Le feste non vengono mai da sole
Lorenzo Marone
***
A mia moglie,
che sorride alla vita sempre e
comunque.
Alla mia città,
pozzo inesauribile dal quale attingere.
E ad Antò,
che mi ha indicato la strada.
***
“Essere superstiziosi
è da ignoranti,
ma non esserlo porta
male.”
Eduardo De Filippo
***
Quando tutto ebbe
inizio
Meno otto, sette, sei, cinque, quattro, tre,
due, uno…
Ed eccomi a un passo dal nuovo anno. Fra un
secondo il tappo della bottiglia di spumante che ho in mano
esploderà come un razzo verso la volta celeste. Solo che si fermerà
molto prima, due metri più su, contro il soffitto del mio salotto,
per poi capitombolare a terra, attratto dalla gravità.
La traiettoria di un tappo di sughero è
imprevedibile, segue percorsi strani, molti direbbero casuali.
Invece non è così. La fisica potrebbe spiegarci per filo e per
segno la parabola del piccolo turacciolo. Non c'è mai nulla di
fortuito in un movimento, è sempre frutto di particolari formule
algebriche.
Perciò, quando il simpatico oggetto colpisce il
soffitto con un'inclinazione tale da farlo balzare dritto
nell'occhio di Giovanni, il compagno di mia sorella, non penso,
come tutti, a prestare soccorso, ma rifletto su come la fisica, al
contrario della vita, sappia il fatto suo.
Qualche giorno prima:
il ventitré dicembre
Il ventitré dicembre è una data felice per
molti. Si va in ferie, arriva Natale, l'albero, i doni, le cene in
famiglia. È un giorno, insomma, nel quale anche il dipendente più
triste dovrebbe gironzolare per l'azienda con un bel sorriso
stampato sul volto. Ecco, appunto, dovrebbe.
Davanti all'ascensore c'è Anna, il gatto nero
dell'ufficio, l'ipocondriaca per eccellenza, quella che quando la
incontri sei costretto a portarti le mani ai genitali per non
restare folgorato dal malocchio. Non è che porti proprio sfortuna
Anna, però se non stai attento e ti metti sulla difensiva con
artifizi più o meno superstiziosi, va a finire che ti contagia con
la depressione e la negatività che fuoriesce da ogni suo
poro.
«Ué Antonio» fa lei mentre l'ascensore ci porta
al piano, «che te ne fai a Natale?»
«Be', nulla di particolare, sto in
famiglia.»
«Non dire nulla di particolare» mi ammonisce, «è
una gran fortuna poter trascorrere le feste in famiglia, per tanti
non è così!»
Il che, a dirla tutta, è vero. La maggior parte
delle persone ha una vita serena e nemmeno se ne rende conto, come
fosse un diritto inviolabile. Però, caspiterina, non c'è alcun
bisogno che Anna me lo ricordi, in fondo non ho fatto altro che
rispondere a una banale domanda.
«No, figurati, sono contento» provo a
controbattere. «Tu, invece, che fai?»
«Siamo soli io e mio marito.»
«E tuo figlio?»
«Dai suoceri. Lo sai come vanno le cose, i figli
maschi a una certa età diventano di proprietà delle mogli.»
Abbozzo un sorriso che capisco subito essere
fuori luogo dal momento che la mia collega non ha alcuna voglia di
scherzare sull'argomento. E, infatti, prosegue:
«Beato te che hai una femmina, almeno ti starà
vicino quando sarai vecchio e malato!»
Sposto lo sguardo verso il segnalatore dei
piani. Abbiamo appena oltrepassato il terzo, ancora pochi secondi e
sarò di nuovo un uomo libero. Ma lei ne approfitta per continuare a
maltrattare la mia giornata.
«Perché è così che va a finire Antò, ci
ammaliamo e rimaniamo soli, dopo tutti i sacrifici fatti!»
Ora capite cosa significa trovarsi di fronte un
simile personaggio? Devo reagire, contrastare il suo maleficio
mattutino. Dirigo la mano verso l'inguine. In realtà il gesto è
inconsulto ma salvifico poiché, non appena giungo a tastarmi le
zone basse, l'ascensore si arresta e le porte si aprono. Il gatto
nero si avvia verso la sua stanza, posso finalmente riportare
l'arto nella posizione naturale.
A metà mattina mi chiama mia moglie.
«Margherita.»
«Antò, mi ha telefonato tua sorella Teresa,
vuole sapere dove trascorriamo il trentuno sera.»
«E che le hai detto?»
«Niente, l'ho invitata da noi, che dovevo
fare?»
Ecco, per l'appunto. Non è per mia sorella,
figuratevi, né per il figlio Vincenzo, che per me è più di un
semplice nipote, ma per il compagno di Teresa, Giovanni, un uomo
qualunque, nell'accezione peggiore del termine. Una persona che già
quando la guardi pensi: “Questo è arrivato a cinquant'anni senza
capire un cazzo”. Uno che una volta mentre conversavamo schiacciò
una formica che passeggiava tranquilla su di un muretto. Alla mia
domanda sul perché lo avesse fatto, mi rispose stupito:
«Va be', è solo una formica!»
Al che io replicai con voce gelida: «Che
c'entra, anche tu sei solo una formica per il pianeta. Eppure se ti
calpestano un piede te la prendi!»
Per carità, ce ne sono tanti come lui. Individui
che non si pongono mai una domanda, che davvero sono convinti che
il significato di tutto sia nel lavoro, nel pagare un mutuo, nel
mangiarsi la pizza il sabato sera davanti alla tv e, infine,
lasciare una casa ai figli che inizieranno a scannarsi subito dopo
il funerale.
Ma che devo fare, `sti tipi mi rendono nervoso.
Quelli che non sanno nulla di se stessi, ma tutto del prossimo, che
non si sforzano di dare un significato all'esistenza, ma investono
l'energia per fregare qualcuno sul posto di lavoro. Chi si sente
appagato, in definitiva, dal suo piccolo mondo e non mette mai il
naso fuori.
Mi direte, sei troppo pesante, che te ne importa
di come vivono gli altri. Giusto, me ne frego, fintanto che tali
altri non invadono il mio spazio vitale.
Insomma, passare l'ultimo dell'anno con uno che,
anziché sedersi con noi a tavola, gira con l'auto alla ricerca del
miglior posto possibile al riparo dai botti, proprio non mi va.
Perché vi giuro che qualche anno fa è accaduto proprio questo. Noi
cenavamo e lui vagava per i vicoli del quartiere per trovare un
anfratto dove sistemare la macchina. Capisco che ormai l'auto è un
bene di lusso da trattare con i guanti, ma perdersi un banchetto di
fine anno con la famiglia per tutelare un fottuto veicolo è
troppo.
Ma torniamo a quel
fatidico momento
A Napoli la mezzanotte del trentuno dicembre
riporta col pensiero alla seconda guerra mondiale. Per la verità,
il bombardamento inizia alcuni minuti prima, perché il napoletano
ha un preciso scopo da portare a termine: “Mettersi a' copp'”,
prevalere, cioè, sul vicinato nella fantomatica guerriglia urbana
dei botti. Allora alcuni, per anticipare i rivali, salgono sui
tetti verso le ventitré, in modo da liberare gli ordigni allo
scoccare esatto della mezzanotte. Può accadere, però, che il
fragile equilibrio si frantumi all'istante nel caso qualcuno
anticipi il lancio della prima granata. A quel punto la
competizione ha inizio e tutti danno fuoco alle polveri, cosicché
quando poi giunge l'ora prestabilita, molti hanno già terminato di
sparare.
Molti, ma non tutti. C'è anche chi ha tanti di
quei fuochi da poter andare avanti per giorni. E, infatti, alle due
di notte, mentre la città si riversa per le strade colme di
mortaretti, qualcuno è ancora sopra un tetto a sparare e semmai
imprecare perché non può scendere prima di aver consumato l'intero
arsenale.
Perciò quando il fatidico tappo colpisce
l'occhio di Giovanni, è tale il frastuono che nessuno se ne
accorge. Tutti si abbracciano, si baciano, si riparano le orecchie
per non rischiare di perdere l'udito. È Nicola, il fidanzato di mia
figlia, il primo a rendersi conto dell'accaduto.
«Che è successo?» urla, e indica il malcapitato
a terra che si protegge il volto con la mano.
Teresa si accovaccia subito al fianco del
compagno, il quale vorrebbe anche spiegare la dinamica
dell'episodio, ma un fragoroso boato gli impedisce di parlare. La
casa trema e l'anziana signora Pisanelli (poi capirete chi è e
perché si trova da me) corre con un grido a ripararsi nel bagno,
forse per una reminiscenza di quand'era bambina e la madre la
conduceva nei rifugi per sfuggire ai bombardamenti.
Quando infine mia sorella riesce a ispezionare
la ferita del compagno, si lascia andare anche lei a uno strepito.
A quel punto, al povero Giovanni non resta che entrare nel panico.
In effetti, l'occhio si sta gonfiando ed è pieno di sangue, tanto
che anch'io, che fino allora guardavo la scena divertito, mi sento
in dovere di fare il serio.
«Antò, lo dobbiamo portare in ospedale!» tuona
mia moglie.
In breve l'intera tavolata accerchia lo
sventurato. Violante, mia figlia, fissa per un istante Giovanni e
poi ritrae lo sguardo, rincuorata da Nicola, il ragazzo alternativo
dalla testa a forma di fungo atomico.
«Allargatevi!» grida Teresa ormai in preda a una
crisi di nervi, «così non lo fate respirare!»
Vorrei spiegare a mia sorella che il compagno si
è ferito a un occhio, non a un polmone, però credo che l'uscita
sarebbe fuori luogo. Perciò decido di restarmene in silenzio, anche
perché la situazione si è fatta d'improvviso nera.
