- Chi ha preso le mie forbici? Di nuovo tu, Ivàn Nikolaic', hai preso le mie forbici?

- Signore Dio mio, perfin le forbici non ti danno! - rispondeva con voce piangente Ivàn Nikolaic' e, arrovesciandosi sulla spalliera della sedia, assumeva l'atteggiamento d'un uomo offeso, ma di lì a un minuto nuovamente andava in estasi.

Nelle sue venute precedenti anche Volodia si occupava dei preparativi per l'albero di Natale, o correva in cortile a vedere come il cocchiere e il pastore facevan la montagna di neve, ma ora lui e Cecevitsin non badarono punto alla carta variopinta e non andarono nemmeno una volta nella scuderia, ma sedettero presso la finestra e presero a bisbigliarsi qualcosa; poi tutt'e due insieme aprirono un atlante geografico e si misero a esaminare una carta.

- Prima a Perm... - diceva piano Cecevitsin. - Di là a Tiumen...

poi Tomsk... poi... poi... nel Kamciatka... Di qua i samoiedi traversano su battelli lo stretto di Behring... Eccoti anche l'America... Li ci son molti animali da pelliccia.

- E la California? - domandò Volodia.

- La California è più giù... Purché si capiti in America, poi la California non è lontana. Procacciarsi di che vivere si può con la caccia e il saccheggio.

Cecevitsin tutto il giorno si tenne in disparte dalle ragazzine e le guardò sottecchi. Dopo il tè serale accadde che per un cinque minuti lo lasciarono solo con le bambine. Star zitto era imbarazzante. Egli tossì ruvido, strofinò con la palma destra la mano sinistra, guardò cupamente Katia e domandò:

- Avete letto Myne-Read?

- No, non l'ho letto... Ascoltate, voi sapete pattinare?

Assorto nei suoi pensieri, Cecevitsin non rispose nulla a questa domanda, ma solo gonfiò forte le guance e fece un sospiro, come se avesse molto caldo. Alzò ancora una volta gli occhi su Katia e disse:

- Quando un branco di bisonti corre attraverso le "pampas", ne trema la terra e in questo mentre i "mustang" (1), spaventati, scalciano e nitriscono.

Cecevitsin sorrise mestamente e soggiunse:

- Così pure gli indiani assaltano i treni. Ma peggio di tutto sono i moscerini e le termiti.

- E che cosa sono?

- Son qualcosa come le formichette, ma solo con le ali. Mordono assai forte. Sapete chi sono io?

- Il signor Cecevitsin.

- No. Io sono Montigomo, Artiglio d'Avvoltoio, capo degl'invincibili.

Mascia, la bambina più piccola, guardò lui, poi la finestra, di là dalla quale già cadeva la sera, e disse con esitanza:

- E da noi ieri han preparato le lenticchie (2).

Le parole del tutto incomprensibili di Cecevitsin e il fatto ch'egli bisbigliava continuamente con Volodia, e che Volodia non giocava, ma pensava sempre a qualcosa: tutto ciò era enigmatico e strano. E le due ragazzine maggiori, Katia e Sonia, presero a sorvegliare con occhio vigile i ragazzi. La sera, quando i ragazzi andarono a letto, le fanciullette si avvicinarono furtive all'uscio e ascoltarono la loro conversazione. Oh, quel che appresero! I ragazzi si accingevano a correr chi sa dove in America a estrarre oro; avevano già tutto pronto per il viaggio: una pistola, due coltelli, biscotti, una lente d'ingrandimento per far del fuoco, una bussola e quattro rubli contanti. Esse appresero che ai ragazzi sarebbe toccato percorrere a piedi parecchie migliaia di verste (3), e lungo la strada combattere con tigri e selvaggi, poi procurarsi oro e avorio, uccider nemici, farsi pirati, bere gin e alla fin fine sposare bellissime donne e coltivar piantagioni. Volodia e Cecevitsin parlavano e nella foga s'interrompevano l'un l'altro. Ciò facendo, Cecevitsin chiamava se stesso: «Montigomo, Artiglio d'Avvoltoio», e Volodia: «Mio fratello viso pallido».

- Tu, bada, non dir nulla alla mamma, -disse Katia a Sonia, avviandosi con lei a dormire. - Volodia ci porterà dall'America oro e avorio, ma se tu lo dirai alla mamma, non lo lasceranno andare.

L'antivigilia di Natale Cecevitsin per tutta la giornata esaminò la carta dell'Asia e annotò qualche cosa, e Volodia, languido, gonfio, come punto da un'ape, camminò cupo per le stanze e non mangiò nulla. E una volta nella camera dei bambini, si fermò perfino davanti all'icona, si segnò e disse:

- Signore, perdona a me peccatore! Signore, preserva la mia povera, infelice mamma!

A sera scoppiò a piangere. Andando a dormire, abbracciò a lungo padre, madre e sorelle. Katia e Sonia capivano di che si trattava, ma la minore, Mascia, non capiva nulla, assolutamente nulla, e solo nel guardar Cecevitsin si faceva pensierosa e diceva con un sospiro:

- Quand'è giorno di digiuno, dice la bambinaia, bisogna mangiar piselli e lenticchie.

La vigilia di Natale per tempo Katia e Sonia si alzarono piano piano dal letto e andarono a guardare come i ragazzi sarebbero scappati in America. Si appressarono furtive all'uscio.

- Allora tu non verrai? - domandava iroso Cecevitsin. - Parla: non verrai?

- O Signore! - piangeva piano Volodia. - Come faccio a venire? Mi fa pena la mamma.

- Fratello mio viso pallido, ti prego, andiamo. Eri tu ad assicurarmi che saresti partito, tu stesso mi hai invogliato, e quando s'ha da andare, ecco che ti sei preso paura.

- Io... io non mi son preso paura, ma mi... mi fa pena la mamma.

- Tu parla: verrai o no?

- Verrò, soltanto... soltanto aspetta. Ho voglia di restare un po' a casa.

- In tal caso, andrò io! - decise Cecevitsin. - Farò anche senza di te. E volevi pure andar a caccia di tigri, combattere! Quand'è così, ridammi i miei pistoni!

Volodia si mise a piangere così amaramente che le sorelle non ressero e anche loro piansero sommesso. Seguì un silenzio.

- Allora non verrai? - domandò ancora una volta Cecevitsin.

- Ve... verrò!

- Allora vestiti!.

E Cecevitsin, per persuadere Volodia, lodava l'America, ruggiva come una tigre, raffigurava il piroscafo, imprecava, prometteva di dare a Volodia tutto l'avorio e tutte le pelli di leone e di tigre.

E questo ragazzo magrolino, abbronzato, dai capelli ispidi e con le lentiggini, pareva alle bambine straordinario, meraviglioso. Era un eroe, un uomo risoluto, intrepido, e ruggiva talmente che, stando dietro l'uscio, si poteva in effetti pensare che fosse una tigre o un leone.

Quando le ragazzine rientrarono in camera loro e si vestirono, Katia con gli occhi pieni di lacrime disse:

- Ah, ho tanta paura!

Fino alle due, quando sedettero a pranzare, tutto fu quieto, ma a pranzo d'un tratto apparve che i ragazzi non erano a casa. Mandarono nella stanza della servitù,alla scuderia,nell'annesso dall'intendente: non c'erano. Mandarono al villaggio: anche là non li trovarono. E il tè poi lo bevvero del pari senza i ragazzi, e quando sedettero a cenare, la mamma era molto inquieta, piangeva perfino. E la notte di nuovo andarono al villaggio, cercarono, si recarono con lanterne sul fiume. Dio, che trambusto si levò!

Il giorno dopo venne il maresciallo di polizia, scrissero in sala da pranzo non so che carta. La mamma piangeva.

Ma ecco, presso la scalinata si fermò una slitta bassa, e dalla troica di bianchi cavalli fluiva il vapore.

- Volodia è arrivato! - gridò qualcuno nella corte.

- Volòdic'ka è arrivato! - strillò Natalia, accorrendo in sala da pranzo.

E Milord latrò in tono di basso: «bau! bau!». Risultò che i ragazzi li avevan trattenuti in città, al "Gostini dvor" (4) (essi vagavano colà e andavan domandando dove si vendesse polvere da sparo). Volodia, come entrò in anticamera, ruppe in singhiozzi e si gettò al collo della madre. Le bambine, tremanti, pensavano con sgomento a quel che ora sarebbe accaduto, sentirono come il babbo condusse Volodia e Cecevitsin nel suo studio e là parlò a lungo con loro; e la mamma pure parlava e piangeva.

- Forse che si può far così? - esortava il babbo. - Se mai, non voglia Iddio, lo risapranno al ginnasio, vi escluderanno. E voi vergognatevi, signor Cecevitsin! Non sta bene! Voi siete l'istigatore e, spero, sarete punito dai vostri genitori. Forse che si può far così? Dove avete pernottato?

