La notizia aveva attraversato San Pietroburgo, la capitale, come una fiammata di polvere da sparo. In quell’afoso agosto del 1903, non si parlava d’altro, sia nei saloni felpati degli aristocratici sia nelle catapecchie più misere, rabbrividendo piacevolmente al sicuro tra le mura cittadine. I bambini ne mimavano alcune scene, divertendosi a sgomentare le coppie a passeggio sulle rive della Neva. Perfino lo Zar sembrava preoccupato: nella parte opposta del paese, nella misteriosa Siberia, glaciale d’inverno e rovente d’estate, un intero villaggio era stato sterminato. Il “caso” fu riferito da due monaci che, percorrendo il territorio russo, avevano deciso di fare tappa a Tibié, il paesino in questione, abitato esclusivamente da mugiki. Lì, nella temibile taiga, non c’erano grandi magioni padronali circondate da curatissimi giardini, ma solo case di legno e fango, le cui pareti lasciavano penetrare il freddo dell’inverno e le canicole dell’estate. Tibié era uno di quei villaggi costruiti a ridosso degli immensi campi siberiani, terribilmente duri da coltivare: le sue case, separate tra loro da qualche sgangherato recinto, destinato a ospitare poche mucche scheletriche e cavalli da tiro stremati, si assiepavano intorno a una piazza centrale.
Una calda mattina di fine luglio, i due monaci erano giunti a Tibié a dorso di mulo, con la gola secca e le provviste ormai esaurite. Contando sulla generosità degli abitanti del villaggio, che erano poveri ma molto pii, i religiosi si stupirono vedendo che nei campi non c’era anima viva – nessuno intento a lavorare la terra o a condurre un gregge a pascolare in qualche radura d’erba più tenera delle frasche ingiallite nei dintorni dell’abitato.
Dapprima allarmati per quell’insolita calma, i due monaci avevano poi immaginato che il caldo avesse momentaneamente costretto gli abitanti a barricarsi dietro l’illusoria protezione di case e stalle. Finché non videro un cavallo sgozzato. Poi un altro e, più lontano, un intero gregge di pecore riverse in un lago di sangue. Infine, scoprirono con orrore il cadavere atrocemente mutilato di un contadino. A quel punto, avrebbero potuto interrompere la loro marcia verso il villaggio e fare dietro-front. Invece decisero di proseguire, spinti non dalla curiosità ma dalla pietà: era chiaramente accaduto qualcosa di grave, ed era loro dovere andare in soccorso di chi ne avesse bisogno. Spronarono i muli e raggiunsero rapidamente Tibié. Ciò che scoprirono li terrorizzò: c’erano cadaveri dappertutto. Corpi esangui di bambini, donne, uomini robusti e vecchi decrepiti, e poi carcasse di bestiame, cani, polli. Presentavano tutti le stesse ferite, come se fossero stati sgozzati e violentemente artigliati. Alcuni cadaveri erano così sfigurati che neppure i parenti riuscirono a riconoscere i propri cari in quella poltiglia di crani sfondati, buchi al posto del naso e ventri squarciati.
Le porte e le finestre delle case erano in frantumi, e in alcune catapecchie intere porzioni del tetto o dei muri apparivano addirittura divelte. Sul terreno giacevano armi di varie fogge, disseminate alla rinfusa; c’era pure una torcia ancora accesa, che minacciava di incendiare un fastello di fieno – uno dei due monaci la spense con una secchiata d’acqua. I cadaveri non presentavano segni di decomposizione, pertanto i due religiosi dedussero che l’attacco fosse avvenuto da poco. Al momento pensarono a una qualche banda di briganti in preda alla follia, tanto assetati di violenza da assaltare un povero villaggio nel quale, a parte qualche cucchiaio di legno, non c’era assolutamente nulla da rubare. La paura li ghermì all’istante: i briganti come quelli non avevano né fede né onore e, se li avessero trovati là, non avrebbero esitato a ucciderli, infischiandosene della loro pia funzione. Allora si affrettarono a risalire in sella e, martoriando i fianchi dei poveri muli, ripartirono nella direzione da cui erano arrivati. All’improvviso, i due animali s’impennarono e presero a ragliare disperatamente, in preda al terrore. Fu allora che i monaci si trovarono di fronte alla responsabile del massacro: una tigre enorme, con il pelo ancora macchiato di sangue fresco.
A Mosca e a San Pietroburgo, i dispacci non chiarirono per quale motivo la belva avesse risparmiato i due monaci. L’intera Russia trattenne il fiato per il terrore, quando si diffuse la terribile notizia: che razza di tigre poteva essere in grado di sterminare un intero villaggio? Era molto raro che il felino, di natura abitualmente solitaria, attaccasse gli uomini. Di quale belva mostruosa doveva trattarsi, per aver provocato ingenti danni alle abitazioni e sgozzato bestie ed esseri umani?
