PUTTANA 

Vichi Marco 

Puttana - n.d. 

 

 

Roma, 1936 

Simonetta non riusciva a dormire. Si voltava di continuo nel letto, con gli occhi aperti sul buio della stanza. Aveva ancora in testa quello che le aveva confidato poche ore prima Wanda, una sua vecchia compagna di scuola incontrata per caso dopo molti anni in piazza di Spagna, sotto il sole di un sabato di fine marzo. Erano andate a bere un tè in una saletta frequentata da giovani fascisti in carriera. Per un po' avevano parlato del più e del meno, poi Wanda aveva cominciato a fare strane allusioni che Simonetta non riusciva a cogliere, finché si era decisa a parlare più chiaramente. Insomma lavorava come indossatrice e si divertiva un sacco... ma guadagnava molto di più con un altro lavoro che faceva da poco più di un mese. Aveva abbassato la voce per dire quale fosse. Simonetta era arrossita. Wanda era scoppiata a ridere attirando gli sguardi dei maschi, poi le aveva sussurrato i nomi delle persone che frequentavano il villino sulla via Appia. 

- Ma che stai dicendo? - aveva detto Simonetta, a bocca aperta. Erano nomi di famosi potenti del governo. 

- È un luogo segreto, riservato soltanto a loro. Ogni tanto ci viene anche Lui... - 

- Ma dai! - 

- É un vero stallone... - Aveva fatto una risatina. 

- Non riesco a crederci. - 

- Una volta anche con me... Oh, è stato magnifico. - Si era gustata lo stupore sul volto dell'amica, bevendo in fretta un piccolo sorso di tè. Simonetta si era incantata a fissare il vuoto. Nella sua mente era successo qualcosa, le sembrava di essere arrivata sul bordo di una voragine. Si sentiva come se avesse imboccato una strada senza ritorno. 

- Ehi, che ti prende? Sei invidiosa? - le aveva detto Wanda sorridendo, e aveva soffiato via un ricciolo nero che le sfiorava la bocca. 

- No... io... non... - Perché aveva avuto paura? Ma non era solo quello. Aveva sentito anche un'emozione esaltante, quasi folle. Wanda si era chinata in avanti e aveva abbassato la voce. 

- Una volta Lui si è presentato insieme al suo amico baffetto, e quando è cominciata la festa si sono scambiati le ragazze - aveva detto Wanda. A quelle parole Simonetta si era svegliata. 

- Stai parlando di... Hitler? - 

- No, di mio nonno. - 

- Com'è possibile? - 

- È un ometto alto così che non gli daresti un duino... Sandra ci ha messo un bel po' di tempo per scaldarlo. - 

- Non avrei mai immaginato che... - 

- Baffetto si era portato dietro alcuni dei suoi fedelissimi, von Ribbentrop, Borland, Kessler. C'era anche lo zoppo, come si chiama... Goebbels! - 

- Anche lui... - 

- Dovresti vedere com'è dal vero! Sta sempre zitto e guarda tutti con due occhi gelidi che mettono paura. Ma quando arriva il momento, anche lo zoppino si dà da fare... - 

- Dai, basta - aveva detto Simonetta in un sussurro. Wanda aveva smesso di ridere e le prese una mano. 

- Se al villino ci fosse una come te... Bella come sei farebbero a botte per avere i tuoi favori. - 

- Ma sei pazza? - Aveva ritirato la mano. 

- Ehi... Guarda che è un ambiente di lusso... tappeti, quadri antichi... musica, champagne, cibi stupendi... Ci vengono solo gli uomini più potenti. - 

- Non m'interessa. - La voce le aveva un po' tremato. 

- Dicevo così per dire. - 

- Non ci sono portata per certe cose. - Le era sfuggita di bocca quella frase senza senso. Wanda l'aveva guardata negli occhi con uno sguardo indagatore. 

- Non dirmi che sei ancora pura... - 

- Non mi sembra il momento adatto per parlarne - aveva detto Simonetta, facendo un po' l'offesa. Sapeva tutto di quelle cose, anche se non le aveva ancora fatte. Insomma sì, era illibata. Ne era anche orgogliosa. Ma di fronte al sorrisino di Wanda non riusciva a confessarlo. 

- Dai, non fare quella faccia... Dimmi qualcosa di te. Cosa fai? Studi ancora? - 

- Sono al secondo anno di Lettere. - 

- Mi ero iscritta anch'io, poi ho lasciato perdere. Non ci sono portata per certe cose... - Aveva sorriso, ovviamente. Sorrideva molto spesso, Wanda. Sembrava felice. 

Avevano continuato a parlare del più e del meno, ma nell'aria era rimasta una lieve tensione. Nulla di veramente spiacevole. In un momento di silenzio Wanda aveva sfilato dalla borsetta una penna d'oro e un taccuino. Dopo aver scritto il suo numero di telefono, aveva strappato la pagina e l'aveva passata a Simonetta. 

- Vediamoci, mi farebbe piacere. - 

- Anche a me. - Forse era stato proprio in quel momento che aveva deciso di andare fino in fondo. Mezz'ora prima non le sarebbe sembrato possibile, e adesso invece... 

- Dovrei andare - aveva detto, guardando un grande orologio appeso al muro. 

- Oh sì, anch'io. Sono già in ritardo. - Erano uscite insieme, e al momento di salutarsi Wanda le aveva stretto le mani. 

- Fatti sentire presto - aveva detto, con un sorriso che non lasciava dubbi. Prima che Simonetta potesse aprire bocca se n'era andata a passo svelto. 

E Simonetta non dormiva. Ormai aveva deciso, era per quello che non riusciva a chiudere gli occhi. Continuava a pensare, a immaginare. Smaniava tra le lenzuola, fissando l'oscurità. Intorno alla villetta il giardino era silenzioso. 

Sua madre dormiva nella camera all'altro capo del corridoio, da sola. Suo padre era morto da molto tempo. Anche suo fratello Spartaco era morto, a diciannove anni, quattro anni prima di suo padre. Lei allora ne aveva appena sette. Dodici anni di differenza. Era il suo eroe, Spartaco. Era sempre nei suoi pensieri, in quel momento più che mai. Morto. Cosa avrebbe pensato di lei, se avesse saputo cosa aveva in mente di fare? 

Poi c'era Osvaldo, il suo fidanzato. Un giovane a posto. Lavorava al ministero, anche se lei non aveva mai capito cosa facesse. Prima o poi si sarebbero sposati. Almeno così era sempre stato detto. Prima la laurea, poi il matrimonio, i figli... ma tutte quelle cose non le avevano mai impedito di addormentarsi. 

- Hai fatto presto a deciderti. - Wanda era bellissima quel pomeriggio. Un'ora prima aveva partecipato a una sfilata d'alta moda. 

- Come devo fare? Mi presento al villino? - 

- Accidenti che fretta. E io che ero quasi convinta di non vederti mai più... - 

- Una volta che è deciso, perché aspettare? - Sorrise, ma non era lei a sorridere. Era un'altra persona che si era impossessata di lei. Doveva andare avanti, doveva farlo. 

