GENIUS LOCI

Carlo Emilio Gadda aveva già più di sessant’anni, scriveva da più di trenta, e non aveva ancora pubblicato in volume il Pasticciaccio, ormai praticamente dimenticato o ignorato, forse, quando i ventenni degli anni Cinquanta scoprirono la sua posizione ‘centrale’ nella nostra letteratura contemporanea. E sull’entusiasmo per la stupenda Adalgisa, per le mirabili Novelle dal Ducato in fiamme, lo dichiararono massimo autore italiano del mezzo secolo, con immenso dispetto di tutti gli altri.

Già. I letterati del Trenta e del Quaranta persistevano nel considerarlo un outsider, un «eccentrico ... arrivato tardi alla letteratura», un «umorista» molto «faticoso» e «cincischiato»: come se il caso Svevo non insegnasse mai nulla. Taluni raffinati gourmets (Contini, Devoto) assaporavano con delizia la sua prosa furente e squisita: ma privatamente, nelle più ritrose trappe o oubliettes dell’iniziazione stilistica. Tuttavia, per decenni, il grande Ingegnere apparve costantemente confuso ‘alla pari’ fra decine di nomi irrilevanti o lamentevoli, nei tristi famosi repertori d’articoli critici della generazione anziana che ravvisava i più veri e raccomandati sviluppi della patria letteratura non già negli scarti geniali rispetto a un’Arcadia comune, bensì nella graduale continuità della minestrina collettiva. «Ironia oziosa», «Scherzo a vuoto», «Aggrovigliata tessitura», «Prose ricche, troppo ricche», sentenziavano pigolando e caccolando i più celebrati Arcadi e Accademici; e poi: «Non ha leggerezza di movimenti», «Non sa fondere bene le parti», «Non vede le varie arti fondersi in un’una, le vede disgregarsi», «È un Barilli a cui manca tutto quello che è di Barilli!».

Tipicamente, negli Almanacchi Bompiani degli anni Trenta, La Madonna dei Filosofi e Il castello di Udine vengono inseriti (a cura di A. Bocelli) nelle rubriche «Ci fanno ridere» o «Due modi di far ridere», con Campanile e Zavattini. «In Gadda, l’umorismo nasce da un contrasto tra spirito ligio alle regole, esatto, e un’insofferenza di codeste regole, un bisogno di infrangerle, di evadere, di vivere liberamente, estrosamente... Un’espressione quanto mai bizzarra, mista di parole e frasi scientifiche, classiche e coniate ex tempore... Dà una buona riprova del suo singolare umorismo fatto di logica esattezza, di chiarezza scientifica, e di ribellione fra estrosa e nostalgica ad ogni razionalità e scientifismo»...

Il Tesoretto, «Almanacco dello “Specchio” 1942-XX, Mondadori, L. 25» (su cui si cresceva infanti), non lo rammenta neanche, nel suo indice dei nomi, tra Fumagalli Giuseppina, Funi Achille, Galli Luigi, Gargiulo Alfredo. In compenso («en revanche» avrebbe detto lui), Gargiulo Alfredo, recensendolo nella sua Letteratura Italiana del Novecento fra Nino Savarese, Umberto Fracchia, Ain Zara Magno, Giovanni Del Pizzo e Giuseppe Mormino, riconosce: «Non sempre egli scherza». Però, però... «Fortuna quindi che tutto si risolva in un vano gioco. In breve, i toni plausibili non abbondano. Non meraviglia che una disposizione quale è quella del Gadda, così indifferente e generica, si rifiuti a tradursi in realizzazioni d’arte sufficientemente motivate nei nessi e negli sviluppi. Quale interesse sintetico animò il Gadda, nello scrivere La Madonna dei Filosofi? Nessuno; e il racconto risulta infatti svagato e slegato in una misura appena verosimile». E quando va bene: «Un ritratto di contadino, ricorda, ma con indipendenza, lo Jahier».

Ci troviamo infatti fra critiche elaborate per «L’Italia letteraria» e la «Nuova Antologia», poi raccolte in volume da Le Monnier e talvolta dedicate alla propria cara moglie, in una Firenze di vicoli fra Rosai e Signorini e Pratolini, senza relazioni con gli Acton o Berenson o Sitwell o Trefusis in ville e castelli, coi Negroni o Martini da Doney e Giacosa e Leland’s, la letteratura internazionale alla Libreria Seeber, gli allestimenti di Casorati e Sironi e De Chirico al Maggio Musicale, gli elixir e profumi e pots-pourris di S. Maria Novella, i concerti cosmopoliti come a Salisburgo, le ‘magie’ di Max Reinhardt a Boboli... E tutti gli ermetici in fila, alle Giubbe Rosse... Né si era ancora sprofondati all’inflazione del dopoguerra, che costrinse «un Gadda!» a farsi pigionante nella pensione economica della ‘sora’ Gargiulo, nella Roma di Avanti c’è posto! e Umberto D.

Ma la trovata mirabolante sembra appartenere a De Robertis, negli Scrittori del Novecento: «Libri avventurosi, diari nudi e distaccati, paragrafi di saporitissima scrittura, rappresentazioni frescamente epiche, confessioni coraggiose e crudeli non c’erano mancati che sopravanzassero il livello mediocre delle false cronache, o della letteratura male spesa, o della rettorica eroica: bei nomi tutti, Mussolini, Soffici, Baldini, Comisso, Stuparich, Stanghellini...: ma questi cinque capitoli di Gadda?». Hic Rhodus! Su! Su! Allez hop! Qui si dà il culo, o si muore! E invece, la morale del mirabolante brano è questa: «Solo la guerra, e la mortale fatica, sanno sprigionarlo da sé; altrimenti egli non sa guardarsi dall’indulgere ai mille richiami e, così indulgendo, un poco perdersi».

