CARTELLE MEMORIALI

Nel cinquantenario del Pasticciaccio, se si chiede a un taxi «via Merulana 219», si arriva a un negozietto di fodere per materassi esclusivi. Al 229 c’è una botteghina di Digital Print. Il 209 è un vero portone di condominio, con portiere tipo «dica!», peraltro identico ai cupi e burocratici sei o cinque piani dei casamenti adiacenti, abbrunati dai platani. Lì davanti, un Aci dove si paga il bollo della macchina. E poco più in giù, una vecchia libreria esoterica e magica frequentata (mi pare) dal Manganelli e dal Bortolotto, ai bei dì. Tutt’intorno, una Chinatown sempre più adatta ai ‘gialli’ non solo letterari.

La lapide comunale si trova molto più su, sulla casetta più piccola della via (un piano e mezzo, con altanina e negozio di Swatch, al n. 268, davanti a Santa Prassede e di fronte a un insignificante S. Alfonso moderno), già quasi a Santa Maria Maggiore, dove appena svoltando sulla piazza, a sinistra, si trova uno shop turistico di «Kodak Murano Deruta Travertino». E subito, la prospettiva incantatoria dell’Olmata.

Se invece si rifà il percorso delle ultime pagine del Pasticciaccio, risalendo da via G. Lanza in macchina fra pioggia e fango: «A largo Brancaccio, mentre che staveno svortando in via Merulana verso piazza San Giovanni, Ingravallo si volse, cupo, alla sua sinistra: calò il vetro, Santa Maria Maggiore, dai tre fornici oscuri della loggia sopra il nartèce...». Ma pare fisiologicamente possibile, voltando lì a destra, guardare indietro a sinistra senza torcersi il collo?

La «fortuna topografica» dell’Ingegnere pare invero scadente. Un cosiddetto «Largo» a Milano su via Paolo Sarpi, altra Chinatown. E a Roma, nel più profondo Ardeatino, partendosi da una «piazza E. Montale» (da non confondere con una via Montale all’estremo NordEst, accanto a via R. Pampanini, via G. Pasquali, via M. Del Monaco), un desolato cul-de-sac fra i tanti: Pratolini, Fenoglio, Da Verona, ma anche Lorca, Kafka, Joyce, Proust. Ecco perché sui radio-taxi si sentono specificazioni per un incrocio Pavese-Vittorini. Gli altri non fanno «civico». (Ma quanti vecchi amici sono diventati strade a cul-de-sac, secondo le Pagine Gialle, mannaggia).

Così, quale risarcimento memoriale, potremmo riprendere qualche postumo omaggio ‘mnemonico-testimoniale’ all’amato Maestro di Grovigli e Garbugli – nonché pasticciacci e ‘pentimenti’ con patchwork anche editoriali – nelle occasioni delle numerose missive ed epistole che attraverso i decenni possono finalmente raggiungere (oltre ai destinatari) anche noi. E acclamare il fausto recupero dell’inopinato Palazzo degli ori. E festeggiare l’arrivo dei primi benemeriti volumi delle Opere Complete garzantiane curate dall’Isella nei meritori «Libri della Spiga». Caratteristica via meneghina ove d’altronde in quegli anni lontani passavo sovente, abitando nel pianterreno del palazzetto Bompiani-Bregoli, al 6 di San Primo, presso il semaforo tra Senato e Sant’Andrea, allora tutto un vicinato di piccole cartolerie ove si compravano ‘risme’ e buste, piccole salumerie dove i commessi al banco e la padrona alla cassa ripetevano «un etto di crudo, uno e mezzo di fontina», con litanie simili alla popolarissima Felicita Colombo con Dina Galli. Mentre girato l’angolo, sul Corso Venezia o in un cortile di Montenapoleone, si trovavano incisioni e litografie ancora neglette delle avanguardie più storiche: Klinger, Klimt, Rops, Fantin-Latour...

 

 

Gadda non era uno «scrittore di lettere», né di un journal, e avrebbe forse scosso il gran capo, vistosamente bofonchiando, sopra un’industria filologica della sua posta, indirizzata a Tecchi, Betti, Contini, agli amici milanesi, a una gentile signora, all’Ammonia Casale, e (enfin) ai suoi piccoli fans. Magari (certo), battendosi sonoramente la fronte con l’atteso gesto apologetico. Un’autodifesa in forma di rinvio e rammarico: la si riscontra quasi in ogni foglio. Ma per i devoti dell’Ingegnere quei convenevoli impazienti celano fra le righe vere e pure chicche di gaddismo sopraffino.

«Il mio lavoro di ingegnere non mi permette per ora che di secernere dei frammenti, veri barlumi di uno spirito occupato a studiare “un impianto di rubinetti per riempire le bombole di ammoniaca dell’asfissiante gas”». «I tempi inchinano a severità e credo che certe ruvidezze possano riuscire indigeste alla censura politicocattolico-francescolitico-domenicana. Mi farò barnabita e concorrerò a una cattedra presso l’“Università Cattolica del Sacro Cuore”, dove insegnerò che Kant è un confusionario». «Certo il mio metodo è diverso, perché io sono del parere di accogliere anche l’espressione impura (ma non meno vivida) della marmaglia, dei tecnici, dei ragionieri, dei notaî, dei redattori di réclames, dei compilatori di bollettini di borsa, ecc., dei militari oltre che quello che il cervello suggerisce bizzarramente per le sue nascoste vie. Altrimenti che cosa se ne fa di tutta la vita?». «Io sono un bastardo di celtico sangue, germanico, spagnolesco e ungherese. Puoi immaginare che zuppa». «A Milano non ho più nulla, quanto alla materia. Quanto allo spirito, vi ho lasciato tutto quello che è incancellabile dalla vita di un uomo: dolori, sofferenze, lavoro, povertà, umiliazioni di ogni genere». «Però mi tirano da tutte le parti perché faccia l’ingegnere. Se potessi isolarmi sarebbe meglio».