- Non è così semplice. Dovrai fare un colloquio con la direttrice, una donna molto esigente. - Le spiegò come doveva comportarsi, come si doveva vestire. Anche saper parlare era importante. La signora Fedora apprezzava assai l'ironia, la prontezza d'animo. Al villino non era sufficiente avere quella cosa lì in mezzo alla gambe, ci voleva anche tutto il resto. 

- La Signora cerca ragazze di classe, non zoccole da bordello di periferia. - 

- Pensi che ce la possa fare? - chiese Simonetta, sorridendo. Era già entrata nella parte. 

- Ti fisso un appuntamento. - 

- Sì, grazie. - 

- Vedrai che ci divertiremo - disse Wanda, sbattendo le ciglia. 

- Spero di essere all'altezza. - Ogni tanto la vera Simonetta si faceva spazio nella sua anima, e all'improvviso le sembrava tutto assurdo, una follia che l'avrebbe portata alla rovina. Ma il dubbio durava pochi secondi. 

- Farai impazzire tutti, te lo assicuro. Mi sento già morire di gelosia - disse Wanda con una risatina. 

L'incontro venne fissato per la domenica successiva in piazza del Popolo, da Rosati. 

A mezzogiorno in punto Simonetta si sedette a un tavolino all'aperto, con un fiore rosso appuntato sul vestito. Era una bella giornata, l'aria era tiepida e senza vento. La piazza era popolata di gente a piedi e in bicicletta, e ogni tanto passava una macchina. 

Dopo qualche minuto una bella donna sui trent'anni, vestita elegante, con un cappellino che le donava assai, si avvicinò al tavolo con un sorriso. 

- Simonetta? - 

- Sono io. - Si alzò in piedi e fece un piccolo inchino. 

- Piacere d'incontrarvi. - Si sedettero, ordinarono due Campari e Fedora cominciò subito a fare delicate domande, come se fosse veramente interessata alla vita di quella giovane sconosciuta. Una conversazione piacevole, a volte accompagnata da una battuta di spirito. Simonetta non si aspettava che Fedora fosse così bella e gentile. Si era immaginata una quarantenne grassa, un po' autoritaria. 

- Avete già fatto esperienze di questo tipo? - chiese la signora Fedora, in modo del tutto inaspettato. 

- No, è la prima volta. - Perché mentire? 

- Cosa vi ha spinto? - 

- Non so... Forse preferisco non saperlo. - 

- Siete convinta? - 

- Perché me lo chiedete? - 

- Non sono ancora una vecchia zitella, ma ho già una lunga esperienza in fatto di ragazze. Non mi sembrate il tipo adatto, all'apparenza. - 

- L'apparenza inganna... Senza contare che esistono le eccezioni. - Le uscì un sorriso che non aveva mai avuto occasione di fare. Anche la sua voce era diversa. Ormai si era abituata a sentir parlare una Simonetta che non conosceva. A momenti era inebriante. Ma era anche un gioco pericoloso, quasi certamente senza ritorno. Sarebbe veramente riuscita ad andare fino in fondo? 

- Quanti anni avete? - chiese la Signora, studiandola. 

- Ventiquattro. - 

- Ne siete sicura? - ironizzò la Signora. 

- Ne compio ventuno tra qualche mese - disse Simonetta, arrossendo. 

- Fidanzata? - 

- No... - 

- Studiate ancora, mi ha detto Wanda. - 

- Sì, sono al secondo anno di Lettere. - 

- Intendete continuare? - 

- Certamente. - 

- Ditemi qualcosa di voi e dei vostri genitori... - 

- Abitavamo a Bologna. Mio padre era notaio, è morto dieci anni fa. Pochi mesi dopo la sua scomparsa, mia madre e io ci siamo trasferite a Roma in una villetta vicino al parco di Villa Ada. Abbiamo una rendita che ci permette di vivere dignitosamente. - Non le disse della morte di Spartaco, per evitare domande spiacevoli che l'avrebbero costretta a mentire. 

- Ditemi la verità... Siete ancora vergine? - disse a sorpresa la Signora. 

- No... - Questa volta mentire le venne naturale. 

- Bene. Quando vorreste cominciare? - 

- Anche oggi stesso... - 

- Quanta fretta. - 

- Però c'è... c'è una condizione. - Aveva aspettato a dirlo, e lo aveva detto con un sorriso che sua madre avrebbe definito perverso. 

- Quale condizione? - Le sopracciglia della signora Fedora si erano appena appena increspate, ma il tono della sua voce era quasi materno. 

- Ho fatto un giuramento a me stessa. La prima volta deve essere con... con Lui. - Ecco, ce l'aveva fatta a dirlo. Per un istante era stata addirittura sul punto di pronunciare il Suo nome. 

- È stata Wanda a dirvi che anche Lui viene al villino? - 

- No... - Dai suoi occhi si capiva bene che mentiva. 

- Wanda, Wanda... Dovrò farle una lavata di capo. - La sua voce si era appena incrinata. 

- No, vi prego. Sono certa che non lo ha detto a nessun altro. - 

- Non sono cose da dire in giro, ne va dell'incolumità delle ragazze e della mia reputazione - disse la Signora, decisa ma tranquilla. 

- So tenere un segreto - si affrettò a dire Simonetta. 

- Sarebbe rischioso, mi capite? - 

- Giuro che non dirò nulla. - 

- Bene. Adesso potete dirmi il perché della vostra condizione} - chiese la Signora, di nuovo dolce. 

- Non lo so nemmeno io, ma non posso fare altrimenti. L'ho giurato a me stessa. E se così non può essere, mi sento costretta a rinunciare. - 

- Lo amate? - 

- Ma no, non è questo. - D'istinto aveva serrato i denti. 

- E dopo? - disse la Signora. 

- Dopo cosa? - 

- Dopo che il vostro desiderio sarà esaudito, cosa succederà? - 

- Dopo farò tutto quello che c'è da fare, anche con due uomini alla volta. - Un altro sorriso. Non le costava nulla dire quelle cose. Era tutto così facile, adesso. La pietra era stata lanciata nel vuoto e nessuno poteva più fermarla. Le girava un po' la testa. Nulla l'avrebbe fatta tornare indietro. Nemmeno il pensiero di sua madre, nemmeno l'idea di suo padre che la guardava dall'aldilà. 

La Signora continuava a osservarla attentamente, come per capire se quella bellissima ragazza nascondesse un segreto. - Siete una persona bizzarra, ma devo ammettere che mi piacete. - 

- Grazie... - 

- E siete anche molto bella. - 

- Cosa dite della mia... condizione? - chiese Simonetta con un sussurro impaziente. 

- Nessuna ragazza mi ha mai fatto una richiesta del genere, ma in fondo non vedo ostacoli. Ovviamente finché non comincerete a lavorare normalmente non verrete pagata. - 

- Accetto. - Non vedeva l'ora di fare un passo avanti. La Signora la guardò per un lungo istante, come se volesse leggerle dentro il cuore. 