- Alla stazione! - rispose orgoglioso Cecevitsin.

Volodia poi stette coricato, e gli applicarono in testa un asciugamano imbevuto d'aceto. Spedirono non so dove un telegramma, e il giorno dopo giunse una signora, la madre di Cecevitsin, e condusse via suo figlio.

Quando Cecevitsin partì, aveva un viso arcigno, arrogante, e, accomiatandosi dalle ragazzine, non disse nemmeno una parola; solo prese a Katia un quadernetto e vi scrisse per ricordo:«Montigomo Artiglio d'Avvoltoio».




NOTE:


1) Nome dal cavallo selvaggio delle "pampas" sudamericane.

2) In russo: "cecevitsa", e l'idea delle lenticchie è richiamata, nella bambina, dal nome del ragazzo.

3) La versta corrisponde a chilometri 1,067.

4) Edificio in cui si trovan riuniti numerosi negozi e banchi di vendita, nel centro della città: bazar.




IVAN MATVEIC'


Tra le cinque e le sei di sera. Uno degli scienziati russi abbastanza noti - lo chiameremo semplicemente lo scienziato - se ne sta seduto nel suo gabinetto e si morde nervosamente le unghie.

- E' semplicemente rivoltante!-dice, guardando senza posa l'orologio. - E' il colmo del disprezzo per l'altrui tempo e fatica.

In Inghilterra un tale individuo non avrebbe guadagnato un soldo, sarebbe morto di fame! Orsù, aspetta, verrai...

E, sentendo il bisogno di sfogar su qualcosa la sua collera e la sua impazienza, lo scienziato si accosta all'uscio che mette in camera della moglie e bussa.

- Ascolta, Katia,-dice con voce sdegnata. - Se vedi Piotr Danilic', riferiscigli che la gente perbene non fa così! E' una schifezza! Raccomanda un copista, e non sa chi raccomanda! Il ragazzaccio nel modo più puntuale ritarda ogni giorno di due, di tre ore. Via, forse che quello è un copista? Per me queste due o tre ore sono più preziose che per un altro due o tre anni! Quando verrà, lo coprirò di contumelie come un cane, denaro non gliene pagherò e lo scaraventerò fuori! Con tal gente non si possono far cerimonie!

- Tu ogni giorno dici questo, e intanto lui viene e riviene.

- Ma oggi ho deciso. Ho già perduto abbastanza per causa sua. Tu scusami, ma gliene dirò di quelle, al modo dei cocchieri gliene dirò!

Ma ecco, infine, si sente il campanello. Lo scienziato fa il viso serio, si raddrizza e, gettando indietro il capo, va in anticamera.

Lì, presso l'attaccapanni, già sta il suo copista Ivàn Matveic', un giovane sui diciott'anni, dal viso ovale come un uovo, senza baffi, in un cappotto frusto, spelato, e senza soprascarpe, Egli ansima e strofina con cura i suoi grossi, sgraziati stivali sullo stoino, il che facendo si sforza di nascondere alla cameriera un buco in uno stivale, da cui occhieggia una calza bianca. Vedendo lo scienziato, sorride di quel sorriso prolungato, largo, un po' sciocco, che hanno sui visi solo i fanciulli e la gente molto bonaria.

- Ah, buon giorno! - dice, tendendo una grossa mano bagnata. - Che, vi è passato il mal di gola?

- Ivàn Matveic'! - dice lo scienziato con voce vibrante, arretrando e intrecciando insieme le dita di tutt'e due le mani. -Ivàn Matveic'!

Dopo di che balza verso il copista, lo agguanta per una spalla e comincia a scuoterlo debolmente.

- Che fate di me!? - dice, in preda a disperazione. - Tremendo, disgustoso individuo, che cosa fate di me! Voi ridete, vi burlate di me? Sì?

Ivàn Matveic', a giudicar dal sorriso, che non ha ancor del tutto lasciato il suo volto, si aspettava tutt'altra accoglienza, e perciò, vista la faccia spirante indignazione dello scienziato, stira ancor più in lunghezza la sua fisonomia ovale e stupefatto apre la bocca.

- Che... che c'è? - domanda.

- E domandate anche! - batte le mani lo scienziato. - Sapete com'è prezioso per me il tempo, e ritardate così! Avete tardato di due ore!... Non avete timor di Dio!

- Ma ora non vengo mica da casa,-mormora Ivàn Matveic', sciogliendo irresoluto la sciarpa.- Sono stato dalla zia a un onomastico, e la zia abita a un sei verste da qui... Se venissi direttamente da casa, be', allora sarebbe un'altra cosa.

- Su, riflettete, Ivàn Matveic', c'è forse logica nei vostri atti? Qui c'è un lavoro da fare, una cosa urgente, e voi andate in giro per onomastici, e a trovar zie! Ah ma sciogliete presto la vostra orribile sciarpa! Insomma, è una cosa intollerabile!

Lo scienziato torna a balzare verso il copista e lo aiuta a distrigare la sciarpa.

- Che donnetta siete... Su, andate!... Presto, per favore!

Soffiandosi il naso in un sudicio fazzolettino gualcito e ravviando la sua giacchetta grigiolina, Ivàn Matveic' attraverso la sala e il salotto va nello studio. Là son già pronti per lui da un pezzo e il posto, e la carta, e perfin le sigarette.

- Sedete, sedete, - lo sospinge lo scienziato, fregandosi impaziente le mani. - Siete un uomo insopportabile... Sapete ch'è un lavoro urgente, e tardate così. Per forza s'ha da litigare. Su, scrivete...

Dov'eravamo rimasti?

Ivàn Matveic' liscia i suoi capelli ispidi, irregolarmente tagliati, e prende in mano la penna. Lo scienziato passeggia da un angolo all'altro, si riconcentra e comincia a dettare:

- La sostanza è che... virgola... che talune, per così dire, basilari forme... avete scritto?-forme sono condizionate unicamente dall'essenza stessa di quei principi... virgola... che trovano in esse la loro espressione e possono incarnarsi soltanto in esse... A capo...

Lì, certo, punto... Maggior indipendenza presentano... presentano...

le forme che hanno un carattere non tanto politico... virgola...

quanto sociale.

- Ora gli studenti di ginnasio hanno un'altra uniforme (1) grigia...

- dice Ivàn Matveic'. - Quand'io studiavo, al mio tempo era meglio:

portavano le divise...

- Ah, ma scrivete, per favore! - si stizzisce lo scienziato Sociale... avete scritto? Parlando poi di riforme relative alla struttura... delle funzioni statali, e non alla regolazione del viver popolare... virgola... non si può dire ch'esse si distinguano per la nazionalità delle loro forme... le ultime quattro parole tra virgolette... E-eh... così... Allora che volevate dire circa il ginnasio?

- Ma ve lo dissi ieri! Son già tre anni che non studio... Mi ritirai dalla quarta classe...

- E perché abbandonaste il ginnasio? - domanda lo scienziato, dando un'occhiata allo scritto di Ivàn Matveic'.

- Così, per circostanze di famiglia.

- Di nuovo s'ha da dirvelo, Ivàn Matveic'! Quando, finalmente, smetterete la vostra abitudine di strascinare le righe? - in una riga non devono esserci meno di quaranta lettere!

- Ma che credete, che lo faccia apposta? - si risente Ivàn Matveic'.

- In compenso, in altre righe le lettere son più di quaranta...

Contate. E se vi sembra ch'io allunghi, potete ridurmi la paga.

- Ah, ma non si tratta di ciò! Come siete indelicato. davvero... Per un nonnulla, subito parlate di denaro. L'essenziale è l'esattezza, Ivàn Matveic', l'esattezza è l'essenziale! Voi dovete avvezzarvi all'esattezza.

La cameriera reca nello studio su un vassoio due bicchieri di tè e un cestello con biscotti... Ivàn Matveic' goffamente, con tutt'e due le mani, prende il suo bicchiere e subito comincia a bere. Il tè è troppo caldo. Per non scottarsi le labbra, Ivàn Matveic' cerca di far sorsi piccoli. Egli mangia un biscotto, poi un altro, un terzo e guardando confuso in tralice lo scienziato, allunga timidamente la mano a un quarto... Le sue sorsate rumorose, quel masticar di buon appetito e l'espressione di famelica avidità nei sopraccigli rialzati irritano lo scienziato.

- Finite presto... Il tempo è prezioso.

- Voi dettate. Io posso insieme e bere, e scrivere... Ho fame, lo confesso.

- Sfido io, andate a piedi!

- Sì... E che brutto tempo! Dalle nostre parti a questa stagione odora già di primavera... Dappertutto pozzanghere, la neve si scioglie.

- Voi, mi pare, siete meridionale?

