Epilogo

Mio nonno Franco si commuoveva sempre parlando di quel giorno, il 24 febbraio 1945. Mi raccontava di quando la famiglia aveva recuperato i resti di Uber. «Si vedevano ancora i fori dei proiettili nel cranio.» Ricordo la sua faccia impietrita, gli occhi lucidi, se pensava alle ossa del nostro parente conservate in una cassetta di ferro, tirata fuori da un loculo del cimitero.

Il nonno non amava proprio parlare di quelle vicende. Voleva proteggere il ricordo di Uber da tutto, dalla politica, da chi lo voleva collocare da una parte o dall’altra, dalle chiacchiere da bar e dalle commemorazioni da paese di campagna.

Rosso o nero? Partigiano o fascista? Vincitore o vinto? Eroe o traditore? Mio nonno difendeva quelle quattro ossa da chi non voleva far riposare in pace quel giovane che apparteneva a una generazione maledetta dalla guerra e dall’ideologia, una generazione che non è sopravvissuta a quegli anni, una generazione che ha contribuito a creare l’Italia di oggi.

Sono giunto a questa conclusione dopo aver girato in Italia e all’estero per capire chi fosse Uber Pulga. Ho scoperto la parte più terribile della storia del mio parente quando sono stato a Reggio Emilia, all’Istoreco, l’Istituto storico della Resistenza. Era il febbraio 2002. Lo studioso Massimo Storchi mi aveva avvertito al telefono: «Potrebbero emergere cose non belle sul suo parente».

Era un eufemismo. Scoprimmo che Uber, il mio Uber, prima di passare dalla parte dei partigiani sulle colline fra Parma e Reggio Emilia, era stato una spia, infiltrato fra i partigiani del Reggiano. Aveva causato la morte di due di loro, che ora hanno vie e monumenti dedicati nei paesi della provincia: Dante Freddi e Arvedo Simonazzi, citati nel racconto coi loro nomi di battaglia, rispettivamente di Noli e Marco. La parte più sconvolgente di quelle ricerche fu il riconoscimento.

Per capire se fosse stato proprio Uber a compiere tutte quelle sporcherie, per capire se veramente fosse lui la spia che da anni i partigiani del Reggiano cercavano, diedi una sua foto a Storchi e a uno storico locale, Mario Frigeri, che ha scritto per la rivista di Istoreco un saggio su Uber Pulga. Venne mostrata a uno dei pochi protagonisti di quei fatti che era ancora in vita: Egidio Baraldi, nome di battaglia Walter, il vicecommissario della settantasettesima Brigata Sap, l’uomo che nella fuga dopo la battaglia di Santa Vittoria aveva visto che il finto disertore tedesco si era consegnato ai fascisti.

“È quel porco là” deve aver pensato Walter in un pomeriggio del 2002, a distanza di quasi sessant’anni dagli eventi, stringendo nelle mani la foto di Uber, che per la mia famiglia è una reliquia e che mia mamma conserva come un’icona nella sala da pranzo, come si faceva nelle vecchie case di campagna coi cari defunti.

Quell’episodio mi sconvolse: pensai di concludere lì le ricerche, troppo dolore per me e i miei cari. Allora il nonno era ancora vivo, ma già malato. Ne parlai con lui ma cercai di tenere i particolari per me, per non farlo soffrire. Non aveva più la forza di un tempo e non volevo dargli altri dispiaceri.

Più tardi decisi di riprendere le ricerche e tentare di ricostruire le vicende di Uber, cercando un significato in quello che aveva fatto, una spiegazione e soprattutto una possibile redenzione da un senso di colpa che mi stringeva il cuore.

A Reggiolo c’è un piccolo monumento che ricorda Dante Freddi. Ci sono stato in una giornata d’inverno. Su una lapide c’è l’iscrizione al capo partigiano, medaglia d’argento, morto per la spiata del mio parente. Mi sono fermato a guardarla e ho detto due preghiere. Per lui e per Arvedo.