Il resoconto dei monaci – la visione di un mostro sanguinario che nulla riusciva a fermare – concordava con alcune vecchie leggende e rinfocolava i timori più spaventosi; quello che avrebbe potuto essere un semplice fatto di cronaca d’inizio secolo assunse una portata ben diversa, poiché la tigre non si limitò a quello scempio. Un mese dopo i fatti di Tibié, e non lontano dalle rovine del villaggio, la belva assalì una carovana di mercanti in viaggio. Soltanto uno di loro riuscì a cavarsela e poté raccontare l’accaduto. Nello stesso periodo, alcuni cacciatori isolati scomparvero letteralmente nel nulla. Infine, il corpo di un emissario dello Zar, inviato in Siberia per indagare sulla fiera che terrorizzava la regione, fu rinvenuto sgozzato insieme ai cadaveri dei membri della sua scorta. Il predatore aveva colpito ancora.
Quando i rigori dell’inverno cominciarono ad ammantare l’intero paese, la tigre aveva ormai mietuto varie decine di vittime. Quello che in luglio era apparso come un caso raccapricciante ma isolato, adesso aveva assunto ben altre proporzioni. A San Pietroburgo, dove solo qualche mese prima ci si divertiva a spaventarsi a vicenda narrando le imprese della fiera che imperversava da un’altra parte del paese, ormai si temeva che la belva potesse presentarsi all’improvviso alle porte della città. E non c’era distinzione sociale in grado di mettere al riparo da quel pericolo. Chi ne aveva i mezzi comprava un fucile o si barricava in casa, uscendo il meno possibile. Dappertutto si diceva che la tigre poteva fare la sua comparsa in un mercato, nel cortile di una casa isolata e persino nel Palazzo d’Inverno, ancorché ben sorvegliato. La voce popolare montava di giorno in giorno: non si trattava più di una sola tigre, ma di un intero branco, che seminava morte e terrore al suo passaggio. E i giornali, annunciando quotidianamente qualche morte sospetta, non facevano che accrescere la paranoia generale. L’unico fatto assodato che rassicurasse gli abitanti della capitale era che la tigre, per il momento, restava confinata nella lontana Siberia. Ma fino a quando?
Ogni giorno lo Zar riuniva i suoi consiglieri per fare il punto della situazione. Pur non essendo personalmente spaventato, e ritenendo indegno del proprio rango cedere al panico come faceva il popolo, in quanto capo supremo del paese doveva occuparsi di quella faccenda. Di fatto, la tigre stava minacciando sensibilmente la sua politica economica per la Siberia. Lo Zar intendeva sfruttare al massimo le risorse della regione, per troppo tempo considerata una distesa arida e improduttiva. Gli americani continuavano a scovare straordinarie ricchezze minerali e giacimenti petroliferi in quell’Alaska che i russi avevano stupidamente ceduto loro per un pugno di dollari, ritenendola sprovvista di qualsiasi potenziale. L’Imperatore sperava di poter rimediare a tale sbaglio modificando lo statuto della Siberia e riuscendo così a restituire al paese la potenza che a poco a poco andava perdendo. Ma quella tigre cominciava a provocare l’esodo della popolazione rurale, e gli investitori esitavano sempre più a puntare su quel territorio, da tutti ritenuto instabile. Occorreva trovare una soluzione.
Fu così che, un mese prima delle celebrazioni del Natale ortodosso, lo Zar fece affiggere dei manifesti, dapprima in città e poi in tutto il paese. Chiunque avesse portato al Palazzo Reale la spoglia della tigre mangiatrice d’uomini che terrorizzava la Siberia, avrebbe ricevuto l’equivalente del peso della bestia in monete d’oro – ovviamente dopo la conferma che si trattasse della fiera in questione.
In tutto il paese, schiere di uomini, da soli o in bande organizzate, si misero in cammino verso la Siberia per trovare e uccidere quella tigre che avrebbe fatto la loro fortuna.
Ivan Levovic faceva parte di quei coraggiosi. Era un giovane di San Pietroburgo, sulla ventina, con una barba bionda e ispida, braccia d’acciaio e spalle che sembravano scolpite nella roccia. Proveniva da una famiglia modesta e lavorava nella bottega di falegname del padre. Il decreto imperiale gli offriva l’insperata opportunità di diventare ricco e famoso, e di superare in quel modo il profondo fossato che lo separava dai fasti dell’alta società russa. Con i pochi risparmi che aveva, Ivan comprò un fucile affidabile e preciso e, dopo un sobrio commiato dalla famiglia, salì sul lungo treno che, nel cuore dell’inverno russo, l’avrebbe portato a oriente.