- Della regione del Don... E in marzo da noi è primavera fatta. Qui c'è gelo, tutti vanno in pelliccia, e laggiù l'erbetta... dappertutto è asciutto e si posson perfino acchiappar le tarantole.

- E perché acchiappar le tarantole?

- Così... dal non saper che fare... - dice Ivàn Matveic' e sospira.

- Acchiapparle diverte. Attacchi a un filo un pezzetto di pece, cali la pece nel buco e cominci con la pece a percuotere la tarantola sul dorso, e lei la maledetta, si arrabbia, afferra con le zampette la pece, e si appiccica... E che cosa ne facevamo! Ne riempivamo tutt'una bacinella e ci mandavamo contro una migale.

- Che migale?

- E' un certo ragno, pure del genere della tarantola. In rissa da sé solo può uccidere cento tarantole.

- M-già... Scriviamo però... Dov'eravamo rimasti?

Lo scienziato detta ancora una ventina di righe, poi siede e s'immerge in una meditazione. Ivàn Matveic', nell'attesa che quello finisca di riflettere, sta seduto e, allungando il collo, cerca di mettere in ordine il colletto della sua camicia. La cravatta non sta a posto, i bottoni dei polsini sono saltati fuori e il colletto si apre continuamente.

- M-già...- dice lo scienziato. - Così è... E che, non vi siete ancora trovato un posto, Ivàn Matveic'?

- No. E dove lo trovi? Io, sapete, avevo pensato di andare volontario.

Ma il babbo consiglia d'entrare in una farmacia.

- M-già... Meglio, se andaste all'università. E' un esame difficile, ma con la pazienza e il lavoro assiduo si può superare. Applicatevi, leggete di più... Leggete molto?

- Poco, lo confesso...-dice Ivàn Matveic', accendendo una sigaretta.

- Turgheniev l'avete letto?

- N-no...

- E Gogol?

- Gogol? Uhm!... Gogol... No, non l'ho letto!

- Ivàn Matveic'! E non vi vergognate? Ahi-ahi! Siete un così bravo ragazzo, c'è tanto di originale in voi, e d'un tratto... Perfin Gogol non avete letto! Leggetelo! Io ve lo darò! Leggetelo senza fallo!

Altrimenti ci guasteremo!

Di nuovo si fa silenzio. Lo scienziato è semidisteso sulla sedia a sdraio e pensa, e Ivàn Matveic', lasciato in pace il colletto, rivolge tutta la sua attenzione agli stivali. Non s'era nemmeno accorto che sotto i piedi, a causa della neve disciolta, gli s'eran formate due grosse pozze. E' imbarazzato.

- Qualcosa non va oggi... - borbotta lo scienziato.-Ivàn Matveic', a voi, mi sembra, piace acchiappare anche gli uccelli?

- Questo in autunno... Qui non ne acchiappo, ma laggiù, a casa, ne acchiappavo sempre.

- Così è... bene. Ma scrivere tuttavia bisogna.

Lo scienziato risolutamente si alza e comincia a dettare, ma di lì a dieci righe torna a sedere sulla sedia a sdraio.

- Sarà forse il caso che rimandiamo a domattina, - dice. - Venite domattina, solo un po' presto, verso le nove. Dio vi guardi dal tardare.

Ivàn Matveic' posa la penna, si alza da tavola e siede su un'altra seggiola. Trascorrono un cinque minuti in silenzio, ed egli comincia a sentire che per lui è ora di andarsene, ch'egli è di troppo, ma nello studio dello scienziato si sta così bene, è così luminoso e caldo, ed è ancor tanto fresca l'impressione dei biscotti al burro e del dolce tè, che gli si stringe il cuore al solo pensiero della casa. A casa c'è povertà, fame, freddo un padre brontolone, rimbrotti, e lì c'è tanta calma e quiete, e s'interessano perfino delle sue tarantole e dei suoi uccelli.

Lo scienziato guarda l'orologio e mette mano a un libro.

- Allora voi mi darete Gogol? - domanda Ivàn Matveic', alzandosi.

- Ve lo darò, ve lo darò. Soltanto, dove mai vi affrettate, colombello? Sedete un po', raccontate qualcosa...

Ivàn Matveic' siede e fa un largo sorriso. Quasi ogni sera si trattiene in questo gabinetto e ogni volta sente nella voce e nello sguardo dello scienziato un che d'insolitamente molle, attirante, come materno. Vi son fino minuti in cui gli sembra che lo scienziato si sia affezionato a lui, gli si sia abituato, e se lo sgrida per i ritardi, è solo perché sente la mancanza del suo cicaleccio riguardo alle tarantole e a come sul Don si acchiappano i cardellini.




NOTE:


1) In russo "forma" ha anche questo significato, richiamato alla mente d'Ivan Matveic' dalle "forme" di cui parla lo scienziato.




UN ESSERE INDIFESO


Per quanto violento fosse stato di notte l'attacco di podagra, per quanto poi scricchiolassero i nervi, Kistunov tuttavia s'avviò la mattina in ufficio e cominciò in tempo a ricevere i postulanti e i clienti della banca. Egli aveva un'aria languida, spossata, e parlava a stento, respirando appena, come un morente.

- Che desiderate? - si rivolse a una sollecitatrice in un mantello antidiluviano, molto simile di dietro a un grosso scarabeo stercorario.

- Favorite vedere, eccellenza, - cominciò con lesta parlantina la postulante, - mio marito, l'assessore di collegio S'ciukin, è stato malato cinque mesi e mentre, scusate, era a letto in casa e si curava, lo hanno messo a riposo senz'alcuna ragione, eccellenza, e quand'io mi recai a riscuotere il suo stipendio, loro, vedete un po', detrassero dalla sua paga ventiquattro rubli e trentasei copeche! «Per che cosa?», domando. «Ma lui», dicono «ha percepito dalla cassa sociale e gli altri funzionari han garantito per lui». Come mai ciò? Forse ch'egli poteva prelevare senza il mio consenso? E' impossibile, eccellenza. Ma perché codesto? Io sono una donna povera, campo solo sui pigionali... Sono debole, indifesa... Patisco offese da tutti e non sento una buona parola da nessuno...

La postulante cominciò a batter gli occhi e ficcò la mano nel mantello in cerca del fazzoletto. Kistunov le prese la domanda e si mise a leggere.

- Permettete, come mai ciò? - egli alzò le spalle.-Io non capisco nulla. Evidentemente voi, signora, avete sbagliato indirizzo.

La vostra richiesta, in sostanza, non riguarda affatto noi. Datevi la pena di rivolgervi al dicastero dove faceva servizio vostro marito.

- I-ih, "bàtiuska" (1), sono già stata in cinque posti e dappertutto neppur la domanda hanno preso! - disse la S'ciukin. - Io ho bell'e perso la testa, meno male che il cognato Boris Matveic', che Dio lo conservi in salute, mi ha suggerito di venir da voi. «Voi», dice, «mammina, rivolgetevi al signor Kistunov: è un uomo influente per voi può far tutto»... Aiutatemi, eccellenza!

- Noi, signora S'ciukin, per voi non possiamo far nulla... Capite:

vostro marito, da quanto posso giudicare serviva nella sanità militare, e il nostro è un istituto assolutamente privato, commerciale, teniamo una banca. Come non capir ciò!

Kistunov ancora una volta alzò le spalle e si girò verso un signore in divisa militare col catarro.

- Eccellenza, - cantilenò con voce querula la S'ciukin, - che mio marito è stato malato, ci ho il certificato medico! Eccolo, favorite guardare!

- Benissimo, io vi credo, - disse in tono irritato Kistunov, - ma, ripeto, questo non ci riguarda. E' strano e persin buffo! Possibile che vostro marito non sappia ove dovete rivolgervi?

- Lui, eccellenza, non sa nulla. Non fa che dire una sola cosa: «Non è affar tuo! Vattene!», e tutto è lì... Affare di chi, allora? L'ho pur io sulle mie braccia! Sulle mi-ie!

Kistunov tornò a girarsi verso la S'ciukin e prese a spiegarle la differenza che passa tra l'ufficio di sanità militare e una banca privata. Quella lo ascoltò attenta, fece col capo un cenno d'assenso e disse:

- Già, già, già... Capisco, "bàtiuska". In tal caso, eccellenza, ordinate di darmi anche solo quindici rubli. Son d'accordo di non aver tutto in una volta.

- Uff! - sospirò Kistunov, arrovesciando il capo. - A voi non la si fa intendere! Ma non capite dunque che rivolgere a noi una simile richiesta è strano come presentar domanda di divorzio, per esempio, in farmacia o all'ufficio del saggio? Non vi hanno pagato tutto, ma noi che c'entriamo?

