Le feste non vengono mai da sole

Lorenzo Marone
***
A mia moglie,
che sorride alla vita sempre e comunque.
Alla mia città,
pozzo inesauribile dal quale attingere.
E ad Antò,
che mi ha indicato la strada.


***
“Essere superstiziosi è da ignoranti,
ma non esserlo porta male.”

Eduardo De Filippo 

***
Quando tutto ebbe inizio

Meno otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno…
Ed eccomi a un passo dal nuovo anno. Fra un secondo il tappo della bottiglia di spumante che ho in mano esploderà come un razzo verso la volta celeste. Solo che si fermerà molto prima, due metri più su, contro il soffitto del mio salotto, per poi capitombolare a terra, attratto dalla gravità.
La traiettoria di un tappo di sughero è imprevedibile, segue percorsi strani, molti direbbero casuali. Invece non è così. La fisica potrebbe spiegarci per filo e per segno la parabola del piccolo turacciolo. Non c'è mai nulla di fortuito in un movimento, è sempre frutto di particolari formule algebriche.
Perciò, quando il simpatico oggetto colpisce il soffitto con un'inclinazione tale da farlo balzare dritto nell'occhio di Giovanni, il compagno di mia sorella, non penso, come tutti, a prestare soccorso, ma rifletto su come la fisica, al contrario della vita, sappia il fatto suo.

Qualche giorno prima: il ventitré dicembre

Il ventitré dicembre è una data felice per molti. Si va in ferie, arriva Natale, l'albero, i doni, le cene in famiglia. È un giorno, insomma, nel quale anche il dipendente più triste dovrebbe gironzolare per l'azienda con un bel sorriso stampato sul volto. Ecco, appunto, dovrebbe.
Davanti all'ascensore c'è Anna, il gatto nero dell'ufficio, l'ipocondriaca per eccellenza, quella che quando la incontri sei costretto a portarti le mani ai genitali per non restare folgorato dal malocchio. Non è che porti proprio sfortuna Anna, però se non stai attento e ti metti sulla difensiva con artifizi più o meno superstiziosi, va a finire che ti contagia con la depressione e la negatività che fuoriesce da ogni suo poro.
«Ué Antonio» fa lei mentre l'ascensore ci porta al piano, «che te ne fai a Natale?»
«Be', nulla di particolare, sto in famiglia.»
«Non dire nulla di particolare» mi ammonisce, «è una gran fortuna poter trascorrere le feste in famiglia, per tanti non è così!»
Il che, a dirla tutta, è vero. La maggior parte delle persone ha una vita serena e nemmeno se ne rende conto, come fosse un diritto inviolabile. Però, caspiterina, non c'è alcun bisogno che Anna me lo ricordi, in fondo non ho fatto altro che rispondere a una banale domanda.
«No, figurati, sono contento» provo a controbattere. «Tu, invece, che fai?»
«Siamo soli io e mio marito.»
«E tuo figlio?»
«Dai suoceri. Lo sai come vanno le cose, i figli maschi a una certa età diventano di proprietà delle mogli.»
Abbozzo un sorriso che capisco subito essere fuori luogo dal momento che la mia collega non ha alcuna voglia di scherzare sull'argomento. E, infatti, prosegue:
«Beato te che hai una femmina, almeno ti starà vicino quando sarai vecchio e malato!»
Sposto lo sguardo verso il segnalatore dei piani. Abbiamo appena oltrepassato il terzo, ancora pochi secondi e sarò di nuovo un uomo libero. Ma lei ne approfitta per continuare a maltrattare la mia giornata.
«Perché è così che va a finire Antò, ci ammaliamo e rimaniamo soli, dopo tutti i sacrifici fatti!»
Ora capite cosa significa trovarsi di fronte un simile personaggio? Devo reagire, contrastare il suo maleficio mattutino. Dirigo la mano verso l'inguine. In realtà il gesto è inconsulto ma salvifico poiché, non appena giungo a tastarmi le zone basse, l'ascensore si arresta e le porte si aprono. Il gatto nero si avvia verso la sua stanza, posso finalmente riportare l'arto nella posizione naturale.

A metà mattina mi chiama mia moglie.
«Margherita.»
«Antò, mi ha telefonato tua sorella Teresa, vuole sapere dove trascorriamo il trentuno sera.»
«E che le hai detto?»
«Niente, l'ho invitata da noi, che dovevo fare?»
Ecco, per l'appunto. Non è per mia sorella, figuratevi, né per il figlio Vincenzo, che per me è più di un semplice nipote, ma per il compagno di Teresa, Giovanni, un uomo qualunque, nell'accezione peggiore del termine. Una persona che già quando la guardi pensi: “Questo è arrivato a cinquant'anni senza capire un cazzo”. Uno che una volta mentre conversavamo schiacciò una formica che passeggiava tranquilla su di un muretto. Alla mia domanda sul perché lo avesse fatto, mi rispose stupito:
«Va be', è solo una formica!»
Al che io replicai con voce gelida: «Che c'entra, anche tu sei solo una formica per il pianeta. Eppure se ti calpestano un piede te la prendi!»
Per carità, ce ne sono tanti come lui. Individui che non si pongono mai una domanda, che davvero sono convinti che il significato di tutto sia nel lavoro, nel pagare un mutuo, nel mangiarsi la pizza il sabato sera davanti alla tv e, infine, lasciare una casa ai figli che inizieranno a scannarsi subito dopo il funerale.
Ma che devo fare, `sti tipi mi rendono nervoso. Quelli che non sanno nulla di se stessi, ma tutto del prossimo, che non si sforzano di dare un significato all'esistenza, ma investono l'energia per fregare qualcuno sul posto di lavoro. Chi si sente appagato, in definitiva, dal suo piccolo mondo e non mette mai il naso fuori.
Mi direte, sei troppo pesante, che te ne importa di come vivono gli altri. Giusto, me ne frego, fintanto che tali altri non invadono il mio spazio vitale.
Insomma, passare l'ultimo dell'anno con uno che, anziché sedersi con noi a tavola, gira con l'auto alla ricerca del miglior posto possibile al riparo dai botti, proprio non mi va. Perché vi giuro che qualche anno fa è accaduto proprio questo. Noi cenavamo e lui vagava per i vicoli del quartiere per trovare un anfratto dove sistemare la macchina. Capisco che ormai l'auto è un bene di lusso da trattare con i guanti, ma perdersi un banchetto di fine anno con la famiglia per tutelare un fottuto veicolo è troppo.

Ma torniamo a quel fatidico momento

A Napoli la mezzanotte del trentuno dicembre riporta col pensiero alla seconda guerra mondiale. Per la verità, il bombardamento inizia alcuni minuti prima, perché il napoletano ha un preciso scopo da portare a termine: “Mettersi a' copp'”, prevalere, cioè, sul vicinato nella fantomatica guerriglia urbana dei botti. Allora alcuni, per anticipare i rivali, salgono sui tetti verso le ventitré, in modo da liberare gli ordigni allo scoccare esatto della mezzanotte. Può accadere, però, che il fragile equilibrio si frantumi all'istante nel caso qualcuno anticipi il lancio della prima granata. A quel punto la competizione ha inizio e tutti danno fuoco alle polveri, cosicché quando poi giunge l'ora prestabilita, molti hanno già terminato di sparare.
Molti, ma non tutti. C'è anche chi ha tanti di quei fuochi da poter andare avanti per giorni. E, infatti, alle due di notte, mentre la città si riversa per le strade colme di mortaretti, qualcuno è ancora sopra un tetto a sparare e semmai imprecare perché non può scendere prima di aver consumato l'intero arsenale.
Perciò quando il fatidico tappo colpisce l'occhio di Giovanni, è tale il frastuono che nessuno se ne accorge. Tutti si abbracciano, si baciano, si riparano le orecchie per non rischiare di perdere l'udito. È Nicola, il fidanzato di mia figlia, il primo a rendersi conto dell'accaduto.
«Che è successo?» urla, e indica il malcapitato a terra che si protegge il volto con la mano.
Teresa si accovaccia subito al fianco del compagno, il quale vorrebbe anche spiegare la dinamica dell'episodio, ma un fragoroso boato gli impedisce di parlare. La casa trema e l'anziana signora Pisanelli (poi capirete chi è e perché si trova da me) corre con un grido a ripararsi nel bagno, forse per una reminiscenza di quand'era bambina e la madre la conduceva nei rifugi per sfuggire ai bombardamenti.
Quando infine mia sorella riesce a ispezionare la ferita del compagno, si lascia andare anche lei a uno strepito. A quel punto, al povero Giovanni non resta che entrare nel panico. In effetti, l'occhio si sta gonfiando ed è pieno di sangue, tanto che anch'io, che fino allora guardavo la scena divertito, mi sento in dovere di fare il serio.
«Antò, lo dobbiamo portare in ospedale!» tuona mia moglie.
In breve l'intera tavolata accerchia lo sventurato. Violante, mia figlia, fissa per un istante Giovanni e poi ritrae lo sguardo, rincuorata da Nicola, il ragazzo alternativo dalla testa a forma di fungo atomico.
«Allargatevi!» grida Teresa ormai in preda a una crisi di nervi, «così non lo fate respirare!»
Vorrei spiegare a mia sorella che il compagno si è ferito a un occhio, non a un polmone, però credo che l'uscita sarebbe fuori luogo. Perciò decido di restarmene in silenzio, anche perché la situazione si è fatta d'improvviso nera.
Non sono come il vicinato che ama condurre una guerra personale con i fuochi d'artificio, ma nel mio piccolo avevo acquistato qualche bengala e delle Stelline di Natale. Quando qualche ora fa mio nipote Vincenzo si è avvicinato alla busta contenente i botti e ha domandato con sdegno: “Zio Antò, e quest'è? Hai preso solo qualche bengala?”, ho risposto fiero: “Be', che c'è, non ti piacciono i bengala? Mettono allegria, quello che dovrebbero fare i fuochi, anziché abbattere le pareti”.
Insomma, già pregustavo l'idea di accendere la mia batteria completa che avrebbe innescato un'imponente cascata di luce che a sua volta si sarebbe riversata sulle piante della signora Covelli, la quale, come ogni anno, la mattina seguente avrebbe bussato alle dieci in punto per la consueta ramanzina. Quindi l'imprevisto mi ha rovinato il piano e la serata. D'altronde, gli imprevisti si chiamano così proprio perché giungono all'improvviso e interrompono qualcosa.
Il vero problema, in realtà, non è tanto sospendere il programma bengalesco quanto uscire di casa in questo momento. Ci sono ottime possibilità di restare vittima di un proiettile vagante o, peggio ancora, finire sulla cosiddetta “Capa di Lavezzi”, una delle granate più potenti in circolazione, capace di disintegrare qualunque cosa all'istante.
«Zio, ti accompagno io» interviene mio nipote Vincenzo con un impeto di coraggio.
Nel frattempo Giovanni si è rimesso in piedi. Sul pavimento ora c'è Teresa, la quale ha avuto un mancamento, cosicché tutti adesso sono attorno a lei.
«Vengo anch'io» mormora da terra, «Giovanni ha bisogno di me.»
«Teré» intervengo, «ma dove vai tu, qui fuori è Beirut, e poi non ti reggi in piedi! Viene Vincenzo.»
Afferro il giubbino, le chiavi dell'auto e apro la porta di casa. Margherita mi raggiunge sul pianerottolo, mi carezza la guancia e mi fissa con occhi lucidi. Poi si volta e si allontana, nemmeno fossi un soldato che sta per andare al fronte.