Non sono come il vicinato che ama condurre una
guerra personale con i fuochi d'artificio, ma nel mio piccolo avevo
acquistato qualche bengala e delle Stelline di Natale. Quando
qualche ora fa mio nipote Vincenzo si è avvicinato alla busta
contenente i botti e ha domandato con sdegno: “Zio Antò, e quest'è?
Hai preso solo qualche bengala?”, ho risposto fiero: “Be', che c'è,
non ti piacciono i bengala? Mettono allegria, quello che dovrebbero
fare i fuochi, anziché abbattere le pareti”.
Insomma, già pregustavo l'idea di accendere la
mia batteria completa che avrebbe innescato un'imponente cascata di
luce che a sua volta si sarebbe riversata sulle piante della
signora Covelli, la quale, come ogni anno, la mattina seguente
avrebbe bussato alle dieci in punto per la consueta ramanzina.
Quindi l'imprevisto mi ha rovinato il piano e la serata.
D'altronde, gli imprevisti si chiamano così proprio perché giungono
all'improvviso e interrompono qualcosa.
Il vero problema, in realtà, non è tanto
sospendere il programma bengalesco
quanto uscire di casa in questo momento. Ci sono ottime possibilità
di restare vittima di un proiettile vagante o, peggio ancora,
finire sulla cosiddetta “Capa di Lavezzi”, una delle granate più
potenti in circolazione, capace di disintegrare qualunque cosa
all'istante.
«Zio, ti accompagno io» interviene mio nipote
Vincenzo con un impeto di coraggio.
Nel frattempo Giovanni si è rimesso in piedi.
Sul pavimento ora c'è Teresa, la quale ha avuto un mancamento,
cosicché tutti adesso sono attorno a lei.
«Vengo anch'io» mormora da terra, «Giovanni ha
bisogno di me.»
«Teré» intervengo, «ma dove vai tu, qui fuori è
Beirut, e poi non ti reggi in piedi! Viene Vincenzo.»
Afferro il giubbino, le chiavi dell'auto e apro
la porta di casa. Margherita mi raggiunge sul pianerottolo, mi
carezza la guancia e mi fissa con occhi lucidi. Poi si volta e si
allontana, nemmeno fossi un soldato che sta per andare al
fronte.
Ancora il ventitré
dicembre
Alle undici mi viene a chiamare Adriano, il
collega-amico della stanza accanto col quale fumo le mie tre
sigarette giornaliere e parlo del più e del meno.
«Antò, vieni, dobbiamo dare il regalo
all'ingegnere.»
L'ingegner Adinolfi è il capo e lo scambio dei
regali è una delle tante abitudini spiacevoli dell'azienda. Una
pratica annuale che tutti i soggetti interessati svolgono con finti
sorrisetti di circostanza e zero coinvolgimento. Se nel corso degli
anni non avessi messo in atto con pignoleria l'arte del “riciclo
regali” ora mi ritroverei con una collezione infinita di gingilli
inutili: svuota tasche, reggi carte, tagliacarte, posacenere.
Mi defilo in un angolo e osservo la scena in
modo distaccato. Almeno fino a quando un collega, tal Pasquale
Maionchi, consegna il nostro dono al capo. Pasquale Maionchi è uno
degli impiegati più anziani, da circa trent'anni in azienda. Fra le
varie mansioni che ricopre con impegno, tipo la preparazione del
caffè tre volte al dì, ha anche il compito di organizzare la
colletta di Natale per acquistare qualche raro oggetto d'arte o di
antiquariato dal cugino che lui sostiene essere un grande
gallerista di Pompei.
Ora, non ho mai pensato che Pasquale ci inganni
e si freghi i soldi, al più risparmierà la sua quota, però quando
l'ingegnere termina di aprire l'imballo è proprio quello che penso.
Perché il quadro che ne esce è così orripilante da sembrare uno
scherzo, un oggetto trovato vicino a un bidone dell'immondizia. E,
infatti, il destinatario di cotanta bruttezza, dopo un momentaneo
imbarazzo, alza il viso e si guarda intorno, forse aspettandosi che
qualcuno sorrida e gli riveli l'inganno.
«Non le piace?» chiede Pasquale con aria
offesa.
«No, Pasquà, che dici, è bellissimo!» ribatte
Adinolfi con un mezzo ghigno. Quindi ricambia il favore con un
altro soprammobile in vetro che già mentre lo scarto so a chi
destinare.
«Dottor Esposito, auguri!» esclama Salvatore
Barletta non appena mi vede.
Barletta è l'amministratore del mio stabile. Ha
settant'anni e nulla da fare se non occuparsi delle questioni
condominiali. Oltre a essere uno dei pochi a Napoli a darmi del
Dottore. Non che io non lo sia. Ma poiché ho la malsana abitudine
di andarmene in giro senza la giacca e la cravatta, molti credono
che non meriti l'appellativo.
«Buonasera signor Barletta, auguri anche a voi»
replico mentre schiaccio il pulsante per chiamare
l'ascensore.
Con Salvatore Barletta ci si dà del voi, il lei
proprio non gli entra in testa. In ogni caso l'amministratore ha
sempre qualcosa d'importante da dire, qualche rivelazione
dell'ultima ora. Perciò, se non arriva subito l'ascensore, corro il
rischio di rimanere nell'androne per il resto del pomeriggio,
impegolato in faccende del tutto irrilevanti per la mia vita, ma
non, purtroppo, per quella del mio interlocutore.
«Dottore, volevo dirvi che nella prossima rata
troverete una piccola voce riguardante le luminarie di
Natale.»
Ecco, come non detto. Mi limito ad assentire per
non dargli corda, ma lui prosegue.
«Quest'anno ho aperto i cartoni e ho trovato
tutte le luci fulminate. Credo sia stata l'umidità.»
«E va be', capita» commento, in mancanza d'idee
a tal proposito.
«E che dovevo fare, non le dovevo comprare? E
poi rimanevamo senza illuminazione, e un Natale senza luci che
Natale è!»
«Avete fatto bene.»
«No perché Del Vecchio su al sesto già se n'è
uscito con una frase del tipo: “Potevate interpellarci
prima”.»
«Per una luce?»
«Quello che ho risposto io. Che ci dobbiamo
riunire anche per decidere gli addobbi natalizi?»
Annuisco, stavolta molto più convinto di
prima.
«Ma tanto Del Vecchio lo conosciamo no? Sempre
pronto a fare polemiche.»
«Già» commento laconico mentre l'ascensore
infine giunge al piano terra. «Ora vi devo lasciare, ci vediamo
domani per gli auguri.»
«Salgo con voi» fa lui.
Niente da fare, liberarsi del Barletta è più
complicato che affrancarsi dal proprio passato.
Faccio parte della categoria di persone che si
riducono a comprare i regali di Natale il ventitré pomeriggio. Ogni
anno mi riprometto di non cascarci, che la prossima volta mi
organizzerò in tempo, ma poi è sempre la stessa storia.
C'è chi si prepara un mese prima, stila una
lista con i nomi e i corrispettivi doni da acquistare. È il caso
per esempio di mia figlia Violante. L'altra sera era sul divano con
Margherita, con un foglio in mano pieno di appunti. Ho anche
tentato di sbirciare ma sono stato ricacciato indietro senza tanti
convenevoli.
Io, purtroppo, non provo la stessa emozione per
il Natale. Nell'approssimarsi delle feste mi faccio anche prendere
dall'euforia, che però mi passa quasi subito, in genere già il
giorno della Vigilia. È che durante le vacanze si ha molto tempo
libero a disposizione e io sono il nemico numero uno del tempo
libero. Una persona normale utilizza le ferie per rilassarsi,
semmai dedicarsi un po' a sé, io invece passo le giornate a pensare
e il più delle volte tali pensieri non sono nemmeno tanto carini.
Ho un cervello diverso dagli altri, non si ferma mai. Così, se non
lo tengo occupato, lui gira e gira e gira finché gli ingranaggi non
si usurano e mi scoppia un mal di testa colossale che per farmelo
passare devo solo dispormi sul divano in posizione tantrica.
Ma l'operazione in casa mia è alquanto difficile
poiché il divano è di proprietà del cane, tale Napoleone, un
bulldog che non si vede e non si sente mai, se non per mangiare o,
qualche volta, fare le feste. Altrimenti è sempre sdraiato sul
divano, appunto, che se sei sovrappensiero ti ci siedi sopra e lo
schiacci. E pure in tal caso lui non si lamenta, abbaiare
richiederebbe troppo sforzo.
Insomma, tutto ciò per dirvi che sono la persona
meno indicata per passare del tempo con me. Perché, come sempre, va
a finire che litigo con il mio Io e trascorro il resto delle
vacanze imbronciato con lui.
Con gli anni ho capito che l'unica arma a
disposizione è riempire la vita di cose per lo più inutili: il
lavoro, un adempimento, un hobby, un appuntamento. Devo correre,
girare a mille, mantenere indaffarato il cervello e non dargli la
possibilità di arrovellarsi. Anche se, in realtà, io e il cervello
conduciamo una vita separata. Lui non è mai dove sono io.
È faticoso, ma sono sicuro che c'è qualcuno tra
voi che può capirmi. Perché ce n'è di gente che colma il tempo con
cose superflue pur di non guardare in faccia la verità. Al mondo ci
sono due categorie di persone: quelle che definirei più o meno
“normali”, che a un certo punto della vita si accorgono di avere un
problema, un'insoddisfazione, chiamatela come volete, e
l'affrontano semmai con l'aiuto di un terapeuta, di un amico, di un
massaggio, dello yoga o di un amante, e gli “struzzi”, così
definiti perché non cacciano la testa da sotto la sabbia. Qualunque
cosa accada, loro non vogliono sapere, non vogliono vedere,
proseguono imperturbabili.
Io faccio parte della seconda tipologia, anche
se la mia condizione è peggiore rispetto a uno struzzo originale.