- Eccellenza, fate ch'io preghi Dio in eterno, abbiate pietà di me, orfanella, - si mise a piangere la S'ciukin. - Sono una donna indifesa, debole... Mi sono sfinita a morte... E in causa con gl'inquilini, e darsi da fare pel marito, e correre per le faccende di casa, e poi ancora le mie devozioni e il cognato senz'impiego... E' solo di nome che bevo e mangio, ma sto appena in piedi... Non ho dormito tutta la notte.

Kistunov sentì palpitazione di cuore. Fatto un viso doloroso e premutasi una mano al cuore, riprese a spiegare alla S'ciukin, ma la sua voce si spezzò...

- No, scusate, io non posso parlare con voi, - disse, e agitò una mano.-Mi gira perfino la testa. Voi c'impacciate e perdete inutilmente il tempo. Uff!... Alekséi Nikolaic', - si rivolse a uno degl'impiegati: - spiegate voi, per favore, alla signora S'ciukin!

Kistunov, eludendo tutti i postulanti, se n'era andato nel suo gabinetto e aveva firmato una decina di carte, e Alekséi Nikolaic' tuttora si affaccendava con la S'ciukin. Stando a sedere nel suo gabinetto, Kistunov udì a lungo due voci: la monotona, contenuta voce di basso di Alekséi Nikolaic' e la voce piagnucolosa, gemebonda della S'ciukin...

- Io sono una donna indifesa, debole, sono una donna malaticcia, - diceva la S'ciukin. - All'aspetto, forse robusta, ma se si va a esaminare, non c'è in me una sola venetta sana. A stento mi reggo in piedi e ho perduto l'appetito... Oggi ho bevuto il caffè, e senz'alcuna soddisfazione.

E Alekséi Nikolaic' le spiegava la differenza tra le amministrazioni e il complesso sistema della trasmissione delle carte. Ben presto fu stanco e lo sostituì il contabile. - Donna supremamente antipatica.-s'indignava Kstunov, torcendo nervoso le dita e accostandosi di continuo alla caraffa con l'acqua. - E' un'idiota, una tonta! Ha sfinito me e sfiancherà loro, la vigliacca! Uff... mi batte il cuore!

Di li a mezz'ora sonò. Comparve Alekséi Nikolaic'.

- Che n'è da voi, di là? - domandò languidamente Kistunov.

- Ma non gliela facciamo intendere in nessun modo, Piotr Aleksandric'!

Siamo semplicemente sfiniti. Noi le bussiamo a picche e lei risponde a fiori...

- Io... io non posso sentir la sua voce... Mi sono ammalato... non ci reggo...

- Chiamiamo il custode, Piotr Aleksandric', che la faccia uscire.

- No, no! - si spaventò Kistunov. - Lei leverà alte strida, e in questa casa ci son molti appartamenti, e il diavolo sa quel che posson pensare di noi... Piuttosto voi, colombello, in qualche modo cercate di spiegarle.

Dopo un minuto si riudì il borbottio di Alekséi Nikolaic'. Passò un quarto d'ora e, dando il cambio al suo tono di basso, prese a ronzare la robusta voce tenorile del contabile.

- Su-per-lativamente vigliacca!- s'indignava Kistunov, con un nervoso tremito di spalle. - Stupida come un'oca, che il diavolo se la porti! Mi si scatena di nuovo la podagra, pare... Daccapo l'emicrania...

Nella stanza attigua Alekséi Nikolaic', ridotto allo stremo, picchia infine un dito sulla tavola, poi sulla propria fronte.

- Insomma, voi sulle spalle non avete una testa, - disse, - ma ecco che cosa...

- Be', non c'è, non c'è da... - si risentì la vecchia. - Dallo a tua moglie il picchio.. Citrullo! Non ti prender troppa libertà.

E, guardandola con astio, con esasperazione, come se volesse inghiottirla, Alekséi Nikolaic' disse con voce bassa, soffocata:

- Via di qui!

- Che co-osa? - strillò d'un tratto la S'ciukin. - Ma come osate?

Io sono una donna debole, indifesa, io non permetterò! Mio marito è assessore di collegio! Ma che citrullo! Se vado dall'avvocato Dmitri Karlic', di te né manco il nome rimarrà! A tre inquilini ho fatto causa, e per le tue parole insolenti ai piedi mi dovrai cadere! Andrò fin dal vostro generale (2)! Eccellenza! Eccellenza!

- Vattene via di qui, canchero! - sibilò Alekséi Nikolaic'.

Kistunov aprì la porta e guardò fuori nella sala. - Che c'è? - domandò con voce di pianto. La S'ciukin, rossa come un gambero, stava in mezzo alla stanza e, roteando gli occhi, puntava le dita in aria.

Gl'impiegati della banca stavano ai lati e, rossi del pari, visibilmente stremati, si scambiavano occhiate smarrite.

- Eccellenza! - si precipitò verso Kistunov la S'ciukin. - Ecco costui, questo stesso... ecco costui... - (ella indicò Alekséi Nikolaic'), - ha dato del dito in fronte, e poi sulla tavola... Voi gli avete ordinato di esaminar la mia pratica, e lui si fa beffe! Io sono una donna debole, indifesa... Mio marito è assessore di collegio e io stessa son figlia d'un maggiore!

- Bene, signora, - gemé Kistunov, - esaminerò... provvederò...

Andate pure... dopo!...

- E quando riscoterò, eccellenza? I denari mi occorrono oggi!

Kistunov si passò in fronte una mano tremante, sospirò e riprese a spiegare.

- Signora, vi ho già detto. Qui è una banca, un istituto privato, commerciale... Che dunque volete da noi? E capite chiaramente che ci disturbate.

La S'ciukin stette a sentirlo e sospira.

- Già, già... - annuì. - Solo, eccellenza, fate la grazia, fatemi pregar Dio in eterno, siatemi padre, difendetemi. Se l'attestato medico non basta, posso presentare anche un certificato della sezione... Ordinate di versarmi il denaro!

A Kistunov s'annebbiò la vista. Egli esalò tutta l'aria, quanta ne aveva nei polmoni e, prostrato, si abbandonò sulla seggiola.

- Quanto volete avere? - domandò con voce flebile.

- Ventiquattro rubli e trentasei copeche.

Kistunov cavò di tasca il portafogli, ne trasse un biglietto da venticinque e lo porse alla S'ciukin.

- Prendete e... e andatevene!

La S'ciukin avvolse in un fazzolettino il denaro, lo nascose e, raggrinzando il viso in un sorrisetto soave, delicato, perfin civettuolo, domandò:-Eccellenza, e non potrebbe mio marito riprendere il posto?

- Io vado via... sono malato... - disse Kistunov con voce languida.

- Ho una tremenda palpitazione di cuore.

Partito ch'egli fu, Alekséi Nikolaic' inviò Nikita per le gocce di lauroceraso, e tutti, prese venti gocce a testa, sedettero al lavoro, ma la S'ciukin poi rimase ancora un paio d'ore in anticamera a discorrere col custode, aspettando che tornasse Kistunov.

Ella venne lì anche il giorno dopo.




NOTE:


1) Letteralmente: babbino. Forma di cortesia molto usata nella conversazione russa, parlando a persona maschile di qualsiasi età, e corrispondente a "màtuskca".

2) La vecchia gerarchia burocratica russa conosceva anche i "generali" civili: il titolo militare veniva esteso ai più alti capi servizio delle amministrazioni non militari.




LE SIGNORE


Fiodor Petrovic', direttore delle scuole elementari della provincia di N., che si stima uomo giusto e magnanimo, riceveva una volta presso di sé in ufficio il maestro Vremionski.

- No, signor Vremionski,-diceva,-le dimissioni sono inevitabili. Con la voce che avete, non si può continuare il servizio d'insegnamento. Ma come vi è scesa?

- Bevvi, sudato, della birra fredda... - sibilò il maestro - Che peccato! Un uomo ha servito per quattordici anni, e d'un tratto una iattura così! Sa il diavolo per quale inezia tocca troncar la propria carriera. E che cosa vi proponete ora di fare?

Il maestro non rispose nulla.

- Avete famiglia? - domandò il direttore.

- Moglie e due figli, eccellenza... - sibilò il maestro.

Seguì un silenzio. Il direttore si alzò dalla scrivania e camminò da un angolo all'altro, agitato.

- Non raccapezzo quel che ho da fare con voi! - disse. - Maestro non potete essere, alla pensione non siete ancor pervenuto...

lasciarvi in balia del destino, ai quattro venti, non è punto agevole.

Per noi siete uno dei nostri, avete servito quattordici anni, è dunque affar nostro aiutarvi... Ma come aiutare? Che posso io fare per voi?

Mettetevi nei miei panni: che posso io fare per voi?

Seguì un silenzio; il direttore camminava e continuava a pensare, e Vremionski, oppresso dal suo affanno, sedeva sull'orlo d'una seggiola e pensava anche lui. D'un tratto il direttore si fece raggiante e schioccò perfino le dita.