La nebbia e il freddo rallentarono di molto il viaggio, e solo dopo quasi un mese dalla partenza Ivan poté finalmente cominciare la sua ricerca. Era sceso a una stazione scalcinata nei pressi del tristemente noto villaggio di Tibié, che raggiunse dopo altri due giorni di strada in sella a un cavallo robusto che aveva comprato con quanto gli restava dei suoi risparmi. Durante il viaggio in treno verso la Siberia, Ivan era stato assalito da angosce improvvise: non sapeva come fare per trovare la tigre. Se anche fosse riuscito a uccidere un felino, infatti, come poteva essere certo di aver eliminato proprio la famigerata belva, quella che avrebbe fatto la sua gloria e la sua fortuna? Gli ci sarebbe voluto un mese per tornare a San Pietroburgo e portare la spoglia al palazzo, e probabilmente un altro per ottenere l’eventuale conferma che si trattava della tigre ricercata. In altre parole, se avesse ucciso l’animale sbagliato, non avrebbe mai avuto il tempo di intraprendere un’altra spedizione – e neppure i soldi, in realtà. Non poteva permettersi di fallire, e quella consapevolezza gli fece rimpiangere di non essersi unito a un gruppo di cacciatori, invece di partire da solo. Era stata l’avidità a convincerlo: non voleva spartire la ricompensa. Ma, a causa della bramosia, rischiava di non vedere il colore neppure di una singola moneta, foss’anche di rame.
Per aumentare le possibilità di successo, Ivan aveva deciso di seguire le tracce della tigre come si fa con un criminale. Si sarebbe recato nei luoghi degli attacchi seguendo la cronologia dei fatti, e vi avrebbe raccolto qualsiasi indizio potesse aiutarlo a identificare con certezza la fiera assassina. Fu così che, spronando il suo destriero gagliardo, arrivò a Tibié, ormai ridotto a un villaggio fantasma. Passando davanti alle prime case, si sentì torcere le budella per la paura. Strinse a sé il fucile e, per precauzione, mise in canna un proiettile. Nel villaggio non c’era anima viva. La neve aveva coperto ogni traccia di lotta e di morte, e solo le finestre rotte e i muri sfondati testimoniavano la tragedia che era avvenuta lì. Ivan, contrariato dalla mancanza di indizi, proseguì nell’attraversamento del villaggio. Quando stava per uscirne, si fermò di colpo, notando con stupore un vasto campo innevato dal quale affiorava un centinaio di croci di legno.
“È lì che li abbiamo sepolti,” disse una voce alle sue spalle. Ivan trasalì e si voltò, puntando il fucile verso l’interlocutore.
Si trattava di un vagabondo. Era sbucato da una casa vicina, dove si era acquartierato per l’inverno.
“Chi sei?” chiese il ragazzo, con tono rude, per camuffare il fatto di essere trasalito di paura.
“Cerchi la tigre?” domandò in risposta il vagabondo. “Come tutti gli uomini che passano da qui ogni giorno?”
Ivan non disse niente. C’era dunque una concorrenza così numerosa? Quell’uomo poteva essergli d’aiuto o qualche cacciatore scorretto l’aveva incaricato di fornire indicazioni errate ai rivali? Il vagabondo, come se gli avesse letto nel pensiero, dichiarò:
“Non ho cattive intenzioni nei tuoi riguardi… Se cerchi la tigre, prosegui verso est fino al villaggio di Skolkele.”
Poi l’uomo tornò da dov’era venuto. Ivan spronò senza pietà il cavallo, affondando ripetutamente i talloni nei suoi fianchi, intenzionato a seguire il consiglio che aveva appena ricevuto. Non sapeva quanto distasse Skolkele, né cosa vi avrebbe trovato. Ma non aveva scelta.
Ivan impiegò quasi mezza giornata per arrivare a destinazione. Durante la lunga cavalcata, si trovò più volte a sospettare che il vagabondo l’avesse preso in giro, e temette di essersi fatto beffare assai facilmente. A un tratto, vide le volute di fumo grigio che si levavano dalle prime case di un villaggio: Skolkele. Isolato in mezzo alle grandi distese innevate, il paese era poco più grande di Tibié. Pensò che in un posto così piccolo potevano abitare al massimo trecento persone. Era l’ora di cena quando Ivan entrò nel villaggio. Un intenso odore di lardo e di zuppa di cavoli gli ricordò che non mangiava dalla sera prima. Anche il suo cavallo era a digiuno, ed era chiaro che aveva bisogno di riposo. Ivan era arrivato a Skolkele, ma non aveva alcuna idea di come progredire nella sua ricerca. Non dovette aspettare molto per scoprirlo: scelse a caso un’abitazione, bussò con forza alla porta e ripeté mentalmente un lacrimevole discorso che si era preparato per impietosire i padroni di casa – era rimasto senza un copeco e non aveva nulla con cui pagare l’alloggio.
Ad aprirgli fu un contadino dall’aspetto burbero e visibilmente alticcio. Ivan non ebbe bisogno di parlare a lungo: appena ebbe spiegato di essere alle calcagna della tigre, l’uomo sorrise e lo fece accomodare in casa come un membro della famiglia. A quel punto, Ivan Levovic si rese conto di quanto gli abitanti della regione fossero terrorizzati dalla belva. Il contadino, che si presentò con il nome di Dimitri, lo accompagnò in una modesta cucina dove la famiglia stava consumando una misera cena. Lo fece sedere accanto al figlio, su una panca d’abete squadrata rozzamente, e ordinò con voce roca alla moglie e alla figlia di servire l’ospite. Disse anche di aggiungere alla sua zuppa un pezzo di lardo, come segno di rispetto; poi affrontò la faccenda della tigre.