 

Le lettere a Betti sono più frequenti e confidenziali e prolisse, quelle a Tecchi più numerose e più secche: più abbandonate le prime, più sbrigative le altre. (Forse per la diversa datazione? le prime sono del dopoguerra immediato... Forse per la diversa indole dei destinatari, Tecchi più burbero?). Ma l’ingegnere che ne emerge è innanzitutto un sorprendente Ingegner Freelance, che balza da un ‘job’ a un altro con una straordinaria disponibilità ad entrare e uscire nelle più diverse incombenze, contro lo sfondo di una crisi economica italiana e mondiale sempre più protratta, chiusa, senza speranze.

La facilità nel prendere e lasciare i lavori ingegnereschi pare notevolissima, sempre mantenendo costanti le aspirazioni della vocazione letteraria, e tenendo presenti la possibilità di impieghi culturali e letterari fra i più disparati. Veniamo a conoscenza di complesse strategie fiorentine verso la fine degli anni Venti per entrare come bibliotecario al Gabinetto Vieusseux; e siamo informati come per caso di pratiche svolte per diventare insegnante d’italiano all’estero, oppure che a Gadda era stato offerto nel ’31 il posto di revisore generale dei Gialli Mondadori, 24 volumi all’anno. «Ingegner Fantasia», o «nostalgie de la boue» di un attempato e ventruto commendatore ‘prosciuttofilo’ fra garzonacci ‘de vita’ e megere malavitose da cronachetta nera sul «Messaggero»?... Altro che elzeviri e prose d’arte, fra Bonsanti e Carocci e Piero Santi, e la terza pagina dell’«Ambrosiano» propiziata dagli amici e congiunti di Bagutta, o magari fra le «macchine celibe» di Duchamps e la «tassa sui celibi» del Duce...

 

... Si indirizza talvolta «inavvertitamente» anche magari a noi, Ingegnere?

«Io, ingegner fantasia, con penisole e promontorî nelle lettere, scienze, arti, varietà, con tumori politici ed annichilimenti dopo i pasti, mi occupo ora dell’assestamento di alcune centrali elettriche e ho a che fare con rampini, tubetti, valvoline, pezzetti di maiolica, ferretti, filuzzi, vetrini, scatolette, barili d’olio ultra bisunto, ecc.».

Ma accanto ai lavori tecnici precari tutta una attività indefessa ‘ancillare’ della Letteratura, che oggi diremmo ‘promozionale’, e incessantemente discussa soprattutto con Tecchi, più ‘introdotto’: come e con chi pubblicare? dove e da chi cercar di farsi recensire? quando e per chi esercitare un do ut des recensorio, quando ci si trova ancora estranei ai giornali, alle riviste, agli editori, alla società letteraria?

Ecco allora qui un tramestio o va-e-vieni tormentato dalla «inettitudine» (e dalla incapacità di «ubi consistam») tra i Titta Rosa, Ferrieri, Manacorda, Cian, Vian, Gromo, Rusca, Pavolini, Ghilardini, Gorgerino, il ricco cugino Piero Gadda Conti, e la suprema «Solaria» sempre riverita e sempre in difficoltà là nella piccola desiderata Atene tra l’Antico Fattore e le Giubbe Rosse; e accanto alla sensazione penosa del ‘non farcela’, o ‘non farcela più’ esistenziale in età ancor meno che matura, quella costante programmazione che diventa rinvio (voglio leggere, desidero acquistare, intendo spedire) come ‘forma fissa’ che non dimentica mai, però, l’offerta di rimborso delle spese postali, e gli omaggi alla Signora.

Quasi svevianamente: «Carissimo, vivo nelle nuvole! Sono andato 3 giorni fa alla Perseveranza e aveva difatti cessato la pubblicazione da più settimane». «Repugnandomi l’accattonaggio presso il Convegno, ne derivò ancora un indugio al ritirare il manoscritto. E una volta ancora mi sono confessato la mia inettitudine: non so conquistare la gente». O montalianamente, piuttosto: «Comincia una nuova vita, arida e baraondesca più della passata, e tale da offendere anche chi ha maniche abbastanza larghe».