Quest'ultimo attua un comportamento più o meno inconsapevole, io
invece sono del tutto cosciente di ciò che faccio. Non mi va di
scrutarmi troppo, ho paura di guardarmi dietro, già mi basta il
davanti. Sono come la luna, una parte di me rimane sempre al
buio.
Sono ancora al primo regalo, quello per
Margherita, quando mi telefona Violante.
«Pà.»
«Ué.»
«Senti, ti volevo chiedere una cosa.»
«Prima io. Sto girando da un'ora, non mi viene
in mente nulla da regalare a tua madre. Mi dai un consiglio?»
«Pà, ma che ne so? Un orologio.»
«Già fatto un paio di anni fa.»
«Mm, un abbonamento in un centro
benessere.»
«Comprato l'anno scorso.»
«Va be', state insieme da sempre, vi siete
regalati tutto. Piuttosto, mi stai a sentire?»
In effetti, Violante ha ragione, ci siamo
regalati tutto. Dopo più di vent'anni gli oggetti e, soprattutto,
le idee iniziano a scarseggiare.
«Ok, dimmi.»
«Volevo sapere se Nicola può venire da noi
domani sera e il trentuno.»
«Perché, non ha una famiglia?»
«Sì, ma vanno fuori, lui invece vuol restare con
me.»
«Mamma che dice?»
«Mamma non fa problemi, lo sai.»
Il che significa che a farne sono io. Il dilemma
non è tanto Nicola in sé, quanto il fatto che il ragazzo ha più
capelli in testa che peli sul viso. Credo, cioè, che Violante sia
ancora giovane per una storia seria. L'adolescenza è una fragranza
che evapora troppo in fretta per non inalarne fino all'ultimo il
dolce aroma.
Ma alla fine so che è inutile, ognuno si sceglie
il percorso che al momento gli sembra migliore. In fin dei conti
siamo animali, possiamo ragionare quanto vogliamo, sarà sempre
l'istinto a farci imboccare una strada anziché un'altra. E poi ciò
che conta davvero è viversi il presente, senza pensare troppo alle
conseguenze delle nostre azioni. Il futuro è bene lasciarlo ai
sogni.
Perciò decido di darle il mio assenso, non prima
però di averle ricordato una cosa fondamentale: che qualunque
scelta compia, in qualunque momento, il fine ultimo deve essere il
suo benessere. La vita è troppo preziosa per barattare la felicità
in cambio di un po' di sicurezza.
Questo è quello che le vorrei dire e non le
dico. Perché mentre sto per rispondere, adocchio il regalo per
Margherita. Solo che ne è rimasto uno e ci sono altre persone
interessate.
Comunico a Violante che per me va bene e la
saluto.
Il discorso sulla felicità per ora è
rimandato.
La notte di Capodanno:
il trasporto in ospedale
Ho sostenuto che Giovanni era un pazzo a girare
con l'auto alla ricerca di un posto riparato. Bene, mi rimangio
tutto. La ruota della mia macchina è scoppiata, distrutta da un
botto esploso a breve distanza. Ed è così che la premura di
Giovanni viene in nostro soccorso, perché per fortuna possiamo
utilizzare la sua vettura. Per il futuro mi devo ricordare di non
prendere più posizioni così drastiche, si rischia di fare una
brutta figura.
Il problema, tuttavia, è che l'automobile in
questione è parcheggiata a un isolato di distanza. E secondo voi a
chi tocca coprire il percorso? Così mi trovo a correre rasente il
muro dei palazzi, come un topo, con il giubbino sulla testa e la
schiena curva, che se qualcuno riprendesse la scena potrebbe
tranquillamente spacciarla per una ripresa di guerra nell'area
mediorientale.
Per fortuna arrivo illeso all'obiettivo. Solo
che, dannazione, un tipo come Giovanni poteva mai lasciare la
macchina incustodita, senza un qualsiasi antifurto? Impossibile.
Anche se il blocco al volante proprio non me lo aspettavo, credevo
fosse ormai un ricordo di tempi lontani. Invece, mentre intorno a
me scoppiano ordigni nucleari, mi ritrovo a combattere contro il
disco di ferro rosso che avvolge lo sterzo, che per estrarlo
s'impiega dai sette agli otto minuti, imprecazioni escluse. Ma come
si fa, dico io, a non svegliarsi una mattina e pensare: “Ok, adesso
devo trovare una soluzione per l'antifurto dell'auto, non posso
mica mettere e togliere quell'arnese infernale per sempre!”. Che
poi, una volta sganciato, dove lo appoggi quel coso così
ingombrante? Che fai, scendi dall'auto e lo infili nel
portabagagli? E non fai prima a comprarti un abbonamento annuale
alla metropolitana?
Dopo dieci minuti riesco a tornare sotto casa e
a prelevare Giovanni e mio nipote. Ora arriva la parte più
difficile, lanciarsi per le vie sotto le bombe. Per fortuna il
tragitto è breve. Solo che l'asfalto è costellato di botti e
rifiuti di ogni genere, cosicché sono costretto a fare lo zigzag
nemmeno stessi sostenendo l'esame per la patente. Ma la cosa si
rivela un'ottima tattica per contrastare il lancio dai balconi. Si
sa, per sfuggire al fuoco nemico non bisogna correre in un'unica
direzione, altrimenti si diventa un bersaglio facile.
Siamo ormai convinti di avercela fatta quando
troviamo la strada sbarrata da un cassonetto dei rifiuti
rovesciato. Passare è impossibile. L'unica cosa è spostarlo da lì,
tornare indietro è troppo rischioso. Il problema è che anche
scendere dall'auto è un azzardo. Vincenzo mi guarda, io rispondo
con un cenno del capo. Allora lui si alza il cappuccio, come se
così fosse meno esposto ai petardi, e salta fuori dall'abitacolo.
Beata incoscienza! Rifletto se sia il caso di recitare una
preghiera, poi capisco di non avere tempo. Mi faccio un rapido
segno della croce e seguo mio nipote.
Afferriamo il bidone e lo spingiamo verso il
marciapiede. Cerco di non guardarmi intorno, resto concentrato
sull'azione da eseguire. A un certo punto un petardo deflagra così
vicino ai miei piedi che per un attimo penso di essermi
disintegrato e che ciò che vedo è solo una reminiscenza della vita
ormai andata. Come nei videogiochi, che una volta morto rimani a
osservare il tuo alter ego a terra e i nemici che si allontanano
soddisfatti.
È allora che si avvicina una coppia. L'uomo ha
la mano insanguinata e la donna urla per attirare la nostra
attenzione. Vogliono un passaggio all'ospedale.
«'Sti curnut m'hanno vennuto nu trac difettoso!»
commenta lui.
Per il napoletano è sempre colpa di qualcun
altro. Il napoletano non sbaglia mai.
Li carico in auto e partiamo. Altri trecento
metri e due persone in mezzo alla carreggiata ci bloccano. Una
madre con il figlio adolescente. Anche lui ha una mano fasciata e
lo sguardo terrorizzato.
«Vi prego» esclama la donna, «dobbiamo correre
in ospedale!»
«Signora, io là starei tentando di andare. Ma,
come vede, non ho posti.»
«Giuvinò e ci stringiamo. Fatelo per carità
cristiana, non abbiamo l'auto e un taxi è introvabile. O guaglione
perde molto sangue!»
Giuvinò è un termine di gran moda a Napoli. È
confidenziale e al contempo supplichevole. Può tornare utile in
svariate occasioni e contesti, come adesso. Solo che non capisco
cosa ci trovi la signora di giovane in me. Ma tant'è.
«Signò, e che vi devo dire, vedete se riuscite a
entrare.»
E così ripartiamo, carichi di feriti neanche
fossimo un'autoambulanza. Dopo altri cento metri due ragazzi fanno
segno di fermarci. Vincenzo mi prega di proseguire, altrimenti non
arriveremo mai. Io, invece, titubo, finché mi accorgo che dietro di
noi c'è un'altra auto diretta al Pronto Soccorso. Mi accosto ai due
giovani e li avverto. Lo specchietto retrovisore mi restituisce le
immagini dei ragazzi caricati dal soccorritore di turno.
Qui, in mancanza delle Istituzioni, ci si
arrangia come si può. Qui, una cosa che proprio non manca è la
solidarietà. Qui, tutti sanno avere a che fare con la sofferenza.
Ed è lì, dove quest'ultima è più presente, che trovate il sostegno
degli altri.
Metto la prima e riparto, stavolta deciso a non
fermarmi più. Ancora un po' e correremmo il rischio di vederci
accerchiati da una moltitudine di feriti che inveiscono e picchiano
contro i vetri dell'auto, tipo gli zombie di un film di
Romero.
Comunque la vita a volte è proprio strana.
Sarebbe bastato che il tappo avesse colpito con un'inclinazione
diversa il soffitto per evitare tutto ciò. Ora starei sul balcone
ad accendere i bengala. Ma, forse, neanche questo è vero. Perché
chi me lo dice che con una pendenza differente il sughero non
avrebbe contuso qualcun altro?
Semmai la signora Pisanelli?
Il ventiquattro
sera
C'è un unico momento durante l'anno nel quale
Napoleone si desta e sfoga tutta l'energia repressa: l'apertura dei
regali sotto l'albero. Sarà per le carte luccicanti e rumorose che
lo stimolano, sarà perché è un momento di aggregazione familiare e
lui giustamente vuol farne parte, fatto sta che scartare i doni
diventa un'operazione impossibile. Già, perché mentre apri il
pacchetto sei costretto a spostare di continuo il muso del cane che
cerca di intrufolarsi fra le tue mani e l'involucro, credo per
accertarsi che all'interno non vi sia nulla di commestibile.