Ancora il ventitré dicembre

Alle undici mi viene a chiamare Adriano, il collega-amico della stanza accanto col quale fumo le mie tre sigarette giornaliere e parlo del più e del meno.
«Antò, vieni, dobbiamo dare il regalo all'ingegnere.»
L'ingegner Adinolfi è il capo e lo scambio dei regali è una delle tante abitudini spiacevoli dell'azienda. Una pratica annuale che tutti i soggetti interessati svolgono con finti sorrisetti di circostanza e zero coinvolgimento. Se nel corso degli anni non avessi messo in atto con pignoleria l'arte del “riciclo regali” ora mi ritroverei con una collezione infinita di gingilli inutili: svuota tasche, reggi carte, tagliacarte, posacenere.
Mi defilo in un angolo e osservo la scena in modo distaccato. Almeno fino a quando un collega, tal Pasquale Maionchi, consegna il nostro dono al capo. Pasquale Maionchi è uno degli impiegati più anziani, da circa trent'anni in azienda. Fra le varie mansioni che ricopre con impegno, tipo la preparazione del caffè tre volte al dì, ha anche il compito di organizzare la colletta di Natale per acquistare qualche raro oggetto d'arte o di antiquariato dal cugino che lui sostiene essere un grande gallerista di Pompei.
Ora, non ho mai pensato che Pasquale ci inganni e si freghi i soldi, al più risparmierà la sua quota, però quando l'ingegnere termina di aprire l'imballo è proprio quello che penso. Perché il quadro che ne esce è così orripilante da sembrare uno scherzo, un oggetto trovato vicino a un bidone dell'immondizia. E, infatti, il destinatario di cotanta bruttezza, dopo un momentaneo imbarazzo, alza il viso e si guarda intorno, forse aspettandosi che qualcuno sorrida e gli riveli l'inganno.
«Non le piace?» chiede Pasquale con aria offesa.
«No, Pasquà, che dici, è bellissimo!» ribatte Adinolfi con un mezzo ghigno. Quindi ricambia il favore con un altro soprammobile in vetro che già mentre lo scarto so a chi destinare.

«Dottor Esposito, auguri!» esclama Salvatore Barletta non appena mi vede.
Barletta è l'amministratore del mio stabile. Ha settant'anni e nulla da fare se non occuparsi delle questioni condominiali. Oltre a essere uno dei pochi a Napoli a darmi del Dottore. Non che io non lo sia. Ma poiché ho la malsana abitudine di andarmene in giro senza la giacca e la cravatta, molti credono che non meriti l'appellativo.
«Buonasera signor Barletta, auguri anche a voi» replico mentre schiaccio il pulsante per chiamare l'ascensore.
Con Salvatore Barletta ci si dà del voi, il lei proprio non gli entra in testa. In ogni caso l'amministratore ha sempre qualcosa d'importante da dire, qualche rivelazione dell'ultima ora. Perciò, se non arriva subito l'ascensore, corro il rischio di rimanere nell'androne per il resto del pomeriggio, impegolato in faccende del tutto irrilevanti per la mia vita, ma non, purtroppo, per quella del mio interlocutore.
«Dottore, volevo dirvi che nella prossima rata troverete una piccola voce riguardante le luminarie di Natale.»
Ecco, come non detto. Mi limito ad assentire per non dargli corda, ma lui prosegue.
«Quest'anno ho aperto i cartoni e ho trovato tutte le luci fulminate. Credo sia stata l'umidità.»
«E va be', capita» commento, in mancanza d'idee a tal proposito.
«E che dovevo fare, non le dovevo comprare? E poi rimanevamo senza illuminazione, e un Natale senza luci che Natale è!»
«Avete fatto bene.»
«No perché Del Vecchio su al sesto già se n'è uscito con una frase del tipo: “Potevate interpellarci prima”.»
«Per una luce?»
«Quello che ho risposto io. Che ci dobbiamo riunire anche per decidere gli addobbi natalizi?»
Annuisco, stavolta molto più convinto di prima.
«Ma tanto Del Vecchio lo conosciamo no? Sempre pronto a fare polemiche.»
«Già» commento laconico mentre l'ascensore infine giunge al piano terra. «Ora vi devo lasciare, ci vediamo domani per gli auguri.»
«Salgo con voi» fa lui.
Niente da fare, liberarsi del Barletta è più complicato che affrancarsi dal proprio passato.

Faccio parte della categoria di persone che si riducono a comprare i regali di Natale il ventitré pomeriggio. Ogni anno mi riprometto di non cascarci, che la prossima volta mi organizzerò in tempo, ma poi è sempre la stessa storia.
C'è chi si prepara un mese prima, stila una lista con i nomi e i corrispettivi doni da acquistare. È il caso per esempio di mia figlia Violante. L'altra sera era sul divano con Margherita, con un foglio in mano pieno di appunti. Ho anche tentato di sbirciare ma sono stato ricacciato indietro senza tanti convenevoli.
Io, purtroppo, non provo la stessa emozione per il Natale. Nell'approssimarsi delle feste mi faccio anche prendere dall'euforia, che però mi passa quasi subito, in genere già il giorno della Vigilia. È che durante le vacanze si ha molto tempo libero a disposizione e io sono il nemico numero uno del tempo libero. Una persona normale utilizza le ferie per rilassarsi, semmai dedicarsi un po' a sé, io invece passo le giornate a pensare e il più delle volte tali pensieri non sono nemmeno tanto carini. Ho un cervello diverso dagli altri, non si ferma mai. Così, se non lo tengo occupato, lui gira e gira e gira finché gli ingranaggi non si usurano e mi scoppia un mal di testa colossale che per farmelo passare devo solo dispormi sul divano in posizione tantrica.
Ma l'operazione in casa mia è alquanto difficile poiché il divano è di proprietà del cane, tale Napoleone, un bulldog che non si vede e non si sente mai, se non per mangiare o, qualche volta, fare le feste. Altrimenti è sempre sdraiato sul divano, appunto, che se sei sovrappensiero ti ci siedi sopra e lo schiacci. E pure in tal caso lui non si lamenta, abbaiare richiederebbe troppo sforzo.
Insomma, tutto ciò per dirvi che sono la persona meno indicata per passare del tempo con me. Perché, come sempre, va a finire che litigo con il mio Io e trascorro il resto delle vacanze imbronciato con lui.
Con gli anni ho capito che l'unica arma a disposizione è riempire la vita di cose per lo più inutili: il lavoro, un adempimento, un hobby, un appuntamento. Devo correre, girare a mille, mantenere indaffarato il cervello e non dargli la possibilità di arrovellarsi. Anche se, in realtà, io e il cervello conduciamo una vita separata. Lui non è mai dove sono io.
È faticoso, ma sono sicuro che c'è qualcuno tra voi che può capirmi. Perché ce n'è di gente che colma il tempo con cose superflue pur di non guardare in faccia la verità. Al mondo ci sono due categorie di persone: quelle che definirei più o meno “normali”, che a un certo punto della vita si accorgono di avere un problema, un'insoddisfazione, chiamatela come volete, e l'affrontano semmai con l'aiuto di un terapeuta, di un amico, di un massaggio, dello yoga o di un amante, e gli “struzzi”, così definiti perché non cacciano la testa da sotto la sabbia. Qualunque cosa accada, loro non vogliono sapere, non vogliono vedere, proseguono imperturbabili.
Io faccio parte della seconda tipologia, anche se la mia condizione è peggiore rispetto a uno struzzo originale. Quest'ultimo attua un comportamento più o meno inconsapevole, io invece sono del tutto cosciente di ciò che faccio. Non mi va di scrutarmi troppo, ho paura di guardarmi dietro, già mi basta il davanti. Sono come la luna, una parte di me rimane sempre al buio.