- Bene. Lasciatemi un vostro recapito, vi manderò a chiamare verso la metà del mese. - 

- Così tardi? - Le venne una riga sulla fronte. Se doveva essere, che fosse presto. 

- Non posso fare altrimenti, credetemi. - La Signora non lo disse, ma prima di reclutarla doveva fare una piccola indagine su di lei, così come aveva sempre fatto per ogni ragazza nuova. Nulla di troppo approfondito, in fondo, ma sufficiente a garantire che Simonetta non avesse legami con persone sgradite al governo o magari un fidanzato di tradizioni comuniste. 

- Va bene, farò come desiderate. - Era molto delusa, ma non poteva farci nulla. Doveva aspettare e sorridere. La Signora pagò le consumazioni. Si alzarono e si salutarono stringendosi la mano. Simonetta se ne andò verso casa vacillando sulle gambe e fantasticando. Quando sarebbe arrivato il momento, ce l'avrebbe fatta o non ne avrebbe avuto il coraggio? Ormai, anche solo per scoprirlo voleva andare avanti. Non sopportava l'idea di sentirsi una vigliacca. Quindici giorni erano un'eternità. Doveva farsi forza. In un modo o nell'altro il tempo sarebbe passato. 

Il 16 di aprile Simonetta arrivò al villino con il cuore in gola. Era in anticipo. Il custode, un tipo che parlava poco ma guardava assai, la fece accomodare in un salottino elegantissimo. Quadri alle pareti, un bel tappeto orientale, un tavolinetto tondo intarsiato in mezzo a due poltroncine. 

Dopo mezz'ora la Signora non era ancora arrivata. Eppure il custode aveva detto che era al villino. Simonetta andò a socchiudere una porta, per sbirciare fuori. In fondo al corridoio intravide una sala con delle ragazze che parlottavano, sedute su raffinati divanetti. Sembravano eccitate. Si fece coraggio e s'incamminò lungo il corridoio. Quando si affacciò alla porta della sala si voltarono tutte a guardarla. Sei belle ragazze con abitini alla moda, giovanissime. Wanda non c'era. 

- Scusate, stavo cercando la signora Fedora. Ho un appuntamento. - 

- Sei nuova? - chiese una delle ragazze, soffiando fumo dalle labbra rosse. 

- Sì. - 

- Benvenuta in paradiso - disse un'altra, una biondina con due bellissime gambe. Risero tutte. La stanza odorava di profumi. 

- Sapete dirmi dove posso trovare la Signora? - 

- Sono qua - disse la voce di Fedora alle sue spalle. Simonetta si voltò con un sorriso. 

- Buongiorno. - 

- Venite... - Andarono nel salottino e si sedettero una di fronte all'altra. 

- È una bellissima villa - disse Simonetta. Un minuto dopo erano già alle questioni importanti. La Signora le disse che la regola santa era soprattutto una: non innamorarsi. Appena due giorni prima una delle ragazze, una certa Milly, aveva tentato di suicidarsi tagliandosi le vene. E per cosa? Si era innamorata del ministro Pavolini, si era messa in testa che lui l'avrebbe sposata. Quando aveva capito la verità non aveva retto. 

- È successo molte altre volte, ed è sempre andata a finire male - disse la Signora. 

- State tranquilla, a me non succederà. - 

- Per quanto riguarda la vostra richiesta... come potete immaginare non posso sapere quando Lui verrà in visita. A volte passano molte settimane. - 

- Aspetterò. - 

- Quando sarà il momento cercherò di accontentarvi. - 

- Vi ringrazio infinitamente. - 

- Ringraziate vostra mamma che vi ha fatto così bella. Dopo però... avete promesso... - disse la Signora, con un sorriso sincero. 

- Non dubitate. - 

- Quando sarete della famiglia, mi raccomando una cosa. Se mai doveste rimanere incinta parlatene con me soltanto... E in ogni caso non mettetevi mai nelle mani di una praticona. - Metteva le mani molto avanti, la signora Fedora. 

- Farò come dite - sussurrò Simonetta, impaurita da quelle parole. A momenti le batteva forte il cuore, perché sentiva avvicinarsi il momento in cui... Era meglio non pensarci, adesso. Doveva fare un passo alla volta. 

- Passiamo alle faccende più delicate... - La Signora le spiegò tutto quello che si poteva fare dentro un letto. Le mostrò con pazienza le famose illustrazioni di Giulio Romano che avevano ispirato l'Aretino per i sonetti lussuriosi. Le parlò di buone maniere, di accondiscendenza, di raffinatezza. Le parlò di come doveva sforzarsi di accontentare il maschio, soprattutto Lui. 

- È per alleggerirsi lo spirito che vengono al villino... Non bisogna mai dimenticarlo. - 

- Non lo dimenticherò. - 

Si misero d'accordo in questo modo: Simonetta avrebbe aspettato ogni sera in una camera del primo piano, per non rischiare di essere preda di qualche ospite, e appena Lui fosse arrivato... 

- Lo inviterò a venirvi a trovare, il resto tocca a voi - disse Fedora, carezzandole una mano. Simonetta immaginò il momento e le mancò il respiro. 

- Ne sarò all'altezza - riuscì a dire con un sorriso. 

- Se voi non foste così bella, non so se avrei accettato le vostre condizioni - disse sorridendo la signora Fedora, accompagnandola come ogni sera nella stanza in fondo al corridoio. 

- Vi ringrazio per la pazienza. - Era già passata una settimana, e Lui non si era fatto vedere. Erano venuti tutti, perfino De Bono. Ma di Lui neanche l'ombra. 

Simonetta arrivava al villino alle sette del pomeriggio e se ne andava verso le undici. Aspettare oltre era inutile, Lui non era mai venuto dopo le undici. 

A sua madre inventava scuse sempre diverse. Chissà se ci cascava, quella povera donna. Ma a dire il vero Simonetta non se ne preoccupava. Le sue ansie erano altre. L'attesa era snervante. Non faceva che passeggiare su e giù davanti al letto, abbigliata con abitini osé. Nascosta dietro le tende vedeva arrivare grandi macchine nere, dalle quali uscivano gruppetti di uomini. A Osvaldo aveva detto che non lo amava più, che non aveva più alcun senso frequentarsi. Non poteva trascinarselo dietro in quella catastrofe, e non voleva infangarlo in nessun modo. Ma in fondo era stato facile, aveva solo colto l'occasione per esprimere quello che sentiva da tempo. Forse non lo aveva mai amato. Il fidanzamento con il figlio di amici di famiglia era stato solo il sentiero più ovvio da seguire. Solo adesso si rendeva conto di non essere stata lei a scegliere. 