 

Un poco perdersi! «La fermentante forza della guerra, la vera musa di Gadda, la salvatrice!». Eppure, in quella mesta pratica letteraria di paginette «ben scritte» e di giardinetti ordinatini, di velleità rientrate e di reverenze funzionali, di animucce belle e di candeline spente, alle Giubbe Rosse, la derisoria violenza della sua scrittura esplodeva esasperata ed esplicita, davanti alle feluche e alle pantofole, contestando insieme il linguaggio e la parodia, e le osservanze per i realismi e i crocianesimi, tra il ron-ron rondesco-neoclassico-fascistello e il pio-pio pretino-crepuscolare-ermetico, in schegge di incandescente (espressionistica, pirotecnica) espressività... Proprio come per Rabelais o Céline e Joyce che gli sarebbero poi stati accostati, «a braccio» e «a orecchio», i suoi messaggi fanno a pezzi ogni codice: spiritate e irritate, le sue invenzioni verbali dileggiano significati e significanti; devastano ogni funzione o finalità comunicativa; rappresentano innanzitutto se stesse, e i propri fantasmi, in un foisonnement inaudito e implacabile di spettacolari idioletti... Senza ‘metafore’ di tutt’altro, o stanchi ‘fils rouges’ o facili ‘flâneries’ per voi piccini...

Ma da questi spezzoni affettivamente inventariati e tesoreggiati – vocaboli dialettali e stranieri, termini scientifici e triviali, vezzi eruditi, definizioni tecniche, deformazioni macaroniche, neologismi saporitissimi, stilemi personalissimi, omofonie-calembour, grotteschi ossimori, onomatopee sgangherate, tautologie barocche e brianzole, inimitabili invettive ipocondriache... – una critica più giovane e sofisticata (Citati, Gramigna, Guglielmi...) sarebbe risalita attraverso un’appassionata analisi stilcritica ed extra-ideologica alla vertiginosa complessità dei macchinosi interessi intellettuali dell’Ingegnere: la Storia e il Positivismo, Einstein e Leibniz, Spinoza e Michelet, e le matematiche e una filologia ‘selvaggia’ e una psicanalisi ‘meccanica’ e un’oscura fenomenologia del povero Inconscio «umiliato e offeso»... E una concrezione palpitante e dolente della nostra fisiologia culturale: Parini e Dossi, Manzoni e Marinetti, i Verri e D’Annunzio, Porta e Rajberti e il Romanticismo e il Positivismo e la Scapigliatura poco amata e il traumatico impatto con due realtà atroci quali la Grande Guerra e Roma... Così, nel magma delirante dove anche molti recensori «di mezzo» scorgevano tutt’al più coacervi o congerie di tipo neurotico o materico, un nuovo saggista sapienziale come Gian Carlo Roscioni arriva piuttosto a individuare nel groviglio e nel pasticcio un’oscura tecnica conoscitiva e un’arcana fisiologia dell’Universo.

 

Appunto. La complessa ricchezza linguistica e tematica dell’opera gaddiana, così visceralmente composta e tramata, e sardanapalesca, e pantagruelica, continua a sollecitare una pluralità di letture, a diversi livelli, lungo differenti parametri, secondo i più svariati presupposti e pregiudizi: a costo di razionalizzare fin troppo lucidamente attraverso nitidi procedimenti di schede e referti quel suo atrabiliare viluppo di fantasticate irrisioni e di furie «compossibili»... Addirittura, i mirabili «disegni milanesi» dall’Adalgisa alla Cognizione del dolore possono presentarsi ai nuovi lettori d’oggi come una disperata morfologia crepuscolare-espressionistica della decadenza della borghesia illuministica e poi romantica e poi nazionalistica e industriale (e sempre ‘patriottica’) in una Lombardia che dopo il Duce e Craxi delega la propria immagine e rappresentanza non più a Corso Venezia o a Foro Bonaparte o al Cappuccio, ma ai ragionieri e geometri del Longone e Segrino già abominati dal Nostro.

 

Non per nulla, gl’interessi enciclopedici dell’Ingegnere coincidono (fino al delirio di riversare tutta la Funzione nell’Espressione) coi manifesti tracciati due secoli fa dagli impeccabili fratelli Verri e da Cesare Beccaria, risoluti a insultare programmaticamente la Crusca in nome di Galileo e di Newton, cioè a sviluppare una cultura extra-letteraria cosmopolita e un pensiero intellettuale «assolutamente moderno» a dispetto della grammatica arcaica dei Pedanti, trasgredendo al purismo imbecille che caldeggia l’impiego di qualsiasi grulleria del Piovano Arlotto per definire prodotti e nozioni del nostro tempo; e approva l’uso del greco antico per indicare un qualche cosa che non esiste (il nettare, l’ambrosia, il cocchio invece del taxi), mentre respinge qualunque termine inglese moderno relativo a qualche cosa che è intensamente lì (come il gin-and-tonic), senza rammemorare che qualunque parola poteva suonare scandalosamente ‘moderna’ quando venne usata per la prima volta da un Autore Classico approvato dal Tommaseo-Bellini... e finendo, poi, col preferire «prova di selezione attitudinale» a «test»... Insomma, «c’era già tutto» in quel chiarissimo progetto del «Caffè», che invece di sublimare la Letteratura chiudendola a chiave in una soffitta-Parnaso piena di Citeree e Didimee e Tantalidi, le riservava una sua piccola area accanto alla Musica e al Commercio, all’Inghilterra e alla Storia e al Progresso, però tenendo tutte le porte aperte fra i diversi istituti della Cultura, e funzionando come struttura portante nelle idee della società civile lombarda fino al 1914, sottesa al Romanticismo e al Manzoni, al Porta e al Positivismo e alla Scapigliatura, al Socialismo e a «Celeste Aida» e al Lavurà.