Sono ancora al primo regalo, quello per Margherita, quando mi telefona Violante.
«Pà.»
«Ué.»
«Senti, ti volevo chiedere una cosa.»
«Prima io. Sto girando da un'ora, non mi viene in mente nulla da regalare a tua madre. Mi dai un consiglio?»
«Pà, ma che ne so? Un orologio.»
«Già fatto un paio di anni fa.»
«Mm, un abbonamento in un centro benessere.»
«Comprato l'anno scorso.»
«Va be', state insieme da sempre, vi siete regalati tutto. Piuttosto, mi stai a sentire?»
In effetti, Violante ha ragione, ci siamo regalati tutto. Dopo più di vent'anni gli oggetti e, soprattutto, le idee iniziano a scarseggiare.
«Ok, dimmi.»
«Volevo sapere se Nicola può venire da noi domani sera e il trentuno.»
«Perché, non ha una famiglia?»
«Sì, ma vanno fuori, lui invece vuol restare con me.»
«Mamma che dice?»
«Mamma non fa problemi, lo sai.»
Il che significa che a farne sono io. Il dilemma non è tanto Nicola in sé, quanto il fatto che il ragazzo ha più capelli in testa che peli sul viso. Credo, cioè, che Violante sia ancora giovane per una storia seria. L'adolescenza è una fragranza che evapora troppo in fretta per non inalarne fino all'ultimo il dolce aroma.
Ma alla fine so che è inutile, ognuno si sceglie il percorso che al momento gli sembra migliore. In fin dei conti siamo animali, possiamo ragionare quanto vogliamo, sarà sempre l'istinto a farci imboccare una strada anziché un'altra. E poi ciò che conta davvero è viversi il presente, senza pensare troppo alle conseguenze delle nostre azioni. Il futuro è bene lasciarlo ai sogni.
Perciò decido di darle il mio assenso, non prima però di averle ricordato una cosa fondamentale: che qualunque scelta compia, in qualunque momento, il fine ultimo deve essere il suo benessere. La vita è troppo preziosa per barattare la felicità in cambio di un po' di sicurezza.
Questo è quello che le vorrei dire e non le dico. Perché mentre sto per rispondere, adocchio il regalo per Margherita. Solo che ne è rimasto uno e ci sono altre persone interessate.
Comunico a Violante che per me va bene e la saluto.
Il discorso sulla felicità per ora è rimandato.

La notte di Capodanno: il trasporto in ospedale

Ho sostenuto che Giovanni era un pazzo a girare con l'auto alla ricerca di un posto riparato. Bene, mi rimangio tutto. La ruota della mia macchina è scoppiata, distrutta da un botto esploso a breve distanza. Ed è così che la premura di Giovanni viene in nostro soccorso, perché per fortuna possiamo utilizzare la sua vettura. Per il futuro mi devo ricordare di non prendere più posizioni così drastiche, si rischia di fare una brutta figura.
Il problema, tuttavia, è che l'automobile in questione è parcheggiata a un isolato di distanza. E secondo voi a chi tocca coprire il percorso? Così mi trovo a correre rasente il muro dei palazzi, come un topo, con il giubbino sulla testa e la schiena curva, che se qualcuno riprendesse la scena potrebbe tranquillamente spacciarla per una ripresa di guerra nell'area mediorientale.
Per fortuna arrivo illeso all'obiettivo. Solo che, dannazione, un tipo come Giovanni poteva mai lasciare la macchina incustodita, senza un qualsiasi antifurto? Impossibile. Anche se il blocco al volante proprio non me lo aspettavo, credevo fosse ormai un ricordo di tempi lontani. Invece, mentre intorno a me scoppiano ordigni nucleari, mi ritrovo a combattere contro il disco di ferro rosso che avvolge lo sterzo, che per estrarlo s'impiega dai sette agli otto minuti, imprecazioni escluse. Ma come si fa, dico io, a non svegliarsi una mattina e pensare: “Ok, adesso devo trovare una soluzione per l'antifurto dell'auto, non posso mica mettere e togliere quell'arnese infernale per sempre!”. Che poi, una volta sganciato, dove lo appoggi quel coso così ingombrante? Che fai, scendi dall'auto e lo infili nel portabagagli? E non fai prima a comprarti un abbonamento annuale alla metropolitana?
Dopo dieci minuti riesco a tornare sotto casa e a prelevare Giovanni e mio nipote. Ora arriva la parte più difficile, lanciarsi per le vie sotto le bombe. Per fortuna il tragitto è breve. Solo che l'asfalto è costellato di botti e rifiuti di ogni genere, cosicché sono costretto a fare lo zigzag nemmeno stessi sostenendo l'esame per la patente. Ma la cosa si rivela un'ottima tattica per contrastare il lancio dai balconi. Si sa, per sfuggire al fuoco nemico non bisogna correre in un'unica direzione, altrimenti si diventa un bersaglio facile.
Siamo ormai convinti di avercela fatta quando troviamo la strada sbarrata da un cassonetto dei rifiuti rovesciato. Passare è impossibile. L'unica cosa è spostarlo da lì, tornare indietro è troppo rischioso. Il problema è che anche scendere dall'auto è un azzardo. Vincenzo mi guarda, io rispondo con un cenno del capo. Allora lui si alza il cappuccio, come se così fosse meno esposto ai petardi, e salta fuori dall'abitacolo. Beata incoscienza! Rifletto se sia il caso di recitare una preghiera, poi capisco di non avere tempo. Mi faccio un rapido segno della croce e seguo mio nipote.
Afferriamo il bidone e lo spingiamo verso il marciapiede. Cerco di non guardarmi intorno, resto concentrato sull'azione da eseguire. A un certo punto un petardo deflagra così vicino ai miei piedi che per un attimo penso di essermi disintegrato e che ciò che vedo è solo una reminiscenza della vita ormai andata. Come nei videogiochi, che una volta morto rimani a osservare il tuo alter ego a terra e i nemici che si allontanano soddisfatti.
È allora che si avvicina una coppia. L'uomo ha la mano insanguinata e la donna urla per attirare la nostra attenzione. Vogliono un passaggio all'ospedale.
«'Sti curnut m'hanno vennuto nu trac difettoso!» commenta lui.
Per il napoletano è sempre colpa di qualcun altro. Il napoletano non sbaglia mai.
Li carico in auto e partiamo. Altri trecento metri e due persone in mezzo alla carreggiata ci bloccano. Una madre con il figlio adolescente. Anche lui ha una mano fasciata e lo sguardo terrorizzato.
«Vi prego» esclama la donna, «dobbiamo correre in ospedale!»
«Signora, io là starei tentando di andare. Ma, come vede, non ho posti.»
«Giuvinò e ci stringiamo. Fatelo per carità cristiana, non abbiamo l'auto e un taxi è introvabile. O guaglione perde molto sangue!»
Giuvinò è un termine di gran moda a Napoli. È confidenziale e al contempo supplichevole. Può tornare utile in svariate occasioni e contesti, come adesso. Solo che non capisco cosa ci trovi la signora di giovane in me. Ma tant'è.
«Signò, e che vi devo dire, vedete se riuscite a entrare.»
E così ripartiamo, carichi di feriti neanche fossimo un'autoambulanza. Dopo altri cento metri due ragazzi fanno segno di fermarci. Vincenzo mi prega di proseguire, altrimenti non arriveremo mai. Io, invece, titubo, finché mi accorgo che dietro di noi c'è un'altra auto diretta al Pronto Soccorso. Mi accosto ai due giovani e li avverto. Lo specchietto retrovisore mi restituisce le immagini dei ragazzi caricati dal soccorritore di turno.
Qui, in mancanza delle Istituzioni, ci si arrangia come si può. Qui, una cosa che proprio non manca è la solidarietà. Qui, tutti sanno avere a che fare con la sofferenza. Ed è lì, dove quest'ultima è più presente, che trovate il sostegno degli altri.
Metto la prima e riparto, stavolta deciso a non fermarmi più. Ancora un po' e correremmo il rischio di vederci accerchiati da una moltitudine di feriti che inveiscono e picchiano contro i vetri dell'auto, tipo gli zombie di un film di Romero.
Comunque la vita a volte è proprio strana. Sarebbe bastato che il tappo avesse colpito con un'inclinazione diversa il soffitto per evitare tutto ciò. Ora starei sul balcone ad accendere i bengala. Ma, forse, neanche questo è vero. Perché chi me lo dice che con una pendenza differente il sughero non avrebbe contuso qualcun altro?
Semmai la signora Pisanelli?