Ma le opere tecniche incombono e ritornano, brontolando. «“La sera, tardi, esco stanco dall’ufficio, dopo aver messo a posto un numero inverosimile di tubi che fanno dei garbugli inimmaginabili”. Ecco l’ultimo bollettino della mia vita priva di senso». «Adesso devo progettare dei pentoloni per fare il solfato ammonico, che è una sorta di letame, ma dall’aspetto pulito del sale: questi pentoloni pesano più di un elefante, perché sono di piombo; e devono andare in Russia. Io non so come fare perché temo che me li sconquassino sul più bello». «Mi passano nel cervello p.e. le seguenti quistioni: (lavoro d’un giorno): alla Fabbrica di fiammiferi alle 7 per il collocamento di 3 ascensori a corrente alternata in sostituzione di 3 a continua; pregare il direttore che mi prepari i dati sul consumo di petrolio per stabilire il prezzo di costo dell’energia da noi prodotta e fare il calcolo di convenienza circa la fornitura esterna; dire al chimico che mandi alla fabbrica di carta una damigiana vuota e ben risciacquata perché possa ritornare piena d’acqua da analizzare, per poter rispondere a una casa tedesca se un certo disincrostante va bene sì o no; il chimico ha litigato col direttore della carta: difficoltà diplomatiche; vedere se tre vecchie pulegge vanno bene per mandarle nel Chaco e risparmiare un acquisto; 1 va bene, 2 no. Prendere il treno delle 8.42 per la cartiera, che sta a Bernal: ansia di arrivare in tempo. Ci arrivo»... «Devo arricchire, devo studiare, devo scrivere, devo aiutare al mio paese, devo costruire i gabinetti per le donne della Cartiera, ma lontani da quelli per uomini, perché i “muchachos” si dilettano di sconvenienti esibizioni».

 

Ecco però alfine il gran tema gaddiano del dolore di vivere senza alcuna «douceur» (ove eppure si ‘crogiolavano’, nell’immobilità dei tempi, i suoi contemporanei Palazzeschi, Comisso, De Pisis...). E ‘trapunge’ questi epistolari tutti interi collegandosi con tanti fili alle opere maggiori. Ecco la sindrome del reduce perenne ferito dalle sofferenze nel Lager e incapace di ‘adattarsi’, preso da scoramento e malessere come scorgendo negli altri un ‘malvolere’ che genera ipocondria e insofferenza. E una sintomatologia dello scapolo: per anni e anni, «... sarebbe almeno il pane, un po’ di tranquillità, la lontananza dalla cosiddetta “famiglia”, cioè dall’inferno». Ma più in là, «la morte di mia madre mi ha completamente stroncato». (Successe poi anche a Barthes, e ad altri: il decesso di un ‘madro’ simile alle direttrici e presidi in Maddalena zero in condotta e Ore nove lezione di chimica può soffocare ogni voglia di tirare avanti, o addirittura inibire per sempre la sessualità dell’anziano scapolo).

Il maturo ing. Gadda si riscopre ‘confidenziale’, quando ritrova l’intimità forse difficile in quel remoto Lager coi solidali coetanei: l’abbiente germanista di Bagnoregio e il pretorepoeta (poi drammaturgo) di Parma. Con quella gita a Parma fantasticata e rimandata più di quella al Faro con Virginia Woolf...

«A me sembra di essere forse un po’ discosto dal nitore di “Solaria”. La mia vita tormentata e bislacca, la mia piatta attività di ingegnere, molte amarezze, ecc., hanno finito per rendermi rozzo, trivialuccio, bisbetico. D’altronde io posso scrivere solo quello che penso e che mi viene». «Vorrei appunto imbarcarmi in questo genere di critica strafottente e pacchiana, denunciare piuttosto le manchevolezze dell’attuazione artistica che far lezioni di estetica ad ogni piè sospinto ... devo quindi evadere un po’ nella variazione e nel libellismo, sfiorare la stroncatura, limonare col buonumore». «Ho tanti pensieri nella testa! Pensieri di fare mille stupidità: e appena mi accorgo di quello che mi piacerebbe fare il voglio diventa uno stupido e impotente vorrei». «Attraverso un periodo terribile (non poso, ma soffro realmente) di lotta, di vigliaccheria, di paura, cercando una liberazione – che mi permetta di fare la mia vita. Ma, se socchiudo gli occhi per pensarci, vedo davanti a me la soffitta, le scarpe rotte, via i bottoni, il pane presso la fontana – e ciò mi fa terribilmente paura, perché i miei gusti vigliacchi sono per gli spaghetti alle vòngole, le fragole al marsala, e buone scarpe. Povero me!».

Ah, quel «limonare» adolescenziale, non lontano («fra pathos e scherno»?) da quella «fontaine» presso la quale Villon si sentiva «morir di sete» (come il ‘nostro’ guardiacaccia di Biancaneve)... Mentre in quelle corrispondenze fra gentiluomini di così antico stampo si appiattavano emozionanti brani degni di qualunque antologia della Scapigliatura, dell’Espressionismo, o anche della Poesia & Prosa del Novecento.

 

31 dicembre 1921. A Betti. «I navigatori inciamparono per nebbie nelle scogliere lontane e, per quanto tirassero corde e funicelle, a comandi disperati che il vento copriva, a fronte pallida e madida, la nave non ubbidiva più se non all’onda e alla risacca. Chi raccolse preziose farfalle e ne fece dono, morendo, al patrio museo: altri regalarono collezioni di gufi, di scarafaggi, di lucertole sotto spirito, di lucenti cristalli. Chi fu cadetto alle Indie; chi sottrasse cose ricche sui treni celeri; chi, cacciato per monti deserti come un cane lebbroso, fu raggiunto dal moschetto di alti carabinieri: e finalmente poté riposarsi. Chi si coniugò con danarose; chi bevve orina in Africa; chi dipinse corride di tori; chi cospirò per liberare gli oppressi, tutti gli oppressi, ma ahimè! non riuscì a liberarne che tre o quattro. Chi imbrogliò i creditori; chi fu duro ed altezzoso coi vinti; chi falso ed astuto coi vincitori; chi bastonò lungamente la moglie; chi dedicò tutta la vita al progresso della democrazia; chi, sobillato da neri gesuiti, lasciò negli eredi un pessimo ricordo di sé. – Chi fu inventore di brevetti; chi ponderò le cose profonde e ne derivò sistemi filosofici, che impressero il loro segno alla vita per quattro o cinque anni. Chi fece bagni di mare; chi fu operato da illustri chirurghi; chi durò quindici anni in lite per una causa di confino; chi trenta e più; chi, datosi ai liquori, si calcinò precocemente le più importanti arterie; chi fu musico delle alate speranze, dei fuggevoli sogni; chi fu colto in un sottoscala a commettere scorrettezze; chi scrisse giambi contro i tiranni, che non li lessero; chi commerciò in salumi, pur dilettandosi di telefonia; chi, mentre accompagnava la suocera a casa, il lunedì di Pasqua, rovinò con lei e con la vettura nel sottostante burrone; chi sparì “nel mare profondo”». (Lettore Amico – se non proprio «semblable et frère», non sbrachiamo troppo – non ti sembra che tali campane risuonino con qualche ‘frissoncino’ anche per Te? Lo si sarebbe detto in inglese, citando il Decano Donne, nella profonda e incorrotta gioventù).

