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ZIA MAME E L'ORA DEL BAMBINO
L'articolo di “Selezione” proseguiva raccontando di come la zitella del New England, che pure non aveva alcuna esperienza di bambini, avesse finito con l'affezionarsi al fagottino che le era stato deposto sulla soglia; e di come al contempo si fosse incapricciata di discipline quali puericoltura, psicologia e compagnia bella.
Al momento di mandare il pargolo a scuola, poi, Miss Indimenticabile aveva verificato il proprio dissenso dai metodi e dai princìpi educativi in auge nel villaggio. Quindi, nonostante l'occhiuta sorveglianza delle istituzioni, l'adorabile zitellina aveva tenuto duro, e con le sue sole forze aveva attuato una profonda riforma del sistema scolastico.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a vederci niente di straordinario, o di unico. In fatto di educazione e di psicologia, anche Zia Mame aveva idee molto personali.
Se ripenso alla farfallina sberluccicante e un po' pazza che era nel 1929, immagino che la prospettiva di tirare su l'alieno decenne che fissava sbigottito la munificenza orientale dell'appartamento di Beekman Place incutesse a Zia Mame lo stesso sgomento che si leggeva nei miei occhi. Ma certo non era tipo da darsi facilmente per vinta. In qualche recesso della sua personalità allignava la suffragetta da prima linea, che batte i locali malfamati alla ricerca di casi umani da recuperare. E benché le sue idee sulla pedagogia - come del resto su qualsiasi altra cosa - non risultassero propriamente ortodosse, va detto che il suo singolarissimo sistema educativo, in un modo o nell'altro, aveva una certa efficacia.
Il nostro primo colloquio ebbe luogo nella sua monumentale camera da letto, all'una di pomeriggio del mio secondo giorno a New York. Avevo passato la mattina con Norah, a perlustrare le stanze. Mi sentivo negletto, non amato, non voluto. Ito, il camerierino giapponese, mi aveva preparato un pranzo delizioso, ma più di qualche risatina non gli avevo strappato. All'una ero talmente abbattuto che me ne andai in camera a leggere I grandi eroi della Bibbia, punto, Il Vecchio Testamento. Ma poco dopo entrò Ito, con una comunicazione secca: “Tu adesso da signora”.
La camera da letto al piano di sopra in cui zia Mame mi ricevette era immensa. Aveva le pareti nere, tappeti bianchi e un soffitto oro. L'unico mobile era un gigantesco letto dorato su una pedana, con accanto un comodino da notte. Credo che chiunque avrebbe trovato quella stanza angosciante. Chiunque, tranne Zia Mame. Era garrula come un uccellino. E con addosso quella vestaglia di piume di struzzo rosa lo sembrava proprio, un uccellino. Stava leggendo Les faux-monnayeurs di Gide, e fumava una Melachrino infilata in un lungo bocchino d'ambra.
“Bene alzato, piccolo principe” trillò. “Vieni immediatamente qui e dai un bel bacio a Zia Mame, ma piano piano, caro, che la zia ha male dappertutto”. La baciai più piano possibile. “Oh ma che caro, era proprio un bacino adorabile. Fra un po' di anni farai felice qualche ragazza fortunata. Adesso vieni qui e siediti sul letto di Zia Mame - sempre piano, mi raccomando -, così chiacchieriamo un po'. Il mattino è il momento giusto per chiacchierare. Su, che dobbiamo conoscerci meglio”.
Avrei presto scoperto che per “mattino” Zia Mame intendeva l'una del pomeriggio. Le undici erano “mattino presto”, mentre le nove corrispondevano a “notte fonda”.
“Non adori anche tu la luce di perla dell'alba?” mi chiese con un gesto arioso, che comportò lo spargimento di un ingente quantitativo di cenere sulle lenzuola di satin nero.
“Dunque, caro,” riprese “ci sono un mucchio di cose che dobbiamo scoprire l'uno dell'altra. Io non ho mai avuto un babanetto per casa, e, ullallà, ma c'è la colazione!”.
“Vediamo un po'“ disse sfilando tutta contenta dalla montagna di carte sul comodino prima il testamento di papà, che aveva provveduto a decorare con parecchi numeri telefonici e un paio di liste della spesa, poi un blocco giallo e una grossa matita nera. “Bene bene, qui c'è scritto che sei affidato a me, non mi pare il caso di perder tempo a discuterne. Ora, tuo padre dice di desiderare che tu riceva un'educazione protestante. Personalmente non ho nulla in contrario, ti perderai i raffinati misteri di alcune religioni orientali, ma pazienza. D'altronde che vuoi farci, tuo papà è sempre stato un tale bacchettone, per certi versi. Non che voglia parlare male di mio fratello, figuriamoci. Senti caro, che chiesa frequentavi?”.
“La Quarta Presbiteriana” ammisi con un certo imbarazzo.
“Oh, santo cielo. Cioè, mi stai dicendo che in un buco come Chicago ci sono quattro chiese presbiteriane? Boh, comunque non importa, immagino che ce ne sia una anche qui sotto, vedremo di trovarla” disse con uno sguardo al soffitto d'oro che neanche una diva del muto. “Secondo me tuo padre non se la prenderà poi tanto se ti presento a monsignor Malarky. È un tale tesoro. Un uomo coltissimo, sai, e poi... certi occhi di zaffiro... Viene a prendere l'aperitivo una sera della settimana prossima. Gli farò promettere che non te la conti su”.
Tornammo subito agli affari, cioè al testamento di papà. “Bene, il problema dell'educazione religiosa l'abbiamo risolto. Adesso passiamo alla scuola. A che punto sei?”.
“Al Boys' Latin ero in quinta, come classe”.
“In quinta? Come in quinta? Tu dovresti essere in prima classe. Mi sembri abbastanza sveglio”.
Con l'infinita pazienza dei decenni tentai di spiegare alla zia che a scuola le classi andavano in ordine di età, non di merito.
“Quindi scusa, se ho capito bene, non avendo ancora dieci anni dovresti essere...”.
“In quarta. Ma sono un po' avanti”.
“Mi stai dicendo che sei precoce?”.
“Precosa?”.
“Precoce, caro, più intelligente di quelli della tua età. Avanti a scuola”.
“Oh sì,” risposi “sono pre... quella cosa lì”.
“Dio, che gioia!” trillò Zia Mame prendendo subito un appunto. “Sai caro, anche se tuo padre ha sempre fatto l'impossibile per nasconderlo, tu vieni da una famiglia molto, ma molto intellettuale”.