Il ventiquattro sera

C'è un unico momento durante l'anno nel quale Napoleone si desta e sfoga tutta l'energia repressa: l'apertura dei regali sotto l'albero. Sarà per le carte luccicanti e rumorose che lo stimolano, sarà perché è un momento di aggregazione familiare e lui giustamente vuol farne parte, fatto sta che scartare i doni diventa un'operazione impossibile. Già, perché mentre apri il pacchetto sei costretto a spostare di continuo il muso del cane che cerca di intrufolarsi fra le tue mani e l'involucro, credo per accertarsi che all'interno non vi sia nulla di commestibile.
Quest'anno, tra l'altro, mi tocca stare più attento, il regalo per mia moglie è alquanto fragile. Mentre le porgo con cautela la scatola, mi lascio rapire per un istante dall'immagine di Violante che sorride abbracciata a Nicola e mi meraviglio ancora una volta di come il tempo sia passato senza che me ne accorgessi. Chiudo gli occhi e la ritrovo bambina avvinghiata alla mamma, sotto l'albero, nello stesso punto della casa. Stringo le palpebre e la rivedo qualche anno dopo, al medesimo posto, sdraiata sul povero Napoleone. Riapro gli occhi e lei è grande, ama un ragazzo che finge di essere adulto e di sapere come proteggerla, uno che espira piano per non far capire che in realtà le sue spalle non sono tanto larghe quanto vuol far credere.
Vorrei spiegare a Nicola che è inutile simulare, avrà una vita intera per irrobustire la sua corazza, che ora si goda il momento. Però, poi, Violante ride e allora torno al presente, fatto di Margherita che incuriosita solleva piano il coperchio della scatola e mia figlia che si sporge per controllare quale idea bizzarra abbia avuto stavolta. Io, invece, trattengo il respiro perché ancora oggi, a quasi cinquant'anni, mi emoziono nel fare un regalo a mia moglie.
Così, quando dallo spigolo del cartone fa capolino una testolina nera, Margherita si ritrae d'istinto, mentre Violante lancia un urlo di gioia. C'è un gattino lì dentro. Appoggiato al bordo del contenitore, sembra affacciarsi ora al mondo.
«Un'associazione per strada li donava. Lei era l'ultima rimasta. Non ho potuto fare a meno di prenderla.»
Margherita sorride e mi stringe, io rido felice. Per un istante ho dubitato, ho pensato: “E se mia moglie non fosse d'accordo? Se non le importasse salvare un animale? Un tempo lo avrebbe fatto, senza pensarci poi tanto”.
Perciò sono contento, perché è piacevole accorgersi che le persone della tua vita mutano ogni giorno, ma le cose belle non le perdono per strada.
Purtroppo il piccolo poema si frantuma all'istante poiché l'unico a non intenerirsi di fronte alla scena è Napoleone, il quale, a giusta ragione, vede invaso il territorio da un essere sconosciuto e a suo modo di vedere pericolosissimo. Perciò scatta in piedi e si avventa contro la scatola che con l'urto si capovolge. La povera gattina resta intrappolata all'interno, il che si rivela essere cosa buona, perché ho il tempo di afferrare il cane per il collare e stringerlo a me.
Ora mi tocca convincere il bulldog che la macchia nera che lui crede un nemico, e che nel frattempo su suggerimento di Violante ha avuto affibbiato il nome di Neo, pur trattandosi di una femmina, è in realtà un essere impaurito e indifeso.
Solo dopo un'oretta Napoleone capisce che il puntino scuro che si aggira per casa non può contrastare in alcun modo il suo reame, così si acquieta e si stende di nuovo placido ai piedi dell'albero. Pochi istanti e Neo gli si arrampica addosso e si sdraia sulla sua schiena.
«Corri, prendi il telefono» urla Margherita a Violante, «ci vuole una foto!»
Restiamo così, a osservare i due animali abbarbicati l'uno sull'altro e a me viene da pensare che è la paura a creare le barriere, il timore che l'altro possa ferirci. Se tiriamo giù il muro, spesso scopriamo che dietro c'è chi non aspettava altro.

La mattina dopo, venticinque dicembre, suonano alla porta alle otto e quarantacinque. Mi alzo a sedere nel letto e per un istante penso di aver fatto tardi a lavoro, poi mi ricordo che è Natale e per poco non commetto peccato lanciando una bestemmia. Napoleone nel frattempo abbozza un latrato, infastidito che qualcuno lo abbia destato prima delle dieci in un giorno festivo. Margherita invece mugugna e si gira dall'altro lato. Significa che il problema campanello non la riguarda. Dopo tanti anni di matrimonio s'impara a comunicare anche con semplici gesti, così da risparmiare parole già dette milioni di volte.
Insomma, se non fosse per il sottoscritto la famiglia Esposito continuerebbe a dormire serena, con l'eccezione del cane che, al più, borbotterebbe fino a quando il fantomatico suonatore non si fosse allontanato. Ma siccome io e il sonno siamo in conflitto da un bel po', decido di alzarmi. Tanto, anche se avessi voluto, non mi sarei riaddormentato. Più passano gli anni e più mi convinco che dormire è un insano passatempo. Mi piacerebbe essere come il mio Iphone, un'ora sola per ricaricarmi.
Fuori la porta c'è Salvatore Barletta, il nostro prode amministratore.
«Dottor Esposito, mi dovete scusare, ma è sorto un problema abbastanza grave» fa lui, accortosi del mio stato pietoso, in preda a uno sbadiglio compulsivo che non vuol saperne di arrestarsi.
Chiunque al mio posto penserebbe a una disgrazia. D'altronde, di fronte a uno che ti bussa il venticinque dicembre di prima mattina per parlarti di un problema “abbastanza grave”, cos'altro puoi considerare? Ma si dà il caso che io conosca ormai bene il signor Barletta, perciò non formulo nessun pensiero nefasto. Al più vorrà mettermi al corrente di un dilemma condominiale per lui insormontabile, che non gli avrà fatto chiudere occhio. Perciò raccolgo tutta la pazienza che ho e rispondo:
«Cos'è successo?»
«Be', è un po' imbarazzante» sussurra accostandosi. «Si tratta del signor Pisanelli, il condomino del primo piano.»
Resto in attesa che l'amministratore termini la frase, ma lui sembra non avere il coraggio di proseguire.
«Allora?»
«Dobbiamo prendere una decisione» risponde sempre più a bassa voce.
Il mio fragile equilibrio si sfalda.
«Signor Barletta, capisco che avete a cuore le sorti del condominio, ma non potete bussarmi il giorno di Natale a quest'ora per faccende che possono essere affrontate anche dopo le feste!»
«No signor Esposito, è proprio questo il punto, la decisione dev'essere presa entro oggi a pranzo!»
Sbuffo. Salvatore Barletta è un avversario invincibile, sarebbe capace di passare le prossime due ore a discorrere con me senza farmi comprendere l'oggetto della conversazione. Indugia sulla prefazione per ore, a godere della curiosità del suo interlocutore. Il signor Barletta è il re del preambolo.
«Quale decisione?»
«Se mi fate la cortesia di venire da me fra mezz'ora, ci sarà anche l'ingegner Del Vecchio. Dobbiamo fare tutti insieme una scelta.»
«Signor Barletta, vi ripongo la domanda per l'ultima volta» rispondo incollerito. «Quale decisione?»
Lui capisce di non poter più tirare la corda. Si avvicina ancora un po' al mio volto e con alito ammuffito ribatte:
«Dobbiamo stabilire chi fra noi ospiterà la signora Pisanelli.»

La sera del trentuno: al Pronto Soccorso

Al Pronto Soccorso del Cardarelli la situazione è drammatica. C'è così tanta gente che per un attimo mi sorge il dubbio che al posto dell'ospedale abbiano aperto una discoteca per festeggiare al meglio il nuovo anno.
Le persone sono assiepate ovunque e ogni ferito ha al suo fianco almeno un paio di congiunti. I più fortunati sono distesi sulle barelle sparse per l'androne, gli altri poverini si adattano come possono, chi seduto sulle poche sedie disponibili, chi in braccio a un amico generoso, chi a terra appoggiato alla parete.
Ogni anno a Napoli i fuochi d'artificio provocano un'ecatombe, persone che perdono dita, mani e occhi. Eppure nulla cambia mai, la battaglia è sempre la stessa e a volte anche i feriti lo sono. Al mio fianco, infatti (mi trovo in piedi vicino a Giovanni che, chissà come, è riuscito a sedersi), c'è una barella occupata da un uomo di mezza età. Ha la camicia inzuppata di sangue e una flebo nelle vene. Nonostante il tranquillante si lamenta tutto il tempo. Il dolore deve essere così forte da proibirgli di restare in silenzio. Ha tre dita mancanti eppure la moglie al suo fianco gli urla che è uno stupido, che non ha ancora capito che la deve smettere con i botti, che l'anno scorso non gli è bastato e che lei si è stufata di trascorrere il Capodanno all'ospedale. Ovviamente ho tradotto per voi in italiano il proclama della signora, omettendo fra l'altro le diverse imprecazioni lanciate contro gli avi defunti del marito.
Ma, nonostante i modi non proprio oxfordiani, la donna ha ragione perché, a ben vedere, all'uomo mancano tre dita anche dalla mano libera, quella che mantiene la sua compagna sanguinante. In un paio di anni il genio al mio fianco ci ha rimesso sei dita. Un altro Capodanno ancora e fa strike.
Sono intento a seguire le vicissitudini della coppia quando in sala entra un medico. La gente guarda il camice bianco con occhi sgranati, nemmeno avesse visto il Cristo in persona. E non per essere blasfemo, ma credo che in molti di loro la visione di quest'ultimo provocherebbe una reazione meno entusiastica.
In breve è l'inferno. I parenti dei feriti accerchiano l'uomo che cerca di divincolarsi con gomitate e calci. Se pure volesse essere d'aiuto non lo può fare, deve prima pensare a salvarsi.
Io resto al mio posto ed è mio nipote a intervenire.
«Zio, che fai, non ti avvicini?»
«Perché, non viene lui da noi? Che vado a fare là?»
Vincenzo mi guarda perplesso, come se si fosse accorto di avere a che fare con un turista, uno che non conosce le più basilari regole di sopravvivenza di questa città.
«Ti conviene placcare il dottore, altrimenti sarà prelevato da loro» replica indicando con una mossa del capo i familiari famelici che attorniano il medico.
«Non siamo mica alle Poste che bisogna prendere il numero e stare attenti ai furbi» ribatto irritato. «Voglio sperare che accolgano prima i feriti più gravi e poi gli altri!»
«Fai come vuoi, io ti ho avvertito.»
Ma non lo ascolto, perché credo ancora nel buon senso e nella civiltà. Se imitassi i miei concittadini che si azzuffano per farsi soccorrere per primi, vorrebbe dire che mi sono istituzionalizzato, che sono divenuto come loro, gente che lotta ogni giorno per ottenere con la forza ciò che gli spetta di diritto. Io, invece, voglio avere ancora fiducia nel prossimo e nello Stato.
Perciò resterò al fianco di Giovanni fino a quando non sarà un dottore a venire da noi. Perché altrimenti perderei la mia battaglia quotidiana per dimostrare a me stesso e agli altri che se vogliamo cambiare davvero questa città, non ci dobbiamo fare cambiare da essa.