Non so se basterà.

Negli anni dopo la guerra, gruppi e associazioni si sono affrettati a mettere Uber da una parte e dall’altra, ad aggiungerlo ai loro elenchi, a dedicargli monumenti, a scrivere di lui le peggiori o le migliori cose. Come se alla fine la storia non la facessero i vincitori sui vinti, ma sempre e comunque i vivi sui morti. Senza fermarsi mai a ricostruire le vite spezzate da una guerra, le voci che si sono spente nel passato e che non possono più dire nulla. Quel grido «Viva l’Italia» morto in gola a Uber non è solo retorica, ma qualcosa di molto di più. È l’urlo di un uomo cresciuto e allevato nell’Italia fascista per rivendicare un Paese migliore di quello che lasciava.

Uber non aveva un’idea chiara di quello che sarebbe venuto dopo, di quello che avrebbero portato la Resistenza e la Liberazione. Ne conosceva a malapena il progetto politico, forse carpito nei discorsi durante la sua finta militanza fra i partigiani di Reggiolo, fra una sorsata di lambrusco e una sigaretta.

Gli è sempre rimasto un barlume di coscienza. Quello che lo ha spinto a chiedere il perdono per le sue colpe, quello che lo ha spinto a tentare, da uomo, di rimediare al male fatto da soldato in nome di un regime, passando dall’altra parte.

Qualcuno lo potrebbe definire un semplice opportunista, uno dei tanti fascisti che alla fine della guerra hanno cercato di aiutare i partigiani per poi trovarsi dalla parte giusta quando tutto fosse finito. Un «voltagabbana», quella parola che dalle mie parti è uno dei peggiori insulti.

Ma non è così. Sarebbe stato molto più facile per Uber liberarsi della divisa e scappare sui monti. Come fecero in tanti. Per assurdo è proprio la scelta di aver tenuto la camicia nera che lo salva da quest’accusa. Usò la sua uniforme per aiutare i partigiani, la indossò fino all’ultimo, fino al giorno della fucilazione, anche se ormai pensava e agiva come una sorta di liberatore.

Mi sono chiesto molte volte se il sacrificio del mio caro sia servito per liberarlo dal rimorso per quei morti. Lo avrei voluto domandare anche a mio nonno ma purtroppo non c’è stato tempo.

Dopo aver scritto queste pagine sono tornato al cimitero di Gaiano, dove Uber è stato fucilato. Ho ripercorso quel sentiero verso il plotone d’esecuzione. Mi sono fermato di fronte al muro sforacchiato. Ho detto una preghiera.

Non so se basterà.

Era una bella giornata di sole e nel campo da calcio vicino qualcuno stava giocando, urlando e ridendo. Un treno passava correndo verso Parma, coi pendolari addormentati a bordo. Una signora anziana arrivava in bicicletta al cimitero per portare i fiori sulla tomba di un parente. Nella campagna di fronte al muro della fucilazione un trattore passava e ripassava sulla terra alzando un polverone. L’estate ribolliva dal sottosuolo coi suoi odori e profumi.

Ho salutato Uber e ho ripreso l’automobile per tornare a casa. Quasi d’istinto mi sono fermato all’incrocio che immette sulla statale della Cisa. Sono sceso per vedere il nome della via del cimitero.

«Via della Libertà». Sono rimasto fermo per qualche secondo a guardare la targa, sorpreso. Ho pensato che Uber non fosse morto invano, ma per una libertà che stava appena nascendo.

Mi sono girato verso la via e ho notato qualcosa di familiare. La calma stradina mi ha ricordato quella che percorrevo per arrivare alla casa del nonno. La lingua di ghiaia rassicurante e accogliente che ho fatto per anni. Una strada non molto diversa passa di fronte al cimitero di Gaiano, prima è d’asfalto, poi più in là diventa di ghiaia, e infine, ancora più lontano, si fonde con la terra dei campi, e nessuno può più capire dove e come finisca, o continui.