Tornò al testamento. “Dunque, qui tuo padre mi raccomanda di iscriverti a una scuola tradizionale. Ti pareva. Di' un po', quella scuola di cui mi parlavi prima, Latin vattelapesca, era “tradizionale”?”.
“Non capisco”.
“Oh insomma, era noiosa? Faticosa? Pallosa? Antiquata!”.
“Antiquata di sicuro”.
“Tipico di tuo padre” sospirò Zia Mame. “Be', per fortuna conosco una scuola nuova assolutamente divina. La sta aprendo un mio amico. È impostata su basi assolutamente paritetiche, sai. Una vera rivoluzione. Si va a lezione nudi, e la classe è piena di lampade ultraviolette. Entro il primo semestre ti sradicano tutte le inibizioni. Per forza, il mio amico è perfettamente au courant di tutto quel che accade a Vienna. Se solo gli nomini quella vecchia befana della Montessori gli piglia una crisi isterica. Lui punta soprattutto sulle arti non oggettive, l'euritmica e i gruppi a tema. Niente libri o roba del genere, per carità. Dio, come mi piacerebbe mandartici. Darebbe un bello scrollone alla tua libido”.
Non avevo la più pallida idea di cosa stesse dicendo, ma certo sembrava una scuola a dir poco fuori dal comune.
Nel frattempo l'espressione di Zia Mame si era fatta dolcissima, sognante. “Mi chiedo se non sarebbe proprio il caso di provare con Ralph. Tu pensi di avere parecchie inibizioni, caro?”.
Arrossii penosamente. “Mi spiace, zia, molte delle parole che usi non le capisco”.
“Oh bambino, bambino mio!” esclamò Zia Mame, mentre le maniche di struzzo tracciavano fantastici arabeschi sulle lenzuola di satin nero. “Cosa, cosa possiamo fare per il tuo vocabolario? Ma scusa, tuo padre non ti parlava?”.
“Praticamente mai”.
“Tesoro mio, un vocabolario ampio è ciò che contraddistingue ogni vero intellettuale. D'ora in poi,” e qui tornò a rovistare nel marasma del comodino, estraendone un altro blocco e un'altra matita “ogni volta che sentirai dire, da me o da qualcun altro, una parola che non conosci, la trascriverai qui, e io ti spiegherò cosa significa. Poi la imparerai a memoria, e vedrai che in pochissimo tempo ti costruirai un vocabolario come si deve. Oh, che avventura emozionante plasmare una tenera, una giovane vita!”. Aveva un'aria rapita, e per rafforzarla si abbandonò a un altro dei suoi ampi gesti, di cui tuttavia perse il controllo, rovesciando la tazza del caffè. Io feci come mi aveva detto, e cioè annotai seduta stante le sei parole che le erano uscite di bocca, e che non conoscevo - ma mi venne ingiunto di cancellarle immediatamente, sia dal foglio sia dalla testa.
Subito dopo, Zia Mame ricominciò a studiare il testamento.
“Quanto alle formule di indennizzo...”
“Come si scrive ind...”.
“Ssst, non mi interrompere! Dei loro soldi posso fare benissimo a meno. Anzi guarda, non li voglio proprio!”. Gli occhi le erano diventati due capocchie di spillo, fisse su di me. “Ma certo, sono sicura che ti avranno messo alle costole uno di quei calcolatori umani, dicendogli di contare i soldi in tasca a te e di spiegare a me come devo tirarti su”
“Stai parlando del mio tutore?”
“Già, proprio di lui. Che tipo è?”
“Be', si chiama Mr Babcock, porta la paglietta e gli occhiali, vive in un posto che si chiama Scarsdale e ha un figlio più o meno della mia età”.
“Scarsdale, ci avrei giurato”. Zia Mame si appuntò “Studio Knickerbocker” e “Babcock”
“Bene, mi par di capire che per i prossimi otto anni quel tizio sarà la mia bete noire. A me le gatte da pelare, e a lui l'ultima parola. Bella roba”.
“La parola che hai detto vuol dire bestia nera, vero?”. Mi sembrava una buonissima definizione di Mr Babcock.
“Oh, tesoro!” proruppe Zia Mame, baciandomi d'impeto. “Vedo che il tuo vocabolario fa passi da gigante! D'ora in avanti fra di noi potremmo parlare solo francese, che ne dici?”. Per il momento, tuttavia, continuò a rivolgermisi in inglese. “Bene, di quel Babcock mi occuperò a suo tempo. Dio sa se non imparerai di più in dieci minuti nel mio soggiorno che in dieci anni con tuo padre. Che modo criminale di tirar su un ragazzo!”. Facendo svolazzare le piume, diede un'occhiata all'orologio. “Oh santo cielo, ma io devo assolutamente andare a comprare due cosette con Vera, mi sta aspettando. Magari puoi venire anche tu. Tanto un po' ci siamo conosciuti, no?”. Poi le cadde l'occhio sul mio vestito a lutto. “Oh Dio santo, bambino mio, non avresti qualcosa da metterti che non ti faccia sembrare una cornacchia malata?”.
Risposi di sì, che ce l'avevo.
“Ecco, allora se vuoi uscire con me cambiati. Ah, non dimenticare il taccuino”. Ligio agli ordini, mi diressi verso la porta.
“A proposito, ragazzo...”. I suoi occhi erano di nuovo due spilli. “Prima di morire tuo padre ti ha mai parlato, o meglio, ti ha mai detto qualcosa di me?”.
Siccome Norah mi ripeteva sempre che i bugiardi vanno all'inferno, mi feci coraggio e sputai il rospo: “Solo che eri una persona molto strana e che finire in mano tua era un castigo che non avrebbe augurato neppure a un cane ma che i derelitti non possono fare tanto gli schizzinosi e io altri parenti non ne avevo”.
Zia Mame prese fiato, con calma. Poi scandì: “Che bastardo”.
Misi mano al taccuino.
“La parola che hai appena sentito, tesoro, è bastardo” disse la zia con una vocina soave. “Si scrive bi-a-esse-ti-a-erre-di-o, e per la precisione significa “il tuo defunto genitore”. Adesso vestiti e andiamo”.
Trascorsi la mia prima estate a New York trotterellando dietro a Zia Mame. Dal primo pomeriggio in avanti, cioè dopo la chiacchierata del mattino, la seguivo con discrezione quasi ovunque andasse - tè letterari, salotti, aperitivi. E sempre col mio blocco sottobraccio.