 

Tuttavia, la grande disgrazia dell’Ottocento italiano – prima, la catastrofica ondata di rincoglionimento verso la metà secolo, poi, la costante mancanza di continuità e di ricambio fra le generazioni successive – finisce per colpire, con sconcertante crudezza, fra i ‘veleni’ del Decadentismo e i massacri della Grande Guerra, soprattutto questa classe paleo-borghese illuminata e imprenditoriale, ma evidentemente molto meno vitale e più stupida dei ceti che le corrispondono in Francia e in Inghilterra, capaci invece di perpetuarsi energicamente, industriosamente, da un secolo all’altro, attraverso il culto della tirchieria o mediante la pratica della spregiudicatezza, ma anche con una propria cultura seria, buona memoria, scuole ben fatte, libri letti... Da questo drammatico sabordage nasce – eminentemente fin de race (cioè «di razza fine», per le vere sciorette) – il Gadda ingegnere manqué e trionfale stilista.

 

La panoplia della sua vocazione letteraria si apre certamente coi nomi di Parini e Manzoni; e l’antecedente immediato (poco amato) rimane l’incantevole, tragico, ambiguo Carlo Dossi. Come Musil, evidentemente, i giovani Dossi e Gadda non sapevano resistere ad alcuna teoria. S’innamoravano delle idee, delle ipotesi, per saggiare tutti i temi dalla fisica alla metafisica. Ma come Cattaneo, erano «prima lombardi e poi italiani». Dunque, intellettuali eclettici destinatari insieme di due legati avvinghianti e incompatibili – la curiosità enciclopedica degli illuministi neo-partenonici, lo struggimento romantico più deliquescente e ossianico – e spinti da queste due pulsioni ‘desideranti’ in fondo alla più frastornata neurosi Jugendstil milanese.

 

Le Note azzurre già registrano tutti i sintomi della grande crisi del Geist lombardo attraverso ammirevoli espedienti di struttura frammentaria e di parola espressiva (a monte della pratica gaddiana dell’incompiutezza, cioè drammatica messa in opera del principio variantistico per cui non esiste già la Stesura Definitiva, bensì, fra le tante fasi successive, o strutture ‘aperte’ o ‘in progress’ possibili, una fase o struttura o stesura più ‘giusta’, per l’autore, provvisoriamente). Ma bastano pochi anni, dopo Dossi, e il giovane Gadda si affaccia a una «grande Milano» ancora tradizionale (e tutta positivista) e già futurista (e interamente industriale): operosissima, ordinatissima, e intensamente Liberty, e travagliata da una crisi di transizione e di crescita tragicamente ambigua. Non ne conoscerà che il dolore.

 

I discendenti degli Illuministi e dei Romantici abitano ormai certi macabri appartamenti ‘padronali’ o atroci villette a torrette dove ardono costantemente i lumini davanti ai Ritratti fra il tanfo e la polvere, e nessuno oserebbe spostare gli oggetti appartenuti alla nonna morta. I prodotti freschi arrivano direttamente in casa dalla campagna, per orgoglio di piccoli proprietari terrieri, per sordida taccagneria borghese, per diffidenza alimentare verso le mani altrui; però nei meandri dei corridoi e delle camere buie, il feticismo del «potrebbe venire ancora buono, mettiamolo da parte» accumula tananà e tanavèi, vecchie bottiglie e spicchi d’aglio e scampoli di pigiami e scatoline vuote, riempiendo accuratamente di spaghi riavvolti e di turaccioli usati ogni angolo e ripiano dietro tendoni pesanti: ripostiglio e magazzino e repertoyre come la Librairie de Sainct Victor visitata da Pantagruel. Di che cosa si parla, a tavola? di spese fatte, e di economie da fare; di parenti, generalmente da disapprovare, o da compatire; di matrimoni disgraziati, di figli malcresciuti, di carriere fallite e rovesci finanziari, di malattie dolorose e inguaribili; di loculi, tombe, cappelle, urne, lapidi, monumenti, lumini perpetui. E soprattutto, gran signorilità: che coincide con gran tirchieria. Anche emotiva, e morale. E lo schema d’ogni conversazione ripercorre pedantemente, da capo, le strutture immutabili della rassegnazione sventurata: siamo venuti a questo mondo per soffrire, poveretta, ha finito di soffrire, sarà il Buon

 

Dio che ci avrà voluto punire per qualche mancanza, in questo mondo bisogna aver pazienza... sempre sacrifizi, fioretti, rinunzie per farGli piacere... E intorno, chicchere, cuccume, federe, fodere, ghingheri, gangheri, giuggiole, vanvere, traveggole; e gramaglie, medaglie, vestaglie, con santuari, e sacrari, e ossari; e le medesime strutture ripetute nella vita pubblica: eretta la stele, posta la pietra, consacrato il cippo; e simmetricamente, poco dopo, abbattuto il cippo, infranta la lapide, lordata la stele, profanato il memento...

 

L’opus dell’Ingegnere nascerà allora dagli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia, e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annunzio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata; e tengono come solo metro di giudizio che cosa ne penserebbero gli altri, i vicini, le vicine, le zie, le cugine, le vecchine, e una certa famiglia di conoscenza che funziona (da decenni, reciprocamente) come esempio, come controllo, come giudice; e giudicano sommamente sconsiderato e colpevole chi segue una propria vocazione artistica o umana, invece di sacrificarsi com’è doveroso, di soffrire giacché è prescritto, di ubbidire a chi ne sa più di te, di mostrare finalmente con privazioni dolorose e inutili un po’ di riconoscenza a chi ti ha messo al mondo e ha fatto tanti sacrifici per te, di dare un po’ di soddisfazione ai tuoi cari che avranno i capelli bianchi anche per colpa tua, di pensare al futuro, di non star con la testa fra le nuvole, di ragionare coi piedi per terra, di non essere maleducato e inopportuno chiamando sempre le cose col loro nome, e poi di riflettere seriamente, lo scribacchiare ha sempre dato tanti dispiaceri e soddisfazioni nessuna, e poi perché voler fare a ogni costo gli originali, i diversi dagli altri, quelli che si vogliono far notare ad ogni costo? Dunque, abbracciare soprattutto controvoglia una professione solida, anche per domare la volontà e il carattere. Le soddisfazioni, arriveranno poi. In quanto ai dispiaceri, si sa, ce n’è per tutti. E i sacrifici? Quelli verranno ricompensati nell’Altro Mondo, si sa... Si sa!