“Cosa sai di quella bestia?” chiese il contadino.
“A dire il vero, ben poco. È stato un vagabondo a mandarmi qui…”
“La tigre ha assalito una carovana di mercanti all’uscita del villaggio. Li ha massacrati.”
“Quand’è successo?”
“Alla fine di agosto…”
Ivan non nascose il proprio disappunto: quell’episodio risaliva a molti mesi prima. A quel ritmo, non sarebbe mai riuscito a rintracciare la tigre. Dimitri allora capì che il suo interlocutore non era un cacciatore esperto, bensì uno dei tanti “sognatori” di Mosca o di San Pietroburgo che si credevano capaci di sfidare la terribile Siberia e di intascare la ricompensa promessa dallo Zar. Ma non glielo fece pesare.
“Come faccio a trovarla?” domandò schiettamente Ivan.
“Segui la pista… Sarà lei a venirti incontro.”
“Ma come riuscirò a riconoscerla?”
“È enorme! Le sue zanne sono come sciabole e gli occhi sembrano due bocche di cannone. Ha la potenza di un cavallo e l’agilità di un’aquila. È il demonio ad avercela mandata… per tutti i nostri peccati!”
I due figli guardarono il padre con aria terrorizzata. Ivan si chiese se davvero il contadino avesse visto la belva o se cercasse semplicemente una giustificazione per le sue condizioni miserabili, chiamando in causa quella punizione collettiva per i peccatori.
Finito di cenare, Dimitri fece sistemare l’ospite nel fienile, il più comodamente possibile. Ivan si sdraiò sul giaciglio di paglia e sprofondò in un sonno plumbeo, velato dalle innumerevoli domande che avevano già cominciato a costellare i suoi pensieri. Di buon mattino, si fece accompagnare nel luogo dov’era avvenuta la strage dei mercanti. Come si aspettava, non trovò altro che neve. Nessun segno, nessun indizio che potesse aiutarlo. Per un istante pensò di chiedere di esumare i corpi degli sventurati. Ma, oltre a farlo passare per un eretico, profanare il sacro riposo dei defunti non l’avrebbe in alcun modo avvicinato alla belva. Allora decise di riprendere il cammino, risalendo via via i luoghi in cui la tigre aveva colpito. Il suo cavallo, riposato e sazio, era di nuovo in forze, e Ivan ripartì al galoppo attraverso la taiga. Dopo la carovana dei mercanti, la fiera aveva assalito alcuni cacciatori di cervi appostati in un capanno nei pressi di un altro villaggio. Fu lì che il ragazzo si diresse.
Ivan Levovič batté la Siberia per quattro settimane, ricostruendo minuziosamente la scia di sangue lasciata dalla tigre. Incontrò decine di cacciatori, spesso molto meglio equipaggiati e addestrati di lui. Nonostante l’impressionante quantità di uomini giunti fin lì per braccare la bestia – che puntualmente si ritrovavano tutti a cercare nel medesimo perimetro d’azione della fiera –, Ivan riusciva sempre a scovare una casa per passarvi la notte. Ogni sera godeva di un’accoglienza calorosa e non gli veniva mai fatto mancare nulla, il che gli permetteva di riprendere le forze per continuare a setacciare la regione con un accanimento costante. Malgrado ciò, la sua ricerca non faceva progressi. L’esame sistematico dei luoghi dov’erano avvenuti gli attacchi non gli forniva alcun aiuto e, tra le centinaia di testimonianze che aveva raccolto, faceva fatica a separare la verità dalle innumerevoli esagerazioni. La primavera avanzava sulla Siberia, e Ivan era ancora all’asciutto. A dire il vero, da tre mesi la tigre non faceva più parlare di sé. A San Pietroburgo la tensione si era dissolta, i fucili erano stati riposti e lo Zar, pur mantenendo la taglia, non teneva più riunioni quotidiane sull’argomento. Il ricordo della “belva siberiana” andava sempre più sbiadendo, per lasciare il posto alle tensioni politiche che si profilavano all’orizzonte.
A causa delle difficoltà nella trasmissione delle notizie, soprattutto nelle province più lontane, Ivan era all’oscuro di tutto. Sapeva solo che la tigre non si faceva più viva dall’inizio dell’inverno; ma, ignorando totalmente le vicende della capitale, cominciava a chiedersi se non fosse stata già uccisa e la sua spoglia portata al Palazzo Reale. E s’immaginava la faccia del sudicio ubriacone che, per un colpo di fortuna, adesso si ritrovava a rotolarsi voluttuosamente nell’oro.
Sprofondato nell’incertezza, tormentato dallo scoramento e dalla disperazione, alla fine di marzo Ivan si convinse a tornare a casa. Decise di vendere il cavallo, con la speranza di ricavare una somma sufficiente per acquistare il biglietto del treno; sulla strada che portava alla stazione di Kadashka, dov’era arrivato due mesi prima, continuava a immaginare i volti delusi dei suoi famigliari quando l’avrebbero visto tornare a mani vuote. Aveva tradito tutte le sue promesse.