La gente che mi capitava di incontrare usava un sacco di parole nuove, almeno per me, e alla fine dell'estate il mio vocabolario si era parecchio arricchito. Qualche foglio pieno delle strane informazioni che raccoglievo alle soirées di Zia Mame ce l'ho ancora. Ce n'è uno, datato 14 luglio 1929, che contiene un mucchio di termini apparentemente irrelati quali “presa della Bastiglia”
“lesbica”
“guerra per bande”
“Zeppo Club”
“Es”
“daiquiri” (scritto non proprio così), “teoria della relatività”
“libero amore”
“complesso di Edipo” (altra trascrizione libera), “ciofeca”, e poi ancora (da qui in avanti la libertà si fa licenza) “narcisista”
“Biarritz”
“psiconevrotico”
“Schónberg” e “ninfomane”. Zia Mame mi spiegava tutte le parole che riteneva dovessi sapere, suggerendomi qualche frase di contorno. Quelle stesse frasi, in seguito, le ripetevo a Ito, che però continuava a sistemare i suoi fiori e a ridacchiare.
In quell'estate del 1929, comunque, feci notevoli progressi, anche se non nel senso auspicato dal “Bollettino del Genitore”. Per fine luglio ero perfettamente in grado di preparare quello che Mr Woollcott chiamava “un Martini cocktail luculliano” e non avevo più paura degli amici di Zia Mame, neppure dei più strani.
Zia Mame trascorreva le giornate in un turbine di acquisti, intrattenimenti, feste in casa e fuori, adeguamenti alla rutilante moda dell'epoca - e alla sua personale, e ancora più rutilante, versione della medesima. Questo senza contare le continue puntate a teatro - soprattutto nei teatrini sperimentali, che sbocciavano e appassivano come fiori di campo in tutta la città -, le cene offerte da una sfilza di signori tutti molto intellettuali, più le frequenti visite a gallerie di statue e dipinti pressappoco incomprensibili. Eppure, nonostante questa vita frenetica e forse un po' vuota, Zia Mame mi dedicava un sacco di tempo. Mi trascinò a non so quante mostre, ad altrettante scorribande per negozi in compagnia della sua amica Vera, e in qualsiasi altra circostanza ritenesse adatta, stimolante o formativa per un ragazzino di dieci anni. Ce n'erano parecchie, come si può immaginare.
In realtà, nel più breve e indolore tempo possibile, Zia Mame e io cominciammo a volerci un bene del diavolo. Del resto era più o meno inevitabile che la sua stupefacente personalità, dopo aver mietuto migliaia di vittime, finisse per conquistare anche me. Zia Mame aveva un fascino caotico, ma leggendario, e inoltre ai miei occhi rappresentava qualcosa che non avevo mai avuto - una famiglia. Certo, che le potesse importare qualcosa di un ragazzino di dieci anni come ce n'erano migliaia non cessava di stupirmi, o meglio di confondermi. Eppure era così, e ho sempre pensato che nonostante tutte le persone che aveva intorno, e i suoi interessi, e le sue mille e mille occupazioni, Zia Mame in fondo si sentisse un po' sola. I suoi critici sostenevano che per lei ero solo l'ennesimo blocco di argilla da plasmare, con colpi un po' troppo energici, a sua immagine e somiglianza, e bisogna ammettere che difficilmente Zia Mame si asteneva dal ficcare il naso nella vita degli altri. Ma aveva anche una sua tenace, inaffidabile affidabilità. Insomma finimmo per innamorarci, e per entrambi si trattò di un'esperienza irripetibile.
Ben presto, tuttavia, il nostro idillio fu oscurato da un nuvolone minaccioso, che aveva le sembianze del mio tutore. Accadde un mattino, cioè un pomeriggio, insomma durante la chiacchierata del risveglio. Che poi una chiacchierata non era, dal momento che, in un empito di spirito materno, Zia Mame aveva deciso di leggermi alcuni passi scelti (da lei) di Addio alle armi. Sul più bello, però, fra noi e Hemingway si interpose una raccomandata dello Studio Knickerbocker.
Nella sua lettera, Mr Babcock sosteneva che da tempo desiderava mettersi in contatto con noi, ma gli era stato impedito prima dagli affari, eccetera eccetera, poi dal trasferimento della famiglia nel Maine, eccetera eccetera, poi al rientro da una tonsillite del figlio che aveva richiesto, nientemeno, l'intervento del dottore, eccetera eccetera. Adesso però le cose sembravano essersi rimesse a posto, eccetera eccetera, dunque era giunto il momento di discutere un'infinità di dettagli a proposito del signorino Dennis, e se quindi la signora Dennis fosse stata così gentile da accompagnare il signorino Dennis di cui sopra fino a Scarsdale per una chiacchierata alla buona, eccetera eccetera, cercando di finire presto in modo che il signorino Dennis potesse tornare a casa a un'ora decente, eccetera eccetera, i treni dalla Central Station forse non erano il massimo della comodità, però eccetera eccetera, e per favore se la signora Dennis poteva fargli pervenire un cortese cenno di riscontro. Eccetera eccetera.
Con un sospiro, Zia Mame mi passò la lettera e suonò per farsi portare un whisky liscio. “Oh, tesoro,” proferì in tono lugubre “queste che senti sono campane a morto. Quel tutore! Lo vedo come se lo avessi qui davanti, lui e le sue orrende macchinazioni tese a prevaricare e snaturare tutti i piani che avevo per te!”.
Mi appuntai “prevaricare” e “snaturare”, quindi cercai di rassicurarla, garantendole che Mr Babcock era un ometto pacato e anche abbastanza simpatico.
“Oh, bambino, bambino,” gemette lei “non c'è niente di peggio delle gattemorte. Hai presente Huriah Heep?”.
Come suo costume, Zia Mame si concesse una mezzoretta di sceneggiata, poi si calmò e decise di prendere in mano la situazione. Chiamò Mr Babcock, e con la sua voce più impostata gli disse che saremmo stati felici di andare a cena a Scarsdale l'indomani stesso, e che non doveva preoccuparsi di venirci a prendere alla stazione, dal momento che saremmo andati in macchina. Più elegante di così. Appena posata la cornetta chiamò la sua migliore amica, Vera, ingiungendole di mollare tutto e di precipitarsi da noi.