Quest'anno, tra l'altro, mi tocca stare più
attento, il regalo per mia moglie è alquanto fragile. Mentre le
porgo con cautela la scatola, mi lascio rapire per un istante
dall'immagine di Violante che sorride abbracciata a Nicola e mi
meraviglio ancora una volta di come il tempo sia passato senza che
me ne accorgessi. Chiudo gli occhi e la ritrovo bambina avvinghiata
alla mamma, sotto l'albero, nello stesso punto della casa. Stringo
le palpebre e la rivedo qualche anno dopo, al medesimo posto,
sdraiata sul povero Napoleone. Riapro gli occhi e lei è grande, ama
un ragazzo che finge di essere adulto e di sapere come proteggerla,
uno che espira piano per non far capire che in realtà le sue spalle
non sono tanto larghe quanto vuol far credere.
Vorrei spiegare a Nicola che è inutile simulare,
avrà una vita intera per irrobustire la sua corazza, che ora si
goda il momento. Però, poi, Violante ride e allora torno al
presente, fatto di Margherita che incuriosita solleva piano il
coperchio della scatola e mia figlia che si sporge per controllare
quale idea bizzarra abbia avuto stavolta. Io, invece, trattengo il
respiro perché ancora oggi, a quasi cinquant'anni, mi emoziono nel
fare un regalo a mia moglie.
Così, quando dallo spigolo del cartone fa
capolino una testolina nera, Margherita si ritrae d'istinto, mentre
Violante lancia un urlo di gioia. C'è un gattino lì dentro.
Appoggiato al bordo del contenitore, sembra affacciarsi ora al
mondo.
«Un'associazione per strada li donava. Lei era
l'ultima rimasta. Non ho potuto fare a meno di prenderla.»
Margherita sorride e mi stringe, io rido felice.
Per un istante ho dubitato, ho pensato: “E se mia moglie non fosse
d'accordo? Se non le importasse salvare un animale? Un tempo lo
avrebbe fatto, senza pensarci poi tanto”.
Perciò sono contento, perché è piacevole
accorgersi che le persone della tua vita mutano ogni giorno, ma le
cose belle non le perdono per strada.
Purtroppo il piccolo poema si frantuma
all'istante poiché l'unico a non intenerirsi di fronte alla scena è
Napoleone, il quale, a giusta ragione, vede invaso il territorio da
un essere sconosciuto e a suo modo di vedere pericolosissimo.
Perciò scatta in piedi e si avventa contro la scatola che con
l'urto si capovolge. La povera gattina resta intrappolata
all'interno, il che si rivela essere cosa buona, perché ho il tempo
di afferrare il cane per il collare e stringerlo a me.
Ora mi tocca convincere il bulldog che la
macchia nera che lui crede un nemico, e che nel frattempo su
suggerimento di Violante ha avuto affibbiato il nome di Neo, pur
trattandosi di una femmina, è in realtà un essere impaurito e
indifeso.
Solo dopo un'oretta Napoleone capisce che il
puntino scuro che si aggira per casa non può contrastare in alcun
modo il suo reame, così si acquieta e si stende di nuovo placido ai
piedi dell'albero. Pochi istanti e Neo gli si arrampica addosso e
si sdraia sulla sua schiena.
«Corri, prendi il telefono» urla Margherita a
Violante, «ci vuole una foto!»
Restiamo così, a osservare i due animali
abbarbicati l'uno sull'altro e a me viene da pensare che è la paura
a creare le barriere, il timore che l'altro possa ferirci. Se
tiriamo giù il muro, spesso scopriamo che dietro c'è chi non
aspettava altro.
La mattina dopo, venticinque dicembre, suonano
alla porta alle otto e quarantacinque. Mi alzo a sedere nel letto e
per un istante penso di aver fatto tardi a lavoro, poi mi ricordo
che è Natale e per poco non commetto peccato lanciando una
bestemmia. Napoleone nel frattempo abbozza un latrato, infastidito
che qualcuno lo abbia destato prima delle dieci in un giorno
festivo. Margherita invece mugugna e si gira dall'altro lato.
Significa che il problema campanello non la riguarda. Dopo tanti
anni di matrimonio s'impara a comunicare anche con semplici gesti,
così da risparmiare parole già dette milioni di volte.
Insomma, se non fosse per il sottoscritto la
famiglia Esposito continuerebbe a dormire serena, con l'eccezione
del cane che, al più, borbotterebbe fino a quando il fantomatico
suonatore non si fosse allontanato. Ma siccome io e il sonno siamo
in conflitto da un bel po', decido di alzarmi. Tanto, anche se
avessi voluto, non mi sarei riaddormentato. Più passano gli anni e
più mi convinco che dormire è un insano passatempo. Mi piacerebbe
essere come il mio Iphone, un'ora sola per ricaricarmi.
Fuori la porta c'è Salvatore Barletta, il nostro
prode amministratore.
«Dottor Esposito, mi dovete scusare, ma è sorto
un problema abbastanza grave» fa lui, accortosi del mio stato
pietoso, in preda a uno sbadiglio compulsivo che non vuol saperne
di arrestarsi.
Chiunque al mio posto penserebbe a una
disgrazia. D'altronde, di fronte a uno che ti bussa il venticinque
dicembre di prima mattina per parlarti di un problema “abbastanza
grave”, cos'altro puoi considerare? Ma si dà il caso che io conosca
ormai bene il signor Barletta, perciò non formulo nessun pensiero
nefasto. Al più vorrà mettermi al corrente di un dilemma
condominiale per lui insormontabile, che non gli avrà fatto
chiudere occhio. Perciò raccolgo tutta la pazienza che ho e
rispondo:
«Cos'è successo?»
«Be', è un po' imbarazzante» sussurra
accostandosi. «Si tratta del signor Pisanelli, il condomino del
primo piano.»
Resto in attesa che l'amministratore termini la
frase, ma lui sembra non avere il coraggio di proseguire.
«Allora?»
«Dobbiamo prendere una decisione» risponde
sempre più a bassa voce.
Il mio fragile equilibrio si sfalda.
«Signor Barletta, capisco che avete a cuore le
sorti del condominio, ma non potete bussarmi il giorno di Natale a
quest'ora per faccende che possono essere affrontate anche dopo le
feste!»
«No signor Esposito, è proprio questo il punto,
la decisione dev'essere presa entro oggi a pranzo!»
Sbuffo. Salvatore Barletta è un avversario
invincibile, sarebbe capace di passare le prossime due ore a
discorrere con me senza farmi comprendere l'oggetto della
conversazione. Indugia sulla prefazione per ore, a godere della
curiosità del suo interlocutore. Il signor Barletta è il re del
preambolo.
«Quale decisione?»
«Se mi fate la cortesia di venire da me fra
mezz'ora, ci sarà anche l'ingegner Del Vecchio. Dobbiamo fare tutti
insieme una scelta.»
«Signor Barletta, vi ripongo la domanda per
l'ultima volta» rispondo incollerito. «Quale decisione?»
Lui capisce di non poter più tirare la corda. Si
avvicina ancora un po' al mio volto e con alito ammuffito
ribatte:
«Dobbiamo stabilire chi fra noi ospiterà la
signora Pisanelli.»
La sera del trentuno:
al Pronto Soccorso
Al Pronto Soccorso del Cardarelli la situazione
è drammatica. C'è così tanta gente che per un attimo mi sorge il
dubbio che al posto dell'ospedale abbiano aperto una discoteca per
festeggiare al meglio il nuovo anno.
Le persone sono assiepate ovunque e ogni ferito
ha al suo fianco almeno un paio di congiunti. I più fortunati sono
distesi sulle barelle sparse per l'androne, gli altri poverini si
adattano come possono, chi seduto sulle poche sedie disponibili,
chi in braccio a un amico generoso, chi a terra appoggiato alla
parete.
Ogni anno a Napoli i fuochi d'artificio
provocano un'ecatombe, persone che perdono dita, mani e occhi.
Eppure nulla cambia mai, la battaglia è sempre la stessa e a volte
anche i feriti lo sono. Al mio fianco, infatti (mi trovo in piedi
vicino a Giovanni che, chissà come, è riuscito a sedersi), c'è una
barella occupata da un uomo di mezza età. Ha la camicia inzuppata
di sangue e una flebo nelle vene. Nonostante il tranquillante si
lamenta tutto il tempo. Il dolore deve essere così forte da
proibirgli di restare in silenzio. Ha tre dita mancanti eppure la
moglie al suo fianco gli urla che è uno stupido, che non ha ancora
capito che la deve smettere con i botti, che l'anno scorso non gli
è bastato e che lei si è stufata di trascorrere il Capodanno
all'ospedale. Ovviamente ho tradotto per voi in italiano il
proclama della signora, omettendo fra l'altro le diverse
imprecazioni lanciate contro gli avi defunti del marito.
Ma, nonostante i modi non proprio oxfordiani, la
donna ha ragione perché, a ben vedere, all'uomo mancano tre dita
anche dalla mano libera, quella che mantiene la sua compagna
sanguinante. In un paio di anni il genio al mio fianco ci ha
rimesso sei dita. Un altro Capodanno ancora e fa strike.
Sono intento a seguire le vicissitudini della
coppia quando in sala entra un medico. La gente guarda il camice
bianco con occhi sgranati, nemmeno avesse visto il Cristo in
persona. E non per essere blasfemo, ma credo che in molti di loro
la visione di quest'ultimo provocherebbe una reazione meno
entusiastica.
In breve è l'inferno. I parenti dei feriti
accerchiano l'uomo che cerca di divincolarsi con gomitate e calci.
Se pure volesse essere d'aiuto non lo può fare, deve prima pensare
a salvarsi.
Io resto al mio posto ed è mio nipote a
intervenire.
«Zio, che fai, non ti avvicini?»
«Perché, non viene lui da noi? Che vado a fare
là?»
Vincenzo mi guarda perplesso, come se si fosse
accorto di avere a che fare con un turista, uno che non conosce le
più basilari regole di sopravvivenza di questa città.