- Mi meraviglio come non mi sia venuto prima in mente! - prese a dire svelto. - Ascoltate, ecco quel che posso proporvi... La settimana entrante il segretario del nostro asilo se ne va a riposo.

Se volete, occupate il suo posto! Eccovi!

Vremionski, che non si aspettava una tal grazia, raggiò egli pure.

- A meraviglia, - disse il direttore. - Oggi stesso scrivete la domanda...

Congedato Vremionski, Fiodor Petrovic' risentì sollievo e perfin soddisfazione: davanti a lui non stava più la curva figura del sibilante pedagogo, e faceva piacere riconoscere che, offrendo a Vremionski il posto vacante, egli aveva agito rettamente e secondo coscienza, da uomo buono, perfettamente dabbene. Ma questa buona disposizione non durò a lungo. Quand'egli tornò a casa e sedette a pranzare, sua moglie, Nastassia Ivànovna, d'un tratto si rammentò:

- Ah, sì, per poco non dimenticavo! Ieri venne da me Nina Serghéievna e si raccomandò per un giovane. Nell'asilo da noi, dicono, si fa un posto vacante...

- Sì, ma questo posto è già promesso a un altro, - disse il direttore e si accigliò. - E tu sai la mia norma: non dò mai posti per protezione.

- So, ma per Nina Serghéievna si può fare, suppongo, un'eccezione. Lei ci ama come parenti, e noi finora non abbiam fatto per lei nulla di buono. E non pensare, Fedia, di dir di no! Coi tuoi ghiribizzi e lei offenderesti, e me.

- E chi raccomanda?

- Polzuchin.

- Che Polzuchin? Quello che alla riunione di capodanno faceva il Ciatski (1)? Quel gentiluomo? A nessun patto!

Il direttore smise di mangiare.

- A nessun patto! - ripeté. - Dio me ne guardi!.

- Ma perché?

- Capisci, mammina, che se il giovanotto non agisce direttamente, ma per mezzo di donne, è, di conseguenza, una nullità! Perché non viene egli stesso da me?

Dopo pranzo il direttore si sdraiò nel suo studio sul sofà e si mise a leggere i giornali e le lettere ricevute.

«Caro Fiodor Petrovic'!», gli scriveva la moglie del sindaco.«Voi diceste un giorno ch'io sono scrutatrice di cuori e conoscitrice d'uomini. Ciò vi spetta ora verificar di fatto. Verrà da voi tra giorni a chiedere il posto di segretario nel nostro asilo un tal K. N.

Polzuchin che conosco per un giovane eccellente. Il ragazzo è molto simpatico. Interessandovi a lui, vi persuaderete», eccetera.

- A nessun patto! - proferì il direttore. - Dio mi guardi!

Dopo di ciò non passò giorno che il direttore non ricevesse lettere che raccomandavano Polzuchin. Una bella mattina comparve anche lo stesso Polzuchin, un giovane pienotto, con volto raso da fantino, in un nuovo completo nero...

- Per cose di servizio non ricevo qui, ma in ufficio - disse seccamente il direttore, ascoltata la sua richiesta.

- Perdonate, eccellenza, ma nostri comuni conoscenti mi han consigliato di rivolgermi proprio qui.

- Uhm ! ... - mugolò il direttore, guardandogli con astio le scarpe a punta aguzza. - Per quanto so, - egli disse, - il vostro babbo ha un patrimonio e voi non siete in bisogno, che necessità avete dunque di sollecitare questo posto? E' una paga di soldi!

- Io non per la paga, ma così... Ed è sempre un servizio governativo...

- Già... Tra un mese poi, mi sembra, quest'impiego vi sarà venuto a noia e voi lo lascerete, e intanto ci son candidati per i quali questo posto è una carriera per tutta la vita. Vi son poveracci per i quali...

- Non mi verrà a noia, eccellenza! -interruppe Polzuchin.- Parola d'onore, farò del mio meglio!

Il direttore si sdegnò.

- Ascoltate, - domandò, sorridendo sprezzante, - perché non vi rivolgeste di colpo a me, ma stimaste necessario incomodar preventivamente le signore?

- Non sapevo che ciò vi sarebbe spiaciuto, - rispose Polzuchin, e si confuse. - Ma, eccellenza, se voi non date importanza alle lettere di raccomandazione, vi posso presentar degli attestati...

Egli trasse di saccoccia una carta e la porse al direttore. In calce all'attestato, scritto in stile e caratteri cancellereschi, stava la firma del governatore. Da tutto si vedeva che il governatore aveva firmato senza leggere, giusto solo per sbrigarsi di qualche importuna signora. - Non c'è che fare, m'inchino... obbedisco... - disse il direttore, letto ch'ebbe l'attestato, e sospirò. - Presentate domani la domanda... Non c'è che fare...

E quando Polzuchin fu uscito, il direttore si abbandonò tutto a un sentimento di disgusto.

- Essere dappoco! - sibilava, camminando da un angolo all'altro. - Ha pur ottenuto l'intento, striscione buono a nulla, beniamino delle donne! Rettile! Canaglia!

Il direttore sputò rumorosamente contro l'uscio dietro cui era scomparso Polzuchin, e di colpo rimase male, perché in quel momento entrava nel suo studio una signora, la moglie dell'intendente di finanza.

- Io per un minutino, un minutino... - cominciò la signora.- Sedete, compare, e ascoltatemi attentamente... Dunque, dicono, da voi c'è un posto vacante... Domani, oppur oggi, verrà da voi un giovane, certo Polzuchin...

La signora cinguettava, e il direttore la guardava con occhi torbidi, intontiti, come uomo che si prepara a venir meno, guardava e sorrideva per convenienza.

E il giorno dopo, ricevendo nel suo ufficio Vremionski, il direttore per lungo tempo non si risolse a dirgli la verità. Esitava, s'impappinava e non trovava da che cominciare, che cosa dire. Aveva voglia di scusarsi col maestro, di raccontargli tutta la pura verità, ma la lingua gli s'ingarbugliava, come a un ubriaco, i suoi orecchi ardevano, e gli venne d'un tratto vergogna e stizza di dover rappresentare una parte così assurda: nel proprio ufficio, davanti ai propri dipendenti. D'improvviso picchiò un colpo sulla tavola, saltò su e gridò iroso:

- Io non ho un posto per voi! No e poi no! Lasciatemi in pace! Non tormentatemi! Spiccicatevi, insomma, fate il favore!

E uscì dall'ufficio.




NOTE:


1) Protagonista della celebre commedia satirica di Griboiedov (1795-1829): "Il guaio di avere ingegno", tipo di «occidentale» e liberale russo ancora immaturo.




POLINKA


L'una passata del pomeriggio. Nel gran negozio di mercerie "Novità parigine", che è in una delle gallerie, ferve la vendita. Si ode il monotono brusio delle voci dei commessi, un brusio quale suol esserci a scuola, allorché il maestro obbliga tutti gli alunni a mandar qualche cosa a memoria ad alta voce. E questo rumore uniforme non lo spezzano né le risate delle signore, né i colpi della porta vetrata d'ingresso, né il correr su e giù dei ragazzi.

In mezzo al negozio sta Pòlinka, figlia di Maria Andréievna, tenitrice d'un laboratorio di mode, una piccola bionda magrolina, e cerca qualcuno con gli occhi. Accorre a lei un ragazzo dai neri sopraccigli e domanda, guardandola con gran serietà:

- Che cosa volete, signora?

- Di me si occupa sempre Nikolài Timofeic', - risponde Pòlinka.

E il commesso Nikolài Timofeic', un bruno slanciato arricciato, vestito alla moda, con una grossa spilla sulla cravatta, già ha sgombrato il posto sul banco, ha proteso il collo e con un sorriso guarda Pòlinka.

- Pelagheia Serghéievna, i miei rispetti! - grida con bella, sana voce baritonale. - Favorite!

- Ah, buon giorno, - dice Pòlinka, avvicinandoglisi. - Vedete, son di nuovo da voi... Datemi qualche cordoncino.

- Per che cosa v'occorre propriamente?

- Per una vita, per un dorso, insomma una piccola guarnizione completa.

- Sul momento.

Nikolài Timofeic' mette davanti a Pòlinka parecchi tipi di cordoncino; quella sceglie pigramente e comincia a mercanteggiare.

- Scusate tanto, a un rublo non è punto caro! - cerca di persuaderla il commesso, sorridendo indulgente. - Questo è cordoncino francese, a otto canti... Volentieri, ne abbiamo di quello ordinario, a peso...

Quello è a quarantacinque copeche l'"arscìn" (1), non è più la stessa qualità! Scusate tanto!

- Mi occorre ancora un fianco di conteria con bottoni di cordoncino, - dice Pòlinka, chinandosi sul cordoncino, e, chi sa perché, sospira.