Vera, l'amica di Zia Mame, era una famosa attrice di Pittsburgh che però parlava come se fosse nata a Mayfair, il che non sempre aiutava l'ascoltatore a interpretare correttamente quello che diceva. I bambini non le piacevano e lei non piaceva a loro, ma per me, visto che Zia Mame aveva investito un mare di soldi nel suo nuovo spettacolo, era disposta a fare un'eccezione.
Vera si presentò da noi in una nuvola di volpe bianca, dando la stura a una seconda, straziante pantomima, stavolta a due voci. Terminata la quale però Vera, che era più equilibrata di Zia Mame, decise di rimboccarsi le maniche. In altre parole chiamò Ito, si fece portare una bottiglia di cognac, e prese il comando delle operazioni. Più o meno.
“Mia cara,” attaccò “innanzitutto calmati. Ti trovo assolutamente isterica. Adesso beviti un sorso di questo, siediti, e lasciati dire un paio di cosette. Tu hai tutto, bellezza, educazione, intelligenza, cultura, denaro, una posizione, tutto. Il problema è che temo tu sia un tantinello troppo, per Scarsdale. Devi solo tirarti un po' giù, ed è fatta. Vedi, quando recitavo Lady Esme in Follie d'estate...”.
“Follie d'estate,” strepitò Zia Mame “io le sto vivendo, le mie follie d'estate, e tu mi racconti dei tuoi trionfi a teatro! È tutto quello che hai da dire? Ma io cosa, cosa devo fare?”. E intanto si mordicchiava le unghie laccate d'oro.
“Come ti stavo dicendo, mia cara,” fece Vera in tono molto sostenuto, e persino più britannico del solito “i costumi per Follie erano di Chanel. E sai cosa mi ha detto, Coco? Mi ha detto: “Chérie (è così che mi chiamava, ma chérie), sappi che i vestiti influenzano l'umore, il carattere, tutto”. E aveva ragione. Ti ricordi l'ultimo atto, quando Lady Esme scende le scale dopo che Cedric si è sparato? Bene, io lì avrei voluto un abito nero, ma Chanel mi ha detto: “Chérie, non se ne parla, devi essere in grigio. Giornata grigia, umore grigio, abito grigio. Al massimo, ma proprio al massimo, con un tocco di zibellino”. E sai mia cara cosa ha detto Brooks Atkinson di quel costume? Oh, non me lo dimenticherò mai ha detto che trasformava una recita da filodrammatica in puro Shakespeare”.
Qualsiasi discorso sui vestiti catturava all'istante l'attenzione - spasmodica - di Zia Mame, che infatti si rianimò di colpo. “Vera, hai ragione al cento per cento” disse pesando le parole. “Adesso mi è tutto chiaro. Credo che quel piccolo kimono grigio a ricami scarlatti, magari abbinato a due camelie rosso sangue dietro le ore...”.
“Mame, cara,” disse Vera con tutta la delicatezza possibile “quello che avevo in mente non era che ti presentassi al giudizio di Dio vestita da geisha. Per Scarsdale dovresti essere, come dire, un po' meno te stessa. Non so se mi spiego, dovresti mettere una cosina discreta, poco aggressiva, e con parecchio nero intorno. Non è che devi sembrare a lutto, però triste, molto triste sì. Molto triste, e soprattutto molto tradizionale. Il tutore deve sentire che può fidarsi di te”.
Zia Mame non era ancora convinta, ma ascoltava con attenzione, e più il livello del cognac nella bottiglia - a quanto pareva arrivata direttamente dalle cantine dell'Ile de France, senza passare per la dogana - precipitava, più l'immagine, vividamente tratteggiata da Vera, di una zietta rispettabile assurgeva a vette celestiali. Sul debole di Zia Mame per il melodramma si poteva sempre contare, tant'è vero che di lì a poco le due signore, felici come ragazzine, si erano già buttate a capofitto nell'immenso guardaroba della mia congiunta.
Mentre io recitavo ad alta voce una mia antologia personale da Angeli e creature terrene di Elinor Wylie, e badavo a che il bicchiere di Vera fosse sempre pieno, un vecchio negligé di chiffon grigio veniva trasformato in un abito accettabilmente scuro, che unito al grande cappello nero, impreziosito da un velo impalpabile, di Vera, e a una collana parimenti nera, conferiva a Zia Mame un'aria fragile e malinconica. Vera aveva anche disseppellito da chissà dove un vecchio toupet che pare Zia Mame avesse portato a un ballo dei Beaux Arts, e che una volta sistemato andò a formare una specie di coroncina tanto decorosa quanto instabile sull'acconciatura a caschetto di Zia Mame. Per le sei il costume era completo. Vera mi fabbricò un bracciale da lutto, scolò l'ultimo goccio di cognac, e perse i sensi.
Alle nove del mattino dopo - cioè in quello che lei chiamava il cuore della notte - Zia Mame era già in piedi, con un'aria pallida e tirata. L'appartamento era immerso in un silenzio rotto solo, di quando in quando, dai gemiti che provenivano dalla stanza di Vera. In cucina, Ito stava riempiendo un enorme cestino da picnic di panini coi cetrioli, champagne e torta di mandorle. In Beekman Place la Mercedes luccicava minacciosa. Zia Mame ci mise quasi due ore a prepararsi, ma diceva che non sarebbe uscita finché non si fosse sentita a posto. Alla fine, suggestionata dai trionfi di Vera, e in spregio a una temperatura esterna che si aggirava intorno ai trenta gradi, prese anche la stola di zibellino.
Nel 1929 per andare a Scarsdale in treno ci voleva circa mezzora, ma Zia Mame non era assolutamente in grado di adeguarsi alle pretese di puntualità delle ferrovie. Così l'enorme Mercedes lasciò Beekman Place con otto ore d'anticipo sull'appuntamento, ma visto che Ito era un autista morbosamente attratto dalle deviazioni, e che nessuno di noi aveva la minima idea di come arrivare a Scarsdale, la prudenza era più che giustificata. Nervosissima, Zia Mame aveva preso posto sul sedile posteriore, dove tormentava la parrucca e giochicchiava con la stola. Ogni tanto mi agguantava la mano e mormorava: “Oh, tesoro mio, ma cosa, cosa dobbiamo fare?”. Benché l'abitacolo fosse molto spazioso, dubito che fra lei e me, più l'enorme cestino da colazione, più il cestello del ghiaccio per lo champagne, più una quantità impressionante di carte stradali - quasi tutte di altre zone del Paese -, più una coperta da viaggio di pelliccia, più una raccolta di poesie con affettuosa dedica di Sara Teasdale a Zia Mame, più il mio vocabolario tascabile, ci sarebbe entrato qualcos'altro.
