si annullano, la camicia nera stinta da fascista e quel muso torturato e orgoglioso che potrebbe avere un partigiano. Uber rappresenta un po’ tutti, nella sua faccia ci sono i volti dei tanti ragazzi italiani condannati a morte, c’è il supplizio dei rossi e dei neri, c’è la lotta fratricida dell’Italia. Che siano partigiani o fascisti a morire, per il prete non fa nessuna differenza. Se conforta Uber conforta anche tutti gli altri.
«Dove mi aspetta il plotone?» chiede il prigioniero, che sente salire la pressione delle emozioni sulla razionalità del discorso. La paura sta per annebbiargli la parola e abbandonarlo ai sensi impazziti del corpo consapevole di morire.
Il prete non vuole rispondere, tentenna ma poi deve dirlo: «Di solito vicino al cimitero».
«Bene, il cimitero» sussurra il condannato, che non sa se chiedere altro tempo o accelerare la corsa del destino per impiccare la sua sofferenza.
«Hai altro da dirmi, qualche istruzione?»
«Sì, Don Sani. Non voglio che nessuno sappia quello che ho fatto, solo voi.»
«Non ti preoccupare, resta fra noi quello che hai fatto. Hai qualcuno da raccomandarmi, la famiglia, una fidanzata…» il prete deve accelerare, sente che gli sta scivolando via il suo prigioniero, risucchiato dall’angoscia.
Intanto si avverte qualche preparativo fuori dalla cella, voci si inseguono, stivali scalpitano, il motore di qualche mezzo romba impaziente. Tutto questo si muove per il condannato, che cerca di dare le ultime istruzioni al prete.
«Vi raccomando la mia famiglia – fa Uber, affrettandosi tra una frase e l’altra –, i miei fratelli e mio padre Pietro. E pregate per la mia mamma, che mi sta aspettando. Sono riuscito in questi ultimi giorni a scrivere una lettera. Vi prego di spedirla a chi rimane. Non si meritano anche questo dolore, di ritrovarsi con un pezzo di carta e un figlio morto. Mi chiedo se capiranno.»
«Stai tranquillo. Capiranno e anch’io gli scriverò, per raccontargli di queste ore passate insieme. Se per te va bene, gli dirò che credevi in un’Italia migliore.»
«Speriamo, Don Sani, speriamo che tutto questo servirà» dice Uber, trattenendo l’emozione che gli si gonfia nella gola.
Un sottile raggio di sole penetra nella stanza e la trapassa tutta, superando il prete e andando a piantarsi nel muro dietro Uber. Si girano entrambi a guardare verso la piccola finestra e il cappellano si prepara per l’assoluzione.
«Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen» dice il prete.
«Amen» risponde Uber.
«Un’ultima cosa» fa il condannato.
«Certo.»
«Vi chiedo di pregare per me e per gli altri morti.»
«Certo – risponde il prete –, lo farò.»
Lo vengono a prendere due bersaglieri che sembrano ragazzini e un sergente che può essere il loro padre.
«È ora di andare, sottotenente» dice il più anziano dei tre, che conosce bene Pulga e per rispetto continua a considerarlo un ufficiale. Gli altri due impauriti, goffi e inesperti seguono ogni suo ordine. Aiutano Uber a rimettersi in piedi. Non servono i ceppi per quel prigioniero, è un pluridecorato e stenta a camminare. Non può andare da nessuna parte.
Il cappellano raccoglie la Bibbia e tutta la fede che ha e segue Uber che esce dalla porta della prigione. Appena fuori si spalanca sopra di loro un cielo terso di fine febbraio che fa sperare nella primavera. Il sole è già spuntato e non si vede la terra, inghiottita da una bassa nebbia, che ha formato uno strato di qualche metro e ricoperto tutto. Fra gli uomini e Dio non c’è più niente, solo l’aria sottile e limpida.
Uber si ferma per un attimo ad ammirare quell’ultimo spettacolo. Gli sembra tutto splendido, maestoso, unico. Si passa lentamente una mano fra la bocca e il naso per strangolare un pianto che gli sgorga da dentro e non riesce più a contenere. I soldati immobili non osano fiatare mentre il cappellano si avvicina al condannato e lo racchiude in un abbraccio paterno.
Davanti al cimitero di Gaiano c’è un camion e un soldato tedesco che fuma una sigaretta appoggiato al parafango. L’auto si ferma proprio davanti a lui. Uber viene fatto scendere lentamente, che a malapena si regge in piedi e gli servono tutte le ultime forze per cercare di raggiungere il plotone d’esecuzione. Il cappellano si mette di fianco al prigioniero con la mano sulla sua spalla sinistra. Uber sente la sicurezza della presa e così si avvia lungo il sentiero che costeggia il cimitero. Incrocia prima lo sguardo del tedesco, che continua a fumare come se nulla fosse, poi fissa dritto il muro di mattoni rossi che, dopo circa 30 metri, curva inesorabile a destra.