Ogni tanto si lasciava andare sul letto e chiudeva gli occhi. Non ne poteva più di aspettare. Quando una folata di vento faceva tremare le chiome dei grandi alberi del parco sentiva un brivido, come se qualcuno la chiamasse. Beveva bicchierini di cognac, per poter essere più leggera nel momento cruciale. Se pensava che quella stessa mattina era in un'aula universitaria le sembrava impossibile. Così come quando era all'università il villino le sembrava un sogno. 

Spesso prima dei festini veniva a trovarla Wanda e fumavano una sigaretta insieme. Wanda le raccontava con tutti i particolari cosa aveva fatto la notte prima e con chi. Quasi sempre era stata una nottata memorabile. C'era addirittura chi dopo l'amplesso le sussurrava parole dolci o voleva essere coccolato. 

- In fondo sono dei bambini - diceva sempre. Simonetta ascoltava mordendosi le labbra, pensando a quando sarebbe toccato a lei. Ogni sera sperava che fosse quella giusta. 

A volte, quando sapeva che gli ospiti erano ancora tutti al piano di sotto a mangiare e a scherzare con le ragazze, socchiudeva la porta e ascoltava. Musichetta allegra del Trio Lescano, voci che si accavallavano, risate. Rimaneva là a spiare per chissà quanto tempo... finché a un tratto sentiva dei passi sulle scale accompagnati da risatine femminili e si chiudeva dentro a chiave. 

- Se vi fate vedere anche solo per un secondo vorranno prendervi, e il vostro sogno se ne andrà a gambe all'aria - non faceva che ripeterle la Signora. Capitava che la maniglia sferragliasse, accompagnata dalle imprecazioni di una voce maschile. Chi era, questa volta? Balbo? Pavolini? Il vecchio De Bono? Tremava all'idea che la serratura cedesse. 

Di lì a poco cominciavano i gemiti, i lamenti, le invocazioni, le parolacce, le corse nel corridoio. Gli uomini più potenti d'Italia sfogavano le loro tensioni, le loro voglie. Durava un bel po', con alti e bassi. Poi lentamente tutto si calmava, restava solo un parlottio sommesso e qualche risata tranquilla. 

Alle undici Simonetta si rivestiva e sgattaiolava al piano terra passando da una scaletta di servizio. Si faceva chiamare un taxi dal custode, che la spogliava con lo sguardo. Allontanandosi si voltava a guardare il villino, e le sembrava già lontanissimo. Quando entrava in casa trovava sua mamma sveglia ad aspettarla. Era un tormento. Avrebbe voluto dirle la verità, gridarle che lo faceva anche per lei, per il babbo... per il povero Spartaco. Ma non poteva. Sua madre non avrebbe capito. 

Passavano i giorni, e Simonetta cominciava ad abituarsi all'atmosfera ovattata del villino, ai pavimenti decorati, ai tendaggi eleganti, ai quadri. Muoversi in quelle stanze lussuose la faceva sentire diversa, come se gli arredi fossero capaci di plasmare l'anima. Anche la propria voce le sembrava diversa, e perfino il modo di parlare. Non era più se stessa, non si riconosceva, ma proprio per questo riusciva a non fermarsi. Solo a momenti si faceva prendere dal panico, e le sembrava tutto così assurdo che aveva l'impulso di scappare. Allora pensava intensamente a quello che aveva deciso di fare e si calmava. Ritrovava la forza di aspettare. Non le importava niente del dopo. Doveva farlo, non poteva non farlo. E aspettava... aspettava... 

Come mai Lui non si faceva vedere? La signora Fedora diceva che era per via dell'Abissinia. C'erano dei problemi, lo aveva sentito dire dagli ospiti durante le cene. Ma appena finiva la guerra Lui sarebbe arrivato, era più che certa. Nonostante alcune piccole difficoltà, dicevano tutti che mancava poco alla vittoria. Bisognava avere pazienza. La Signora non lo confessava apertamente, ma sperava anche lei che quel giorno arrivasse presto, così poi la bellissima Simonetta avrebbe lavorato al villino a tempo pieno. Ragazze così non capitavano tutti i giorni. 

E Simonetta aspettava... aspettava... 

Una sera Wanda entrò in camera di corsa e sussurrò con gli occhi tondi di essere incinta. Era eccitata, non riusciva a stare ferma. 

- E lo sai chi è il padre? - 

- Chi è? - 

- Proprio Lui. - 

- Cosa dici? - 

- Ho nella pancia un figlio suo... Voglio tenerlo! - 

- Ma come fai a dire che... - 

- Ne sono sicura, me lo sento... Non può essere che Suo! - Sembrava un'invasata. Non pretendeva nulla, solo tenersi quel santo figlio. 

Due giorni dopo sparì, senza lasciare tracce. Passò una settimana. Si seppe dai giornali che Wanda era morta in ospedale per una brutta infezione, dopo aver bevuto un decotto di prezzemolo per abortire. Le ragazze piansero a dirotto, Simonetta era così sbalordita che non ci riusciva. La signora Fedora non credeva alla versione ufficiale. 

- Altro che prezzemolo - non faceva che dire. Anche un'altra volta era successa una cosa simile. Lalla, una brunetta siciliana, si era convinta di essere incinta di Hitler e lo diceva a tutti. Voleva tenere il bambino a ogni costo. L'idea di partorire il figlio dell'uomo più potente d'Europa la mandava in estasi. Anche lei era scomparsa all'improvviso. Anche lei pochi giorni dopo era morta in ospedale, dopo che una mammana le aveva provocato un aborto con un ferro da calza. Così almeno avevano detto i giornali. La signora Fedora scuoteva la testa. 

- Povera ragazza, gliel'avevo ripetuto mille volte di non dire nulla a nessuno... - 

Sentì bussare alla porta e sussultò. Il cuore cominciò a batterle nella gola. Si avvicinò alla porta in punta di piedi. Continuavano a bussare. 

- Aprite, sono io, Fedora. - Era appena un sussurro. Simonetta aprì, con le mani tremanti, e ancora prima che la Signora parlasse aveva già capito. 