 

Gli incunabuli della Cognizione del dolore verranno sviluppandosi fra il monotono ricatto sentimentale degli affetti domestici esasperati dalla convivenza, lungo l’iterata convinzione che il Buon Dio sospenda i castighi soltanto quando si soffre per fargli un piacerino con tanti sacrifici, sprofondando nel culto ossessivo per i defunti, praticato come rituale perpetuo, giacché mentre i vivi vengono trattati malissimo, con angherie, rifiuti, sarcasmi, il lutto per i congiunti spinge a gremire d’immagini di nonne cattive e di nonni prepotenti o anche vittime con lumini perpetui perfino la sala da pranzo, lo studio, l’ufficio, il negozio, la cucina, con fiori che costano evidentemente molto di più di quanto sarebbe costato qualche regalino, sempre negato, «per non abituarli male», ai medesimi congiunti quando erano vivi... Don Gonzalo si aggirerà intorno ai meccanismi immutabili dell’autopunizione, al rifiuto di ogni ipotesi diversa dall’«in casa nostra si è sempre fatto così», al ripiegamento sconsolante sui gesti meschini consacrati dalla consuetudine, sulle frasi fatte della saggezza di un ceto medio-alto completamente paranoico, sugli orari imbecilli imposti dai ‘riguardi’ per la povera mamma e per i suoi disturbi esigenti, invadenti, vitalizi. Dovrà attraversare una diffidenza incancrenita per qualunque ‘estensione’ possibile della personalità o dell’attività ‘fuori di casa’, insieme all’istintivo orrore per tutto ciò che possa apparire ‘bello’ o ‘comodo’ o ‘piacevole’ – e dunque colpevole! (non per niente l’invettiva della condanna moralistica suona costantemente sarebbe troppo comodo!) – nell’esistenza borghese lombarda... Ove il pericoloso e rovinoso ‘fuori’ guai se entra in casa!

 

La vera grandezza dell’Ingegnere consiste nell’aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni Come le foglie, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all’uso parossistico della madornale figura retorica dell’Enumerazione. (Altro che variantistica negli ossimori, o metafore di microcosmi esistenziali)... Smaccatamente distrugge tutto ciò che nomina nei ripostigli-sacrari: «seggiole, cuscini, tavolini, lettini: la chincaglieria del salotto e il bazàr del salone, e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli), e i comò e i canapè e il cavallo a dóndolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Cavenaghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, Lari, leonesse, orologi a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantù della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica...» mentre «neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la loro prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei...».

... Così Carlo Emilio Gadda, milanese, «ribalta» e «scaravolta» un intero ingombro (un patrimonio!) di valori domestici stratificati; o addirittura brucia su un rogo fulmineo e cannibalesco un catalogo totale di emblemi deficienti, sotto miserabili sembianze antropomorfiche, in due grandiose e rabbiose metafore (la lucidatura dei parquets in casa Cavenaghi, l’incendio di via Keplero) impressionanti come i più maestosi elenchi di Bouvard-Don Chisciotte e Pécuchet-Don Ferrante... «e cicìc e ciciàc... sofèghi!...».

Il nuovo dopoguerra fu per Gadda una stagione frastornata e feconda. Dopo Firenze («gli anni belli, quand’era venuto il bello»... ma perché andò a Firenze? confesserà mai che stava tampinando la Gloria Letteraria, appassionatamente, insistentemente, nella sua tana ufficiale?...), l’Ingegnere si trasferisce a Roma, abita poveramente in Prati e poi fra i colli della Camilluccia, ancora aperti sulla campagna; lavora alla vecchia Rai, burocraticamente incompreso ma accerchiato da colleghi-fans come Giulio Cattaneo e Fabio Borrelli e Leone Piccioni che collezionano e tramandano i suoi ‘mots’ più sarcastici e autentici. Mangia nelle trattoriole fra le Botteghe Oscure e Ripetta. Si concede qualche grossa pasta da Ruschena; e Attilio Bertolucci racconta d’averlo visto correre dietro un autobus con quattro enormi panettoni di San Biagio (due al prezzo di uno) davanti al Berardo di piazza Colonna. Rilegge Belli, Villon, Saint-Simon, Jean-Paul, Taine. Chiacchiera con Roscioni e Citati, anche curiosando fra i portoni di via Merulana e i banchi di piazza Vittorio. Traduce; si dispiace; si angustia. Va perfino a teatro per raggranellare qualche recensione occasionale. Talvolta a colazione in via del Gambero, con Longhi e la Banti di passaggio. La chiamavamo «Banteuse». E lei, fieramente: «una professione sempre più sortable che una Manzeuse o Masseuse». (Raccontava, la Signora, che dalla villa al centro di Firenze lei va normalmente in bicicletta. Ma un pomeriggio l’Ingegnere la bloccò, sostenendo che una signora non deve mai rincasare da sola, e insiste per riaccompagnarla al ‘Tasso’. Ma i chilometri sono parecchi, la bicicletta è una sola, dunque devono farla tutta a piedi, malgrado le proteste di lei. E le lamentele di lui, il giorno dopo, alle Giubbe Rosse, perché anche il ritorno notturno l’ha dovuto fare a piedi).

 

Piaga più che dolorosa e indicibile fu naturalmente l’inflazione postbellica, e dunque l’irreparabile e veloce perdita di tutti i risparmi, investiti in azioni Edison già ritenute (dai rentiers desiderosi di «campare tranquilli con gli interessi degli interessi») eterne e sicure come i solidi palazzoni del Foro Bonaparte ove abitava per esempio il cugino Piero Gadda Conti, beneficiario del senatore Ettore Conti, facoltosissimo industriale elettrico sempre a capo di importantissime missioni commerciali all’estero nonché illustre mecenate di scuole serali per piccoli elettricisti, e autore del critico Dal taccuino di un borghese coevo del Diario di un borghese di Ranuccio Bianchi Bandinelli e del «Borghese» di Longanesi, nell’immediato e stralunato dopoguerra.