«Emilio Zola discende nella miniera, a poter scrivere più veridico il romanzo naturale de’ minatori. E un altro e minimissimo Zoluzzo di Lombardia s’è voluto inabissare fra tenebre liburniche o plioceniche, nei pozzi dell’Arsa o di sotto Spoleto, a raccattarvi una briciola della sua verità propria, un “capitolo” della sua civile speranza».

Nel saggio-garbuglio «Tecnica e poesia», il Gadda va aggrovigliando Efesto e il Ballo Excelsior ed Essen e Newcastle-on-Tyne e «l’arzanà de’ Vinigiani» dantesca e il Molino delle Armi milanese e il Pignone fiorentino, e i compressori e gasometri nel novembre-pantano belga di Jemappes: una landa reminiscente di epiche e fangose battaglie («À l’Ouest rien de nouveau»...), ora selva di tubature e alternatori, e sfiati, spurghi, ciminiere... Così, «i miei quaderni di studio per un “romanzo sul lavoro italiano” 1922-1924, son pieni di improvvisi, note di getto, di strappo, tutte trafugate dall’opera, dal cantiere, specie dagli impianti e dai lavori idroelettrici di montagna: venute al mio quaderno senza speranza tra il sudore degli anni e degli uomini poveri, operosi».

 

Dietro le dolorose arguzie fra la Tradizione Letteraria e i Plurilinguismi Sperimentali, lungamente i primi o ultimi ‘nipotini’ dell’Ingegnere avvertirono il fascino così Novecento di quei necessari e anomali ricettacoli: remoti e rimossi articoli su «Azoto atmosferico trasformato in pane», «Automobili e automotrici azionate ad ammoniaca», «I metalli leggeri nel futuro prossimo», «I grandiosi impianti tecnici in Vaticano», «Le funivie Savona-San Giuseppe di Cairo e la loro funzione autarchica nell’economia nazionale», «La donna si prepara ai suoi compiti coloniali»... Grandiosi incoraggiamenti alla ‘irregolarità’ extra-letteraria: studiare e frequentare, piuttosto, i trattati internazionali, i colpi di stato, la biologia, la genetica, il Bel Canto, la Neue Sachlichkeit, l’Old Vic, il Crédit Suisse...

 

Così, ancora una volta per le cure di Isella, l’elegante Carteggio dell’ing. Carlo Emilio Gadda con l’«Ammonia Casale S.A.» fornisce ghiotti materiali alle spalle dei ‘pezzi’ termoelettrici e calciocianamidici nell’«Ambrosiano» e nella «Gazzetta del Popolo». È un incanto sorprenderlo a discutere di spurghi, bypass, perette, sciaguatti, raschini, coccherie, e contabilità puntigliose fra esplosioni colossali: «L’officina di sintesi di Anzin è totalmente inservibile. La sala sintesi si presenta come un ammasso di rottami, travi divelte e contorte, tubi contorti e spezzati ... I refrigeranti sono gravemente lesi e come piegati in due, salvo il 3°. – I pilastri della sala si sono come leggermente aperti, il tetto è sparito, le pareti di cloison sono senza vetrate e fortemente “bombées” verso l’esterno ... L’aspetto del disastro è terrificante e soltanto il pensiero che non vi furono vittime riesce a mitigare l’impressione che se ne riceve». Siamo a Dix, Grosz, Kirchner, Schiele, e (in Belgio) a Enson...

E intanto, i preavvisi per gli ossequi, le scuse per avere incomodato, la compagnia dell’ing. Santagostino, le istruzioni dell’ing. Alimento.

(Cose da Funi, Sironi, Marini, Gio Ponti...). Infine, dimissioni estremamente signorili. E un’aurea serqua di telegrammi angosciati urgenti per recuperare a Milano un passaporto dimenticato in un cassetto chiuso a chiave «presso Borelli» a Roma. «Inviate per espresso treno più rapido tranquillatemi». «Rossi conosce padrona stop». «Ho io la chiave. Prego farlo aprire da un fabbro o tentar di aprirlo: non sarà difficile, essendo la serratura piccola. Nel cassetto cercate dovunque – ma piuttosto a destra – sotto o dentro una scatola in cartone bianco da dolci. È urgente me lo inviate per espresso a Milano – Via S. Simpliciano 2. (c’è anche la Piazza per disgrazia)».