- Ve lo avevo detto che appena finiva la guerra... - 

- È già qui? - 

- In carne e ossa. Appena posso lo mando da voi, tenetevi pronta. - Appena la Signora se ne andò, Simonetta chiuse la porta e si prese il viso tra le mani. Le guance erano calde, bruciavano, ma le sembrava di sentire un vento freddo che le attraversava lo stomaco. Ce l'avrebbe fatta o il coraggio l'avrebbe abbandonata? La sua attesa era stata dominata dall'immaginazione, e adesso che il momento era arrivato... Doveva stare calma, pensare a quello che stava per fare senza preoccuparsi delle conseguenze. La sua vita stava per essere travolta, non poteva ignorarlo. Aveva imboccato una strada che portava nell'oscurità, ma doveva farlo. Bevve un altro bicchierino di cognac e la testa cominciò a girarle. Dovette sedersi sul letto. Il cuore non riusciva a calmarsi. Ancora pochi minuti e si sarebbe trovata faccia a faccia con Lui, con l'uomo più potente d'Italia. Non riusciva a pronunciare il suo nome nemmeno nella mente. Le venne voglia di scappare, di correre giù per le scale e andarsene per sempre da quel villino osceno. Era giusto buttare la propria vita in questo modo? Avrebbe voluto piangere, ma il terrore le bloccava il respiro. Si lasciò andare sdraiata sul letto e chiuse gli occhi. Un attimo dopo era in piedi. Le era sembrato di sentire dei passi. Andò alla porta e ci appoggiò sopra l'orecchio. Sentì solo il suono ovattato di una musichetta, accompagnato dal solito mescolio di voci maschili e risatine acute. Socchiuse la porta e i rumori le arrivarono più chiari, creando nella sua mente l'immagine della tavolata. Il lungo corridoio debolmente illuminato finiva quasi nel buio, e in fondo riappariva un po' di luce che veniva dalle scale. Spinta da una curiosità morbosa si azzardò a uscire dalla stanza, e camminando in punta di piedi andò ad affacciarsi alla balaustra. Ora distingueva bene le voci, ogni tanto anche qualche parola. Rimase a origliare per un tempo infinito, paralizzata dalla paura di essere scoperta... 

A un tratto l'atmosfera al piano terra cambiò, qualcuno aveva alzato il volume della musica. Si sentì un bicchiere andare in frantumi, e poi risate, urletti. Simonetta corse in camera. Mandò giù un sorso di cognac direttamente dalla bottiglia. Si fece il segno della croce, alzò gli occhi al soffitto pregando la Madonna di assisterla. Strinse i denti e si fissò nello specchio. Provò a sorridere. Un orrore. Provò ancora e ancora, sembrava una pazza. Finalmente riuscì a fare un sorriso adatto ad accogliere un uomo. In quel momento capì che ce l'avrebbe fatta... e dopo succedesse quello che doveva succedere. Andò a sdraiarsi sul letto, la testa abbandonata sui cuscini. Rimase così, a fissare la maniglia della porta... e lasciò che i minuti passassero senza di lei. 

Sentì dei passi nel corridoio e d'istinto si tirò su. La porta si aprì lentamente, e un istante dopo apparve... il Duce. Era in abiti borghesi, senza giacca e senza cravatta. Sembrava che avesse bevuto molto. Si chiuse dietro la porta e sorrise, molleggiandosi leggermente sui talloni. 

- Fedora ha ragione, sei una bellezza - affermò con decisione, raschiandole la pelle con gli occhi. 

- Siete gentile. - Riuscì a sorridere come immaginava facessero le altre ragazze in quelle occasioni. 

- Spero ben che sei putanassa quanto sei bella, porco boia! - Le rovinò addosso e cominciò a stringerle i seni, ficcandole in bocca un'enorme lingua ruvida. Ancora qualche palpata, qualche bacio bagnato, e Simonetta si ritrovò nuda a quattro zampe. Non era così che si era immaginata quel momento, non era così che doveva andare. Cercava di svincolarsi, di voltarsi verso di lui, ma due mani potenti la rimettevano in posizione. 

- Cosa volete fare? - si azzardò a dire. Il Duce rideva. Si era semplicemente calato i pantaloni, senza nemmeno togliersi le scarpe. 

- Mi piace domare le vacche, porco boia! - La penetrò in un colpo, e il lamento acuto della ragazza lo invogliò a darci dentro più forte. Quando vide il sangue gocciolare sui lenzuoli, la monta si fece selvaggia. 

- Vacassa di una vergine... prendi 'sto bel manganello... putanassa... - Ogni colpo sembrava una martellata. Simonetta si sentiva sventrare, mordeva il cuscino per non urlare. Mentre il dolore diventava via via più sopportabile, l'umiliazione cresceva. Non era così che doveva andare, non così. 

A un tratto il Duce si divincolò, e gli uscì dalla gola una specie di grugnito. Ancora qualche colpo, sempre più lento. Finalmente si fermò, con il respiro affannoso. Rimase a gravarle sulla schiena. 

- Sei una bella vacca, mondo boia... una gran bella vacca... ma com'è che sei vergine? Anzi... eri vergine. - Sorrise, dandole un buffetto sul viso. Simonetta non disse nulla. Le sembrava di essere in un sogno. Il Duce finalmente si staccò e scese dal letto. Si tirò su i pantaloni, si allacciò la cintura. Simonetta si voltò e rimase sdraiata. Aveva il fuoco nella pancia, si sentiva annientata, ma si sforzava di apparire tranquilla. Il Duce si sedette sul bordo del letto, guardandola con una certa inverosimile dolcezza. 

- Sai che sei simpatica? - disse, accarezzandole una coscia. 

- Grazie... - 

- Com'è che ti chiami? - 

- Sissi. - Sorrise, ancora stordita dalla brutalità dell'accoppiamento. Si sentiva soggiogata dallo sguardo del Duce. 

- Mi sei piaciuta, vacca boia! Tornerò a trovarti. - 

- Sarò qui ad aspettarvi. - Invitante e civettuola. Doveva rivederlo, non poteva finire così! Non avrebbe avuto senso. 

- Anzi, bella... Vieni subito qua che m'è venuta una voglia... - disse il Duce aprendosi i pantaloni. Con una mano le afferrò i capelli dietro la nuca, tirò a se quel bel viso di studentessa e glielo infilò nella bocca che ancora non era duro. 

- Insomma eravate vergine... - disse la Signora seduta sul bordo del letto, guardando le macchie rosse sui lenzuoli arruffati. Era arrivata pochi minuti dopo che il Duce se n'era andato, e prima di entrare aveva bussato. Simonetta era rimasta sdraiata a fissare il vuoto. Si sentiva perduta, ma ormai rinunciare all'impresa era peggio di qualsiasi altra cosa. 

- Raccontatemi com'è andata - disse la Signora, senza nessuna morbosità. Sembrava sinceramente curiosa. Simonetta le raccontò tutto per filo e per segno, con un'impudicizia di cui non si sentiva capace. Non era lei a parlare, era la prostituta Sissi. La puttana deflorata dal Duce. 

- Avete avuto quello che volevate. A partire da domani lavorerete insieme alle altre ragazze - disse la signora Fedora, alzandosi. 

- Ve l'ho promesso - esclamò Simonetta in un soffio. Aspettò che la Signora fosse uscita e scoppiò a piangere, premendo il viso sul cuscino per non farsi sentire. Il desiderio che tutto avvenisse in quell'incontro era svanito, ma ormai sapeva che sarebbe andata fino in fondo. Avrebbe lavorato insieme alle ragazze e stringendo i denti avrebbe atteso quel momento. 

Seguirono notti intense, popolate di uomini potenti e insaziabili... Balbo, Ciano, Ricci, Muti, Freddi, l'affabile Pavolini, De Bono con la sua barbetta bianca e molti altri ancora. Sottofondo di musica allegra, e alcune rare volte anche un po' di jazz. 