«Ti conviene placcare il dottore, altrimenti
sarà prelevato da loro» replica indicando con una mossa del capo i
familiari famelici che attorniano il medico.
«Non siamo mica alle Poste che bisogna prendere
il numero e stare attenti ai furbi» ribatto irritato. «Voglio
sperare che accolgano prima i feriti più gravi e poi gli
altri!»
«Fai come vuoi, io ti ho avvertito.»
Ma non lo ascolto, perché credo ancora nel buon
senso e nella civiltà. Se imitassi i miei concittadini che si
azzuffano per farsi soccorrere per primi, vorrebbe dire che mi sono
istituzionalizzato, che sono divenuto come loro, gente che lotta
ogni giorno per ottenere con la forza ciò che gli spetta di
diritto. Io, invece, voglio avere ancora fiducia nel prossimo e
nello Stato.
Perciò resterò al fianco di Giovanni fino a
quando non sarà un dottore a venire da noi. Perché altrimenti
perderei la mia battaglia quotidiana per dimostrare a me stesso e
agli altri che se vogliamo cambiare davvero questa città, non ci
dobbiamo fare cambiare da essa.
Il giorno di Natale: a
casa del Barletta
Il salotto del Barletta è una galleria di foto.
Sono ovunque, sulla cassettiera, nella libreria, sulla televisione,
appese alle pareti. Immagini del matrimonio della figlia e della
laurea del figlio. Come se nella vita della famiglia Barletta non
fosse accaduto null'altro. Non ho niente contro le fotografie,
sempre che non servano a immortalare un successo più che un
ricordo. Insomma, fra tutte le immagini incorniciate mi farebbe
piacere semmai trovare l'amministratore e la moglie che ridono
felici su di una spiaggia al tramonto. Ma capisco di chiedere
troppo, il romanticismo è un tesoro non alla portata di
tutti.
In ogni caso mi piace Salvatore Barletta, è una
persona semplice ma genuina, senza filtri o maschere. Perciò riesco
a sopportarne i difetti.
«Allora, dottor Esposito, eccoci qui. Grazie per
essere venuto» esordisce dopo che mi sono accomodato.
L'ingegner Del Vecchio è di fronte a me, su di
una poltrona che, a giudicare da quanto è consunta, deve essere la
preferita dal padrone di casa. Saluto con un cenno del capo
l'ingegnere. Io e Del Vecchio non ci amiamo. È proprio un fatto di
pelle. Lui credo mi consideri un perdente, forse per il mio lavoro,
che non rientra fra i pochi che ritiene degni: avvocato, notaio,
dottore, ingegnere e così via. Insomma, Del Vecchio è un
conservatore, un uomo rigido, tutto d'un pezzo come si diceva una
volta. Un coglione come si dice oggi, o almeno come dico io
oggi.
«Allora» prende la parola proprio il
reazionario, «la questione è un po' delicata.»
Ecco, ci risiamo con i preamboli. Credevo fosse
una peculiarità del Barletta, invece mi rendo conto che è un
problema di età. Da anziani si ha molto tempo a disposizione e le
introduzioni non fanno più paura.
«Per la verità non ho ancora capito cos'è
successo» lo interrompo piccato.
Barletta vorrebbe rispondermi, ma l'ingegnere lo
blocca. Lui è il grande capo della piccola riunione condominiale, a
lui spetta rivelare la verità.
«Signor Esposito» esclama quindi, poiché ritiene
che “dottore” per me sia eccessivo, «vado al punto: il signor
Pisanelli se n'è scappato!»
Resto a fissare il mio interlocutore con
un'espressione del volto mista fra stupore e menefreghismo, poi
replico:
«In che senso scusi?»
«Nel senso che ha abbandonato la moglie e se n'è
fuggito con l'ucraina che faceva le pulizie.»
Mi scappa inevitabile un sorriso. Il signor
Pisanelli avrà quasi settant'anni ed è sempre stato un uomo
mansueto, educato, mai una parola fuori posto, una discussione con
qualcuno.
Chi imposta la vita nella ricerca della
perfezione è destinato a essere un infelice e a rendere tale chi
gli è accanto. Pisanelli è stato un uomo troppo buono per essere
vero. Marito perfetto, genitore perfetto, condomino perfetto.
Almeno fino a oggi, perché penso che con questa alzata di testa
abbia perso molti punti nella considerazione generale e, ancora più
importante, in quella di Del Vecchio che, anche se in modo
ufficioso, resta il Gran Guardiano del condominio, colui che tutto
sa e tutto decide.
E, infatti, di fronte al mio sorriso,
l'ingegnere indietreggia inorridito. La questione è così seria che
la reazione gli appare incomprensibile.
«Signor Esposito, c'è poco da ridere. Questo è
sempre stato uno stabile rispettato, la vicenda getta un'ombra su
tutti noi!»
Osservo i due condomini, incredulo di fronte a
ciò che mi sta succedendo.
«Signor Del Vecchio» ribatto quindi seccato, «mi
sembra un pochino esagerata la sua affermazione. Che c'entriamo noi
con le cose intime del signor Pisanelli.»
Interviene Barletta.
«Dottò, c'entriamo, eccome se c'entriamo. Ieri
sera ero a tavola con la mia famiglia quando mi chiama la figlia
dei coniugi Pisanelli, quella che vive in America. Mi ha tenuto al
telefono mezz'ora e quando sono tornato lo spaghetto con le vongole
era freddo.»
Sono costretto a una smorfia di solidarietà per
lo spaghetto freddo, altrimenti Barletta non procederebbe.
«Insomma, mi ha detto che il padre è impazzito,
si è innamorato di questa donna e se n'è andato e che la povera
madre non fa altro che piangere dalla mattina alla sera.»
«Continuo a non capire noi che possiamo
fare.»
È Del Vecchio a rispondere.
«La giovane ci ha chiesto la cortesia di
prenderci cura della madre durante le feste, che lei è lontana e
altri parenti in città non ne hanno.»
Ecco, siamo arrivati al punto. Mi giro verso
l'amministratore che mi guarda con aria afflitta.
«In conclusione» commento, «il signor Pisanelli
s'innamora e il problema diventa nostro.»
«E già» fa l'amministratore. «Eppure chi se lo
poteva immaginare che Pisanelli facesse una cosa simile…»
«E già, chi se lo poteva immaginare» interviene
la moglie del Barletta, appena entrata in salotto per portarci il
caffè. «Ma le donne dell'est fanno perdere la testa a molti,
distruggono le famiglie e non provano vergogna. Vengono qua proprio
con questo scopo!»
La signora mi porge la tazzina. Vorrei
intervenire perché il discorso mi sembra un tantino troppo fanatico
per fare finta di nulla, ma per fortuna è il marito a
replicare.
«Maria, non iniziamo con i ragionamenti razzisti
contro gli stranieri. Le donne possono anche sedurre, ma è sempre
l'uomo che decide di cascarci. E comunque le scelte di letto di
Pisanelli non sono fatti nostri!»
E bravo Barletta, esempio di amministratore
progressista.
La moglie borbotta qualcosa e se ne torna in
cucina. Del Vecchio riprende a parlare.
«Comunque, è nostro dovere assecondare la
richiesta della figlia dei coniugi Pisanelli.»
Annuisco, la signora è una brava donna e non
merita di trascorrere le feste da sola.
«Ma non è tutto» aggiunge Del Vecchio con tono
solenne.
«In che senso?»
L'ingegnere fa un cenno a Barletta e gli lascia
la parola. Quest'ultimo si pone in punta di sedia e
bisbiglia:
«Ci sarebbe dell'altro. Ci è stato detto che la
signora, da quando il marito si è, diciamo così, allontanato, ha
perso un po' la testa.»
«Va be', è normale, alla sua età non se lo
aspettava» rispondo con ingenuità.
«No, è che circola voce che si sarebbe messa a
praticare strani riti, magia nera. Io non ci credo, però ve lo
dovevo dire.»
«La signora Pisanelli che pratica magia nera? Ma
chi mette in giro `ste voci?»
«Guardi, anche a me sembra strano» interviene
Del Vecchio, «ma la fonte è rispettabile e poi anche la figlia
della signora, pur senza sbilanciarsi, ci ha chiesto di avere
pazienza poiché la madre è in un momento difficile e di non dare
troppo peso ai suoi strani comportamenti. In ogni caso, noi
dobbiamo solo preoccuparci di non lasciarla sola.»
«E quindi che avete pensato?»
«Be', lei preferisce ospitare la signora oggi a
pranzo o il trentuno sera?»
«Oggi a pranzo non ci sono.»
«Allora vorrà dire che oggi sarà ospite mia»
interviene Barletta, «e l'ultimo dell'anno verrà da voi.»
Guardo Del Vecchio che annuisce soddisfatto e
quasi sto per intervenire, per chiedergli perché il problema che ha
definito come “una vicenda che getta ombra su tutti noi” deve
essere risolto solo da me e Barletta. Per quale ragione lui è
esentato dall'ospitare la signora Pisanelli, ma può lo stesso avere
voce sull'organizzazione. Poi però lui si alza, mi stringe la mano
e si avvia alla porta. Un attimo prima di uscire commenta:
«Bene, sono contento che il problema si sia
risolto. Fra persone intelligenti si trova sempre una soluzione,
basta darsi un pizzico sulla pancia. Auguro a voi e alle vostre
famiglie un sereno Natale.»
L'amministratore gli dedica un sorrisetto
imbarazzato, ma non apre bocca. Ve l'ho detto, è una brava persona,
sempre restio a fare polemiche.
Nella vita c'è chi prevarica e chi è
prevaricato. Barletta e io apparteniamo entrambi alla seconda
categoria, quelli che si sono trovati catapultati senza volerlo in
una giungla e per quieto vivere hanno scelto di recitare la parte
del camaleonte, che cambia colore per mimetizzarsi e sfuggire ai
predatori. Il problema è che non sempre ci riesce.