In un primo momento Ito, che se possibile aveva ancor meno senso dell'orientamento di Zia Mame, fece rotta su Long Island, poi piegò sul New Jersey, e al terzo tentativo, non prima, imboccò la direzione giusta. Dopo un'interminabile merenda a Larchmont, e un attimo di incertezza a Rye, il conducente ritrovò la retta via, e alle tre e mezzo arrivammo a Scarsdale. “Oh, mio Dio! Tre ore d'anticipo! “gemette Zia Mame. Passammo il resto del pomeriggio al cinema, dove davano un film di Tom Mix. Ito e io eravamo felici, ma Zia Mame si disse indignata, sostenendo che non si potevano propinare al pubblico porcherie simili, e che il governo avrebbe dovuto finanziare pellicole di un certo spessore culturale.
Alle sei e mezzo in punto eravamo davanti alla casa di Mr Babcock, una costruzione con molto legno in uno stile che Zia Mame bollò subito come “pseudo-Tudor”. Detto questo, riprese la sua aria dimessa.
Nel loro insieme, non si può dire che i Babcock fossero uno spasso. Dwight junior portava gli occhiali, ma per il resto era una specie di Dwight senior passato alla centrifuga. Quanto alla signora Babcock, occhialuta anche lei, accolse Zia Mame intrattenendola a lungo su temi quali il giardinaggio, l'arte di preparare conserve in casa e i segreti della psicologia infantile.
Dopo aver azzardato una citazione di Freud, zia Mame si ritirò in buon ordine, e da quel momento in poi il suo contributo alla conversazione si limitò a una serie di “ah sì”
“ma no” e “oh ma cosa mi dice”.
Dwight junior invece mi mostrò la sua collezione di farfalle morte, raccontandomi tutto quanto c'era da sapere sulle sue tonsille e sulla trepidazione con cui aspettava di entrare al St. Boniface.
Per parte sua, Mr Babcock disse più e più volte “ecco”. Poi, dopo un giro di limonata, entrò la cameriera, annunciando che era pronto in tavola.
La sala da pranzo ricordava molto l'Inghilterra, non fosse che ci si crepava di caldo. Sul mio stomaco, ormai assuefatto alle prelibatezze orientali di Ito, l'arrosto di agnello con contorno di patatine saltate, zucca, barbabietola e fagioli planò come un blocco di cemento, e non si mosse più. Durante una delle varie pause zia Mame andò un tantino sopra le righe, lanciandosi in una lunga e coltissima dissertazione sull'architettura del periodo Tudor, che sarebbe stata assai affascinante se non se ne fosse ricavato che tutto quanto ci circondava - tutto quanto il mobilio della stanza, intendo - andava considerato una patacca. A parte questo, la zia fu un incanto, e soprattutto riuscì a sembrare una donna cui si poteva affidare un bambino a occhi chiusi.
Mentre cercavamo di inghiottire un'insalata muffita, Mrs Babcock si mise a parlare di teatro, e confessò una specie di idolatria per Vera Charles. Ignorando l'occhiataccia di zia Mame, mi lasciai scappare che si trattava della sua migliore amica, e che probabilmente in quel preciso momento stava ancora dormendo a casa nostra. Mrs Babcock era al settimo cielo: “Oh, ma dev'essere una donna di prim'ordine, straordinaria! Dio, come mi piacerebbe conoscerla”. Dopo cena Mrs Babcock e Dwight junior, come da copione, ci comunicarono che sarebbero andati a vedere un certo film con Tom Mix. Zia Mame sussultò, ma un attimo dopo era in piedi, e stava ringraziando la padrona di casa per la cena, davvero, come ripetè un po' troppe volte, squisita. Il padroncino di casa invece mi porse una mano molliccia, dicendo che contava di rivedermi presto. Io speravo di no, ma me lo tenni per me.
Appena rimanemmo soli, Mr Babcock si schiarì la gola e disse che forse era arrivato il momento della nostra famosa chiacchierata, e che a questo scopo ci conveniva rifugiarci nella sua tana, dove saremmo stati al riparo dalle orecchie indiscrete della domestica. “Tana” suonava molto bene, ma in realtà si trattava di una stanzetta qualsiasi, solo piena di libri su argomenti bancari e persino più calda del resto della casa.
Mentre tirava fuori le carte, Mr Babcock disse che zia Mame era davvero fortunata ad aver trovato un bravo ometto come me, e che forse la mia presenza avrebbe in parte, ecco, lenito il dolore per la dipartita del suo caro fratello. Zia Mame abbassò pudica lo sguardo. Quindi Mr Babcock ci disse di aver dato un'occhiata ai miei precedenti scolastici, davvero ottimi; ma della scuola avremmo parlato fra un attimo. Zia Mame si trattenne.
Mostrandoci una quantità di fogli coperti di cifre, Mr Babcock commentò che mi potevo considerare benestante. Ricco no, ma benestante sì. “A meno che quei, ecco, quei bolscevichi non vadano al governo, di fame non morirai”. Quindi ci spiegò che tutti i miei soldi, fino all'ultimo centesimo, erano investiti in azioni molto solide e affidabili - come dire, tradizionali - oltre che in buoni del Tesoro, anche perché non era proprio il momento di mettersi a giocare in Borsa. A sostegno di queste sue affermazioni passò le carte a zia Mame, senza riuscire del tutto a catturarne l'attenzione.
“Riguardo alla scuola di questo giovanotto,” attaccò continuando a rovistare fra le carte “come ricorderà, il defunto genitore del ragazzo ha ritenuto, ecco, ha ritenuto saggio lasciare a me, in quanto rappresentante dello Studio, l'ultima parola”. Vidi distintamente la schiena di zia Mame irrigidirsi. “Ma, eh eh eh, non credo ci siano ragioni di disaccordo, no? Lei, signorina Dennis, mi sembra una donna particolarmente fine e sensibile, dunque immagino che ci intenderemo benissimo”. E senza aspettare la risposta tirò fuori un librone rosso alto così dal titolo Annuario delle scuole private, aprendo ufficialmente le ostilità.
Dopo alcune semplici osservazioni preliminari, Mr Babcock sostenne che la soluzione più opportuna, quella che avrebbe consentito a Zia Mame e a me di passare più tempo possibile insieme, sarebbe stata non un collegio, ma una scuola a Manhattan.
“Perfetto. Avevo pensato esattamente la stessa cosa” ribatté Zia Mame con entusiasmo.