Sissi era la più ambita, e imparò presto tutto quello che si poteva fare dentro un letto o distesi su un tappeto, o magari sopra il tavolo dove gli altri ospiti stavano ancora mangiando. Imparò anche a fingere il piacere con sguardi e sospiri e mugolii, per accorciare la durata dell'uomo e sottrarsi agli abbracci. C'era però chi si addormentava solo dopo averne fatte almeno tre, come quella bestia di Muti. Era lui il peggiore di tutti. Una volta durante la cena aveva raccontato le sue imprese sessuali con adolescenti abissine, vendute dai loro padri per pochi spiccioli. Le sue stesse parole lo avevano così eccitato che trascinò in camera due ragazze prima del dolce. Una era Simonetta, ovvero la Sissi. 

L'eleganza esteriore del villino si mescolava con la volgarità di ciò che ospitava. Ma non aveva importanza. Ormai Sissi si sentiva così distante dall'antica Simonetta che riusciva a non provare più nessuna umiliazione. Passando da un uomo all'altro aspettava con pazienza che il Duce tornasse al villino. Solo in qualche rara occasione, sotto il gelo che la avvolgeva aveva sentito accendersi una fiammella di piacere... che le aveva procurato una sottile angoscia. Cosa c'entrava il piacere? Le era capitato solo con Ciano e con Balbo, a dire il vero. Fra tutti, loro due erano i meno aggressivi, anzi a volte riuscivano addirittura a comportarsi con gentilezza. E Simonetta viveva brevi momenti di abbandono, quasi di gratitudine. Ma era soprattutto colpa della solitudine profonda che l'accompagnava. Era sola, sola, sola... non poteva confessare a nessuno quello che aveva in mente! 

Un sera, prima di cena, la signora Fedora disse alle ragazze che quella sarebbe stata una notte speciale, riservata a pochi illustri. Era in programma l'arrivo di un ospite d'eccezione, un potente del Terzo Reich. Le ragazze morivano dalla curiosità di sapere chi fosse, e dopo averle tenute un po' sulle spine la Signora pronunciò il nome. 

- Hermann Goering. - Ci fu qualche secondo di silenzio, e bocche aperte per lo stupore. Goering era già venuto un anno prima, ma le ragazze non erano le stesse. 

- Goering è quello grasso? - chiese Monica, una rossa con i riccioli irrequieti. 

- Proprio lui. - 

- Non ha l'aria di essere troppo pericoloso - rise Tatiana, una biondina con gli occhi color del cielo. Le altre risero con lei, tranne Simonetta. Non le erano mai piaciuti i tedeschi, anche se non ne aveva mai visto uno in carne e ossa. 

Su Goering si dicevano cose sensazionali. Per esempio che aveva un bunker sotterraneo dove aveva nascosto migliaia di dipinti di valore inestimabile, sottratti nei vari musei dei paesi sottomessi al Terzo Reich. Forse erano solo leggende, ma di certo la sua ricchezza era incalcolabile. 

La Signora disse che naturalmente alla festa avrebbero partecipato alcune delle massime autorità del governo fascista. Tre o quattro in tutto, e forse ci sarebbe stato anche il Duce. A quelle parole Simonetta sussultò, ma nessuno se ne accorse. La Signora passò alle raccomandazioni. Dovevano usare la massima gentilezza, essere cedevoli al punto giusto, assecondare ogni più piccolo desiderio degli ospiti, qualunque fosse. 

Non erano ancora le nove quando la Signora avvertì le ragazze che Goering era già arrivato, con largo anticipo. Il tedesco aveva chiesto di poter rimanere da solo in una stanza, per prepararsi alla festa. Si era chiuso dentro portandosi appresso una grossa valigia, e due giovanissimi SS si erano piazzati ai lati della porta. 

Alle dieci si fermò sul retro del villino la prima macchina, lunga e nera. Altre due seguirono poco dopo. Gli uomini entrarono con passo sicuro e cominciarono a sedersi alla lunga tavola, intervallati dalle ragazze. La Signora aveva fatto sedere Simonetta accanto alla sedia dell'ospite più importante, una grande sedia ancora vuota. La sedia di Goering. 

Nell'attesa che il braccio destro di Hitler arrivasse, fu servito champagne, mentre Rabagliati faceva da sottofondo alle chiacchiere. Quando c'erano dei tedeschi la signora Fedora evitava il Trio Lescano. Qualche mese prima, durante una cena con Hitler e i suoi fedelissimi, Heydrich aveva chiesto con una smorfia di togliere dal grammofono quelle tre ebree di cui non sopportava la voce. 

La serata prometteva bene, gli ospiti erano allegri. Oltre a Pavolini, di italiani c'erano solo Balbo, Dino Alfieri e Renato Ricci. Muti era appena ripartito per l'Abissinia, dissero. Ciano invece mancava perché voleva assolutamente evitare l'imbarazzo di incontrare il suocero in una casa di tolleranza. Ci fu qualche risata. 

- Dunque Sua Eccellenza Mussolini verrà? - domandò la Signora. Il ministro Pavolini disse che poteva anche darsi, ma che nessuno poteva saperlo. Simonetta si morse le labbra. Sperava con tutto il cuore di vederlo arrivare, di ammaliarlo e di salire in camera con lui. Questa volta sarebbe andata come voleva lei. Nel frattempo non le restava che continuare la commedia. 

Finalmente un alto ufficiale delle SS venne ad annunciare che Sua Eccellenza il ministro Goering stava per fare il suo ingresso in sala, e se ne andò in fretta sbattendo i tacchi. Si alzarono tutti in piedi, mormorando. Dopo un lungo minuto si sentirono dei passi avvicinarsi, e nella sala calò il silenzio. Sulla soglia apparve una specie di enorme baldracca in un pigiama di seta rosa trasparente, con una vistosa parrucca gialla, babbucce rosse ricamate in oro, collane di perle, il rossetto, gli occhi impiastricciati e le dita ricoperte di grossi anelli. Era lui, Hermann Goering, il braccio destro del Führer, uno degli uomini più potenti e ricchi del mondo. 

Goering si avvicinò al tavolo come nulla fosse, sorridendo e facendo l'occhiolino come una vecchia mignotta. Si lasciò andare sulla sua sedia, permettendo a tutti gli altri di fare altrettanto. Simonetta lo sbirciava inorridita, ma non osava fiatare. Nessuno osò fiatare finché proprio Goering scoppiò in una risata grassa, trascinandosi dietro tutta la tavola. La tensione si dissolse in un istante. Solo Fedora era un po' ansiosa. Dove lo andava a trovare un ragazzo giovane e bello per accontentare le inclinazioni del potente nazista? 

Il menu era estremamente raffinato. I cuochi per il villino erano stati scelti tra i migliori di Roma. Le bottiglie vuote venivano rimpiazzate all'istante da due camerieri addetti soltanto a quel servizio, e già a metà della cena si sentivano risate sguaiate. Arrivò il dolce, ricoperto di panna bianchissima. 