(Mai dunque rammentare eventuali affinità o paralleli: le varie sorelle delle nonne, generalmente «liquidate» per il matrimonio con una dote per l’acquisto di terre, o in azioni se non si sposavano. Dunque, più che impoverite improvvisamente, dopo anni Venti e Trenta di abbienti arredi a Milano e vacanze nubili a Capo Nord o a St-Moritz. Mentre «le tenute» rendevano sempre di più).

 

Dalla Madonna dei Filosofi alla Adalgisa alcuni fra i suoi libri più grandi erano già usciti, anche un po’ lodati; ma pesantemente misconosciuti. Sempre quell’etichetta di «umorista», in compagnia di Achille Campanile... Sempre quegli appellativi di «barocco», «macaronico», «espressionistico», nati per definire tutt’altri fenomeni, e adesso appiccicati a qualunque sua prosa...

Da scaffali e bauli, però, nelle sue stanze d’affitto, mescolati ai testi non letterari che hanno nutrito la formazione del nostro scrittore più straordinario (volumi di storia europea e di filosofia, di pedagogia e di metrica, di matematiche e di psicanalisi, volumetti di classici o di ermetici, volumoni della Treccani nelle loro scatole) traboccano fogli e quaderni e quinterni e dossiers; tronconi e lacerti di lavori cominciati o tentati, disparatissimi nell’indole, incredibilmente precisi e ‘unici’ nel tono, spesso ricoperti dalla tetra polvere del Trenta, sovente pigiati nelle casse mai aperte dal reduce del ’18... In un cestino, il Pasticciaccio incompiuto; in una scatola, mezza Cognizione del dolore; valigie e valigette piene di racconti e mezziracconti che finiranno negli Accoppiamenti giudiziosi; sopra un armadio, Eros e Priapo, storia ‘sessuale’ del fascismo; in fondo a un cassetto, i taccuini folti di note per il «romanzo sul lavoro italiano 1922-1924» di cui parlava, ancora nel ’40, sulla «Nuova Antologia»...

Ma accanto ai cospicui spezzoni di carattere narrativo su cui verrà a esercitarsi con persecuzione affettuosa e tormentosa fermezza la pingue pesca degli editori negli anni Sessanta, trucioli e ritagli d’intenzione saggistica continuano a testimoniare la ricchezza e la varietà degli interessi dell’Ingegnere, le sue geniali e ‘fissate’ curiosità extravaganti. Riflessioni sulla lingua e ricordi di viaggio si alternano a divagazioni tecniche e appunti descrittivi: si accompagnano a evocazioni di episodi storici marginali e aneddotici, a invenzioni fantastiche e sofistiche intorno al Duomo di Como e alla rappresentabilità della Celestina, al culto di Narciso e all’arte del Belli, all’Agostino di Moravia e all’Amleto con Gassman, al risotto alla milanese, alla fonologia longobardica, all’alluminio, alla Manzini, alla pittura di Ensor, alla poesia di Baudelaire e Rimbaud, alla «Mostra Leonardesca» di Milano. (Epocale memoria infantile: con la mamma e la «Dante Alighieri», e un grande interesse soprattutto per i grossi modelli di tubi a spirale e ruote dentate in movimenti idraulici gorgoglianti a colori, e fantasticherie su bombarde e scafandri e voli d’Icaro da Monte Ceceri).

 

Nessun autore nostrano avrà mai mostrato un più stupefacente istinto di gazza ladra nel sottrarre alle discipline più extra-letterarie (o antiletterarie) dello Scibile tanti spunti smaglianti e frammenti opachi, da tesoreggiare in funzione anti-illuministica e anti-divulgativa, e poi trasformare in schegge di luccicante letteratura. «Nel suo rococò» (come dice lui stesso), l’immaginazione ingegneresca trascorre dalla fisica all’architettura alle Vite dei Papi; assaggia la geografia; attraversa la pittura del Cinquecento; si nutre di ballate francesi, della teoria dei quanti, dei chroniqueurs del Basso Impero, di pittoresche ‘scappate’ alla Fiera di Milano, alla Borsa, ai Macelli. Mai lavoratore ‘normale’, ‘regolare’, ‘equilibrato’, né tanto meno ‘scrittore su misura’: finirebbe magari per somigliare a quei leggendari ‘accumulatori’ da romanzo che sono l’Arnheim di Musil, i bibliotecari deliranti di Borges... ma una massiccia auto-ironia lo soccorre nei confronti d’ogni «carica narcissica», anche quando i «tossici laicali e catechistici» assorbiti nel «duro carcere d’un educatoio borromeiano-tridentino» sembrino ridurlo «inetto a vivere, nonché a comprendere, la piattitudine del rituale cotidiano», indifeso alle «misericordi sfumature d’ogni gentilezza, e del sottile pensiero».

La pubblicazione del Pasticciaccio fu un avvenimento capitale per la cultura del nostro nuovo mezzo-secolo, giacché liberava di colpo la letteratura da ogni soggezione e complesso verso altri ‘ordini’ o ‘sfere’. E la restituiva alla sua dignità di operazione linguistica assoluta – e cognitiva, e stilcritica – in relazione soltanto coi propri fini, il proprio progetto. («Tendo al mio fine»... Come Cézanne e Schönberg, dopo tutto. Altro che «On revient toujours»). Proprio mentre un requisito primario della narrativa stava diventando la Traducibilità: qualche copia in varie lingue in ogni aeroporto! E negli atenei, negli istituti, in ogni campus! E ancora più in là, il ‘concept’ di una Accademia Globale, ove un testo predisposto per il Traduttore Automatico può venire omologato in tempo reale su ogni università e satellite o apparecchio attrezzato per il reperimento istantaneo delle frequenze e decrescenze o dispersioni statistiche dei lemmi o idioletti o sintagmi più o meno fruibili nei seminari dei mass media creativi.