Mentre si dirigeva verso la piazza del mercato, con la speranza di trovare un acquirente per la sua cavalcatura, un improvviso clamore di grida e lamenti fece impennare il destriero. Un capannello di gente si era formato intorno a una carretta che trasportava il corpo mutilato e straziato di un uomo ancora miracolosamente vivo. Dalle porte delle case sbucavano persone armate. La tigre aveva colpito ancora.
Gli abitanti di Kadashka, decisi a farla finita una volta per tutte con la belva che da mesi li terrorizzava, si lanciarono in una battuta di caccia selvaggia e disorganizzata. La vittima dell’attacco era un contadino che stava tornando a dorso di mulo da una frazione vicina. Le testimonianze dicevano che la tigre era sbucata dal nulla e aveva aggredito simultaneamente l’uomo e la sua cavalcatura. Solo l’intervento di un secondo viandante, che seguiva da presso il contadino ed era armato di fucile, aveva messo in fuga la tigre: la belva aveva preferito non affrontare i proiettili, malgrado la mira del suo avversario fosse piuttosto incerta, visto che l’aveva mancata da così poca distanza. Temendo che la fiera tornasse all’attacco, il viandante aveva caricato sul proprio cavallo lo sventurato gravemente ferito e aveva galoppato fino alle porte di Kadashka. Mentre un prete si occupava freneticamente del corpo martoriato e insanguinato, un’immensa folla di contadini si era diretta verso il luogo dell’attacco. Ciascuno di loro aveva preso in fretta e furia quella che gli era parsa l’arma più adatta, e ora marciavano tutti di buon passo, facendosi coraggio a vicenda e urlando a pieni polmoni. Il corteo non aveva un capo né una strategia e, a parte far baccano, nessuno aveva ancora deciso come affrontare la situazione. Si sentivano forti solo stringendosi gli uni agli altri, e si preparavano ad attaccare ovviamente da una sola direzione, mentre avrebbero dovuto separarsi e formare con i loro corpi una rete umana che si richiudesse sulla tigre. Lo sapevano, ma non avevano il coraggio di agire così.
Ivan aveva lasciato il cavallo al villaggio e si era infilato in mezzo alla folla per raccogliere qualche informazione. In base alle voci che circolavano, tutti concordavano nel dire che la tigre era enorme e che non staccava dalla preda i suoi occhi di fuoco se prima non l’aveva sgozzata. Uccideva solo per il piacere di togliere la vita, e non aveva alcuna pietà per chi cadesse tra le sue grinfie. Ivan si allontanò da un gruppo di esaltati che blateravano deliranti teorie di anatomia, descrivendo la fiera come un animale con molte teste e dai poteri misteriosi. Si diresse verso un vecchio – gli sembrava di averlo visto portare la vittima dentro il villaggio: quell’uomo doveva saperne più degli altri.
“È stata la tigre a ridurlo così?” domandò Ivan, con tono falsamente distaccato.
“Può essere stata solo lei,” rispose il vecchio.
“E come ha fatto?”
“Il suo metodo è sempre lo stesso. Attacca le persone indifese, i gruppi disarmati. Si apposta, si acquatta sul terreno e nell’erba, e scatta senza farsi vedere… E sa che le sue vittime non potranno nulla contro di lei.”
L’uomo aveva parlato con un tono secco e terrificante. Le sue parole risuonavano ancora nella testa di Ivan quando la folla si fermò, percorsa da un brusio di sgomento: sul ciglio del sentiero giaceva il corpo del mulo in una pozza di sangue. Il giovane cacciatore si fece largo fino alla carcassa e, quando la vide da vicino, non poté trattenere un moto di disgusto: quella non era opera di un cane randagio, di un lupo o di una belva qualsiasi. La testa dell’equino era quasi staccata dal corpo, spiccata da una zampata di potenza inaudita. Dalla carcassa inerte non colava più sangue, perché non ne era rimasta neppure una goccia. Tutto il fluido vitale si era sparso sul sentiero e nell’erba da poco liberata dalla neve, diffondendo un tanfo che rivoltava lo stomaco. Dimitri aveva ragione: quel mostro era stato spedito in Siberia per punire gli esseri umani.
Ivan aveva visto abbastanza: non aveva più tempo da perdere con quei contadini superstiziosi, la cui fifa stava dando alla tigre la possibilità di svignarsela ancora una volta nella steppa. Corse a perdifiato fino al villaggio, montò sul suo cavallo e lo spronò furiosamente nella direzione opposta a quella presa dalla massa di contadini. La belva non doveva essere lontana, e questo gli offriva un’opportunità unica di trovarla. Dopo aver cercato inutilmente a lungo, seguendo piste e indizi sempre troppo vaghi e imprecisi, adesso era in prossimità della belva. Con la ricompensa a portata di mano. Forse non aveva fatto tutta quella strada invano. Ripensando al mulo decapitato, Ivan si sentì torcere le budella; terrorizzato da ciò che poteva succedergli se non fosse stato prudente, con una mano continuò a tenere le redini del cavallo al galoppo e con l’altra strinse il fucile per trarne un qualche conforto. Il vecchio gli aveva detto che la tigre attaccava solo chi era disarmato: Ivan considerava la sua arma, poggiata in bella evidenza sulla sella, come un’assicurazione sulla vita.