Il giorno di Natale: a casa del Barletta

Il salotto del Barletta è una galleria di foto. Sono ovunque, sulla cassettiera, nella libreria, sulla televisione, appese alle pareti. Immagini del matrimonio della figlia e della laurea del figlio. Come se nella vita della famiglia Barletta non fosse accaduto null'altro. Non ho niente contro le fotografie, sempre che non servano a immortalare un successo più che un ricordo. Insomma, fra tutte le immagini incorniciate mi farebbe piacere semmai trovare l'amministratore e la moglie che ridono felici su di una spiaggia al tramonto. Ma capisco di chiedere troppo, il romanticismo è un tesoro non alla portata di tutti.
In ogni caso mi piace Salvatore Barletta, è una persona semplice ma genuina, senza filtri o maschere. Perciò riesco a sopportarne i difetti.
«Allora, dottor Esposito, eccoci qui. Grazie per essere venuto» esordisce dopo che mi sono accomodato.
L'ingegner Del Vecchio è di fronte a me, su di una poltrona che, a giudicare da quanto è consunta, deve essere la preferita dal padrone di casa. Saluto con un cenno del capo l'ingegnere. Io e Del Vecchio non ci amiamo. È proprio un fatto di pelle. Lui credo mi consideri un perdente, forse per il mio lavoro, che non rientra fra i pochi che ritiene degni: avvocato, notaio, dottore, ingegnere e così via. Insomma, Del Vecchio è un conservatore, un uomo rigido, tutto d'un pezzo come si diceva una volta. Un coglione come si dice oggi, o almeno come dico io oggi.
«Allora» prende la parola proprio il reazionario, «la questione è un po' delicata.»
Ecco, ci risiamo con i preamboli. Credevo fosse una peculiarità del Barletta, invece mi rendo conto che è un problema di età. Da anziani si ha molto tempo a disposizione e le introduzioni non fanno più paura.
«Per la verità non ho ancora capito cos'è successo» lo interrompo piccato.
Barletta vorrebbe rispondermi, ma l'ingegnere lo blocca. Lui è il grande capo della piccola riunione condominiale, a lui spetta rivelare la verità.
«Signor Esposito» esclama quindi, poiché ritiene che “dottore” per me sia eccessivo, «vado al punto: il signor Pisanelli se n'è scappato!»
Resto a fissare il mio interlocutore con un'espressione del volto mista fra stupore e menefreghismo, poi replico:
«In che senso scusi?»
«Nel senso che ha abbandonato la moglie e se n'è fuggito con l'ucraina che faceva le pulizie.»
Mi scappa inevitabile un sorriso. Il signor Pisanelli avrà quasi settant'anni ed è sempre stato un uomo mansueto, educato, mai una parola fuori posto, una discussione con qualcuno.
Chi imposta la vita nella ricerca della perfezione è destinato a essere un infelice e a rendere tale chi gli è accanto. Pisanelli è stato un uomo troppo buono per essere vero. Marito perfetto, genitore perfetto, condomino perfetto. Almeno fino a oggi, perché penso che con questa alzata di testa abbia perso molti punti nella considerazione generale e, ancora più importante, in quella di Del Vecchio che, anche se in modo ufficioso, resta il Gran Guardiano del condominio, colui che tutto sa e tutto decide.
E, infatti, di fronte al mio sorriso, l'ingegnere indietreggia inorridito. La questione è così seria che la reazione gli appare incomprensibile.
«Signor Esposito, c'è poco da ridere. Questo è sempre stato uno stabile rispettato, la vicenda getta un'ombra su tutti noi!»
Osservo i due condomini, incredulo di fronte a ciò che mi sta succedendo.
«Signor Del Vecchio» ribatto quindi seccato, «mi sembra un pochino esagerata la sua affermazione. Che c'entriamo noi con le cose intime del signor Pisanelli.»
Interviene Barletta.
«Dottò, c'entriamo, eccome se c'entriamo. Ieri sera ero a tavola con la mia famiglia quando mi chiama la figlia dei coniugi Pisanelli, quella che vive in America. Mi ha tenuto al telefono mezz'ora e quando sono tornato lo spaghetto con le vongole era freddo.»
Sono costretto a una smorfia di solidarietà per lo spaghetto freddo, altrimenti Barletta non procederebbe.
«Insomma, mi ha detto che il padre è impazzito, si è innamorato di questa donna e se n'è andato e che la povera madre non fa altro che piangere dalla mattina alla sera.»
«Continuo a non capire noi che possiamo fare.»
È Del Vecchio a rispondere.
«La giovane ci ha chiesto la cortesia di prenderci cura della madre durante le feste, che lei è lontana e altri parenti in città non ne hanno.»
Ecco, siamo arrivati al punto. Mi giro verso l'amministratore che mi guarda con aria afflitta.
«In conclusione» commento, «il signor Pisanelli s'innamora e il problema diventa nostro.»
«E già» fa l'amministratore. «Eppure chi se lo poteva immaginare che Pisanelli facesse una cosa simile…»
«E già, chi se lo poteva immaginare» interviene la moglie del Barletta, appena entrata in salotto per portarci il caffè. «Ma le donne dell'est fanno perdere la testa a molti, distruggono le famiglie e non provano vergogna. Vengono qua proprio con questo scopo!»
La signora mi porge la tazzina. Vorrei intervenire perché il discorso mi sembra un tantino troppo fanatico per fare finta di nulla, ma per fortuna è il marito a replicare.
«Maria, non iniziamo con i ragionamenti razzisti contro gli stranieri. Le donne possono anche sedurre, ma è sempre l'uomo che decide di cascarci. E comunque le scelte di letto di Pisanelli non sono fatti nostri!»
E bravo Barletta, esempio di amministratore progressista.
La moglie borbotta qualcosa e se ne torna in cucina. Del Vecchio riprende a parlare.
«Comunque, è nostro dovere assecondare la richiesta della figlia dei coniugi Pisanelli.»
Annuisco, la signora è una brava donna e non merita di trascorrere le feste da sola.
«Ma non è tutto» aggiunge Del Vecchio con tono solenne.
«In che senso?»
L'ingegnere fa un cenno a Barletta e gli lascia la parola. Quest'ultimo si pone in punta di sedia e bisbiglia:
«Ci sarebbe dell'altro. Ci è stato detto che la signora, da quando il marito si è, diciamo così, allontanato, ha perso un po' la testa.»
«Va be', è normale, alla sua età non se lo aspettava» rispondo con ingenuità.
«No, è che circola voce che si sarebbe messa a praticare strani riti, magia nera. Io non ci credo, però ve lo dovevo dire.»
«La signora Pisanelli che pratica magia nera? Ma chi mette in giro `ste voci?»
«Guardi, anche a me sembra strano» interviene Del Vecchio, «ma la fonte è rispettabile e poi anche la figlia della signora, pur senza sbilanciarsi, ci ha chiesto di avere pazienza poiché la madre è in un momento difficile e di non dare troppo peso ai suoi strani comportamenti. In ogni caso, noi dobbiamo solo preoccuparci di non lasciarla sola.»
«E quindi che avete pensato?»
«Be', lei preferisce ospitare la signora oggi a pranzo o il trentuno sera?»
«Oggi a pranzo non ci sono.»
«Allora vorrà dire che oggi sarà ospite mia» interviene Barletta, «e l'ultimo dell'anno verrà da voi.»
Guardo Del Vecchio che annuisce soddisfatto e quasi sto per intervenire, per chiedergli perché il problema che ha definito come “una vicenda che getta ombra su tutti noi” deve essere risolto solo da me e Barletta. Per quale ragione lui è esentato dall'ospitare la signora Pisanelli, ma può lo stesso avere voce sull'organizzazione. Poi però lui si alza, mi stringe la mano e si avvia alla porta. Un attimo prima di uscire commenta:
«Bene, sono contento che il problema si sia risolto. Fra persone intelligenti si trova sempre una soluzione, basta darsi un pizzico sulla pancia. Auguro a voi e alle vostre famiglie un sereno Natale.»
L'amministratore gli dedica un sorrisetto imbarazzato, ma non apre bocca. Ve l'ho detto, è una brava persona, sempre restio a fare polemiche.
Nella vita c'è chi prevarica e chi è prevaricato. Barletta e io apparteniamo entrambi alla seconda categoria, quelli che si sono trovati catapultati senza volerlo in una giungla e per quieto vivere hanno scelto di recitare la parte del camaleonte, che cambia colore per mimetizzarsi e sfuggire ai predatori. Il problema è che non sempre ci riesce.
Ci salutiamo senza aggiungere altro. Mentre affronto le scale rifletto che se il mondo fosse composto da più Barletta e meno Del Vecchio sarebbe un posto di certo migliore dove vivere.