Mirabile coincidenza con Franca Valeri. «Puoi stare un giorno senza servotta, vero? Al mare la vita è così semplice. E mandami pure la tua giacca di visone biondo che è già nel mio armadio da quando me la prestasti l’anno scorso, soltanto che dovrai chiamare il fabbro perché la chiave del mio armadio è... qui!». (Le donne, Longanesi 1961).

Inaspettato e folgorante, Il palazzo degli ori si presenta come ‘soggetto’ (o piuttosto, già ‘trattamento’) cinematografico del Pasticciaccio, in bell’italiano. E come quasi tutte le opere dell’Ingegnere – specialmente quelle aggrovigliate su thriller & killer ‘giallo-noir’ – ha una sua vicenda abbastanza ‘mystery’.

Probabilmente fu scritto, secondo A. Bonsanti e G. Zampa, verso il 1946 o ’47, in una pensione al Fiumetto: cioè nel territorio dei ‘Ronchi’ longhiani, e del «quarto platano» al Caffè Roma del Forte dei Marmi, che per anni e decenni funzionò come autorevole redazione estiva di «Paragone», con vari lasciti delle Giubbe Rosse, illustri vegliardi in ‘baschetti’ provenzali o ‘nenniani’ o pescatori come Carrà e Pea e De Robertis, e soprattutto villeggianti parmigiani come Bianchi e Bertolucci, attivissimi a Milano nei tramiti e contatti e prebende con Garzanti, «L’Illustrazione italiana», «Settimo giorno», «Il Giorno».

Venne giustamente, e forse presto (prima del Pasticciaccio?) inviato dall’Ingegnere alla Lux Film: fondata dal ricco e poi ex-ricco industriale-mecenate torinese Gualino (Snia Viscosa, Rumianca, architetture e collezioni e teatrini con L. Venturi e V. Gui e F. Casorati e C. Levi e altri ‘Sei’ molto piemontesi: avanguardie musicali e artistiche con un ‘touch’ di pre-antifascismo locale e iniziative più significative di Agnelli o Einaudi in seguito). Era governata dal potente musicologo Guido M. Gatti, consigliata da Emilio Cecchi, produttrice di successi ‘intellettuali’ e ‘calligrafici’ ma altresì ‘da botteghino’, come La corona di ferro di Blasetti, I promessi sposi di Camerini, Malombra di Soldati, Un colpo di pistola e La donna della montagna di Castellani, Quelli della montagna di Vergano...

Poi, di mano in mano e di carte in carte (profittevolmente, si spera) s’arriva all’edizione Einaudi nel 1983, curata da Alba Andreini.

Sorpresa! Questa scrittura eccelsa e disinvolta, senza assilli dialettali e con disvelamento finale, con una struttura a lampi fittamente e tecnicamente intrecciati e scrupolosi, ne fanno insieme il capolavoro di un «grande scrittore assente» nelle genealogie del nostro Novecento, uno sconcertante coevo nostrano di Fritz Lang, Renoir, Duvivier (e di chi altri?), nonché un vertiginoso anticipatore della cinematografia onirica di tanti De Palma, Coppola, Cimino, Scorsese.

Come ‘récit’, è una meraviglia, da leggersi completamente avulso dal Pasticciaccio. Anche più «un fulmine»? La trama pare la medesima, benché spostata dall’inchiesta rustica del Commissario primevo piuttosto sugli ‘interni’ torbidi e languidi delle ‘sciorette’ depredate e assassinate in via Merulana. (Come nella Brianza profonda e senza Commissari, signora mia e mamma mia). Però il manzonismo ossessivo delle ‘divagazioni’ pluridialettali pare qui un involucro sfiancato e tralasciato, come i grumi e groppi che si aggrovigliavano in quegli anni fra Julien Green e François Mauriac. Un’intelligenza voyeuristica abbacinante fende e percorre meticolosa e perversa i misteri golosi e grassocci e cattolici dei casamenti e cassetti umbertini già smandrappati «entre deux guerres», gli anfratti sempre più lutulenti e fetenti di una campagna romana criminosa e famelica (altro che le ville non ancora devastate dei Castelli, o le dune canottiere e razionaliste di Sabaudia: Il cielo sulla palude d’Augusto Genina, piuttosto...). E i confronti con omertà e renitenze sui ‘panni sporchi’ negli interrogatori afosi in questure puzzolenti... E l’avvenenza con magnaccerie belluine dell’antica stirpe e povertà italica fra monumenti non restaurati e magnifici, frananti; e la fissazione sui soldi che passano di mano in mano per moventi sempre più laidi e turpi (dove finiscono gli ‘ori’? in un orinale...). E l’orrore visivo, l’orrore tattile, l’orrore estetico, l’orrore chiamato più volte «orgasmo» – anche se (come nella Cognizione) ci si arresta sull’orlo dell’orrore abbagliante, definitivo.

E invece no. Con Garzanti, si potrà anche traccheggiare. Ma i pubblici paganti comprano ancora il biglietto per opere assolutamente chiusissime. «E mò?». Figure di Maccari tra edifici di Mafai?... O un iper-pre-Pasolini che scaglia Petrolini e Rossellini e Fabrizi fra l’inevitabile Hitchcock e un sopraggiunto Grosz e i prossimi Grass... «La personalità si dissocia nel dolore»... «Il senso tragico della povertà e della notte incombente, della vita all’adiaccio, deve prendere lo spettatore del film»... «Segue separazione e scena di addio con leggera enfasi romantico-eroica, alla maniera dei poveri, per cui certe volte il reato è atto di santa ribellione ecc., e i carabinieri alle calcagna sono persecuzione del destino, ecc.»... «Telegrammi alle questure di Milano, Padova, Bologna. Dissolvenze-lampo con monumenti o piazze caratteristiche delle tre città Milano, Padova, Bologna, e con altrettanti questori che ricevono altrettanti telegrammi»... «La Lulù, allettata da un buon piattino, lecca: avambracci e mani d’un ignoto a maniche rimboccate, con cappio: le paurose mani afferrano la bestiola e la strozzano o la annegano. Scena rapidissima, inattesa e crudele: crudeltà? vendetta? invidia? persecuzione da parte di ragazzi morsicati?»...