«Coraggio figliolo, coraggio» gli dice il cappellano, quando sente che il condannato tentenna e rischia di crollare a terra. «Cappellano, non mi abbandonare» lo implora il sottotenente.
«Sta’ tranquillo che io non ti lascerò fino all’ultimo istante» lo rassicura Don Sani che si stringe al condannato.
Dopo qualche metro, Uber non ne può più e si ferma a riprendere fiato.
«Ancora pochi metri, ancora pochi metri e ce l’abbiamo fatta» gli ripete il prete.
Ma il prigioniero sente le gambe cedere, si inginocchia e per qualche secondo si aggrappa al cappellano. Subito due tedeschi cercano di avvicinarsi per prendere Uber e trascinarlo al patibolo.
«Fermi!» li gela il prete.
I due soldati si inchiodano. Uber si rimette in piedi con fatica. Percorre gli ultimi metri sorretto dal prete. Girano l’angolo di mattoni per ritrovarsi di fronte a un gruppo di soldati. Sono dodici, qualcuno fuma nervosamente, altri, scuri in volto, borbottano fra loro, come se fossero al funerale di un lontano parente, altri ancora guardano pallidi verso il prigioniero, che prende posto davanti al muro sforacchiato delle fucilazioni. Si contano sei italiani e sei tedeschi. Ha voluto così il comando. Per evitare che i bersaglieri si rifiutino di sparare a un loro ufficiale. E per dare una lezione ai soldati sulla fine che fanno i traditori.
Uber incrocia lo sguardo dei bersaglieri e riconosce qualcuno della sua compagnia. Uno di loro tenta di fare un ultimo sorriso al sottotenente, ma a malapena gli esce una smagliatura fra le labbra, che sa più di smorfia di dolore. Gli altri cinque non stanno meglio. Vorrebbero salutare il condannato e chiedergli scusa delle fucilate che gli spareranno, ma il comandante del plotone d’esecuzione ha fretta di finire, prima che qualcuno si rifiuti di fare il suo dovere.
Uber viene avvicinato dal capitano repubblichino che si ritrova a dover fucilare un altro ufficiale. Porge al disertore la benda nera per coprirsi gli occhi.
«No, grazie» fa Uber.
Il capitano ordina ai soldati di disporsi su due file. C’è solo il tempo per una sigaretta, la preghiera del soldato, che Uber brucia in pochi secondi con lunghi e avidi tiri. Fissa le armi, i fucili che poteva smontare, bendato, in pochi secondi, ora gli si rivoltano contro, minacciosi. D’istinto alza lo sguardo, cercando qualcosa. Oltre il plotone d’esecuzione, verso i campi, e lungo la valle del Taro, scorge per un secondo i monti, e ancora oltre, supera la linea Gotica. Vede la neve che si scioglie sulle colline per lasciar spazio a margherite e favagelli, che avrebbero invaso i prati, riportando il colore sulle strade di fango. Vede intorno a lui il sorriso della gente, il cielo libero dal ronzio dei bombardieri, vede la notte, non più deserto di luci, ma bagliori ovunque, che non sono i fuochi delle esplosioni o le pire delle rappresaglie ma lo sfavillio della gente che non si nasconde e non ha più paura di muoversi nelle case illuminate a giorno. E immagina il papà Pietro indaffarato davanti alla casa di Felonica, e sogna la tenerezza di una ragazza…
Ma anche quell’ultimo spettacolo immaginario gli viene negato. Il comandante del plotone lo obbliga ad andare verso il muro e a girarsi di schiena: è così che muoiono i traditori.
«Presto figliolo sarà tutto finito» fa il prete al condannato, vorrebbe seguirlo ancora ma non può, mentre Uber si piazza nella sua ultima posizione sgraziata e per niente marziale, col viso pallido, gli occhi impazziti che cercano scampo e le mani incrociate sul petto per ripararsi dal freddo. Davanti a lui il muro del cimitero coi morti che lo attendono e lo chiamano dall’altra parte.
«Addio, padre, addio» dice il condannato, che così gira per l’ultima volta la faccia dietro di lui e verso il mondo dei vivi. Non vorrebbe staccare lo sguardo dal cappellano, ma lui è già lontano. Il prete viene fatto arretrare di qualche metro. Tutto sgombro. Resta solo l’uomo ormai piccolo e gracile che non può vedere chi lo sta per uccidere.