Il pranzo di Natale è tradizione trascorrerlo a casa di mio cognato Franco, il fratello maggiore di Margherita. Un uomo di sessant'anni mai cresciuto. Un bambinone con i capelli bianchi e la pancia davanti. Sempre con la battuta pronta e la voglia di scherzare, le idee chiare e la camicia pulita. Insomma, uno che se non fosse per il grado di parentela non potrei frequentare. Un po' perché, come diceva il buon Socrate, chi crede di sapere tutto in realtà non sa niente, un po' perché la cosa peggiore è che nella sua totale inconsapevolezza di sé suppongo che Franco Carsana sia un uomo felice. E a me la felicità ostentata fa sempre sorgere un inquietante interrogativo: perché le persone che ne hanno così tanta a disposizione non ne donano un po' a chi ne ha più bisogno?
A ogni buon conto siamo qui, come ogni anno. E come ogni anno ci dobbiamo sorbire un pranzo faraonico preparato dalla filippina della famiglia Carsana. Forse sono io a essere strano, ma pranzare con la povera donna, tra l'altro più grande di me, che sta lì in piedi a guardarci e servirci come preti all'altare, mi imbarazza e innervosisce non poco. La moglie di Franco, Elisabetta, la costringe a fare la spola con la cucina ogni due minuti. Chissà perché una parte dell'umanità ritiene di doversi meritare la servitù dell'altra metà, la più sfortunata. Ma tant'è.
Almeno al mio fianco ho Violante e mia nipote Sara che mi coinvolgono nelle loro discussioni. Mi piace stare con i ragazzi, come una spugna, cerco di assorbirne l'entusiasmo. E, infatti, poi, proprio come questa, basta spremermi per far fuoriuscire di getto la passione accumulata con tanta fatica. La verità è che ho bisogno di avere sempre un sogno a portata di mano, altrimenti mi lascio sopraffare dal senso d'inutilità. E i ragazzi sono un serbatoio inesauribile dal quale attingere.
«Hai trovato uno studio in cui fare pratica?» chiedo a mia nipote, da poco laureata in Giurisprudenza.
«Ancora no zio, sono indecisa, vorrei provare prima un'esperienza all'estero, semmai a Londra. Papà, però, non vuole.»
A tali parole Franco drizza le antenne, solleva l'enorme deretano per poggiarlo meglio sulla povera seggiola e s'intromette nel discorso.
«Antò, mia figlia tutt'un tratto ha perso le cervella. Ha fatto quel po' per laurearsi col massimo dei voti e mo' vuole gettare tutto all'aria!»
«Ma chi l'ha detto?» replica Sara.
Capisco che fra tutte le domande possibili ho scelto l'unica che mi rovinerà il Natale.
«Ma poi, è sempre stata il vanto della famiglia, la studiosa che eccelleva. Per lei abbiamo investito speranze, tempo e denaro, e ora ci ripaga così, con un'idea balorda!»
«Vorrei solo conoscere un po' il mondo, in fondo sono giovane» ribatte la figlia a bassa voce e con lo sguardo chino nel piatto.
Ma il padre ormai è carico come una molla. Trangugia l'ennesimo bicchiere di vino e attacca:
«Sì, così semmai incontri qualche sfessato che ti fa perdere la testa e non torni più. E io poi che devo fare? Venire fino a lì a riprenderti?»
Elisabetta pone la mano sul braccio del marito, nell'inequivocabile tentativo di frenare la sua ira. Ma lui sembra non accorgersi nemmeno di chi gli è attorno.
«È sempre così che va a finire, voi ragazzi non avete un briciolo di gratitudine. Io a tredici anni già lavoravo. Ma non mi lamento, perché ti ho potuto regalare una vita agiata. E questo è il ringraziamento!»
L'intera tavolata ammutolisce. Margherita mi guarda e nei suoi occhi leggo la supplica. Mi sta chiedendo la cortesia di non intervenire. Ma non posso restare zitto dopo un'accozzaglia di così tante stronzate. Mi farei del male e non posso permettermelo. Il mio fisico è colmo di frustrazioni e rabbia repressa, non voglio aggiungerci l'incazzatura nei confronti di Franco, rischierei di scoppiare con un infarto. E Violante è ancora troppo giovane per una simile eventualità. Così decido di liberarmi. Mi pulisco la bocca ed esclamo:
«Franco, capisco che non sono fatti miei, però, devo dirti la verità, un discorso così stupido l'ho sentito poche volte nella mia vita.»
Il capofamiglia sgrana gli occhi. Le donne, invece, si lasciano andare a un'esclamazione di meraviglia.
«Be', che c'è? Mica ho detto che tu sei stupido, lo è il tuo discorso!»
Franco non replica, mi guarda esterrefatto. Credo che nessuno si sia mai permesso di sputtanarlo come sto facendo io.
«Non t'incazzare, penso che tu sia un buon padre, premuroso, presente, generoso.»
Poi mi giro verso Sara.
«Ti assicuro che sono tre prerogative più che sufficienti per considerarti una figlia fortunata.»
Te lo dice uno che ha trascorso la vita a cercare di colmare il vuoto lasciato dall'infanzia, illudendosi semmai che altri avessero la forza miracolosa di riempire la specie di buco che mi ritrovo nello stomaco. Ma questa parte del discorso, ovviamente, la tengo per me.
La tavola pende ancora dalle mie labbra. Mi rivolgo di nuovo a Franco.
«Questo però non significa che un figlio alla fine debba pagare il conto e semmai lasciare una lauta mancia per il buon servizio, come al ristorante.»
«Antò, forse hai bevuto un po' troppo, perché non la smetti?» s'intromette Margherita.
«No, lascialo parlare» interviene mio cognato, «m'interessa il suo pensiero.»
«Insomma Franco, Sara ha ormai un'età nella quale un genitore deve mollare la presa, altrimenti rischia di rovinare quanto di buono fatto. Si tratta di una fase, puoi star certo che nel giro di qualche anno tornerai a essere indispensabile per lei, la aiuterai a comprare casa, la aspetterai la domenica a pranzo, andrai a trovare tuo nipote. Se vuoi che tutto ciò accada, ti devi fare da parte per un po'.»
Nessuno osa parlare. Ma Sara e Violante sorridono di sottecchi. Afferro il calice che ho davanti e sorseggio il vino. Ora mi sento più rilassato.
«È la vita, una cosa che sfugge al nostro controllo, mettiti l'anima in pace» concludo poi.
Franco Carsana continua a fissarmi in silenzio per alcuni interminabili istanti, poi scorgo un abbozzo di sorriso affiorare sul suo volto.
«Sara, hai uno zio che è proprio un gran figlio di buona donna!» esclama infine ridendo.
Tutti ne seguono l'esempio e il clima torna sereno. Vedo che finanche la filippina gioisce di soppiatto, forse sollevata dal non dover assistere all'ennesima sfuriata del padrone di casa. Margherita mi dedica un sorriso che è un misto fra rimbrotto e ammirazione. Violante mi strizza l'occhio. Sara, infine, mi manda un bacio.
Ecco come tramutare una situazione da spiacevole in gradevole: basta essere se stessi e dire ciò che si pensa.
La verità paga sempre.
O no? O è stata soltanto una botta di culo?