Ci salutiamo senza aggiungere altro. Mentre
affronto le scale rifletto che se il mondo fosse composto da più
Barletta e meno Del Vecchio sarebbe un posto di certo migliore dove
vivere.
Il pranzo di Natale è tradizione trascorrerlo a
casa di mio cognato Franco, il fratello maggiore di Margherita. Un
uomo di sessant'anni mai cresciuto. Un bambinone con i capelli
bianchi e la pancia davanti. Sempre con la battuta pronta e la
voglia di scherzare, le idee chiare e la camicia pulita. Insomma,
uno che se non fosse per il grado di parentela non potrei
frequentare. Un po' perché, come diceva il buon Socrate, chi crede
di sapere tutto in realtà non sa niente, un po' perché la cosa
peggiore è che nella sua totale inconsapevolezza di sé suppongo che
Franco Carsana sia un uomo felice. E a me la felicità ostentata fa
sempre sorgere un inquietante interrogativo: perché le persone che
ne hanno così tanta a disposizione non ne donano un po' a chi ne ha
più bisogno?
A ogni buon conto siamo qui, come ogni anno. E
come ogni anno ci dobbiamo sorbire un pranzo faraonico preparato
dalla filippina della famiglia Carsana. Forse sono io a essere
strano, ma pranzare con la povera donna, tra l'altro più grande di
me, che sta lì in piedi a guardarci e servirci come preti
all'altare, mi imbarazza e innervosisce non poco. La moglie di
Franco, Elisabetta, la costringe a fare la spola con la cucina ogni
due minuti. Chissà perché una parte dell'umanità ritiene di doversi
meritare la servitù dell'altra metà, la più sfortunata. Ma
tant'è.
Almeno al mio fianco ho Violante e mia nipote
Sara che mi coinvolgono nelle loro discussioni. Mi piace stare con
i ragazzi, come una spugna, cerco di assorbirne l'entusiasmo. E,
infatti, poi, proprio come questa, basta spremermi per far
fuoriuscire di getto la passione accumulata con tanta fatica. La
verità è che ho bisogno di avere sempre un sogno a portata di mano,
altrimenti mi lascio sopraffare dal senso d'inutilità. E i ragazzi
sono un serbatoio inesauribile dal quale attingere.
«Hai trovato uno studio in cui fare pratica?»
chiedo a mia nipote, da poco laureata in Giurisprudenza.
«Ancora no zio, sono indecisa, vorrei provare
prima un'esperienza all'estero, semmai a Londra. Papà, però, non
vuole.»
A tali parole Franco drizza le antenne, solleva
l'enorme deretano per poggiarlo meglio sulla povera seggiola e
s'intromette nel discorso.
«Antò, mia figlia tutt'un tratto ha perso
le cervella. Ha fatto quel po' per
laurearsi col massimo dei voti e mo' vuole gettare tutto
all'aria!»
«Ma chi l'ha detto?» replica Sara.
Capisco che fra tutte le domande possibili ho
scelto l'unica che mi rovinerà il Natale.
«Ma poi, è sempre stata il vanto della famiglia,
la studiosa che eccelleva. Per lei abbiamo investito speranze,
tempo e denaro, e ora ci ripaga così, con un'idea balorda!»
«Vorrei solo conoscere un po' il mondo, in fondo
sono giovane» ribatte la figlia a bassa voce e con lo sguardo chino
nel piatto.
Ma il padre ormai è carico come una molla.
Trangugia l'ennesimo bicchiere di vino e attacca:
«Sì, così semmai incontri qualche sfessato che ti fa perdere la testa e non torni
più. E io poi che devo fare? Venire fino a lì a riprenderti?»
Elisabetta pone la mano sul braccio del marito,
nell'inequivocabile tentativo di frenare la sua ira. Ma lui sembra
non accorgersi nemmeno di chi gli è attorno.
«È sempre così che va a finire, voi ragazzi non
avete un briciolo di gratitudine. Io a tredici anni già lavoravo.
Ma non mi lamento, perché ti ho potuto regalare una vita agiata. E
questo è il ringraziamento!»
L'intera tavolata ammutolisce. Margherita mi
guarda e nei suoi occhi leggo la supplica. Mi sta chiedendo la
cortesia di non intervenire. Ma non posso restare zitto dopo
un'accozzaglia di così tante stronzate. Mi farei del male e non
posso permettermelo. Il mio fisico è colmo di frustrazioni e rabbia
repressa, non voglio aggiungerci l'incazzatura nei confronti di
Franco, rischierei di scoppiare con un infarto. E Violante è ancora
troppo giovane per una simile eventualità. Così decido di
liberarmi. Mi pulisco la bocca ed esclamo:
«Franco, capisco che non sono fatti miei, però,
devo dirti la verità, un discorso così stupido l'ho sentito poche
volte nella mia vita.»
Il capofamiglia sgrana gli occhi. Le donne,
invece, si lasciano andare a un'esclamazione di meraviglia.
«Be', che c'è? Mica ho detto che tu sei stupido,
lo è il tuo discorso!»
Franco non replica, mi guarda esterrefatto.
Credo che nessuno si sia mai permesso di sputtanarlo come sto
facendo io.
«Non t'incazzare, penso che tu sia un buon
padre, premuroso, presente, generoso.»
Poi mi giro verso Sara.
«Ti assicuro che sono tre prerogative più che
sufficienti per considerarti una figlia fortunata.»
Te lo dice uno che ha trascorso la vita a
cercare di colmare il vuoto lasciato dall'infanzia, illudendosi
semmai che altri avessero la forza miracolosa di riempire la specie
di buco che mi ritrovo nello stomaco. Ma questa parte del discorso,
ovviamente, la tengo per me.
La tavola pende ancora dalle mie labbra. Mi
rivolgo di nuovo a Franco.
«Questo però non significa che un figlio alla
fine debba pagare il conto e semmai lasciare una lauta mancia per
il buon servizio, come al ristorante.»
«Antò, forse hai bevuto un po' troppo, perché
non la smetti?» s'intromette Margherita.
«No, lascialo parlare» interviene mio cognato,
«m'interessa il suo pensiero.»
«Insomma Franco, Sara ha ormai un'età nella
quale un genitore deve mollare la presa, altrimenti rischia di
rovinare quanto di buono fatto. Si tratta di una fase, puoi star
certo che nel giro di qualche anno tornerai a essere indispensabile
per lei, la aiuterai a comprare casa, la aspetterai la domenica a
pranzo, andrai a trovare tuo nipote. Se vuoi che tutto ciò accada,
ti devi fare da parte per un po'.»
Nessuno osa parlare. Ma Sara e Violante
sorridono di sottecchi. Afferro il calice che ho davanti e
sorseggio il vino. Ora mi sento più rilassato.
«È la vita, una cosa che sfugge al nostro
controllo, mettiti l'anima in pace» concludo poi.
Franco Carsana continua a fissarmi in silenzio
per alcuni interminabili istanti, poi scorgo un abbozzo di sorriso
affiorare sul suo volto.
«Sara, hai uno zio che è proprio un gran figlio
di buona donna!» esclama infine ridendo.
Tutti ne seguono l'esempio e il clima torna
sereno. Vedo che finanche la filippina gioisce di soppiatto, forse
sollevata dal non dover assistere all'ennesima sfuriata del padrone
di casa. Margherita mi dedica un sorriso che è un misto fra
rimbrotto e ammirazione. Violante mi strizza l'occhio. Sara,
infine, mi manda un bacio.
Ecco come tramutare una situazione da spiacevole
in gradevole: basta essere se stessi e dire ciò che si pensa.
La verità paga sempre.
O no? O è stata soltanto una botta di
culo?
La sera del trentuno:
ancora al Pronto Soccorso
Giovanni finalmente è dentro a farsi medicare,
così Vincenzo e io ne approfittiamo per fumare una sigaretta
all'esterno. Abbiamo dovuto attendere due ore prima che si
occupassero di mio cognato. Vincenzo aveva ragione, nessuno si è
avvicinato fino a quando, ormai in preda a una crisi isterica, ho
afferrato il camice del primo medico che passava e l'ho costretto a
preoccuparsi di noi. La cosa buffa è che il gesto, anziché
provocare una reazione veemente, ha suscitato il rispetto del
dottore e la sua attenzione. La nota negativa, invece, è che
Vincenzo alla fine mi ha dedicato uno sguardo di rimprovero, come a
dire “te l'avevo detto”. Non ho saputo come replicare. D'altronde,
non è carino che sia tuo nipote di sedici anni a insegnarti la
vita.
«Come va al lavoro?» gli chiedo una volta
fuori.
«Benissimo, Don Luigi è contento di me, sostiene
che imparo in fretta.»
«Perfetto.»
Don Luigi è il masto di Vincenzo, come si dice da queste parti,
il titolare della falegnameria nella quale mio nipote sta imparando
il mestiere.
«Se non ci fossi stato tu ad aiutarmi a
convincere mamma ora starei ancora a scuola, avrei perso un altro
anno e, soprattutto, l'opportunità di fare quello che mi
piace.»
Sorrido, anche se credo non sia vero. Io ho solo
detto ciò che pensavo, che il falegname è un bel lavoro, che per
farsi un minimo d'istruzione basta essere curiosi e che scegliersi
una professione che piace è la sola e unica cosa rilevante. Il
resto l'ha fatto Vincenzo con la sua caparbietà.
«Con Giovanni come va?» chiedo poi.
Lui risponde con una smorfia, poi butta fuori il
fumo.
«Mi sembra una brava persona» commento.
«Sì, ma è `na palla. È proprio vecchio
dentro.»
Rido. Mio nipote ha il dono della sintesi.
«In effetti, è un po' pesante, ma vuol bene a
tua madre.»
«Ho capito, però me lo devo sciroppare io.»
Nel fare l'ultimo tiro alla sigaretta rifletto
che alcune volte questo piccolo oggetto inutile e dannoso aiuta a
far entrare in contatto le persone.