Wedekind? Peter Lorre? Sydney Greenstreet? Michel Simon? Simone Simon? La bête humaine ?... «Il cadavere di Liliana Balducci è disteso a terra non lungi dal letto: occhî aperti, stanchi, ma terrorizzati, bloccati a un punto: volto pallido, emunto per dissanguamento. Gola recisa da un orribile taglio, pozza di sangue sul tappeto. La gonna e la sottogonna rovesciata all’indietro fino ai seni scoprono mutandine, cosce, calze, giarrettiere. Nasce (per un attimo) in Ingravallo, negli astanti, negli spettatori del film, l’idea che l’uccisore abbia tentato di usar violenza alla vittima: che l’uccisione sia l’efferato epilogo del di lei mancato consenso all’amore. La disperata repulsa di Liliana ha indotto l’aggressore a sopprimerla: per un bestiale istinto di vendetta, di sete insoddisfatta, o per non essere da lei denunciato al marito, alla polizia, ai vicini. Tale significazione è importantissima, e regge il “sospeso” dell’interesse. Orrore-dolore-sdegno-sudor freddo del commissario Ingravallo, la cui anima gestisce il procedimento conoscitivo, regge l’urto drammatico, opera la graduale “scoperta” di ciò che si nasconde». (Confrontare con le due pagine e mezza corrispondenti nel Pasticciaccio: che tema fantastico per esercitazioni! Soprattutto per chi amò «Una mattinata ai macelli» più che «Lettrice stupenda, saprai divinare qual è il timbro dell’illuso e del devoto, e quanta dolcezza e forza lo abbiano guidato all’opera del raro premio? Tàciti anni fuggono, catalogati dagli Almanacchi») ...

E un altro tema, sopraffino e succulente: quanto autoritratto, involontario o ammiccante, vi è nel delizioso profilo del comm. Angeloni? («... imbarazzato e timido: egli è un ghiottone, un passeggiatore solitario, innamorato della città e delle sue scenografie ed architetture». «Eventuale dissolvenza-lampo con sue soste davanti a vetrine di salumai: suoi rientri a casa con delicati pacchettini»). E quanto Carlo Dossi vi si è infiltrato? («Amore gentilizio dei milanesi pei salumai. Correnti quando cammina a piedi per Roma, si ferma non di rado dinanzi alle vetrine dei salsamentari a farci delle meditazioni gastronomiche. Un giorno passeggiava, ozieggiando, con Maraini e tratto tratto si arrestavano alle sopradette vetrine. Dinanzi ad una delle quali videro, profondamente assorto, un omaccione. Scommetto che è un milanese – esclamò Correnti. Era infatti – ed era l’avv.to Mosca»; Note azzurre, 4958).

... Patetiche testimonianze rammentano che anche Mario Praz visitava gli antiquari dei bronzetti col suo pacchettino di verdure cotte acquistate in friggitoria e messe in tasca al vecchio cappotto talmente malandato che una sera accompagnandolo a casa non si trovavano più le chiavi, scivolate da un buco fino in fondo alla fodera...

Nel finale, il sospetto sulla domestica equivoca che chiude il Pasticciaccio si spalanca come in un ossessivo ‘noir’ di Siodmak o Dassin (e Il falcone maltese, con le sue ambiguità sessuali neanche sottotraccia); e la «Soluzione del giallo. Catarsi» viene svolta come una gran scena operistica. Si usava: anche alla fine del Senso visconteo l’uffizialetto austriaco, per spiegare quanto è cattivo alla sua amante italiana (che forse è un conte lombardo-veneto) s’abbandona a un monologo che pare lungo il triplo del «Credo» malvagio dello Iago verdiano. E si rimane col desiderio pungente di un analogo ‘trattamento’ della Cognizione, con Soluzione e Catarsi e Raptus ‘d’Autore’... Ed eventuali scorci e squarci in ‘campi’ lunghi e lunghissimi, verso le ville Casati Stampa, Cavazzi della Somaglia, Sommi Picenardi, Borromeo d’Adda... Benché usi con appassionata vaghezza termini tecnici quali «carrellata surreale» e «dissolvenza chiarificatrice», «taglio secco» prima della gola tagliata, metafore per significare «zoom», ricorrenze di primi piani su oggetti significativi, il treno come simbolo di emozioni obbligate... E benché si sia servito del popolare manuale Come si scrive un film edito da Bompiani nell’anteguerra (l’avevano tutti gli studenti dei cineclub), l’impressionante cineasta del Palazzo degli ori può sembrare contemporaneo non di Lang o Huston ma dei loro nipoti.