- E non si troveranno qui da voi dei chicchi di conteria di questa tinta?

- Ci sono.

Pòlinka si china ancor più giù verso il banco e domanda sottovoce:

- Ma perché voi, Nikolài Timofeic', giovedì andaste via da casa nostra così presto?

- Uhm!... E' strano che ve ne siate accorta, - dice il commesso con un risolino. - Eravate così perduta dietro al signor studente che...

è strano come ve ne siate accorta!

Pòlinka si fa di fiamma e tace. Il commesso con un tremito nervoso nelle dita chiude le scatole e, senz'alcuna necessità, le pone una sull'altra. Un minuto trascorre in silenzio.

- M'occorrono ancora dei merletti di conteria,-dice Pòlinka, alzando due occhi da colpevole sul commesso.

- Come li volete? I merletti di conteria su tulle neri e in tinta sono la finizione più di moda.

- E a quanto li vendete?

- I neri da ottanta copeche in su, e in tinta a due rubli e cinquanta copeche. E da voi io non verrò mai più,-soggiunge sottovoce Nikolài Timofeic'.

- Perché?

- Perché? Semplicissimo. Voi stessa dovete capire. A che pro ho da torturarmi? Strana faccenda! Forse che per me è piacevole vedere come quello studente recita una parte intorno a voi? Io, già, vedo e capisco tutto. Fin dall'autunno vi fa la corte sul serio e quasi ogni giorno passeggiate con lui, e quand'è da voi in visita, gli tenete gli occhi piantati addosso, come se fosse un qualche angelo. Ne siete innamorata, per voi non c'è miglior uomo di lui, e benissimo, non c'è da far discorsi...

Pòlinka tace e, imbarazzata, passa un dito sul banco.

- Io vedo tutto benissimo, - continuò il commesso. - Che ragione ho dunque di venir da voi? Io ho dell'amor proprio. Non a tutti fa piacere esser la quinta ruota del carro. Che cosa chiedevate?

- La mamma mi ha ordinato di prendere molte cose varie, ma ho dimenticato. Ci vuole ancora del piumino.

- Quale volete?

- Il migliore, quello più di moda.

- Il più di moda adesso è quello di piume d'uccello. La tinta di moda, se desiderate, è ora l'eliotropio o il color "kanàk", cioè bordò con giallo. Una scelta enorme. Ma a che tenda tutta questa storia, proprio non capisco. Voi, ecco, vi siete innamorata, ma come finirà ciò?

Sul viso di Nikolài Timofeic', vicino agli occhi, sono spuntate delle chiazze rosse. Egli stazzona fra le mani una delicata fettuccia lanuginosa e continua a mormorare:

- V'immaginate di sposarlo, eh? Be', a questo riguardo levatevelo dall'immaginazione. Agli studenti è vietato prender moglie, e poi forse ch'egli viene da voi per terminar tutto onestamente? Ma che!

Già, loro, proprio questi studenti, noi non ci hanno in conto neppur di persone... Vanno dai mercanti e dalle modiste solo per farsi beffe dell'altrui mancanza d'istruzione e ubriacarsi. A casa propria e nelle buone case ci si vergogna di bere; sì, ma da gente così semplice, non istruita, come noi non han da vergognarsi di nessuno, si può anche camminare a gambe in su. Sissignora! Così, che piumino dunque prenderete? E se lui vi fa la corte e giuoca all'amore, si sa perché... Quando diventerà dottore o avvocato, rammenterà: «Eh, avevo una volta», dirà, «una certa biondina! Dov'è adesso?». Chi sa che anche ora, in casa sua fra gli studenti, non si vanti di avere in vista una modistina.

Pòlinka si mette a sedere su una sedia e guarda pensierosa la montagna di scatole bianche.

- No, non lo prenderò il piumino! - sospira. - Prenda la mamma stessa quello che vuole, io posso sbagliare. A me date sei "arscini" di frangia per un diplomatico, di quella a quaranta copeche l'"arscìn". Per lo stesso diplomatico mi darete dei bottoni di cocco, coi fori da parte a parte... perché tengano meglio...

Nikolài Timofeic' le involta frangia e bottoni. Lei lo guarda negli occhi con aria colpevole e visibilmente aspetta ch'egli continui a parlare, ma lui tace arcigno e rimette in ordine il piumino.

- Che non dimentichi di prendere anche dei bottoni per una cappotta...

- ella dice dopo un po' di silenzio, asciugandosi col fazzoletto le labbra smorte.

- Quali v'occorrono?

- Lavoriamo per una negoziante, datemi dunque qualcosa che esca dall'ordinario...

- Si, se è per una negoziante, bisogna sceglierli un po' variopinti.

Ecco i bottoni. Una combinazione di colori turchino, rosso, e oro di moda. I più vistosi. Chi è un po' più fine prende da noi quelli neri opachi con un sol cerchietto brillante. Solo che io non capisco.

Possibile che voi stessa non possiate giudicare? Be', a che cosa condurranno quelle... passeggiate?

- Io stessa non so... - bisbiglia Pòlinka, e si china sui bottoni.

- Io stessa non so, Nikolài Timofeic', quel che mi succede.

Dietro il dorso di Nikolài Timofeic', premendolo verso il banco, si apre un varco un grave commesso dalle fedine e, raggiando della più raffinata galanteria, grida:

- Siate così gentile, "madàm" (2), da favorire in questo reparto! Di camicette "dzerse" (3) Si hanno tre tipi: liscia, con spighetta e con perline! Quale volete?

Nello stesso tempo accanto a Pòlinka passa una signora grossa, che dice con voce pastosa, profonda, quasi di basso:

- Purché, per favore, siano senza cuciture, tessute, e che i piombini siano affondati dentro.

- Fate mostra di osservare la merce, - bisbiglia Nikolài Timofeic', chinandosi verso Pòlinka e sorridendo sforzatamente. Voi, che Dio v'assista, avete una cera pallida e malata, vi siete del tutto mutata in viso. Vi lascerà, Pelagheia Serghéievna! E se mai vi sposerà, non sarà per amore, ma per fame, lusingato dai vostri quattrini. Si farà con la dote un arredo decoroso, e poi si vergognerà di voi. Agli ospiti e ai compagni vi nasconderà, perché non siete istruita, e così dirà: la mia orsacchiotta. Forse che voi sapete comportarvi in una compagnia di dottori o di avvocati? Voi per loro siete una modista, una creatura ignorante.

- Nikolài Timofeic'! - grida qualcuno dall'altro capo del negozio.

Ecco, la "mademuasèl" chiede tre arscini di nastro di "nikko" (4) Ce n'avete?

Nikolài Timofeic' si volge di lato, fa un viso sorridente e grida:

- Ce n'ho! Ci son nastri di "nikko", "atamàn" (5) con raso e raso con "muar" (6)!

- A proposito, per non dimenticarmi, Olia m'ha pregata di prendere per lei una fascetta! - dice Pòlinka.

- Negli occhi avete... delle lacrime!-si spaventa Nikolài Timofeic'. - Perché questo? Andiamo verso i busti, io vi parerò, se no è una cosa imbarazzante.

Con un sorriso sforzato e con esagerata disinvoltura il commesso guida rapido Pòlinka verso il reparto dei busti e la nasconde al pubblico dietro un'alta piramide di scatole...

- Che fascetta volete che vi dia?-domanda forte, e subito bisbiglia: - Asciugatevi gli occhi!

- Io... io, di quarantotto centimetri! Soltanto, per favore, lei ha pregato che sia doppia con fodera... di vera stecca di balena... Io ho bisogno di parlar con voi, Nikolài Timofeic'. Venite oggi!

- Ma di che parlare? Non c'è da parlar di nulla.

- Voi solo... mi amate e, tranne voi, non ho nessuno con cui parlare un poco.

- Non giunco, non osso, ma vera stecca di balena... Di che mai dovremmo parlare? Parlare non c'è di che... Vero che oggi andrete con lui a passeggio?

- Ci an... andrò.

- Be', allora di che parlare in tal caso? Coi discorsi non si rimedia... Siete innamorata, vero?

- Sì... - bisbiglia incerta Pòlinka, e dai suoi occhi sgorgano grosse lacrime.

- Che discorsi dunque ci posson essere? - mormora Nikolài Timofeic', alzando nervosamente le spalle e impallidendo. - E nessun discorso occorre... Asciugate gli occhi, ed ecco tutto. Io... io non desidero nulla...

In questo mentre s'avvicina alla piramide di scatole un commesso alto, magro e dice alla sua acquirente:

- Non lo vorreste, un ottimo elastico per giarrettiera, che non ferma il sangue, riconosciuto dalla medicina...

Nikolài Timofeic' fa da schermo a Pòlinka e, cercando di nascondere l'agitazione di lei e la propria, storce il volto a un sorriso e dice forte:

- Ci son due qualità di merletti, signorina! Di cotone e di seta!