Il ragazzo continuò senza tregua la sua corsa attraverso la pianura: adesso cercava di pensare come la tigre, per braccarla meglio. Se davvero non aggrediva gli uomini armati, la bestia sarebbe scappata il più lontano possibile da quella frotta di contadini esagitati. E così fece Ivan.
Risalì un ruscello finché non divenne un fiume vero e proprio, e attraversò una foresta di pini giganti, allontanandosi dal pericolo dei contadini furibondi, proprio come avrebbe fatto la tigre; continuò la cavalcata attraverso un’ampia distesa disseminata di boschetti dai colori primaverili e, mentre si immedesimava nei pensieri del felino, tentando di trovare la direzione giusta, si sentì scagliato sul terreno in una frazione di secondo e con straordinaria violenza. Riuscì solo a udire il cavallo nitrire e rovinare al suolo a sua volta, poiché una potente zampata gli aveva sfondato il fianco, strappando la pelle e lacerando le carni. Ivan trattenne un grido: la tigre gli si era lanciata addosso. Acquattata nell’erba, la belva l’aveva aspettato per ucciderlo, stanca di sentirselo alle costole. Disteso a terra e con una zampa della fiera sul collo, Ivan era troppo terrorizzato per cedere al panico. Una grinfia della belva era poggiata sul suo pomo d’Adamo: lui non osava neppure deglutire, per paura che gli squarciasse la gola. Il fucile si era rivelato una protezione decisamente illusoria. L’animale e il ragazzo si fissarono per un lasso di tempo difficile da misurare. Forse fu un minuto. Forse un’ora. Infine, la tigre emise un ringhio minaccioso, poi abbandonò la presa e balzò via. Anziché tuffarsi nel bosco per nascondersi, si lanciò attraverso la vasta pianura. Ivan si alzò e rimase a lungo a guardare quel fulmine giallo e nero che saettava con rara maestosità. Si asciugò la fronte con la manica della giubba, tremando di paura e al tempo stesso di collera. Il felino l’aveva lasciato in vita e, più che come un gesto di generosità, Ivan lo interpretava come un’offesa personale. In testa gli risuonavano ancora le parole del vecchio che aveva incontrato durante la battuta di caccia dei contadini: “La tigre attacca solo i deboli,” gli aveva detto. Lanciandosi su di lui ma risparmiandogli la vita, la belva lo aveva ridicolizzato. Si burlava della sua lunga ricerca, derideva le sue strategie. Rifiutando di dargli la morte, dimostrava di giudicarlo più insignificante dei bambini e delle capre che aveva sgozzato fin lì. Ivan strinse i pugni per la rabbia: dunque era un debole, un inetto. Un condannato a vivere dalla volontà di quella belva che avrebbe dovuto fare di lui un uomo ricco. Levovič, avvilito, si lasciò cadere sull’erba, con le guance striate di lacrime. Nonostante le settimane trascorse a inseguire la tigre, non sarebbe mai riuscito a ucciderla. Non era che un miserabile presuntuoso, si era sopravvalutato. Era allo stremo delle forze, fisicamente, psichicamente e moralmente. Non aveva il coraggio di tornare a San Pietroburgo e affrontare la famiglia. Non aveva il coraggio di tornare nella bottega del padre e di restare incastrato per sempre nella sua condizione di uomo mediocre. Passando la mano sull’erba, sentì il fucile. Lo afferrò con un gesto deciso e, guardando le nuvole immacolate nel cielo, s’infilò la canna in bocca. Chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi, ma una sensazione sgradevole lo turbò. Sentiva un liquido caldo e denso colargli sulla testa, scorrendo tra i capelli. Si toccò il capo e capì che era sangue. Lasciato cadere il fucile, Ivan balzò in piedi, spaventato e disgustato, e vide che il suo cavallo, morto e con la gola squarciata, stava perdendo tutto il proprio sangue. Si era completamente dimenticato del suo destriero, così fedele in quell’avventura. La tigre l’aveva sgozzato durante l’attacco. Aveva ucciso il cavallo e lasciato vivo Ivan: era decisamente troppo. Il ragazzo si alzò, furibondo, e sparò un colpo in aria. Come un’intimazione a chiunque volesse raccoglierla. Scrutando la pianura in mezzo alla quale era scomparso il felino, urlò con tutte le sue forze: “Morte a te, tigre! Morte a te! Ti ucciderò! Ti ucciderò! Ti ucciderò!”
Ripetendo instancabilmente le ultime parole, prese a girare su se stesso affinché il vento portasse in ogni direzione il suo messaggio per la tigre. Adesso era avvisata.