Così, tornando a quella moviola dell’Istituto Luce, e ai dialoghi fra i nonni della Bella di Lodi – «I biglietti da mille nuovi, me li avete messi da parte per le mance?», «Nuovi o vecchi, sta sicuro che li prendono lo stesso, e poi non ti dicono neanche grazie», «Non importerà agli altri, importa a me» – ecco qui a pag. 87 del ‘soggetto’: «... Liliana Balducci aveva voluto dieci bei biglietti nuovi appena arrivati dalla Banca d’Italia: perché, aveva detto, le servivano per un regalo di nozze in denaro: a un cugino che si sposava». Insomma, anche qui l’Ingegnere avrebbe potuto dirci, come Totò ai ritardatari: «bene arrivati, eravamo in ansia...».

Ma che pesci potrebbe mai prendere o perdere, il disgraziato figlio di una «santa e sadica megera», «avara e inconsulta» (le peggio), che approfittando del suo carattere celibe e afflitto e affranto da ex-baby prossimo vieux garçon lo tormenta col ricatto inibitore e castratore della puzza di pipì vecchia e della bava della carie fetida, sotto il ritratto di qualche caro estinto probabilmente «poer nano»?

Portare in casa della megera una nuora ancora più arpia, una Tordella ghiandolare e umorale, una Petronilla grottesca e barocca, che le correrà dietro col mattarello e i battipanni fin nel cesso come nel nostro caro «Corriere dei Piccoli»?

Sempre in ottonari molto rimati e vidimati «per i nostri bravi ragazzi», improvvisare una recita natalizia o pasquale in tinello, presentandosi come «Piccolo alpino» di Salvator Gotta con le divise di casa, o con una semplice parrucca bionda e un economico cappello a cono di stagnola stellata ‘Motta’; e il refrain «Io sono Chiomadoro – la Regina delle Fate, – spirito son dei boschi – la mia voce ascoltate!».

Socrate sposò Santippe; e della sua mamma non si parlò più. Tirati per i capelli, Oreste e Amleto sistemarono le loro in catarsi proverbiali, che hanno avuto successo.

Più miti, i poveri piccoli scolaretti del secolo scorso venivano allevati con «tua madre» che nel deamicisiano Cuore, in combutta con «tuo padre» nottetempo infiltrava prose e brani sul giorno dei Morti e sul conte di Cavour o il Cottolengo tra gli effetti personali del figliuoletto. Sicché quando per una ‘maturità’ si riceveva un cassetto con chiave per le carte private o segrete, i sospettosi piccini si affrettavano a riempirlo di parolacce e insulti, riscontrando poi dai musi lunghi che la privacy veniva profanata con doppie chiavi. Mamma Proust invitava piuttosto a briosi paragoni con le ‘Jewish Mommas’ che mettono i piccoli prodigi al violino o al piano a due o tre anni in Russia, o trionfano come caratteri grotteschi di repertorio fra Brooklyn e Broadway.

Dopo morta, però, quanti sputi del petit Marcel & Friends sulla foto, secondo i biografi: sinestesie di voluttà. Mamma Brando, narra Marlon in Songs My Mother Taught Me, insegnava al piccolo canti in odio al padre. E i piccoli Truman o Tennessee?

André Gide rispose a tutte le epistole di una madre grafomane, invadente e lamentosa, più scocciatrice e jettatrice di Bernarda Alba. E il malocchio familiare che ne ricavò è una ‘object lesson’ che dimostra come avrebbe fatto meglio a ribattere una volta per tutte con la bella frase di Shakespeare, «ma va’ in convento!» detta con gli accenti di Alberto Sordi. (Il resto è silenzio, o lo diventa presto).

Nell’«inferno» di una «cosiddetta famiglia» abbastanza analoga, Carlo Emilio Gadda visse il flagello mammistico ‘ebefrenicamente’, come se la Brianza fosse Elsinore o Micene, Strindberg, O’Neill, o una Filumena Marturano – Part Two. La grandezza inconfessabile della Cognizione del dolore deriva anche dagli atroci fantasmi attraversati fra baggianate e imbecillaggini prima di giungere alla non-soluzione del matricidio finale: tappe di sofferenza filiale che parafrasano o prefigurano grandi momenti antropologici e ideologici nella storia delle avanguardie culturali o dei repêchages classici, psicologici, patologici, etnici.

Il bimbo indifeso, attossicato da egoismi o bovarismi materni, infatti, avrà dapprima la tentazione di munirsi di forbici, aprire l’armadio dell’atroce scocciatrice, e con dei bei tagli trasformare gli abiti cui tiene di più in altrettanti Lucio Fontana (che equivalgono ad «avvertimenti della mafia», soprattutto in località dove la Vigilanza Notturna è douteuse. Altro che le celeberrime toilettes delle Sorelle Fontana o Capucci per i migliori matrimoni del secolo, proprio negli anni Cinquanta).

Cresciuto, vagheggerà sovente il tirar giù la tovaglia della povera zia con ambo le mani, e così anticipare sul pavimento, con i servizi della povera nonna e la formaggiera di riguardo, gli happenings e le composizioni del New Dada e del Nouveau Réalisme, ove Rauschenberg e Spoerri già aleggiano, caldeggiati da Pierre Restany, e pregiati in franchi svizzeri.

Avendo praticato la Grande Guerra, non gli sarà unfamiliar il modello del «gavetton», colmo di sostanze innominabili sulla porta della stanza da letto della persona insopportabile. Può dare adito a prose d’arte e costume in punta di penna – lievemente maccheronizzanti e onomatopeiche – circa Mammismi & (o e/o, o versus) Nonnismi.