L'"oriental", i britannici, la "valensièn" (7), il "croscé" (8), il "torsciòn" (9): questi son di cotone, e il rococò, la spighetta, il "cambré" (10): questi sono di seta... Per amor di Dio, asciugate le lacrime! Vien gente!

E vedendo che le lacrime scorrono tuttavia, continua anche più forte:

- Spagnuoli, rococò, spighetta, "cambré"... Calze di feldekòs (11), di cotone, di seta...




NOTE:


1) Unità russa di misura lineare: metri 0,711.

2) Questa e altre parole straniere che seguono sono trascritte secondo la pronuncia, a indicare che chi le adopera le conosce semplicemente a orecchio, senza saperne la grafia.

3) "Jersey": la principale delle Isole Normanne, nella Manica; dà il nome a un tessuto di lana.

4) Dal nome d'una città giapponese.

5) Così detto dal nome che si dava al capo dei cosacchi.

6) "Moire": moerro, amoerro (seta, o imitazione di seta, marezzata.

7) "Valenciennes", dall'omonima città francese del nord.

8) "Crochet", cioè fatto all'uncinetto.

9) "Torchon" (canovaccio): merletto a maglia assai larga.

10) "Cambrai", anche qui dal nome dell'importante centro tessile francese, nel Dipartimento del Nord.

11) Cioè "fil d'Ecosse": filo di Scozia.




IL CORREDO


Molte case ho veduto in vita mia, grandi e piccine, in muratura e di legno, vecchie e nuove, ma particolarmente mi s'impresse nella memoria una casa. Non è una casa del resto, ma una casetta. E' piccola, a un solo, piccolo piano e con tre finestre, e somiglia oltremodo a una vecchietta piccina, gobba con la cuffia. Intonacata di bianco, con tetto di tegole e un fumaiuolo scortecciato, è tutta immersa nei verde dei gelsi, delle acacie e dei platani piantati dai nonni e dai bisnonni degli odierni padroni. Non la si vede dietro il verde. Questa massa di verzura non le impedisce per altro d'essere una casetta di città. Il suo ampio cortile è allineato con altri, pure ampi e verdi cortili, ed entra a far parte di via Moskòvskaia. Nessuno passa mai in vettura per questa via, di rado qualcuno a piedi.

Le imposte della casetta sono continuamente chiuse: gli inquilini non han bisogno di luce. La luce non è loro necessaria. Le finestre non si aprono mai, perché agli abitatori della casetta non piace l'aria fresca. La gente che vive costantemente fra i gelsi, le acacie e la bardana è indifferente alla natura. Solo ai villeggianti Iddio ha dato la facoltà d'intendere le bellezze della natura, la restante umanità invece, per quanto riguarda queste bellezze, ristagna nella più profonda ignoranza. Gli uomini non apprezzano ciò di cui sono ricchi.

«Quel che possediamo, non lo custodiamo (1)»; non basta: quel che possediamo, non l'amiamo. Attorno alla casetta è il paradiso terrestre, il verde, vivono uccelli giulivi, nella casetta invece...

ahimè! D'estate v'è afa e si soffoca, d'inverno v'è un caldo come al bagno, odor di carbone e una noia, una noia...

Per la prima volta visitai questa casetta che ormai è un pezzo, per un'incombenza: portai il saluto del padron della casa, colonnello Cikamassov, a sua moglie e a sua figlia. Questa mia prima visita la ricordo ottimamente. Né è possibile non ricordarla.

Immaginatevi una donna piccola, mencia, sulla quarantina, che vi guarda con sgomento e stupore mentre voi entrate dall'anticamera in sala. Voi siete un "estraneo", un visitatore, un "giovanotto", e questo è già sufficiente per piombarla nello stupore e nello sgomento.

Nelle mani non avete né una mazza ferrata, né un'accetta, né una rivoltella, voi sorridete amichevolmente, ma vi si accoglie con ansietà.

- Chi ho l'onore e il piacere di vedere? - vi domanda con voce tremante una donna matura, in cui riconoscete la padrona di casa Cikamassov.

Dite il vostro nome e spiegate perché siete venuto. Sgomento e stupore cedono il posto a un acuto, gioioso «ah!» e a uno strabuzzar d'occhi.

Quest'«ah!», come un'eco, si ripercuote dall'anticamera in sala, dalla sala in salotto, dal salotto in cucina... e così fino alla cantina.

Ben presto tutta la casetta si riempie di svariati, gioiosi «ah!». Di lì a un cinque minuti siete seduto in salotto, su un grande, soffice, ardente divano e udite come ormai echeggia di «ah!» tutta la via Moskòvskaia.

Odorava di polvere contro le tarme e di scarpe nuove di capretto, che, avvolte in una pezzuola, stavano accanto a me su una sedia. Alle finestre gerani, straccetti di mussolina. Sugli straccetti delle mosche sazie. Su una parete il ritratto di un qualche vescovo, dipinto a olio e coperto da un vetro con un angolino rotto. Dal vescovo parte una fila di avi dalle fisonomie d'un giallo limone, zingaresche. Sulla tavola un ditale, un rocchetto di filo e una calza non finita, sul pavimento modelli di taglio e una camicetta nera imbastita. Nella stanza attigua due vecchie spaventate, intimidite piglian su dal pavimento modelli e pezzi di "lankort"...

- Da noi, scusate, c'è un tremendo disordine! - disse la Cikamassov.

La Cikamassov conversava con me e sbirciava, confusa, verso l'uscio, dietro al quale tuttora stavan raccattando i modelli. L'uscio, come confuso anch'esso, ora si apriva per un paio di dita, ora si chiudeva.

- Su via, che t'occorre? - si voltò la Cikamassov verso l'uscio.

- "Où est mon cravate, lequel mon père m'avait envoyé de Koursk?" (2) - domandò dietro l'uscio una vocetta femminile. - "Ah, est ce que, Marie, que..." (3) Ah, forse che si può... "Nous avons donc chez nous un homme très peu connu par nous... (4) Domanda a Lukeria...

«Ma come parliam bene il francese, noi!», lessi io negli occhi della Cikamassov, arrossita dal piacere.

Presto si aprì l'uscio, e io vidi un'alta, magra ragazza sui diciannove anni, in un lungo vestito di mussolina con cintura dorata, dalla quale pendeva, ricordo, un ventaglio di madreperla. Ella entrò, fece la riverenza e avvampò in viso. Avvampò dapprima il suo lungo naso, alquanto butterato, dal naso il rossore passò agli occhi, dagli occhi alle tempie.

- Mia figlia! - cantilenò la Cikamassov. - E questo Mànec'ka, è il giovanotto che...

Io feci conoscenza ed espressi la mia meraviglia a proposito del gran numero di modelli. Madre e figlia chinarono gli occhi.

- Da noi all'Ascensione ci fu la fiera, - disse la madre. - Alla fiera noi comperiamo sempre una quantità di stoffe e poi cuciamo tutto l'anno sino alla fiera seguente. Fuori di casa non diamo mai a far nulla. Il mio Piotr Stepanic' non guadagna moltissimo e noi non possiamo permetterci dei lussi. Tocca farci i vestiti noi stesse.

- Ma chi mai in casa vostra porta una tal massa di roba? Siete soltanto in due!

- Ah... forse che questo si può portare? Non è per portare! Questo è il corredo!

- Ah, "maman", che dite? - domandò la figlia, e si fece rossa. - Il signore davvero può pensare... Io mai prenderò marito! Mai!

Disse ciò, ma a lei stessa, alla parola "marito", si accesero gli occhietti.

Portarono il tè, biscotti, conserve di frutta, burro, poi mi rimpinzarono di lamponi con la panna. Alle sette di sera ci fu una cena di sei portate, e durante questa cena udii un rumoroso sbadiglio; qualcuno aveva sbadigliato forte nella stanza attigua. Io guardai verso l'uscio con meraviglia: così può sbadigliare soltanto un uomo.

- E' il fratello di Piotr Semionic', Jegòr Semionic'... - spiegò la Cikamassov, avendo notato la mia meraviglia. - Abita in casa nostra dall'anno scorso. Scusatelo, non può venire a salutarvi. E' un selvaggio tale... ha soggezione degli estranei... Si prepara ad entrare in convento... In servizio ebbe dei dispiaceri... Così, ecco, dal dolore...

Dopo cena la Cikamassov mi mostrò una stola che stava ricamando di propria mano Jegòr Semionic', per poi offrirla alla chiesa. Mànec'ka smise per un momento la sua timidezza e mi fece vedere una borsa da tabacco ch'ella ricamava per il proprio babbo. Quand'io feci vista d'essere stupito per il suo lavoro, arrossì tutta e bisbigliò qualcosa all'orecchio della madre. Questa si fece raggiante e m'invitò ad andare con lei nella dispensa. Nella dispensa vidi un cinque grossi bauli e una quantità di bauletti e cassette.