 

Eppure talvolta rammento – o mi pare – qualche sottile scompiglio inespresso tra i piccoli fans più sperimentali delle affascinanti Novelle dal Ducato in fiamme e della sublime Adalgisa. Fra questi posso includermi ‘tout entier’: infatti il mio Anonimo lombardo nasce direttamente di lì: tante note a testi circa «Sedizïose voci» e «Sempre libera degg’io», e «Luna, tu», e loggioni, loggioni, e soprani, e baggiani, e poi «Al Parco, in una sera di maggio», o «Meno male che c’era il Luigi», in molte lettere indirizzate a un «Caro Emilio», che però diventa una volta «Carlo Emilio», come per un deplorevole refuso. Che tuttavia non sfuggì all’ombroso Ingegnere: «Non vorrei che vi apparisse sotto... vero?». Però, poi, per suggerirmi o forse appurare un’acconcia copertina per le nuove edizioni, m’accompagnò al piccolo Alinari del Babuino per rintracciare i ritratti dei «più belli del Rinascimento» – Astorgio Manfredi, o il Vescovo di Fano, spesso finiti malissimo a causa della bellezza – che lui aveva riscontrato in certe vecchie pinacoteche marchigiane e romagnole, dopo uno spoglio delle Storie del Varchi e del Nardi, insieme al Contini. Senza badare troppo a Fra Galgario o al Moroni o ad altri lombardi, benché apprezzati da Longhi e Testori.

 

Si era forse sconcertati dalla riscoperta o recupero della Forma Romanzesca, e delittuosa come i «Gialli Mondadori», da parte di «un Gadda!» (come sospirava lui, e del resto anche Antonio Cederna, additando «i Gabba!» del ramo materno e della via milanese omonima), o dall’incompiutezza strutturale – programmata o no? – da parte di un egregio laureato del Politecnico?... O magari non sarà questo un modo autre di ri-cognizione, per la straordinaria ‘crescita’ successiva di quel romanzo-capolavoro (e della Forma Incompiuta, tipo Rudere Artificiale da giardino, o uso Opera Aperta, con lettori-fruitori del Garbuglio tenuti a comportarsi da coautori del Delitto o del Dubbio, come sulla rive gauche), fino all’inquietantissima Cognizione del dolore con quel trucido mirabile nonepilogo, vertice o climax notturno e noir?

Ai tempi delle vecchie zie con radio barocchette, e indovinelli domenicali ove (prima del ‘voi’ obbligatorio) un aggraziato coretto Eiar gorgheggiava «Insomma, lei chi è? – Me lo dica per favore!», i ‘gialli’ serali con i beniamini Franco Becci ed Esperia Sperani rinviavano la soluzione del delitto alla settimana seguente, con astuti indizi per cui si appassionavano le signore in visita: «Sarà stato lui? oppure lei?». Ah, le Notti dei Grovigli! Magari anche sui Navigli...

 

Ma dopo il successo del Pasticciaccio, l’assedio editoriale e le meschinità della Fama non danno pace all’Ingegnere. Accanto ai volumi narrativi più volte ristampati, oltre alle splendide ‘raccolte’ de I viaggi la morte e Verso la Certosa, arrivano presto nei nostri scaffali altre sospirate o ripescate avventure del Gadda saggista ‘off’: il delizioso pamphlet ‘arrabbiato’ contro il Foscolo, e la scorribanda spiritata e maliziosa dei Luigi di Francia, tagliata à la diable e fitta di sardonici umori, dove s’incontrano e s’intrecciano le diverse attrazioni dell’Ingegnere – per la storia segreta e la psicologia applicata, per la riflessione di moralità e gli agganci con le arti figurative... Il capriccioso ritratto del Cardinal Mazarino; i suoi occhioni e rossori di fronte alla regina Anna, ingorda e golosa; le picaresche sciagure della Fronda; il Re Sole al fronte con le dame dietro che dormono vestite e affondano nel fango nutrendosi di brodini; l’educazione di Luigi XV, e i maneggi intorno al suo matrimonio con la Polacca educata a trovar deliziosa la mediocrità; la seria e divertente discussione sullo stato delle finanze francesi alla metà del ’700; e quel bizzarro intermezzo sul Bourgeois Gentilhomme. Ecco, soprattutto, l’appassionato lettore di Retz e di Saint-Simon, di Montpouillan e Barbier e Mme de Sévigné e del duca di Richelieu, affascinato alla Camilluccia dalle splendide e corpose trame del Grand Siècle pieno di intriganti, amanti, bastardi, consigli segreti, matrimoni combinati, avvelenatrici non ancora in preda alle agenzie di bestseller.

 

Ora l’Ingegnere appare sempre più angustiato dagli impegni editoriali, angosciato dalle conseguenze più fastidiose del successo, bersagliato di richieste balorde, perseguitato da noiosi, da matti, da perditempo, da rompiscatole... Si chiude in casa; e respinge l’attualità, rifiuta qualunque contatto coi media, non desidera discepoli... Però il recluso pare maldifeso contro l’invadenza del sottobosco pseudoculturale romano; e finisce per subire i più petulanti, i più indiscreti, con raccapriccio, forse con qualche inconfessata fascinazione di fronte alla volgarità d’animo e di modi. Così, cresce smisuratamente il ritegno di fronte alla telefonata, da parte degli amici che solevano andare a prenderlo, accompagnarlo a pranzo. E intanto (angariato, aggravato), l’Ingegnere non scrive – praticamente – più, nelle giornate afflitte da visite intempestive e da domande uggiose, infinitamente stanco.