Le preoccupazioni della Signora su Goering dovevano rivelarsi inutili. Non c'era nessun bisogno di trovare un ragazzo per farlo divertire. Anzi fu proprio lui a dare inizio alla festa. Si alzò la vestaglia e diede aria all'uccello, poi afferrò un seno di Simonetta come fosse una cosa sua. 

- Fammi vedere cosa sai fare - disse in tedesco. Pavolini tradusse e tutti risero. Dopo un attimo di incertezza, Simonetta si rassegnò a obbedire e sparì sotto il bordo del tavolo. I maschi cominciarono a darsi da fare, senza smettere di gustare il dolce. Quando arrivarono i liquori si diede inizio alla caccia. Le ragazze furono abbrancate, spogliate, sdraiate sui tavoli e sui tappeti, cosparse di panna e leccate. La signora Fedora andò ad alzare il volume della musica e se ne andò, per non essere coinvolta nell'orgia. Al suono di un fox-trot, Balbo aveva fatto inginocchiare Monica sotto il tavolo e le aveva imposto il suo uccello cosparso di panna. Goering aveva trascinato Simonetta e Lalla sopra un divanetto e le toccava dappertutto, con gli occhi sorridenti e la parrucca bionda calata da un lato. Pavolini aspettò di finire il dolce con calma, gustandosi la scena, poi strappò Monica dalle mani di Balbo e la spinse su per le scale, dicendole oscenità. La bionda Irene era appoggiata al muro, e Ricci le dava colpi da dietro. Nell'aria si diffondeva un forte odore di sudore e di sesso... 

A notte fonda si sentiva solo Goering che russava come un porco, disteso nudo sui tappeti della sala da pranzo. La sua parrucca era rimasta sul divanetto. 

Le settimane passavano, per Simonetta sempre più lunghe e snervanti. 

Un mercoledì venne annunciata una festa per pochi intimi in onore di Ettore Muti, che era appena tornato dalle Colonie. Ci sarebbe stato anche il Duce, la cosa era certa. Simonetta era agitata, non faceva che mordersi le labbra. Pregò la signora Fedora di farla sedere accanto a Mussolini, e ricevette in cambio un sorriso carico d'intesa. 

Arrivarono in quattro. Balbo, Pavolini, Muti e il Duce. La cena era squisita, l'atmosfera calda e accogliente. Le ragazze si piegavano a ogni minimo desiderio degli ospiti, arrendevoli come moscerini al vento. Le chiacchiere andavano dai ricordi di gioventù alle osservazioni sulla situazione spagnola o sull'Inghilterra, dai futuri sogni di gloria alle battute sul papa... 

A un tratto il Duce si alzò in piedi, prese Simonetta per un braccio e s'incamminò su per le scale. 

- Ce l'ha sempre duro - mormorò Muti, e tutti risero. Simonetta sudava, ma sentiva freddo nelle ossa. Il corridoio in penombra le sembrava la pedana di un patibolo. Ogni volta che il Duce la palpava lanciava un urletto e sorrideva. Sembrava una perfetta puttana. Mai come in quel momento si era sentita divisa in due. Una metà era la Simonetta studentessa, figlia di una vedova triste e rassegnata. L'altra metà era Sissi, una ragazza del bordello più esclusivo di Roma. 

- La mia stanza è questa - disse, passando una mano sulla patta del Duce. 

- Ti spacco in due, vacca boia! - La spinse dentro e la buttò sul letto. Un attimo dopo aveva i pantaloni abbassati, pronto a infilzare la preda. Ma Simonetta era diventata più esperta, sapeva che gli uomini eccitati sono come bambini. Riuscì a dirigere il gioco con carezze e giochi di lingua, rallentando la foga del Duce. La vera Simonetta osservava la scena impassibile, aspettando il momento tanto atteso. Finalmente cominciò la cavalcata, faccia a faccia come lei aveva deciso che fosse. 

- Schifosona... - 

- Sì... - 

- ...vaccassa... - 

- ...sì... - 

- ...prenditi 'sto bel martello... - 

- ...sì... sì... - 

- ...ti spacco in due... putanassa... - 

- ...sì... sì... sì... - Era arrivato il momento. Ora o mai più. Simonetta non voleva cambiare il corso della Storia. Simonetta non aveva nessuna coscienza politica. Simonetta non si preoccupava di come il mondo avrebbe reagito. Voleva solo vendetta. Una vendetta personale a cui non aveva saputo resistere. Fece scivolare una mano sotto il materasso, e cercando con le dita trovò finalmente il manico del coltello. Un coltello da cucina con la punta acuminata e la lama sottilissima. Aveva pensato a lungo a come poteva fare. Una pistola non avrebbe saputo come trovarla. Il veleno? Non se ne intendeva. Alla fine le era rimasto solo il coltello. Concentrata in un secondo immaginò la scena... Il coltello stretto in mano, la lama che affonda veloce nella schiena del Duce come fosse burro, il sangue che schizza, i rantoli, e finalmente la morte... 

Adesso! 

Sfilò il coltello e lo alzò in aria, ma indugiò un secondo di troppo... il Duce fece in tempo a vederla, le afferrò il polso e glielo torse fino quasi a spezzarglielo. Quando il coltello cadde in terra il Duce si alzò in piedi. 

- Mi volevi bucare la pelle, vacca! - Si tirò su i pantaloni. Simonetta tremava, addossata alla spalliera. Solo adesso si rendeva conto di quello che si era messa in testa di fare. Era stata una pazza. Si sentiva schiacciare dalla paura, e pensava a sua madre che la stava aspettando sveglia per ascoltare le sue bugie. Avrebbe voluto essere già a casa, sotto le coperte. Il Duce prese da terra il coltello, e dopo aver saggiato il filo della lama con un dito lo gettò sopra il comò. 

- Dimmi chi ti manda! - La sua mascella si gonfiava ritmicamente, e gli occhi erano due forni accesi. 

- Nessuno... - mugolò Simonetta, atterrita. 

- Non farmi fumare i coglioni! - 

- Nessuno, lo giuro. - 

- Perché volevi ammazzarmi? - Si era piazzato in fondo al letto e la guardava fisso. Simonetta non riusciva a parlare. 

- Perché volevi ammazzarmi? Voglio saperlo. - 

- Io... - 

- Dimmi perché! - Stava perdendo la pazienza, stringeva i pugni... Simonetta scoppiò a piangere. 

- È per... per mio fratello... - biascicò, asciugandosi le lacrime con le dita. 

- Chi diavolo è tuo fratello? - 

- L'avete ammazzato voi. - 

- Io? E come si chiamava? - 

- Spartaco... - 

- E poi? - 

- Magrelli. - 

- Non so chi sia - disse il Duce, cercando nella memoria. Sembrava stranamente calmo. 

- L'avete ammazzato voi... - ripetè Simonetta in un sussurro. Adesso non piangeva più, nemmeno tremava. Era solo sbalordita. Stava parlando a tu per tu con il Duce in persona, e non se ne capacitava. 