La sera del trentuno: ancora al Pronto Soccorso

Giovanni finalmente è dentro a farsi medicare, così Vincenzo e io ne approfittiamo per fumare una sigaretta all'esterno. Abbiamo dovuto attendere due ore prima che si occupassero di mio cognato. Vincenzo aveva ragione, nessuno si è avvicinato fino a quando, ormai in preda a una crisi isterica, ho afferrato il camice del primo medico che passava e l'ho costretto a preoccuparsi di noi. La cosa buffa è che il gesto, anziché provocare una reazione veemente, ha suscitato il rispetto del dottore e la sua attenzione. La nota negativa, invece, è che Vincenzo alla fine mi ha dedicato uno sguardo di rimprovero, come a dire “te l'avevo detto”. Non ho saputo come replicare. D'altronde, non è carino che sia tuo nipote di sedici anni a insegnarti la vita.
«Come va al lavoro?» gli chiedo una volta fuori.
«Benissimo, Don Luigi è contento di me, sostiene che imparo in fretta.»
«Perfetto.»
Don Luigi è il masto di Vincenzo, come si dice da queste parti, il titolare della falegnameria nella quale mio nipote sta imparando il mestiere.
«Se non ci fossi stato tu ad aiutarmi a convincere mamma ora starei ancora a scuola, avrei perso un altro anno e, soprattutto, l'opportunità di fare quello che mi piace.»
Sorrido, anche se credo non sia vero. Io ho solo detto ciò che pensavo, che il falegname è un bel lavoro, che per farsi un minimo d'istruzione basta essere curiosi e che scegliersi una professione che piace è la sola e unica cosa rilevante. Il resto l'ha fatto Vincenzo con la sua caparbietà.
«Con Giovanni come va?» chiedo poi.
Lui risponde con una smorfia, poi butta fuori il fumo.
«Mi sembra una brava persona» commento.
«Sì, ma è `na palla. È proprio vecchio dentro.»
Rido. Mio nipote ha il dono della sintesi.
«In effetti, è un po' pesante, ma vuol bene a tua madre.»
«Ho capito, però me lo devo sciroppare io.»
Nel fare l'ultimo tiro alla sigaretta rifletto che alcune volte questo piccolo oggetto inutile e dannoso aiuta a far entrare in contatto le persone.
«Sai, anche io all'inizio che Giovanni è entrato in casa ho provato un po' di fastidio. Mi sembrava che stesse rubando uno spazio non suo.»
«Ma no…»
«Voglio dire che ti capisco, immagino cosa provi. Ma c'è poco da fare, tuo padre non c'è più e Teresa per fortuna sì. E almeno Giovanni, con tutti i suoi limiti, ti vuol bene. Non sai mai la vita cosa ti riserva, potrebbe sempre arrivarne uno peggiore. E poi l'amore di una madre è troppo potente per essere gestito in solitudine, perciò ci sono i padri e i fratelli.»
A queste parole Vincenzo sembra sciogliersi.
«Già» risponde guardandosi le scarpe, «i padri e i fratelli. La gente sostiene che è bello essere figli unici, ma non sa quel che dice. A me sarebbe piaciuto avere una famiglia numerosa. Invece alcune volte torno e la casa è vuota, allora mi prende l'apocundria, non sopporto tutto quel silenzio. Così apro la porta e me ne scendo di nuovo.»
Come ti capisco caro Vincenzo, più di quanto tu possa immaginare. E allora mi comporto come avrebbe desiderato quel ragazzo di tanti anni fa, se solo lui (cioè io) avesse avuto uno zio come me.
«Vieni qua» esclamo e allargo le braccia.
«Qui, davanti a tutti?»
«Sì, davanti a tutti, perché? Ci fossero più persone che si stringono questo pianeta sarebbe un luogo più caldo!»
Vincenzo cede e sprofonda nel mio petto.
«Ora ti rivelerò una cosa» dico una volta sciolti.
«Cosa?»
«La parte peggiore è dietro!»
Lui sembra frastornato.
«Il peggio è passato» ripeto con forza. «D'ora in avanti la strada è in discesa. Fra qualche anno te la costruirai tu una famiglia, come piace a te, con tanti bimbi che gireranno per casa. Scommetto che sarà un gran casino!»
Vincenzo china solo un istante il capo, per celare il luccichio degli occhi.
«E tu la vuoi sapere una cosa, zio?»
«Certo.»
«Avrei voluto far parte della tua di famiglia. Vivere con te, zia Margherita e Violante.»
Ecco, lo sapevo, sono tornato a essere spugna. Mi imbevo di commozione per le parole di mio nipote e mi basta la sua stretta per farmi rilasciare subito tutto.
È così che nasce un'emozione, da una chiacchierata occasionale davanti a un ospedale. D'improvviso un'onda anomala t'invade il petto e raggiunge gli occhi, per ricordarti, semmai ce ne fosse bisogno, che i momenti migliori della vita sono quelli inattesi.

La sera del trentuno: prima di cena

«Antò, non ti dimenticare di andare a prendere la signora Pisanelli!»
«Ma perché? Sono tre piani, non può salire da sola?»
«Antonio, lo sai, il signor Barletta ha insistito tanto, ha detto che altrimenti la signora non viene, è orgogliosa.»
Sbuffo. È mai possibile che le persone anziane abbiano un rapporto così conflittuale con la dignità e l'orgoglio? Che male c'è a presentarsi da chi ti ha invitato? La verità è che a una certa età si ha sempre timore di dare fastidio. O forse è sentore. E il sentore di rado sbaglia.
A ogni modo che ci sia anche la signora Pisanelli non mi crea alcun problema, non credo alla storia dei riti voodoo. La gente non aspetta altro che una persona cada per assestargli il colpo finale. È solo che mi trovo in pieno conflitto con i bottoni della camicia che, al pari della cravatta, non gode della mia simpatia.
Compiuta l'estenuante operazione, mi lancio per le scale, dove incontro la famiglia Barletta al gran completo. Il capostipite mi saluta e bisbiglia:
«Dottò, quella cosa delle “stranezze” della signora Pisanelli è vera, ho avuto modo di constatarlo di persona!»
«Cioè?»
«Be', io forse sarò un ignorante, non ho certo i vostri titoli, però a me è sorto il dubbio che la signora combini qualcosa di grave nella sua casa, che risvegli forze occulte.»
«Addirittura?»
«Non lo so, non mi prendete per pazzo, ma mi sono convinto che la signora porti un po' male.»
A quelle parole, come mio solito, faccio scendere la mano lungo la gamba per raggiungere il luogo deputato a cacciare via il malocchio.
«Ma perché, che è successo?»
«Nulla di grave per fortuna, solo che quando l'abbiamo ospitata a Natale mia moglie si stava affogando con la minestra maritata e a mio figlio è saltato un dente con un roccocò.»
«Va be', sono cose che possono capitare. Non mettiamo in giro certe voci che fanno presto ad attecchire. Già la signora è in difficoltà, ci manca pure che s'inizi a dire che porta iella!»
«No, per carità, io vi sto facendo una confidenza che deve restare fra noi. A ogni modo può essere che mi sbagli, che mi sia impressionato.»
«Sarà di certo così.»
«Già, anche se, prima o poi, vorrei controllare l'abitazione con una scusa. Non sia mai che nel nostro rispettabile condominio siano messe in atto “strane cose”.»
«Ma quali sarebbero `ste strane cose, Barletta? Parlate chiaro!»
L'amministratore, però, non fa in tempo a darmi ulteriori delucidazioni ché i nipoti lo strattonano via, così è costretto ad allontanarsi con un rapido “scusatemi”.
Resto solo e mi viene da pensare che se non fosse stato per Del Vecchio, ora forse non mi troverei in una simile situazione. Dedico un cordiale vaffanculo all'ingegnere e busso alla porta della signora Pisanelli.
L'anziana donna sembra aprirmi dall'abisso. La casa è cupa e sa di stantio. Lei sorride e mi fa cenno di entrare.
«Signora, dobbiamo salire, fra poco si cena.»
«Un poco di pazienza dottor Esposito, cinque minuti e sono pronta.»
Mi conduce nel piccolo salotto illuminato solo da una lampada in un angolo e mi prega di accomodarmi sul divano, poi scompare. Resto almeno dieci minuti seduto in una stanza che non conosco e mi assale improvvisa l'ansia.
Le case non devono restare buie, soprattutto in un giorno di festa. Eppure, quando passeggio la sera con Napoleone e alzo lo sguardo, mi accorgo che gran parte delle abitazioni lo sono. Fateci caso, lungo l'intera facciata di un palazzo ci sono quasi solo tende chiuse o serrande abbassate. La gente ama nascondersi.
Mi alzo e inizio a gironzolare. È pieno di soprammobili, cianfrusaglie inutili di un tempo ormai perduto. Chissà perché gli anziani sono così attaccati agli oggetti. Forse perché al loro interno sono racchiusi i ricordi, il vero tesoro che non si vuol perdere.
Le mura sono tappezzate con un parato oramai logoro e il pavimento è ricoperto dalle tipiche piastrelle degli anni settanta, quelle piene di pezzettini di marmo. Mi sono sempre chiesto come abbiano fatto a realizzare un simile orrore. Eppure ci hanno riempito l'Italia con questa bruttezza a basso costo.
Dalle finestre giungono i primi botti. Guardo l'orologio: sono le sette e un quarto e alcuni squilibrati si trovano già sui tetti. Penso al povero Napoleone che come ogni anno dovrà sorbirsi lo strazio dei fuochi e si rintanerà sotto le mie gambe. Vorrei potergli spiegare che non c'è da avere paura, è solo la stupidità umana, un modo per festeggiare. Ma lui potrebbe obiettare che per fare festa non c'è bisogno di un simile baccano, si può anche scodinzolare senza rompere le balle agli altri.
A ogni modo sono venti minuti che la signora Pisanelli è scomparsa, inghiottita dalle catacombe che, scommetto, si aprono svoltato l'angolo del corridoio. La chiamo con educazione ma non ricevo risposta. Dopo un po' ritento. Nulla. Inizio a preoccuparmi. Mi avvicino al bagno e accosto l'orecchio, ma dentro non c'è nessuno. Poi mi accorgo della luce che filtra da sotto la porta di quella che presumo essere la stanza da letto. Busso. Lei risponde. Sospiro. Almeno non è morta.
«Si sta facendo tardi.»
«Un attimo, arrivo» fa lei.
Passano altri dieci minuti. Capisco di stare per sbottare. E meno male che avevo detto che la presenza della signora non mi creava problemi. Raduno l'ultimo briciolo di gentilezza rimastami e la chiamo di nuovo. Silenzio. Al quarto tentativo, ormai in preda a una crisi di nervi, spalanco la porta.
E vedo ciò che non avrei dovuto vedere.