E se il Contini si era compiaciuto di aprire la bella prefazione alla Cognizione del dolore con la contrastatissima (da Don Gonzalo) figura profanatrice «che si rivela a Marcel auprès de Montjouvain», bastano (nuovamente) pochi anni perché l’Ingegnere venga assomigliando sempre più a un altro drammatico emblema: la formidabile figura che vigila the Aspern Papers in «varie scatole di cartone ammucchiate, ammaccate, rigonfie e scolorite, che potevano avere almeno cinquant’anni» e in «un bauletto basso che stava sotto un sofà dove c’era appena posto per esso, e pareva uno strano forziere decrepito, di legno dipinto, con elaborate maniglie e cinghie accartocciate e la vernice quasi interamente scrostata», reclusa e dilapidata nella magione veneziana fatiscente, ma «appassionata, furiosa», nella celebre invettiva agonizzante «Ah, you, publishing scoundrel!»... Eppure, proprio qualche effrazione di specie probabilmente asperniana doveva sottrarre a quei leggendari scatoloni lo stupendo ‘notturno’ posto a concludere la Cognizione, quale tragica ‘summa’ di tante Notti attonite o incantate o di «cattiva gente» – nell’Ottocento letterario non soltanto italiano – consegnata «a chi di dovere», cioè al Domaine Public del capolavoro gaddiano coetaneo non di Don Alessandro ma di Otto Dix.

Verso la fine degli anni Cinquanta scrivevo per «Il Verri» uno sketch molto generazionale con un titolo abbastanza fortunato («I nipotini dell’Ingegnere», da cui venne l’usanza di avvalersi di quei due termini, credo), e un omaggio involontariamente affine alla notazione di Šklovskij per cui le genealogie letterarie non operano per filiazione o imitazione diretta, bensì «da zio a nipote»: secondo quel certo procedere ‘angolare’ del Geist formalista che si ritrova anche nella Mossa del Cavallo, e nello Scarto Rispetto alla Norma. Ma l’Ingegnere stesso non gradiva molto quel ‘rappel’ a una professione poco amata, benché fosse per noi lusinghiero in quanto segnale di anti-Bellettrismo locale. E oltre tutto, «I nipotini di padre Bresciani» era allora un titolo-giuggiola del

 

Gramsci smodatamente esaltato dagli esteti che per opporsi allo stile «Charles Dix» decantato dagli adepti di Luchino Visconti esaltavano lo stile «Pie Neuf» soprattutto nel romanzo papista e populista Roderigo, o il zuavo pontificio del Bresciani più ‘noir’. Col rinomato ‘topos’ dell’eroico zuavo rifugiatosi nell’organo di una chiesetta burina per sfuggire alle stragi dei sanguinari garibaldini. Ma per sventura uno di quegli assatanati improvvisa una toccata e fuga alla tastiera, e l’infelice eroe spinto in su dall’onda sonora ricasca in quel sacrilego festino ove gli vien fatta la festa. Altro che le abominevoli Crude Amarilli e Perfide Ismeni.

 

In realtà, sarebbe stato sufficiente osservare: i veri nipotini dell’Ingegnere sono stati pochi e in gran ritardo, forse addirittura pronipoti; hanno formazioni extravaganti e interessi anomali rispetto al ‘rondismo’ già dominante negli elzeviri, alla «scrittura neutra» (o blanche) tipo Moravia e magari Calvino già predisposta per i traduttori e i paperbacks, alle civetterie professorali – il palagio, il convito, l’anfitrione, la pecunia, la villula, il cocchio – che agghindano la parola e il porgere di G. Contini. Tali ‘scarti’ o ‘sfagli’ nel gesto linguistico gaddiano spiegano subito ogni perturbamento o entusiasmo; e senza il conforto del «Paragone» longhiano e bantiano, si potrebbe anche fantasticare sugli esiti possibili dei nostri singoli casi. Si capisce dunque che continuavo a parlare (come tanti anni fa) di Pasolini e di Testori e di me, nonché di Gramigna e Citati. Notavo, insomma, allora: «Oltre alla divorante ossessione per una deformazione linguistica omologa delle passioni umane più scatenate e vissute (e necessaria, ogni volta che la lingua diventa più stretta della vita), l’unica caratteristica comune dei tre nipotini dell’Ingegnere sembra oggi una specie di vitalità frenetica e imprudente, sempre allo sbaraglio, partendo sempre da zero e rimettendo in giuoco tutto, come se dovessero davvero morire tutti domani (è una cosa che Pasolini ripete volentieri di se stesso). Ed è proprio un tale contrasto con i suoi ritegni, rossori, pudori, tremori e terrori, con tutta la sua circospezione, probabilmente, la prova negativa che l’Ingegnere stesso potrebbe sempre impugnare per disconoscere la propria ascendenza diretta, e desiderare in cuor suo che queste attività troppo spericolate e intense si svolgano extra muros o almeno il più lontano possibile dai suoi territori». (Il testo sui Nipotini si trova in fondo a questo libro).

 

Ci divideva dai ‘letterati’, ancora, la circostanza che raramente ‘loro’ avevano studiato nei testi o ‘sul campo’ le psicologie, le sociologie, le politiche, le letterature straniere, e quelle discipline scientifiche e filosofiche con pochi o infiniti misteri per l’Ingegnere... E i disparatissimi usi, fra noi, del Sense of Humour d’importazione, delle Citazioni Dissimulate, delle Assonanze Sconsigliate, dell’Oralità alta o bassa con equivalenti verbali «conti e acconci» delle Arti (ekfrasis?) nella conversazione saggistica parlata o scritta... del mélange linguistico fra dialetti italianizzati e termini stranieri o desueti in funzione espressiva... della pointe fra i pochi eruditi svelti, della repartie pronta sui marciapiedi ‘streetwise’ come nei salons dove magari si usa tuttora nei cocktails qualche goccia d’Angostura o Tabasco...

Poi, il proliferìo degli eckermannismi e boswellismi anche bozzettistici intorno ai suoi detti sempre più leggendari spingeva piuttosto a dichiarare che «l’Ingegnere è tra i nostri Autori colui al quale si è sempre rivolto lo sguardo come a una stella polare: i suoi detti sono in perfetta armonia col nostro modo di pensare, e ci scoprono continuamente sempre più alti punti di vista. Perciò ci si studia di penetrare sempre di più nella struttura della sua arte, e il nostro intimo amore e l’ammirazione per l’Ingegnere hanno fatalmente in sé qualche cosa di passionale»...