“Ora,” la interruppe Mr Babcock “mi sono preso la briga di fare qualche ricerca, e penso di avere selezionato, ecco, alcune fra le migliori scuole maschili della città”.
Punta sul vivo, Zia Mame si toccò la gola: “Se posso dire, preferirei una scuola mista. Se ragazze e ragazzi si abituano a stare insieme fin dalla tenera età sentono meno la tensione psicosessuale, non trova?”.
Mr Babcock parve accusare il colpo, al punto che Zia Mame riprese immediatamente l'abito liliale, rettificando in parte quanto aveva appena sostenuto: “Non mi fraintenda, volevo solo dire che siccome maschi e femmine devono comunque passare da sposati, s'intende - parecchio tempo insieme, tanto vale...”.
“Be', sì, ecco,” balbettò Mr Babcock “ecco, è una teoria interessantissima, Miss Dennis, e sono convinto che contenga un briciolo di verità, come no. Tuttavia devo ammettere che non avevo nemmeno preso in considerazione le classi, ecco, le classi miste. Ma mi dicono tutti che la Buckley è una scuola assolutamente...”.
“La Buckley, certo. Poi parliamo della Buckley. Ma prima vorrei prendesse in considerazione la scuola che sta aprendo un mio amico, Ralph Devine. Vede, Ralph è un vero tes... un uomo molto, molto colto. Conosce Freud praticamente a memoria, anzi per dire la verità lo conosce di persona, e le sue idee sull'educazione sono qualche secolo più avanti rispetto a quelle di Froebel, o persino della Montessori. Vede, la sua scuola si basa su un presupposto assolutamente rivoluzionario...”.
Mr Babcock sollevò di scatto un braccio, manco stesse dirigendo il traffico nell'ora di punta. “Ecco, Miss Dennis, qualcosa mi dice che la scuola di cui mi parla sia precisamente il tipo di istituto che il defunto Mr Dennis desiderava suo figlio non frequentasse. Il testamento raccomanda in modo molto esplicito una scuola tradizionale. Ora, se la Buckley non le piace potremmo pensare alla Alien-Stevenson...”.
“Per carità, ci va un orrendo ragazzetto che conosco molto bene. Ma ho un'alternativa che credo sarà di suo gusto, la City and Country, sulla...”.
“La conosco, era sulla lista, ma purtroppo ho dovuto scartarla. Rispetto a quello che cerchiamo è ancora un cicinino troppo sperimentale. Mentre invece mi sembra che, non so, la Browning andrebbe benissimo”.
Zia Mame stava assumendo quell'aria iperdeterminata e impavida che da allora ho imparato a temere. “Senta, Mr Babcock, perché non fa un pensierino sulla Dalton? Miss Dickerman e Mrs Roosevelt, con le quali ho avuto modo di parlare, stanno facendo meraviglie...”.
“La conosco, la conosco” rispose glaciale Mr Babcock. “Ma la loro impostazione mi sembra decisamente radicale. Pericolosamente radicale, se posso dire”.
“E l'Istituto di Cultura Etica?” suggerì a voce un po' troppo alta Zia Mame.
“Per carità, signorina Dennis, non penserà davvero di spedire il ragazzo in quel covo di ebrei”. Il toupet della zia ebbe un sobbalzo minaccioso. “Vede, per quanto mi riguarda,” continuò serafico Mr Babcock “cercherei di tenere il nostro Patrick il più lontano possibile dagli influssi nefasti del West Side. A meno che non voglia mandarlo alla Collegiate, che è proprio da quelle parti e farebbe perfettamente al caso nostro”.
Per la successiva ora e mezzo me ne rimasi in quella stanzetta rovente ad ascoltare Zia Mame e Mr Babcock che si accapigliavano su ogni istituto scolastico newyorkese - dalla St. Bernard's alla Friends, dalla Horace Mann alla Buckley, dalla Hoffman (per lo Sviluppo Individuale del Fanciullo, come recitava la sua ragione sociale) alla Poly Prep - senza che nessuno dei due cedesse di un millimetro. Zia Mame fremeva come un cane da punta, mentre Mr Babcock si era a poco a poco trasformato in un blocco di granito. Il diverbio stava toccando un picco che temevo avrebbe spinto Zia Mame clamorosamente fuori parte. Ma subito dopo, all'improvviso, le vidi balenare negli occhi un furtivo lampo di scaltrezza. Emise una specie di singulto, si nascose la faccia tra le mani, e si abbandonò a un pianto irrefrenabile. Mr Babcock ci rimase di stucco, tanto che l'elogio degli insegnanti di matematica in forza alla Browning gli morì sulle labbra. Devo dire che nemmeno io sapevo bene cosa pensare. Nella stanza si sentiva solo Zia Mame piangere disperata. Mr Babcock raggiunse un punto di pallore quasi umano, e allargò con un dito il colletto floscio. “Oh, Miss Dennis,” sputacchiò “la prego, ecco, davvero, ecco, cioè, io non volevo...”.
Zia Mame sollevò dalle mani un volto rapito ma anche, notai con una qualche sorpresa, completamente asciutto. “Oh, caro, caro Mr Babcock, potrà mai perdonare la mia assurda cocciutaggine? Quanto devo esserle sembrata stupida, e ostinata”. Si passò un fazzoletto di pizzo sotto gli occhi, gesto che chissà perché mi ricordò un film muto con Pola Negri che avevo visto da poco. Poi tirò su col naso, ma piano piano. “Ma sì, con che diritto una povera donna semplice, sola, che non sa nulla di come si crescono i piccini, può pensare di discutere non dico con l'esecutore testamentario del nostro Patrick, ma con un padre? Penserà senz'altro che sono una donna odiosa”. Chinò il capino, e appoggiò una scarpetta contro l'altra.
Mr Babcock diventò l'amabilità in persona. “Oh, la prego, Miss Dennis, non faccia così. Se davvero ritiene che il ragazzo si troverebbe meglio alla Dalton...”.
Zia Mame levò una pallida mano stremata: “No, no, Mr Babcock, mi sbagliavo. Lo dico e lo ripeto. Mi sbagliavo, e sono stata una stupida. Patrick andrà alla scuola che lei consiglierà. Non badi a me. Solo le chiedo di ignorare il mio comportamento di questa sera. Non certo di perdonarlo, perché è stato imperdonabile”.