«Sai, anche io all'inizio che Giovanni è entrato
in casa ho provato un po' di fastidio. Mi sembrava che stesse
rubando uno spazio non suo.»
«Ma no…»
«Voglio dire che ti capisco, immagino cosa
provi. Ma c'è poco da fare, tuo padre non c'è più e Teresa per
fortuna sì. E almeno Giovanni, con tutti i suoi limiti, ti vuol
bene. Non sai mai la vita cosa ti riserva, potrebbe sempre
arrivarne uno peggiore. E poi l'amore di una madre è troppo potente
per essere gestito in solitudine, perciò ci sono i padri e i
fratelli.»
A queste parole Vincenzo sembra
sciogliersi.
«Già» risponde guardandosi le scarpe, «i padri e
i fratelli. La gente sostiene che è bello essere figli unici, ma
non sa quel che dice. A me sarebbe piaciuto avere una famiglia
numerosa. Invece alcune volte torno e la casa è vuota, allora mi
prende l'apocundria, non sopporto
tutto quel silenzio. Così apro la porta e me ne scendo di
nuovo.»
Come ti capisco caro Vincenzo, più di quanto tu
possa immaginare. E allora mi comporto come avrebbe desiderato quel
ragazzo di tanti anni fa, se solo lui (cioè io) avesse avuto uno
zio come me.
«Vieni qua» esclamo e allargo le braccia.
«Qui, davanti a tutti?»
«Sì, davanti a tutti, perché? Ci fossero più
persone che si stringono questo pianeta sarebbe un luogo più
caldo!»
Vincenzo cede e sprofonda nel mio petto.
«Ora ti rivelerò una cosa» dico una volta
sciolti.
«Cosa?»
«La parte peggiore è dietro!»
Lui sembra frastornato.
«Il peggio è passato» ripeto con forza. «D'ora
in avanti la strada è in discesa. Fra qualche anno te la costruirai
tu una famiglia, come piace a te, con tanti bimbi che gireranno per
casa. Scommetto che sarà un gran casino!»
Vincenzo china solo un istante il capo, per
celare il luccichio degli occhi.
«E tu la vuoi sapere una cosa, zio?»
«Certo.»
«Avrei voluto far parte della tua di famiglia.
Vivere con te, zia Margherita e Violante.»
Ecco, lo sapevo, sono tornato a essere spugna.
Mi imbevo di commozione per le parole di mio nipote e mi basta la
sua stretta per farmi rilasciare subito tutto.
È così che nasce un'emozione, da una
chiacchierata occasionale davanti a un ospedale. D'improvviso
un'onda anomala t'invade il petto e raggiunge gli occhi, per
ricordarti, semmai ce ne fosse bisogno, che i momenti migliori
della vita sono quelli inattesi.
La sera del trentuno:
prima di cena
«Antò, non ti dimenticare di andare a prendere
la signora Pisanelli!»
«Ma perché? Sono tre piani, non può salire da
sola?»
«Antonio, lo sai, il signor Barletta ha
insistito tanto, ha detto che altrimenti la signora non viene, è
orgogliosa.»
Sbuffo. È mai possibile che le persone anziane
abbiano un rapporto così conflittuale con la dignità e l'orgoglio?
Che male c'è a presentarsi da chi ti ha invitato? La verità è che a
una certa età si ha sempre timore di dare fastidio. O forse è
sentore. E il sentore di rado sbaglia.
A ogni modo che ci sia anche la signora
Pisanelli non mi crea alcun problema, non credo alla storia dei
riti voodoo. La gente non aspetta altro che una persona cada per
assestargli il colpo finale. È solo che mi trovo in pieno conflitto
con i bottoni della camicia che, al pari della cravatta, non gode
della mia simpatia.
Compiuta l'estenuante operazione, mi lancio per
le scale, dove incontro la famiglia Barletta al gran completo. Il
capostipite mi saluta e bisbiglia:
«Dottò, quella cosa delle “stranezze” della
signora Pisanelli è vera, ho avuto modo di constatarlo di
persona!»
«Cioè?»
«Be', io forse sarò un ignorante, non ho certo i
vostri titoli, però a me è sorto il dubbio che la signora combini
qualcosa di grave nella sua casa, che risvegli forze
occulte.»
«Addirittura?»
«Non lo so, non mi prendete per pazzo, ma mi
sono convinto che la signora porti un po' male.»
A quelle parole, come mio solito, faccio
scendere la mano lungo la gamba per raggiungere il luogo deputato a
cacciare via il malocchio.
«Ma perché, che è successo?»
«Nulla di grave per fortuna, solo che quando
l'abbiamo ospitata a Natale mia moglie si stava affogando con la
minestra maritata e a mio figlio è saltato un dente con un
roccocò.»
«Va be', sono cose che possono capitare. Non
mettiamo in giro certe voci che fanno presto ad attecchire. Già la
signora è in difficoltà, ci manca pure che s'inizi a dire che porta
iella!»
«No, per carità, io vi sto facendo una
confidenza che deve restare fra noi. A ogni modo può essere che mi
sbagli, che mi sia impressionato.»
«Sarà di certo così.»
«Già, anche se, prima o poi, vorrei controllare
l'abitazione con una scusa. Non sia mai che nel nostro rispettabile
condominio siano messe in atto “strane cose”.»
«Ma quali sarebbero `ste strane cose, Barletta?
Parlate chiaro!»
L'amministratore, però, non fa in tempo a darmi
ulteriori delucidazioni ché i nipoti lo strattonano via, così è
costretto ad allontanarsi con un rapido “scusatemi”.
Resto solo e mi viene da pensare che se non
fosse stato per Del Vecchio, ora forse non mi troverei in una
simile situazione. Dedico un cordiale vaffanculo all'ingegnere e
busso alla porta della signora Pisanelli.
L'anziana donna sembra aprirmi dall'abisso. La
casa è cupa e sa di stantio. Lei sorride e mi fa cenno di
entrare.
«Signora, dobbiamo salire, fra poco si
cena.»
«Un poco di pazienza dottor Esposito, cinque
minuti e sono pronta.»
Mi conduce nel piccolo salotto illuminato solo
da una lampada in un angolo e mi prega di accomodarmi sul divano,
poi scompare. Resto almeno dieci minuti seduto in una stanza che
non conosco e mi assale improvvisa l'ansia.
Le case non devono restare buie, soprattutto in
un giorno di festa. Eppure, quando passeggio la sera con Napoleone
e alzo lo sguardo, mi accorgo che gran parte delle abitazioni lo
sono. Fateci caso, lungo l'intera facciata di un palazzo ci sono
quasi solo tende chiuse o serrande abbassate. La gente ama
nascondersi.
Mi alzo e inizio a gironzolare. È pieno di
soprammobili, cianfrusaglie inutili di un tempo ormai perduto.
Chissà perché gli anziani sono così attaccati agli oggetti. Forse
perché al loro interno sono racchiusi i ricordi, il vero tesoro che
non si vuol perdere.
Le mura sono tappezzate con un parato oramai
logoro e il pavimento è ricoperto dalle tipiche piastrelle degli
anni settanta, quelle piene di pezzettini di marmo. Mi sono sempre
chiesto come abbiano fatto a realizzare un simile orrore. Eppure ci
hanno riempito l'Italia con questa bruttezza a basso costo.
Dalle finestre giungono i primi botti. Guardo
l'orologio: sono le sette e un quarto e alcuni squilibrati si
trovano già sui tetti. Penso al povero Napoleone che come ogni anno
dovrà sorbirsi lo strazio dei fuochi e si rintanerà sotto le mie
gambe. Vorrei potergli spiegare che non c'è da avere paura, è solo
la stupidità umana, un modo per festeggiare. Ma lui potrebbe
obiettare che per fare festa non c'è bisogno di un simile baccano,
si può anche scodinzolare senza rompere le balle agli altri.
A ogni modo sono venti minuti che la signora
Pisanelli è scomparsa, inghiottita dalle catacombe che, scommetto,
si aprono svoltato l'angolo del corridoio. La chiamo con educazione
ma non ricevo risposta. Dopo un po' ritento. Nulla. Inizio a
preoccuparmi. Mi avvicino al bagno e accosto l'orecchio, ma dentro
non c'è nessuno. Poi mi accorgo della luce che filtra da sotto la
porta di quella che presumo essere la stanza da letto. Busso. Lei
risponde. Sospiro. Almeno non è morta.
«Si sta facendo tardi.»
«Un attimo, arrivo» fa lei.
Passano altri dieci minuti. Capisco di stare per
sbottare. E meno male che avevo detto che la presenza della signora
non mi creava problemi. Raduno l'ultimo briciolo di gentilezza
rimastami e la chiamo di nuovo. Silenzio. Al quarto tentativo,
ormai in preda a una crisi di nervi, spalanco la porta.
E vedo ciò che non avrei dovuto vedere.
«Marghe, ti devo parlare» sussurro a mia moglie
appena mi accorgo che non c'è nessuno nelle vicinanze.
Mancano venti minuti alla mezzanotte e avverto
il bisogno di rivelare il mio segreto. La serata è stata piacevole,
ma non sono riuscito a godermela, ho trascorso il tempo a scrutare
la signora Pisanelli. Lei, però, è rimasta tranquilla, anzi si è
anche intrattenuta a parlare con Violante e Nicola della scuola e
delle manifestazioni ai suoi tempi.
Io la osservavo e pensavo a quel che avevo
visto. La follia è come una tarma, s'insinua in una vita
all'apparenza normale e la sfibra poco alla volta.
«Che c'è? Hai una faccia!» esclama
Margherita.
«Be', mi è successa una cosa assurda!»
«Antò, così mi fai spaventare!»