«Marghe, ti devo parlare» sussurro a mia moglie appena mi accorgo che non c'è nessuno nelle vicinanze.
Mancano venti minuti alla mezzanotte e avverto il bisogno di rivelare il mio segreto. La serata è stata piacevole, ma non sono riuscito a godermela, ho trascorso il tempo a scrutare la signora Pisanelli. Lei, però, è rimasta tranquilla, anzi si è anche intrattenuta a parlare con Violante e Nicola della scuola e delle manifestazioni ai suoi tempi.
Io la osservavo e pensavo a quel che avevo visto. La follia è come una tarma, s'insinua in una vita all'apparenza normale e la sfibra poco alla volta.
«Che c'è? Hai una faccia!» esclama Margherita.
«Be', mi è successa una cosa assurda!»
«Antò, così mi fai spaventare!»
La prendo per mano e la conduco nella stanza da letto. Napoleone ci segue con aria interrogativa. Sono costretto a farlo entrare, per evitare di ascoltare il suo lamento incessante fuori la porta. Con l'arrivo del cane è finita l'intimità. Spesso dobbiamo farlo presenziare anche in quei momenti lì, altrimenti fa un frastuono infernale e sveglia Violante. Insomma, uno strazio. Anche perché la sua figura mi mette soggezione. Se ne sta lì, sdraiato sul letto, e ci guarda serio.
«La signora Pisanelli è pericolosa!» esclamo una volta soli.
Margherita sgrana gli occhi.
«Che significa?»
«Stasera, quando sono andato da lei, ho visto delle cose bizzarre.»
«Cioè?»
«Credevo non si sentisse bene, era mezz'ora che aspettavo, così dopo un po' mi sono avvicinato alla sua stanza da letto e, non ricevendo risposta, ho aperto.»
In quell'istante scoppia un petardo fortissimo, forse una “Capa di Lavezzi”. Napoleone si nasconde sotto le coperte, Margherita, invece, si avvicina a me.
«Antò, la vuoi finire con questo racconto del terrore? Mi sembri quello di Blunotte, come si chiama, Lucarelli. Allora, che hai visto?»
Sento sfregare la porta. Sarà lei, la nonnina voodoo che ci spia. Corro ad aprire e urlo:
«Chi è?»
Ai miei piedi c'è Neo, la gattina appena entrata in famiglia, che mi guarda con occhi compassionevoli, forse domandandosi perché Napoleone abbia il diritto di stare in camera con noi e lei no. La afferro e richiudo.
«Ma che ti prende?»
«Credevo fosse la signora che origliava.»
«Antò, fossi diventato paranoico? Insomma, che c'era nella stanza?»
«La luce proveniva solo dalle candele. Il letto era cosparso di carte dei tarocchi. Ma la cosa più assurda è che era pieno di bambole strane, tipo quelle voodoo, hai presente? Erano ovunque, anche appese al lampadario. Ho richiuso subito e ho fatto finta di niente, ma non so se la signora si sia insospettita.»
Margherita corruccia la fronte, poi replica:
«Ma ne sei certo? Non ce la vedo proprio la signora Pisanelli a fare riti di magia nera.»
«Sì, sono sicuro. E mo', che facciamo?»
«E che dobbiamo fare?»
«Io la sto tenendo d'occhio, non vorrei che si mettesse a fare qualche rituale strano in casa nostra!»
«Ma dai, poverina, starà male per il marito. La gente si attacca alle cose più strampalate quando soffre.»
«Ho capito, ma ci sono tante cose alle quali attaccarsi quando si sta male, per esempio una bella bottiglia. Perché aggrapparsi a rituali strani che a me incutono anche un po' di paura?»
«Smettila di fare il superstizioso, sei una persona intelligente. Ora andiamo di là, se no ci perdiamo la mezzanotte.»
Lei è già sull'uscio quando trovo il coraggio di porle la domanda che mi rimbalza in testa dall'inizio della serata:
«Marghe?»
«Eh?»
«Ma non è che la signora portasse male, no?»
«E piantala Antò, non vedi che stiamo tutti bene? Dai, andiamo a stappare lo spumante!»

Tutto si ricongiunge

Non appena apriamo la porta di casa scatta un applauso spontaneo da parte dei presenti. Giovanni ha l'occhio bendato e dovrà metterci della crema per qualche giorno, ma alla fine gli è andata bene, la retina non si è lesionata.
Mia sorella lo abbraccia davanti a tutti e mi accorgo di non averla mai vista fare un gesto simile. Allora è vero che la paura piega anche le nostre più robuste resistenze. Teresa non ha mai ricevuto una carezza da nostro padre così, una volta adulta, ha pensato bene di riservare lo stesso trattamento al marito, al compagno e al figlio. C'è chi, come lei, ripercorre il medesimo sentiero tracciato dai genitori e chi, come me, cerca invece di cancellarne le tracce. Meglio perdere l'orientamento che continuare ad alimentare un ingranaggio inconsapevole che non si arresta mai.
«Vi abbiamo aspettato per i dolci» fa mia moglie.
Così, dopo tre ore dalla mezzanotte, ci ritroviamo ancora tutti intorno al tavolo. Margherita e io, Violante con il suo rasta dai capelli a fungo, Teresa, Giovanni e Vincenzo. E a capotavola la signora Pisanelli, sveglia e lucida nonostante l'età, che attende con ansia gli struffoli di Teresa. A vederla così sembra una anziana donna che non farebbe del male a una mosca. Vai a sapere cosa c'è dietro la vita di una persona.
E meno male che Margherita mi aveva rassicurato! Sono quasi sicuro che sia stata colpa della vecchietta se Giovanni per poco non ci rimetteva un occhio. Non vedo l'ora di poterla riaccompagnare a casa. Alla fine a Barletta è andata meglio.
Sarò pure superstizioso e ignorante, ma la gente che “fa cose strane” mi mette a disagio. Ci sono tante cose belle nella vita, fate quelle e lasciate perdere le altre.
Stiamo alla cassata quando Nicola se ne esce con un'esclamazione:
«Però, scusate, a pensarci, non abbiamo fatto il brindisi. Dovremmo rimediare, porta male un Capodanno senza brindisi!»
A quelle parole, “porta male”, dilato le pupille. Non sia mai, già abbiamo la nonnina satanica a capotavola, non ci mettiamo anche noi con riti avversi. Allora vado dietro al ragazzo che con la sua acuta osservazione ha d'improvviso conquistato molti punti nella mia considerazione.
«Nicola ha ragione, dobbiamo stappare un'altra bottiglia!»
Mi guardano tutti senza sapere cosa dire. D'altronde, per poco non ci scappava la tragedia, riproporre la stessa scena dopo alcune ore sembra quantomeno azzardato. Ma io non mi arrendo, non andrò a dormire senza cincin, devo contrastare gli effetti malefici della signora Pisanelli.
«Be', forse non è il caso» tenta di dire Teresa, ma il compagno la stoppa subito.
«No, hanno ragione, che Capodanno è senza brindisi. Dai, non facciamo i superstiziosi!»
E bravo Giovanni. Forse ha avuto un'intuizione riguardo la vecchia.
«Però stavolta l'aprirà Nicola, l'idea è stata sua» preciso.
Così, mentre Teresa e Margherita sgombrano la tavola e prendono lo spumante, io ne approfitto per fumarmi una sigaretta fuori al balcone. Guardo i bengala che sono ancora al loro posto, spenti, e quasi mi viene voglia di accenderli. Poi penso che la signora Covelli stavolta la prenderebbe davvero male, così desisto.
Al secondo tiro arriva Violante.
«Sono contenta» dice abbracciandomi.
«Di che?»
«Hai finalmente interagito con Nicola, l'hai chiamato per nome, ti sei accorto di lui!» prosegue con un sorriso.
«Perché, non l'avevo mai chiamato per nome?»
«No, Pa', anche quando parli con me lo definisci Caparezza, come il rapper.»
«Be', dovrai ammettere che ci assomiglia.»
«Stupido.»
Sta per rientrare quando mi ricordo di doverle ancora fare un certo discorso rimasto in sospeso.
«Violante, vieni un attimo.»
Lei si avvicina.
«In breve…sono contento che sei contenta. Se tu sei felice con Nicola io sono felice, se tu sei felice senza Nicola, io lo stesso.»
«Davvero?»
«Sì. Quello che volevo dirti però è di non dimenticarti mai di inseguire la tua felicità. Non stare a sentire chi ti dice che non si deve deludere il prossimo, l'unico dovere che hai è di non disilludere te stessa e la vita che hai sognato.»
Lei si fa attenta. Per fortuna è abituata ai miei momenti pseudofilosofici.
«Insomma, rispetta sempre tutti, a cominciare da Nicola, ma non tradire te stessa, i tuoi bisogni, i desideri, le ambizioni. La vita è troppo breve e se passi le giornate a cercare di rendere contento un altro va a finire che non hai più tempo per te. Ognuno è responsabile solo della propria felicità, ricordatelo.»
«Pà, secondo me tu pensi troppo!»
Abbozzo un sorriso.
«Tu credi?»
«Già. Dai, andiamo a festeggiare!» replica prima di afferrarmi per il braccio.
E siamo di nuovo qui, intorno a un'altra bottiglia che nel giro di pochi secondi scaglierà il suo tappo lontano nell'aria. Sfidiamo ancora la sorte perché crediamo che ciò che è successo una volta non possa ripetersi, perché in fondo siamo ottimisti e sappiamo ben poco del caso e delle leggi della fisica. Quello che possiamo fare è augurarci che tutto vada bene e che un brindisi ci renda meno esposti alle intemperie.
Ma la fisica e il malocchio se ne fregano dei nostri desideri, così il sughero rimbalza di nuovo contro il soffitto. Restiamo per una frazione di secondo rivolti col naso all'insù e gli occhi serrati, nella speranza che il momento passi e con esso le nostre paure.
Poi il tappo ricade verso il pavimento.
Un tonfo sordo.
Riapriamo gli occhi.
La signora Pisanelli è a terra.

***
Biografia

Sono nato a Napoli nel 1974. Ho trascorso i miei primi trentasei anni alla ricerca della via giusta da percorrere. Poi ho capito che ogni strada ha le sue buche. Allora mi sono fermato e ho iniziato a scrivere. Il risultato sono numerosi premi letterari vinti, racconti pubblicati su antologie, riviste e in internet, e la stesura di tre romanzi. Con Edizioni La Gru ho pubblicato Daria, la mia prima opera. Il blog: www.lorenzomarone.com


Le feste non vengono mai da sole
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