Mr Babcock tuttavia era in vena di magnanimità: “Sa, Miss Dennis, credo di conoscere un po' le donne. Qualche volta anche Eunice - voglio dire la signora Babcock - e io abbiamo le nostre piccole, ecco, le nostre piccole divergenze. Come la chiamano, guerra dei sessi, no? Eh, eh, eh...”.
Zia Mame fece una boccuccia di circostanza.
“Ora,” riprese Mr Babcock “naturalmente a New York ci sono un sacco di ottime scuole, e più o meno una vale l'altra. Ma dovendo scegliere, propenderei per la Buckley”.
“Mr Babcock, non una parola di più. È la scelta migliore. Lo dico perché mi ha convinto. È senz'altro la migliore. Patrick andrà alla Buckley, e sarà fiero di indossare la loro divisa”.
“Veramente portano solo un berrettino,” disse Mr Babcock in tono di disapprovazione “ma a parte questo è una scuola, ecco, di prim'ordine, assolutamente di prim'ordine. Sa, gli alunni vengono tutti da ottime famiglie...”.
“Oh ma che bellezza. Del resto,” sospirò Zia Mame “la classe è talmente importante... Ora però dobbiamo proprio andare” concluse con una certa impazienza.
“Allora restiamo d'accordo così, se crede. Io verso subito un assegno alla Buckley, e appena la chiamano lei si presenta col ragazzo per l'iscrizione. Che ne dice?”.
“Magnifico” fece Zia Mame con un sorriso spaventoso. “Andiamo, caro, non voglio che tu faccia le ore piccole”. Ciò detto, aggiustandosi in qualche modo il cappello nero di Vera, si precipitò alla porta. “Dunque, Mr Babbitt... è stata una serata incantevole. E anche, ecco, molto istruttiva. Andiamo, Patrick”.
Ito richiuse la portiera dietro di noi, e fece rombare il motore.
“Zia, ma davvero vuoi mandarmi in quella... in quella scuola di cui parlava Mr Babcock?”.
“Non preoccuparti, tesoro, non preoccuparti. Zia Mame ha un piano”.
E si accese felice una Melachrino, nonostante Ito facesse rotta sul Connecticut.
Ai primi di settembre Zia Mame mi portò alla Buckley e mi ci iscrisse. Mr Babcock aveva già spedito i miei documenti scolastici, che a quanto pareva erano in ordine. La zia mi comprò anche uno dei famosi berretti blu, che trovava stesse molto meglio a lei, e mi mandò in un posto dalle parti di Washington Square per le prove attitudinali. Tornando a casa la trovai che chiacchierava fitto fitto con un signore biondo e decisamente bello.
“Vieni tesoro, vieni qui” gorgheggiò. “Voglio presentarti Ralph Devine. La settimana prossima comincerai le lezioni da lui”.
“Ma... la Buckley?”.
“Scusami un attimo solo, Ralph”. Zia Mame mi fece sedere vicino a lei e mi guardò dritto negli occhi, facendomi capire che il momento era della massima importanza. “Tesoro, quello che Zia Mame sta facendo potrà sembrarti un tantinello, be', truffaldino, ma col tempo imparerai che a volte nella vita è meglio non essere troppo onesti. Vedi, tu e io stiamo per fare un piccolo scherzetto a Mr Babbitt, nel senso che mentre lui ti penserà seduto al tuo banco in quella scuola che sappiamo, tu invece starai facendo cose divine - e molto, molto avanzate - con Ralph. Sarà il nostro piccolo segreto. Lo sapremo solo noi tre. Quanto a Mr Hitchcock, o come diavolo si chiama, lo prenderemo un pochino in giro”.
“Parecchio in giro, direi”.
“Adesso, da bravo, vai di sopra e leggiti un libro, mentre io finisco di parlare con Ralph”.
Uscendo sentii Ralph dire qualcosa del tipo “Ma come sarebbe, Mame, lo lasci leggere!”.
La settimana dopo Zia Mame si alzò nel cuore della notte per accompagnarmi alla scuola di Ralph. La sede era all'ultimo piano di un vecchio magazzino sulla Seconda, a un paio di isolati da casa nostra. Arrivammo un po' in ritardo - Zia Mame era sempre in ritardo - e aprendo la porta ci ritrovammo davanti uno stuolo di ragazzini di varie età, tutti indistintamente nudi, che correvano e strillavano. Ralph ci venne incontro nudo come mamma l'aveva fatto e ci strinse calorosamente la mano.
“Non è stupendo?” gongolò Zia Mame. “Un Prassitele! Oh, tesoro, sono sicura che ti piacerà da morire”.
Una donnina bionda e tracagnotta, nudissima anche lei, arrivò di corsa a baciare Zia Mame. Si chiamava Nathalie, e dirigeva la scuola insieme a Ralph.
“Adesso vai con Ralph, tesoro, e divertiti. Ci rivediamo a casa per il tè”.
Zia Mame si allontanò tutta contenta, facendomi ciao ciao con la manina. E così rimasi solo. Solo, e vestito.
“Vieni qui a spogliarti, vuoi?” disse Nathalie. “Poi raggiungi gli altri”.
Alla scuola di Ralph mi sono sempre un po' sentito un pollo da batteria, però non era una sensazione spiacevole, anche perché non dovevo fare assolutamente nulla. La classe era uno stanzone nudo con le pareti imbiancate a calce, un pavimento riscaldato di linoleum, lucernari al quarzo e tubi ai raggi ultravioletti che correvano lungo le parti libere del soffitto. Al posto di tavoli e sedie c'era qualche materasso su cui potevamo buttarci a dormire ogni volta che ci andava. Al centro della stanza troneggiava una grande struttura bianca che ricordava il bacino di una vacca, e sulle cui superfici avremmo dovuto compiere varie acrobazie. Chi voleva poteva anche insinuarsi al suo interno, e ogni volta che uno dei bambini più piccoli ci provava Ralph mollava una gran pacca sul sederone di Nathalie, e commentava: “Un altro ritorno al ventre materno, eh Nat?”.
Il bagno era comune - “stronca le inibizioni sul nascere” - e tutte le attività erano d'avanguardia. Ad esempio potevamo dipingere con le dita, o modellare la plastilina. Poi c'erano i cosiddetti gruppi di discussione guidata, dove i partecipanti raccontavano i loro sogni, oppure, a turno, dicevano a voce alta qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Ma chi non aveva voglia di socializzare era libero di non farlo. A pranzo mangiavamo carote crude, cavolfiore crudo (causa di terribili flatulenze, almeno per me), mele crude, e latte di capra crudo. Se due bambini si mettevano a litigare, Ralph li prendeva da parte e discuteva il problema insieme a loro, e a chiunque altro volesse partecipare al dibattito. Mi sembravano tutte fesserie, ma avevo un'abbronzatura integrale perfetta.