Quando ebbe smesso di urlare furiosamente, Ivan perse la nozione del tempo. Smarrito in mezzo alla taiga, a piedi e privo di viveri, camminò senza meta per diverse ore. Stravolto e disorientato, ormai pensava solo a cercare il felino, rendendosi conto che se non avesse trovato un riparo dove passare la notte, avrebbe rischiato d’essere lui a fare una brutta fine.
Il buio era fitto e la luna già alta nel cielo, quando Ivan scorse la luce di un’isba isolata. Bussò alla porta e fu accolto da un contadino un po’ babbeo di nome Chevtchenko, con la moglie e i tre figli. Ivan non dovette discutere a lungo per ottenere ospitalità: le sue condizioni e l’attacco della tigre gli avrebbero aperto qualsiasi porta. Ricevette da mangiare, e la donna si offrì addirittura di controllare che non avesse subìto qualche ferita di cui magari non si era accorto. Ivan rifiutò garbatamente la proposta, quindi chiese semplicemente di poter andare a letto, stremato dagli eventi.
Il contadino lo fece accomodare nella grande stanza comune in cui dormiva tutta la famiglia. Ivan si sdraiò sul rozzo materasso di paglia, contento di poter dimenticare, anche se solo per una notte, le proprie disgrazie. Tuttavia, mentre gli altri russavano, lui non riusciva ad addormentarsi. Continuava a pensare alla tigre. Voleva vederla morta; voleva scuoiarla e farsi un mantello con la sua pelle. Voleva tuffarsi in una vasca piena d’oro, comodamente alloggiato a San Pietroburgo, e non in quella maledetta Siberia. L’insonnia lo costrinse a concentrarsi sulla caccia: ora che sapeva di essere vicino alla tigre, come doveva affrontarla? Inseguirla e braccarla come aveva fatto fin lì non serviva a niente – aveva avuto modo di verificarlo poche ore prima. Perciò doveva usare l’astuzia, dimostrarsi più abile e scaltro della sua preda. Doveva architettare uno stratagemma. Rifletté a lungo e abbozzò vari piani, ma senza molta convinzione; poi, all’improvviso, sorrise: aveva avuto un’idea.
Per il resto di quella notte, Ivan dormì il sonno del giusto, soddisfatto com’era di sapersi sul punto di portare allo Zar la spoglia della tigre. Dormì così profondamente che non sentì il sole del mattino lambirgli il viso, né udì la famiglia di Chevtchenko che si alzava. Fu quest’ultimo a destarlo a metà mattina, preoccupato per il fatto che non si svegliasse. Dapprima lo credette morto, pur distinguendo chiaramente il soffio del suo respiro. Poi il contadino decise di togliersi ogni dubbio scuotendolo vigorosamente, e si rincuorò vedendo che apriva gli occhi.
“Come ti senti?” s’informò l’uomo.
Ivan non rispose alla domanda, troppo impaziente di mettere in atto il suo piano.
“Sei ricco?” chiese cinicamente, osservando l’interno miserabile della casa e gli indumenti malconci dell’uomo.
“Be’, no…” rispose Chevtchenko, con la sua aria stordita e ingenua.
“Ti va di diventare incredibilmente ricco?”
“Be’, sì…”
Lo sguardo del contadino tradiva la sua assoluta incapacità di comprendere. Allora Ivan gli rivelò le proprie intenzioni:
“Se tu e la tua famiglia mi aiuterete a uccidere la tigre, vi darò metà della ricompensa…”
“Come possiamo renderci utili?”
“La tigre attacca solo le persone indifese. Voi farete da esca!”
In un primo momento, l’idea aveva ovviamente spaventato Chevtchenko. Poi i discorsi scaltri di Ivan avevano finito per convincerlo. Metà del peso della tigre in monete d’oro era un argomento tutt’altro che trascurabile. Quella somma sarebbe bastata per liberare una volta per tutte la famiglia dalla miseria. E poi il piano di Ivan sembrava efficace e senza pericolo: al calar della sera, Chevtchenko e i suoi si sarebbero seduti nella radura davanti alla casa, avrebbero acceso un focherello e avrebbero finto di volersi godere l’arietta primaverile. A una ventina di metri da loro, appostato dietro la finestrella dell’abbaino del solaio, Ivan avrebbe pazientemente atteso che la tigre si avvicinasse. L’assenza di alberi intorno alla casa avrebbe impedito un attacco di sorpresa. Alla luce del fuoco, il ragazzo avrebbe avuto tutto l’agio di vedere la belva approssimarsi e l’avrebbe abbattuta con una fucilata prima che avesse il tempo di accostarsi alla famiglia.
Ivan era molto fiero del suo piano, e attese con impazienza che si facesse buio. Quando si sentì pronto, fece segno al contadino di mettersi in posizione e si appostò nel solaio. Si sdraiò sul pavimento e fece passare la canna del fucile attraverso il vetro rotto dell’abbaino. Chiudendo un occhio per mirare meglio, si preoccupò di tenere sotto tiro tutta l’area occupata dalla famigliola. La tigre non poteva sfuggirgli. Ivan guardò divertito i cinque bifolchi sdraiarsi sull’erba e cantare fiocamente intorno al fuoco appena acceso dal capofamiglia. Erano pietrificati dalla paura, ma la posta era troppo alta per tirarsi indietro. Finalmente sarebbero riusciti a mangiare a sazietà, avrebbero dormito tra lenzuola di seta e avrebbero indossato vestiti nuovi ogni settimana.