- Raccontatemi tutto - disse lui incrociando le braccia sul petto. Il suo labbro inferiore sporgeva come quello di un bambino imbronciato. Simonetta esitò qualche secondo, poi cominciò a parlare... 

- È stato nel '22... abitavamo a Bologna... mio fratello stava facendo non so cosa nella tipografia di un amico... - Simonetta raccontò come erano andate le cose, con un filo di voce. Spartaco stampava manifesti contro le Camicie Nere, e la notte li andava ad attaccare. Quel pomeriggio alla tipografia aveva portato con sé la sorellina di sette anni. Doveva fare solo un salto a controllare qualcosa, poi sarebbero andati a mangiare un gelato. La bambina era uscita nel cortile per andare a fare pipì, e tornando si era fermata a spiare dalla porta con l'intenzione di fare uno scherzo al fratello. Ma quando aveva visto la scena si era bloccata sulle gambe. Dei tipi con la giacca nera e il cappello tenevano Spartaco schiacciato sopra una sedia, mentre un altro gli rovesciava nella gola una bottiglia. 

- Ti piace la vodka, bolscevico? - E giù risate. 

- Con i saluti personali di Benito Mussolini... - Altre risate. 

- È vero che i rossi non hanno le palle? - Si sganasciavano. Ma purtroppo non era finita lì. A un tratto era apparsa una corda, era stata agganciata chissà dove e la testa di Spartaco era finita dentro un cappio. 

- Salutaci quel finocchio di Carlo Marx. - Spartaco era stato tirato su a forza di braccia. Soffocava lentamente, scalciando in aria come un cavallo. E finalmente era morto. Gli uomini se ne erano andati fischiettando, lasciandolo a ondeggiare come un salame. Non potevano sapere che gli occhi di una bambina avevano visto tutto. 

- Ecco, ora sapete perché ho cercato di... - Simonetta non riuscì a pronunciare l'ultima parola. 

- Non ne sapevo nulla - disse il Duce, con una certa incomprensibile soddisfazione. Aveva una voce calda e tranquilla, ma i suoi occhi erano due palle di cannone. 

- Quegli uomini... hanno fatto il vostro nome... - si azzardò a dire Simonetta, con la gola aspra di lacrime. 

- Sono state fatte bestialità anche in nome di Gesù Cristo - disse il Duce, piantato sulle gambe ai piedi del letto. Simonetta strinse i pugni per trovare il coraggio di dire quello che pensava. In fondo cosa importava, ormai. Se era stata così pazza da tentare di uccidere il Duce, poteva benissimo dire quello che le gonfiava il cuore. 

- Comunque sia, siete voi il... - si bloccò. 

- Sono cosa? - Gli apparve una grinza tra le sopracciglia. Simonetta rivide in un istante i lunghi giorni della sua attesa. Sentì un brivido di fierezza. Era stata temeraria, aveva vinto la sua vigliaccheria e si era lanciata a occhi chiusi in quell'avventura senza ritorno. Ora doveva andare fino in fondo. Il suo amato Spartaco la stava guardando di lassù, e non voleva deluderlo. Prese fiato. 

- Siete il colpevole della morte di mio fratello!- 

- Ah, questa è bella! Non ho mai ammazzato nessuno, se non in guerra - disse il Duce. Possibile che tentasse di giustificarsi? E con chi? Con una puttana? 

- Siete voi il colpevole - ripetè Simonetta, fissandolo negli occhi. Non piangeva più. Ecco, era questa la sua vittoria, l'unica che potesse permettersi. Dire al Duce in persona, reggendo il suo sguardo: - Siete colpevole! -. Un attimo dopo si coprì il viso con le mani, terrorizzata. Non sapeva immaginare come sarebbe andata a finire. 

- Aspetta qui, non ti muovere - disse il Duce con voce suadente, sconcertando la ragazza. Senza aspettare altro uscì dalla camera chiudendosi la porta alle spalle, e si sentirono i suoi passi nel corridoio. Simonetta avrebbe voluto fuggire, ma le mancavano il coraggio e la forza. Si sentiva penetrare da una disperazione così intensa che riusciva a malapena a respirare. Rimase rannicchiata sul letto, annientata, mezza nuda, unta di sudore. La vera Simonetta era emersa del tutto, e soffocava di paura e di vergogna... E adesso cosa sarebbe successo? Dov'era andato il Duce? Perché le aveva detto di aspettare? 

Passarono pochi minuti e la porta si spalancò di colpo. Apparve Ettore Muti a torso nudo, ubriaco. Chiuse la porta a chiave, leccandosi le labbra. Si avvicinò al letto e si spogliò del tutto. Il suo uccello duro oscillava in aria, guarnito di vene bluastre che pulsavano. 

- Hai mai assaggiato la verga di un ammazza comunisti? - 

- Che volete fare? - 

- Tutto quello che si può fare con una vacca. - La prese per i capelli e la trascinò in mezzo al letto. Cominciò il divertimento. Il Duce gli aveva sussurrato all'orecchio: Chiavala pure se ti va, poi ammazzala. Era questa la cosa più eccitante, montarla sapendo che tra poco sarebbe morta. Ignara del suo destino si lasciava sbattere in ogni modo possibile. 

- Senti quant'è duro, puttana! Lo senti? - Con modi brutali la fece mettere a quattro zampe e glielo piantò nel culo. Fece scorrere le mani lungo la schiena, le afferrò il collo e cominciò a stringere forte, sempre più forte. Simonetta cercava di liberarsi, scalciava, annaspava. Ma le mani di Muti erano d'acciaio. Il corpo della ragazza si afflosciò piano piano, poi si abbandonò. Muti le lasciò andare il collo e continuò a chiavarla, senza fretta. Quando eiaculò, il corpo si stava già raffreddando. 

Rimase pochi secondi adagiato sopra il cadavere, poi si alzò e si rivestì. Uscì dalla stanza, chiudendo a chiave la porta. Andò a cercare la signora Fedora e le chiese il favore di usare il telefono. 

Il Duce se n'era andato da un pezzo, senza dire nulla alla Signora dell'incidente ma con una decisione già in testa: da ora in poi le ragazze dovevano essere controllate dagli agenti dell'ovra. Non ci si poteva più fidare di nessuno, vacca boia! 

Dopo meno di mezz'ora arrivarono al villino quattro tipi con il cappotto nero, e senza farsi vedere da nessuno portarono via il corpo della ragazza dentro un sacco. Muti aveva fatto in modo che le ragazze e la signora Fedora non ne sapessero nulla. La serata continuò serenamente, tra alcol, musica e sesso. 

Una settimana dopo sulla spiaggia di Ostia venne trovato il cadavere di una ragazza. Era mezza mangiata dai pesci, senza più naso, senza più orecchie. Irriconoscibile. Ma sua madre la riconobbe, per via degli incisivi un po' accavallati. 

PUTTANA - [n.d.] - [n.c.]
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