Tuttavia non sono in grado di dire se la scuola mi abbia fatto più bene o più male, perché ci sono rimasto troppo poco. La mia carriera scolastica durò infatti solo sei settimane. Come quella di Ralph, peraltro.
Partendo dal presupposto, del tutto arbitrario, che i loro alunni sgobbassero molto, Ralph e Nathalie avevano deciso di istituire uno spazio pomeridiano dedicato al Gioco Costruttivo, grazie al quale i piccini sarebbero rientrati a casa nel migliore degli umori possibili. L'idea era che tutti i bambini, ad eccezione degli antisociali cronici, partecipassero a un gioco di gruppo, dove avrebbero cominciato a capire la vita che li aspettava oltre il portone della scuola. A volte si giocava alla Fattoria, che consisteva nel curare le striminzite pianticelle di avocado di Nathalie, altre volte alla Tintoria, che consisteva nel lavare e candeggiare le mutande di Ralph. Ma il gioco di gran lunga più popolare era la Famiglia dei Pesci, che si supponeva ci avrebbe fornito alcune utili informazioni sui meccanismi riproduttivi delle specie inferiori.
Era un gioco piuttosto semplice, e un ottimo esercizio. Nathalie e i pesci femmina si accovacciavano fingendo di deporre le uova, mentre Ralph, seguito dai pesci maschi, saltellava in mezzo a loro, remigando con le braccia e facendo vibrare le dita -” come se nuotaste, come se nuotaste” -, nel tentativo di fecondare le uova. Immancabilmente, succedeva un finimondo.
La mia ultima mezzora alla scuola di Ralph era trascorsa proprio giocando alla Famiglia dei Pesci, con Nathalie e le ragazze stese sul linoleum, e Ralph che ci guidava in mezzo a loro: “Come se nuotaste, come se nuotaste! Adesso! Spargi il seme, spargi il seme! Patrick, non dimenticare quella piccola pesciolina laggiù, spargi il seme, spargi il se...”.
Improvvisamente ci accorgemmo che a qualcuno stava venendo uno stranguglione.
“Oh, mio Dio!” esclamò subito dopo una voce familiare.
Ci voltammo all'unisono e sulla porta, vestito di tutto punto e con l'aria di uno squalo feroce pronto a sbranare noi poveri pesciolini, c'era Mr Babcock. Più veloce della luce, il mio tutore mi abbrancò, trascinandomi fuori dalla mischia. “Cristo santo! Vestiti immediatamente. Voglio parlare subito con quella pazza di tua zia, e voglio che ci sia anche tu”. Quasi mi scaraventò nello spogliatoio. “Quanto a te, lurido pervertito, non finisce qui, stai tranquillo!” urlò a Ralph.
Quindi venne da me, e senza lasciarmi neppure il tempo di abbottonarmi mi trascinò giù per le scale, senza mollare la presa quasi fin sotto casa.
Per colmo di sfortuna, quando Mr Babcock e io facemmo irruzione in salotto Zia Mame, con addosso uno dei suoi completi più oltraggiosi, stava fumando roba un po' forte in compagnia di un celeberrimo rabbino lituano e di due ballerini del cast di Blackbirds.
“Mio Dio,” strepitò Mr Babcock “avrei dovuto immaginarlo! Affidare un bambino a lei è come metterlo in mano a Gezabele in persona. Ma si può sapere cosa le frulla in quella zucca bacata?”.
Con un certo sforzo, Zia Mame si alzò in piedi. “Prego, Mr Babbitt? Cosa intende dire?” chiese cercando, con modesti risultati, di darsi un contegno.
“Lo sa meglio di me cosa intendo dire, porca vacca. Due settimane fa ho chiamato la Buckley per sapere se per caso questo teppistello avesse voglia di venire con me e mio figlio al rodeo, e da quel momento l'ho cercato in tutte le più infami scuole per ritardati della città, fino a che oggi - dico, oggi- l'ho trovato nella più infame di tutte, nudo come un verme e con quello sporcaccione che spargeva... oh mio Dio, non ci posso neanche pensare!”.
Zia Mame fece un passo avanti e prese fiato, come faceva sempre prima di lanciarsi nelle sue arringhe più veementi. Ma avrebbe potuto risparmiarsi la fatica.
“Domani,” disse Mr Babcock “anzi stasera, anzi adesso, io - intendo io personalmente - porterò questo ragazzo in collegio. Avrei dovuto immaginarmelo, che avrebbe tentato qualche trucchetto da quattro soldi, è tipico di quelle come lei, ma le garantisco che non succederà mai più. Iscriverò il ragazzo al St. Boniface e mi assicurerò che ci rimanga. Riuscirà a mettere le sue sporche mani su di lui solo a Natale e d'estate, e con l'aiuto di Dio spero di scongiurare anche questa disgrazia. Su, ragazzo, andiamo”.
“Zia Mame, Zia Mame” urlai tentando inutilmente di divincolarmi.
“Stattene buono qui, piccola canaglia. Ora ti porto al St. Boniface, e ti garantisco che farò di te un bravo ragazzo timorato di Dio, dovessi spaccarti tutte le ossa che hai in corpo. Vieni, usciamo da questa fumeria”.
Un altro strattone, ed eccomi in marcia alla volta del St. Boniface.
L'indomani la polizia fece irruzione nella scuola di Ralph, e i giornali scandalistici, momentaneamente a corto di squartatori, diedero spazio a indignate requisitorie contro l'educazione progressista. Titoli come Chiusa la scuola del sesso introducevano sofisticati fotomontaggi che avevano come protagonisti Ralph, Nathalie e l'intero corpo studentesco. Subito a fianco, autorevoli membri della comunità ed ecclesiastici oltraggiati pubblicavano articoli che cominciavano tutti con la stessa domanda: “Madri, è questo che volete si insegni ai vostri figli?”.
Il giorno dopo ancora era il 29 ottobre 1929. Adesso i giornali avevano cose più serie di cui occuparsi, ad esempio il crollo della Borsa. Ma io ormai ero entrato in galera, cioè al St. Boniface, e la voce stridula di Zia Mame era ormai solo un fioco sussurro nella cacofonia scolare che mi circondava da ogni parte.