Dal suo posto di vedetta, Ivan attese caparbiamente la venuta della tigre. Ma la fiera non arrivò. All’inizio il cacciatore ebbe una lunga fase di eccitazione, trasalendo prima alla vista di un topo e, poco dopo, di una volpe. Poi cominciò a preoccuparsi e immaginò il peggio: la belva poteva anche non mostrarsi. Pazientò fino all’alba. Vedendo la famiglia sonnecchiare sull’erba umida, si appisolò anche lui per qualche istante. E, quando sorse il sole, rinunciò.
Il povero Chevtchenko, ridestatosi, stava ancora tremando quando Ivan scese dalla sua postazione.
“È troppo angosciante!” disse. “Non vogliamo più farlo!”
“Ritentiamo stasera,” lo supplicò il ragazzo. “Non vuoi diventare ricco?”
Ancora una volta, quelle parole finirono per convincere il contadino. E, al calar della sera, la famiglia riprese posizione nella radura e Ivan nel solaio.
Fu una notte piena di stelle, quella che di lì a poco calò sulla Siberia: un cielo d’inchiostro con astri di diamante che illuminavano la terra. Ivan, con il cuore che batteva all’impazzata, non dovette aspettare a lungo: nella luce della luna vide apparire il manto striato della tigre. Era lei, la riconosceva. Appostata a una ventina di metri dalla famiglia, invisibile, mimetizzata nella vegetazione.
Ivan prese la mira e poggiò il dito sul grilletto: la tigre era alla sua mercé. Eppure non sparò. Non aveva fatto tutti quegli sforzi per intascare solo metà della ricompensa. Il sacrificio di quei mugiki non sarebbe stato una grossa perdita. Attraverso il mirino del fucile, il ragazzo guardò la tigre strisciare silenziosa fino alla famiglia. Giunta a tre metri da loro, la bestia s’immobilizzò per un istante, poi balzò di scatto con un ruggito tremendo. Spalancando le fauci e brandendo gli artigli come sciabole, massacrò il povero Chevtchenko, la moglie e i tre figli. Ivan vide i corpi schiantarsi, la pelle lacerarsi e il sangue spandersi sull’erba. Solo allora sparò.
Con una deflagrazione assordante, amplificata dal solaio vuoto che faceva da cassa di risonanza, il primo proiettile colpì la tigre al petto. Il ragazzo ricaricò rapidamente il fucile e sparò di nuovo, colpendo il felino nello stesso punto. Nonostante le ferite, la belva scappò a gran velocità e scomparve nella notte. Ivan scese di corsa dal solaio e si precipitò nella radura. Senza minimamente curarsi dei corpi che giacevano sul terreno, individuò la scia di sangue lasciata dalla tigre e la seguì. Il buio gli impediva di distinguere chiaramente il rivolo rosso, ma correndo a perdifiato nell’erba alta, Ivan riuscì a raggiungere la tigre, che avanzava penosamente. Temendo che la bestia potesse voltarsi e attaccarlo, il ragazzo si mantenne a distanza e fece fuoco altre due volte. Non capì se avesse colpito il bersaglio, ma di lì a poco vide la belva accasciarsi tra i rovi. Lanciò un grido di trionfo; poi si avvicinò con prudenza, stringendo il fucile in una morsa febbrile. Ma, proprio quando pensava di averla sconfitta, la tigre si levò e con un balzo lo scagliò a terra. Il fucile cadde lontano e la fiera, con una zampata violentissima, squarciò il ventre di Ivan, strappandogli un urlo di dolore. Il suo sangue, adesso, si mischiava a quello della tigre; l’aria fresca della primavera s’infilava nella ferita e gli lambiva le viscere. Poi il ragazzo sentì il braccio destro slogarsi e l’osso spezzarsi: ritto sopra di lui, il felino aveva appena richiuso le fauci sulla sua spalla. Raccogliendo le forze, Ivan allungò la mano sinistra verso la gamba e sfilò il pugnale che portava in un fodero legato alla caviglia. Con un gesto disperato, piantò la lama nel ventre della tigre e la fece scivolare verso il muso il più possibile. Sventrato, l’animale si scostò bruscamente dal ragazzo, ansimando e perdendo sangue a fiotti. Cercò di trascinarsi per una decina di metri; poi vacillò e stramazzò a terra.
Ivan, gemente e quasi privo di sensi, si alzò e si avvicinò a fatica alla bestia. La tigre, enorme, era distesa sull’erba fresca, che arrossava del proprio sangue. Mortalmente ferito, il ragazzo crollò a sua volta accanto a lei. Riversi fianco a fianco, i due si guardarono negli occhi per tutta la notte. Poi, alle prime luci dell’alba, morirono.