Il capitano dà l’ordine di caricare. Click-clack, gli rispondono i Mauser con movimento sincronizzato. I moschetti degli italiani sono lenti e recalcitranti come chi li sta usando, ma alla fine mettono il colpo in canna. L’ufficiale ora se ne sta col braccio teso in alto, guarda ancora una volta la linea dei soldati attaccati ai fucili, rimisura la distanza col condannato che gli offre le spalle, controlla un’ultima volta che il campo sia libero e si prepara ad abbaiare: «Fuoco!». Appena un secondo prima dell’ordine, Uber scarica tutta la voce che gli è rimasta nei polmoni. La ventata di proiettili gli congela quell’ultimo «Viva l’Italia» che tiene in corpo, e l’urlo gli muore dentro. Ma l’eco di quel vagito disperato rimbalza sui mattoni del muro, si espande tutto intorno e taglia l’aria dell’alba, diventa un urlo assordante che sgomenta i soldati italiani e li lascia più pallidi di fantasmi. Anche i tedeschi si guardano, allibiti. Nessuno parla, si muove, fiata. Il cappellano passa lente le dita su fronte, petto e spalle nel segno della croce. Si avvicina piano piano al fucilato, con rispetto, come per non svegliarlo. Si inginocchia. Uber ha lo sguardo fisso nel vuoto, ma sembra sereno, sembra sorridere. Dal suo corpo sale la nuvola dell’ultimo respiro, pare l’anima che scappa via. Il prete alza la mano e con una carezza gli chiude gli occhi. Sussurra il «Requiescat in pace» perché un nodo gli stringe la gola e non riesce a parlare più forte. Dentro di lui non si è ancora spento, l’ultimo grido di quel disertore.
13 giugno 1984
Cominciava il giorno. La temperatura era certamente di qualche grado sotto zero ma il cielo era terso e faceva ben sperare per l’arrivo della nuova stagione. I soldati del plotone d’esecuzione, sotto la guida del loro comandante, si erano silenziosamente allontanati. Ero rimasto solo. Io e il sottotenente, io e il suo cadavere. Il primo pensiero fu di portarlo nel cimitero. Me lo caricai sulle spalle e non senza fatica raggiunsi la porta del campo santo, che però era chiuso.
Posai il corpo e mi incamminai alla volta del paese per cercare il parroco, comunicargli l’esecuzione e prendere accordi con lui per la sepoltura. Non ci misi molto a trovare la sua residenza. Dopo aver bussato per qualche minuto qualcuno aprì una persiana e un uomo si affacciò, chiedendomi cosa volevo. Mi presentai come il cappellano della divisione Italia e in poche parole gli raccontai la fucilazione che era avvenuta poco prima dietro il cimitero. Don Cesare, così si chiamava il parroco, disse di non preoccuparmi e che sarebbe sceso subito. Tornammo insieme a prendere il corpo del sottotenente e lo seppellimmo nel cimitero pregando per lui. Rassicurato che ora Uber Pulga riposava in pace, mi incamminai alla volta della caserma. Avevo la divisa ancora chiazzata del sangue. Decisi così di concedermi qualche ora di riposo prima di stendere l’atto di morte del mio commilitone fucilato per mandarlo alla famiglia, con quelle poche cose che mi erano state affidate.
La sera stessa vi inviavo tutto dall’ufficio postale di Parma. Signor Pulga, lo avete ricevuto? Credo di no. Io sono sempre stato molto ingenuo a credere negli uomini. Ne ho avuto la prova quando dopo la mia prigionia a Coltano i miei superiori mi informarono di non aver mai ricevuto la mia corrispondenza quando ero in Germania, e neppure più tardi quando mi trovavo sul fronte della Garfagnana. Eppure mandavo religiosamente alla congregazione il mio salario di tenente cappellano. E questo tutti i mesi. Perciò ritengo che anche voi non abbiate ricevuto il mio rapporto sulla fucilazione del vostro caro e i pochi danari, assieme alle fotografie che lui portava sempre con sé.
Caro signore, questo è tutto quello che posso dirvi sulla morte di Uber Pulga e credo di non aver dimenticato nulla, perché la memoria del caro collega non si è mai cancellata dalla mia mente, anche a quarant’anni di distanza da quegli eventi. Di lui posso dirvi che era un idealista e vide il suo ideale infranto. Con lo stesso entusiasmo con cui ha servito la divisione Italia, tanto da meritarsi due medaglie d’argento e una d’oro, e la promozione da caporale a sottotenente dallo stesso Mussolini, alla fine aveva deciso di mettere la sua vita al servizio della Resistenza, accettando compiti pericolosi. In fondo in fondo era sempre il sentimento della sua patria che lo spingeva ad atti di eroismo e coraggio.
Mi creda sempre suo amico,
Don Augusto Sani 1