La prendo per mano e la conduco nella stanza da
letto. Napoleone ci segue con aria interrogativa. Sono costretto a
farlo entrare, per evitare di ascoltare il suo lamento incessante
fuori la porta. Con l'arrivo del cane è finita l'intimità. Spesso
dobbiamo farlo presenziare anche in quei momenti lì, altrimenti fa
un frastuono infernale e sveglia Violante. Insomma, uno strazio.
Anche perché la sua figura mi mette soggezione. Se ne sta lì,
sdraiato sul letto, e ci guarda serio.
«La signora Pisanelli è pericolosa!» esclamo una
volta soli.
Margherita sgrana gli occhi.
«Che significa?»
«Stasera, quando sono andato da lei, ho visto
delle cose bizzarre.»
«Cioè?»
«Credevo non si sentisse bene, era mezz'ora che
aspettavo, così dopo un po' mi sono avvicinato alla sua stanza da
letto e, non ricevendo risposta, ho aperto.»
In quell'istante scoppia un petardo fortissimo,
forse una “Capa di Lavezzi”. Napoleone si nasconde sotto le
coperte, Margherita, invece, si avvicina a me.
«Antò, la vuoi finire con questo racconto del
terrore? Mi sembri quello di Blunotte, come si chiama, Lucarelli.
Allora, che hai visto?»
Sento sfregare la porta. Sarà lei, la nonnina
voodoo che ci spia. Corro ad aprire e urlo:
«Chi è?»
Ai miei piedi c'è Neo, la gattina appena entrata
in famiglia, che mi guarda con occhi compassionevoli, forse
domandandosi perché Napoleone abbia il diritto di stare in camera
con noi e lei no. La afferro e richiudo.
«Ma che ti prende?»
«Credevo fosse la signora che origliava.»
«Antò, fossi diventato paranoico? Insomma, che
c'era nella stanza?»
«La luce proveniva solo dalle candele. Il letto
era cosparso di carte dei tarocchi. Ma la cosa più assurda è che
era pieno di bambole strane, tipo quelle voodoo, hai presente?
Erano ovunque, anche appese al lampadario. Ho richiuso subito e ho
fatto finta di niente, ma non so se la signora si sia
insospettita.»
Margherita corruccia la fronte, poi
replica:
«Ma ne sei certo? Non ce la vedo proprio la
signora Pisanelli a fare riti di magia nera.»
«Sì, sono sicuro. E mo', che facciamo?»
«E che dobbiamo fare?»
«Io la sto tenendo d'occhio, non vorrei che si
mettesse a fare qualche rituale strano in casa nostra!»
«Ma dai, poverina, starà male per il marito. La
gente si attacca alle cose più strampalate quando soffre.»
«Ho capito, ma ci sono tante cose alle quali
attaccarsi quando si sta male, per esempio una bella bottiglia.
Perché aggrapparsi a rituali strani che a me incutono anche un po'
di paura?»
«Smettila di fare il superstizioso, sei una
persona intelligente. Ora andiamo di là, se no ci perdiamo la
mezzanotte.»
Lei è già sull'uscio quando trovo il coraggio di
porle la domanda che mi rimbalza in testa dall'inizio della
serata:
«Marghe?»
«Eh?»
«Ma non è che la signora portasse male,
no?»
«E piantala Antò, non vedi che stiamo tutti
bene? Dai, andiamo a stappare lo spumante!»
Tutto si
ricongiunge
Non appena apriamo la porta di casa scatta un
applauso spontaneo da parte dei presenti. Giovanni ha l'occhio
bendato e dovrà metterci della crema per qualche giorno, ma alla
fine gli è andata bene, la retina non si è lesionata.
Mia sorella lo abbraccia davanti a tutti e mi
accorgo di non averla mai vista fare un gesto simile. Allora è vero
che la paura piega anche le nostre più robuste resistenze. Teresa
non ha mai ricevuto una carezza da nostro padre così, una volta
adulta, ha pensato bene di riservare lo stesso trattamento al
marito, al compagno e al figlio. C'è chi, come lei, ripercorre il
medesimo sentiero tracciato dai genitori e chi, come me, cerca
invece di cancellarne le tracce. Meglio perdere l'orientamento che
continuare ad alimentare un ingranaggio inconsapevole che non si
arresta mai.
«Vi abbiamo aspettato per i dolci» fa mia
moglie.
Così, dopo tre ore dalla mezzanotte, ci
ritroviamo ancora tutti intorno al tavolo. Margherita e io,
Violante con il suo rasta dai capelli a fungo, Teresa, Giovanni e
Vincenzo. E a capotavola la signora Pisanelli, sveglia e lucida
nonostante l'età, che attende con ansia gli struffoli di Teresa. A
vederla così sembra una anziana donna che non farebbe del male a
una mosca. Vai a sapere cosa c'è dietro la vita di una
persona.
E meno male che Margherita mi aveva rassicurato!
Sono quasi sicuro che sia stata colpa della vecchietta se Giovanni
per poco non ci rimetteva un occhio. Non vedo l'ora di poterla
riaccompagnare a casa. Alla fine a Barletta è andata meglio.
Sarò pure superstizioso e ignorante, ma la gente
che “fa cose strane” mi mette a disagio. Ci sono tante cose belle
nella vita, fate quelle e lasciate perdere le altre.
Stiamo alla cassata quando Nicola se ne esce con
un'esclamazione:
«Però, scusate, a pensarci, non abbiamo fatto il
brindisi. Dovremmo rimediare, porta male un Capodanno senza
brindisi!»
A quelle parole, “porta male”, dilato le
pupille. Non sia mai, già abbiamo la nonnina satanica a capotavola,
non ci mettiamo anche noi con riti avversi. Allora vado dietro al
ragazzo che con la sua acuta osservazione ha d'improvviso
conquistato molti punti nella mia considerazione.
«Nicola ha ragione, dobbiamo stappare un'altra
bottiglia!»
Mi guardano tutti senza sapere cosa dire.
D'altronde, per poco non ci scappava la tragedia, riproporre la
stessa scena dopo alcune ore sembra quantomeno azzardato. Ma io non
mi arrendo, non andrò a dormire senza cincin, devo contrastare gli
effetti malefici della signora Pisanelli.
«Be', forse non è il caso» tenta di dire Teresa,
ma il compagno la stoppa subito.
«No, hanno ragione, che Capodanno è senza
brindisi. Dai, non facciamo i superstiziosi!»
E bravo Giovanni. Forse ha avuto un'intuizione
riguardo la vecchia.
«Però stavolta l'aprirà Nicola, l'idea è stata
sua» preciso.
Così, mentre Teresa e Margherita sgombrano la
tavola e prendono lo spumante, io ne approfitto per fumarmi una
sigaretta fuori al balcone. Guardo i bengala che sono ancora al
loro posto, spenti, e quasi mi viene voglia di accenderli. Poi
penso che la signora Covelli stavolta la prenderebbe davvero male,
così desisto.
Al secondo tiro arriva Violante.
«Sono contenta» dice abbracciandomi.
«Di che?»
«Hai finalmente interagito con Nicola, l'hai
chiamato per nome, ti sei accorto di lui!» prosegue con un
sorriso.
«Perché, non l'avevo mai chiamato per
nome?»
«No, Pa', anche quando parli con me lo definisci
Caparezza, come il rapper.»
«Be', dovrai ammettere che ci assomiglia.»
«Stupido.»
Sta per rientrare quando mi ricordo di doverle
ancora fare un certo discorso rimasto in sospeso.
«Violante, vieni un attimo.»
Lei si avvicina.
«In breve…sono contento che sei contenta. Se tu
sei felice con Nicola io sono felice, se tu sei felice senza
Nicola, io lo stesso.»
«Davvero?»
«Sì. Quello che volevo dirti però è di non
dimenticarti mai di inseguire la tua felicità. Non stare a sentire
chi ti dice che non si deve deludere il prossimo, l'unico dovere
che hai è di non disilludere te stessa e la vita che hai
sognato.»
Lei si fa attenta. Per fortuna è abituata ai
miei momenti pseudofilosofici.
«Insomma, rispetta sempre tutti, a cominciare da
Nicola, ma non tradire te stessa, i tuoi bisogni, i desideri, le
ambizioni. La vita è troppo breve e se passi le giornate a cercare
di rendere contento un altro va a finire che non hai più tempo per
te. Ognuno è responsabile solo della propria felicità,
ricordatelo.»
«Pà, secondo me tu pensi troppo!»
Abbozzo un sorriso.
«Tu credi?»
«Già. Dai, andiamo a festeggiare!» replica prima
di afferrarmi per il braccio.
E siamo di nuovo qui, intorno a un'altra
bottiglia che nel giro di pochi secondi scaglierà il suo tappo
lontano nell'aria. Sfidiamo ancora la sorte perché crediamo che ciò
che è successo una volta non possa ripetersi, perché in fondo siamo
ottimisti e sappiamo ben poco del caso e delle leggi della fisica.
Quello che possiamo fare è augurarci che tutto vada bene e che un
brindisi ci renda meno esposti alle intemperie.
Ma la fisica e il malocchio se ne fregano dei
nostri desideri, così il sughero rimbalza di nuovo contro il
soffitto. Restiamo per una frazione di secondo rivolti col naso
all'insù e gli occhi serrati, nella speranza che il momento passi e
con esso le nostre paure.
Poi il tappo ricade verso il pavimento.
Un tonfo sordo.
Riapriamo gli occhi.
La signora Pisanelli è a terra.
***
Biografia
Sono nato a Napoli nel 1974. Ho trascorso i miei
primi trentasei anni alla ricerca della via giusta da percorrere.
Poi ho capito che ogni strada ha le sue buche. Allora mi sono
fermato e ho iniziato a scrivere. Il risultato sono numerosi premi
letterari vinti, racconti pubblicati su antologie, riviste e in
internet, e la stesura di tre romanzi. Con Edizioni La Gru ho
pubblicato Daria, la mia prima opera. Il blog:
www.lorenzomarone.com