Avendo percorso un dopoguerra o due, sarà ampiamente predisposto da una vasta pubblicistica lo schema del ritorno a casa del reduce alticcio sfondando la porta a calci e cantando «Bandiera rossa, la trionferà!» per tutta la notte con le finestre spalancate, e fragor di fischi e di fiaschi. Balocchi e profumi, comunque, rispetto alle possibilità proposte dagli ormai familiari Grosz e Dix, o dagli intriganti recuperi Art Déco e post-Weimar del Come tu mi vuoi pirandelliano, con applausi salottieri ad ogni «povera pazza» che fa un’entrée da Marchesa Casati eseguendo il ‘numero’ di «Cia tornerà a danzare a Berlino». E tanti reduci smemorati neanche imbarazzanti da gestire, poiché ai «prigionieri del passato» l’amnesia va e viene. Soprattutto al cinema, con orgasmi delle sciorette e incassi per la MGM, e la notazione di James Agee per cui dopo due ore di amnesie postbelliche piene di «remember, remember» si può solo far breakfast con un tazzone di schiuma da barba.

Però, anche l’accortezza operistica della Sacra Bibbia, col «Mane, Thekel, Phares» sulle pareti del Baldassarre, fra una Salome e una Dalila porcellone può volentieri proporre un devastante avant-goût dei graffitisti del Bronx che riempiono di «Fuck!» la metropolitana. E in un salotto della «mela stregata», nella «Brianza magica», con un rossetto grasso da tabaccaio, basterebbe «Sento l’orma dei passi spietati», o anche «Pippo non lo sa», oltre agli infallibili «Maramao perché sei morto» e «Il vecchio Silva stendere»?

Ove invece si profilasse – come infausta ipotesi – l’aggiornata Mamma dello Scapolone (detta anche «il Madro» nelle compagnie di giro, e come se ne sono viste parecchie nel Novecento italiano letterario e teatrale e musicale e politico e giornalistico e artistico: «devi accompagnarmi dalla sarta, devi dirmi che modello scegliere, devi chiedere di farci lo sconto, voglio conoscere i tuoi amici, voglio esserci stasera alla cena dopo la prima»), allora la risposta può essere una sola: le puttane in casa. Secondo Palazzeschi, fanno morire. Invece, per Sandro Penna, celebrato da Gadda con una «Allocuzione allo spumante» quale vincitore con Margherita Guidacci del premio di poesia «Le Grazie» (1948), ne La tomba del padre, «Un ragazzo si stacca dalla mamma – e piscia verso il coro dei soldati».

Gadda, scrittore a suo modo antico (l’ultimo, forse, a rammentare il brutto passato spagnolo di Milano, e a gemere sotto un ‘Madro’ non ancora in preda ai progressismi del Moderno), lasciò incompiuto e irrisolto il pasticciaccio della Cognizione, sulle soglie inorridite e ambigue del matricidio non ancora ammissibile. Per arrivare in fondo, ci sarebbe voluto l’Hitchcock di Psycho: e il «figlio della Signora», avendo trasformato la villetta di Longone in Motel Gonzalo, e rivestito i panni puzzolenti della vecchiaccia, avrebbe magari assassinato con «diciassette coltellate al basso inguine» anche le altre vecchiacce che si intrufolavano dal giardinetto senza passare per il cancelletto, accattando regalini ben più miseri che dalla povera Balducci, e senza mai farsi, nella vita, un bidet. Venendo, così, anche incontro alle pulsioni desideranti di Carlo Dossi nella Desinenza in A.

Ecco però qui tutto il Genius Loci della Lombardia fantasmatica nella Cognizione e nei «disegni milanesi» dell’Adalgisa, di cui un gran disegnatore come Saul Steinberg diceva: nessun artista del Novecento ha saputo dipingere come Gadda gli interni borghesi, con gli strumenti della propria arte. E nei primi titoli illustri (La Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine ...), il reduce attonito e furibondo, spiazzato e ferito dalla Grande Guerra e dal dopoguerra, non meno che dalla famigliaccia e dalla sciagurata Brianza, nella Milano post-post-scapigliata e rigettata e tutt’al più ‘baguttiana’ o ‘bacchelliana’, va tentando uno pseudo-giornalismo ‘giallo’ di «brutale deformazione dei temi» –

«appetirò cose non lecite; altre sognerò non possibili» – sfrenando la «sozza dipintura» in somma sperimentazione linguistica, stilistica, violenta ed angry. (Forse per questo certi suoi contemporanei lo paragonavano a Céline, o non sarà stato Cellini, oltre che a Folengo e a Rabelais. Tra Vellani-Marchi e Novello, e magari Oppi e Bucci a Burano, e a Bagutta, però, non fra Grosz e Dix).

Ma proprio Steinberg, nei parties a Roma e a New York, mi chiedeva sempre di mandargli ogni novità postuma di Gadda, meglio se molto milanese, giacché per lui, giovanotto fra le piscinine ambrosiane, «quello era stato il primo linguaggio dell’amore». E ringraziava con cartoline dall’alto Verbano, «avendo finalmente mangiato il musso». Anzi, proprio uscendo da un ricevimento a New York, ci siamo tanto fermati a parlar di Gadda, sul pianerottolo, che quando è arrivato l’ascensore Jackie Kennedy ha detto «noi intanto scendiamo», e l’ha preso col mio amico Stefano. Un attimo dopo, i suoi escorts trafelati: «Dov’è?». E Steinberg, serafico: «È andata via con un italiano». Storia che forse avrebbe divertito l’Ingegnere, a tavola.