 

Così diventava intanto sempre più difficile tributare un omaggio ‘giusto’ alla sua ritrosia e al suo riserbo, evitando che un qualche connotato di genere pittoresco inquinasse il rigore della testimonianza: come ‘restituire’ l’affascinante pot-pourri di contraddizioni quale risultava dalla sua figura stessa? ‘reduce’ soprattutto sofferente per le fissazioni traumatiche riportate dalla Grande Guerra e dal dopoguerra e da tutta la vita stessa, ferito per decenni da un sentimento di indefinita provvisorietà che affligge il ritorno a un’esistenza civile sentita come precaria, estranea, instabile, tra quei mitici e poveri bauli forse mai disfatti, e il rovello per gli anni smarriti in una giovinezza murata, irrecuperabile... Pietro Micca in abito di Quintino Sella, con l’orgogliosa modestia e l’ironia dolorante e la verecondia esplosiva di grande scrittore rivoluzionario travestito da commendatore o professionista ‘vieux jeu’ in costante reverenza davanti alle Sedi delle Istituzioni – dal Castello Sforzesco alla Stazione Nord alla Edison al «Corriere della Sera» alle Banche all’Idioma... – nell’atto stesso di mobilitare e dilapidare strepitose risorse emotive e culturali e stilistiche e di grottesco o sarcasmo... Tanto che davanti all’originalità quasi sconcertante di ogni sua osservazione, a quell’arrivare comunque alla verità e realtà delle cose, impressionante da parte di qualcuno che vive così palesemente distaccato, «fuori dalle cose», si veniva continuamente afferrati dal dubbio: è vero? o è possibile che l’Ingegnere, appena allontanato o al sicuro in casa, nella sua ‘logicità’ sapiente e folle rida divertito o pietoso delle nostre scioccaggini? Così riusciva difficilmente descrivibile ogni esperienza eccitante e per niente consolatoria dell’intelletto ingegneresco parlante e così identico allo scrivente...

 

Traboccavano le tentazioni: già, saggismi di scuola o moda francese à la page con la migliore «Critique», inclini a trattare la Letteratura e quant’altro come qualcos’altro: con spazi e distanze estremamente interiori, l’inconscio minutamente autoreferenziale nelle vite ed opere e sogni domestici, profondità o sensazioni trascendenti negli Alti Studi, microletture e megalomanie e magie e metamorfosi di movimenti primari con metonimie surrealiste, misticismi erotici con dépense delirante ma tirata «à quatre épingles», da «épicier», escrementi e fantasmi esclusivi soprattutto tibetani e messicani, tauromachie e poliritmie molto ossessive, ébauches et débauches in edizioni numerate «sous le manteau» nei vicoletti presso la rue des Beaux-Arts. E lì, «ah, la Flagellazione!» (tipo «ah, la maledizione!» di Rigoletto, come nelle frustate al povero Cristo con carnefici in mutande succulenti come giocatori di football).

Et l’Auteur? même? Preferibilmente traître o coupable abitudinario fra crepuscolari corteggi di ‘vieilles filles’ Violaines o Ghislaines, in cimiteri cinesi o città morte e canali defunti, come in tante squisite plaquettes sul servir Messa fra le zanzare e i bonghi nelle paludi del Tonkino, annusare zafferani iniziatici su una piramide in Yucatán, masticare peperoncini selvaggi fra i nativi sotto un ghiacciaio in Patagonia, discutere sulle distinzioni fra umidi e bolliti coi guru di Bali o dei Beatles, finalmente prenderlo nel sedere per la prima volta sulla tomba di D.H. Lawrence a Taos proprio mentre J.F. Kennedy veniva ammazzato a Dallas... (Per «pararsi il dietro», il vecchio amico Valentino Bompiani andava appunto chiedendo una prefazione all’ormai risibile Histoire d’O & Retour à Roissy, che inevitabilmente intitolai Storia di Zero e ritorno all’aeroporto CDG, «on a beaucoup rigolé, à ce propos»...). Altro che l’«eminente dignità riflessiva» formatasi attraverso un iter spirituale e culturale di una personalità umana – secondo il Contini –, e malgrado la trentennale pervicacia engagée e ‘firmaiola’ di antichi ‘esistenzialisti’ poi semplicemente ‘intellos’ presenzialisti in calce a innumerevoli manifesti, anzitutto su «Nuovi Argomenti».

Queste considerazioni gaddiane concludevano un ciclo di seminari italianistici alla Columbia University di New York, nei primi mesi del 1981, già predisposti ne «La Belle Époque per le scuole», in appendice alla nuova edizione Einaudi (1977) di Certi romanzi. (Da Pascoli e Puccini e Gozzano a Lucini e Dossi e Gadda, attraverso Lucia Mondella, Carolina Invernizio, La Traviata...).

Ma ai nostri tanti intensi e amabili anni di incontri romani si devono i seguenti «colloqui con l’Ingegnere», da lui attentamente dettati e riscontrati nell’abitazione di via Blumenstihl, per due destinazioni precise. La pagina letteraria del «Giorno», per cui Gadda aveva un contratto di collaborazione, credo per un ‘pezzo mensile’, angustiato da stanchezze o da stizze. Ad esempio, circa il titolo Il cetriolo del Crivelli, redazionalmente apposto – e da lui giudicato imbarazzante – a un suo ‘pezzo’ sulla mostra veneziana dell’artista, recensita con ‘éclat’ anche da Longhi su «Paragone». Grande arrabbiatura e imbarazzo, soprattutto a causa di ciò che avrebbero potuto pensare o dire i dabbene parenti milanesi circa un’allusione tanto antropomorfica, dunque impudica. Allora una nostra intervista (da lui dettata) serviva a un suo ‘sdebitarsi’ col giornale.

Ma soprattutto, Luciano Anceschi, dopo lunghe insistenze inutili per ottenere un suo testo per «Il Verri», giungeva al compromesso di un ‘colloquio’ di cui dovevo essere lo scrivano. Ecco perché, dato il prestigio della sede, ogni parola veniva controllata dall’Autore.

(Subito pubblicati nel ’63, i testi uscirono poi nel mio Sessanta posizioni, Feltrinelli, 1971).