- Questo... è il corredo! - mi bisbigliò la madre. - L'abbiamo preparato noi stesse.

Data un'occhiata a quei malinconici bauli, presi ad accomiatarmi dagli ospitali padroni. E mi fecero dar la parola che un giorno o l'altro sarei ancora stato da loro.

Questa parola mi accadde di mantenerla un sette anni dopo la mia prima visita, quando fui mandato nella Cittadina come perito in una faccenda giudiziaria. Entrato nella nota casetta, udii quelle stesse esclamazioni... Mi riconobbero... Sfido! La mia prima visita era stata nella vita loro tutt'un avvenimento, e gli avvenimenti, là dove son rari, si rammentano a lungo. Quando entrai nel salotto, la madre, ancor più ingrassata e ormai incanutita, stava strisciando sul pavimento e cuciva una qualche stoffa azzurra, la figlia era seduta sul divano e ricamava. Gli stessi modelli, lo stesso odor di polvere contro le tarme, lo stesso ritratto con l'angolino rotto. Ma cambiamenti tuttavia ce n'erano. Accanto al ritratto del vescovo era appeso quello di Piotr Semionic' e le signore erano in lutto. Piotr Semionic' era morto una settimana dopo la sua promozione a generale.

Cominciarono i ricordi... La generalessa diede in pianto.

- Abbiamo un gran dolore!- disse. - Piotr Semionic' - lo sapete? - non è più. Io e lei siamo orfane e dobbiamo noi stesse pensare ai casi nostri. E Jegòr Semionic' è vivo, ma non possiamo dir di lui nulla di buono. In convento non l'hanno preso per via... per via delle bevande forti. E lui beve adesso ancor di più dal dispiacere. Io mi accingo ad andar dal capo della nobiltà (5), voglio lagnarmi.. Immaginatevi, più volte ha aperto i bauli e... portato via roba del corredo di Mànec'ka, e l'ha donata a pellegrini. Da due bauli ha sottratto ogni cosa! Se continuerà così, la mia Mànec'ka rimarrà senza corredo affatto.

- Che dite "maman"! - disse Mànec'ka e si confuse. - Il signore davvero può pensare Dio sa che cosa... Io mai, mai prenderò marito!

Mànec'ka con aria ispirata, piena di speranza, guardava il soffitto e, visibilmente, non credeva a quel che diceva.

Nell'anticamera guizzò una piccola figuretta maschile dall'ampia calvizie e in soprabito color cannella, con le soprascarpe invece degli stivali, e frusciò come un sorcio.

«Jegòr Semionic', dev'essere», pensai.

Guardavo la madre e la figlia insieme: entrambe erano terribilmente invecchiate e smagrite. La testa della madre aveva riflessi argentei, e la figlia s'era fatta smorta vizza, e pareva che la madre fosse più anziana della figlia d'un cinque anni, non più.

- Mi accingo ad andar dal capo della nobiltà, - mi disse la vecchia, dimenticando che già aveva parlato di ciò. - Voglio lagnarmi! Jegòr Semionic' ci porta via tutto quel che cuciamo, e ne fa dono chi sa dove per la salvezza dell'anima. La mia Mànec'ka è rimasta senza corredo!

Mànec'ka si fece di fiamma, ma non disse più nemmeno una parola.

- Tocca rifar tutto daccapo, e noi non siamo mica Dio sa che riccone!

Noi due siamo orfane!

- Siamo orfane! - ripeté Mànec'ka L'anno passato il destino mi riportò nella nota casetta. Entrato in salotto, io scorsi la vecchia Cikamassov vestita tutta di nero, con le manopole da lutto, era seduta sul divano e cuciva qualcosa. Accanto a lei sedeva un vecchietto in soprabito color cannella e con le soprascarpe in luogo di stivali. Vedutomi, il vecchietto balzò su e corse via dal salotto...

In risposta al mio saluto la vecchietta sorrise e disse:

- "Je suis charmée de vous revoir, monsieur" (6).

- Che cosa state cucendo? - domandai, dopo aver atteso un poco.

E' una camicina. La finirò e andrò a darla al reverendo che la nasconda, se no Jegòr Semionic' la porterà via. Adesso nascondo tutto dal reverendo, - disse in un bisbiglio.

E gettato uno sguardo al ritratto della figlia, che stava davanti a lei sulla tavola, sospirò e disse:

- Noi, vedete, siam orfani!

Ma dov'era la figlia? Dov'era dunque Mànec'ka? Io non facevo domande; non avevo voglia di far domande alla vecchietta vestita a gran lutto, e finché rimasi nella casetta, e poi quando me ne andai, Mànec'ka non m'uscì incontro, io non udii né la sua voce, né i suoi cheti, timidi passi... Tutto era facile a capire e sentivo tanta pena nell'anima!




NOTE:


1) Adagio russo.

2) Dov'è la cravatta che mio padre m'aveva mandato da Kursk?

(Questa frase come le due seguenti, è in un francese sgrammaticato e stentato).

3) Ah, Maria, forse che...

4) Abbiamo dunque in casa nostra un uomo che noi conosciamo ben poco.

5) La nobiltà aveva una sua organizzazione legalmente stabilita, con assemblee e capi provinciali e distrettuali (questi per lo più indicati, nelle traduzioni occidentali, come «marescialli della nobiltà».

6) Sono felice di rivedervi, signore.




LE NOZZE


Un paggio d'onore in cilindro e guanti bianchi, ansimando, si leva in anticamera il cappotto e, con un'espressione come se volesse comunicare qualcosa di tremendo, entra di corsa in sala.

- Lo sposo è già in chiesa!-annuncia, tirando il fiato con difficoltà.

Segue un silenzio. Tutti si sentono improvvisamente tristi.

Il padre della sposa, tenente colonnello a riposo dal viso scarno, smunto, sentendo, probabilmente, che la sua figuretta in giubba corta, militare, e in calzoni alla scudiera non è abbastanza solenne, gonfia gravemente le gote e si raddrizza. Egli prende sul tavolino l'immagine. Sua moglie, una piccola vecchietta in cuffia di tulle con larghi nastri, prende il vassoio col pane e il sale e si mette al suo fianco. Comincia la benedizione.

La sposa Liùboc'ka senza rumore, come un'ombra, si inginocchia davanti al padre, e il suo velo in quel mentre ondeggia e s'impiglia nei fiori sparsi sull'abito, e dall'acconciatura sfuggono alcune forcine.

Inchinatasi all'immagine e scambiato il bacio col padre, che ancor più forte gonfia le gote, Liùboc'ka s'inginocchia davanti alla madre; il suo velo torna a impigliarsi, e due signorine, agitate, corrono a lei, gliel'assestano, lo ravviano, l'appuntano con spilli...

Silenzio, tutti tacciono, nessuno si muove; soltanto i paggi, come focosi bilancini, scalpitano impazienti, quasi attendessero che venga loro permesso di scattar via.

- Chi porterà l'immagine? - si ode un bisbiglio affannato.- Spira, dove sei? Spira!

- Ciubito! - risponde dall'anticamera una voce infantile.

- Dio sia con voi, Daria Danìlovna! - qualcuno conforta a bassa voce la vecchia, che s'è stretta col viso alla figlia e singhiozza. - Ma forse che si può piangere, che Cristo sia con voi! Bisogna gioire, anima cara, e non piangere.

La benedizione ha fine. Liùboc'ka, pallida, tutta solenne, severa nell'aspetto, bacia le sue amiche e dopo di ciò tutti rumorosamente, spingendosi l'un l'altro, si slanciano in anticamera. I paggi, con fretta affannosa, gridando senz'alcun bisogno: Pardon, vestono la sposa.

- Liùboc'ka, lascia che ti guardi almeno ancora una volta! - geme la vecchia.

- Ah, Daria Danìlovna!- sospira qualcuno con rimprovero.Gioire bisogna, e voi Dio sa che cosa avete immaginato...

- Spira! Ma dove sei dunque? Spira! E' un castigo con questo ragazzaccio! Cammina avanti!

- Ciubito!

Uno dei paggi prende lo strascico della sposa, e il corteo comincia a scender giù. Alle ringhiere della scala e agli stipiti di tutte le porte sono appese le altrui cameriere e bambinaie; esse divorano con gli occhi la sposa si sente il loro brusio di approvazione. Nelle ultime file risuonano voci concitate: qualcuno ha dimenticato qualcosa, qualcuno ha il mazzo di fiori della sposina; le signore strillano, supplicando di non fare non so che cosa perché «è di cattivo augurio».

All'ingresso già da un pezzo aspettano una carrozza e un landò. Sulle criniere dei cavalli son fiori di carta e tutti i cocchieri hanno le braccia fasciate presso le spalle da fazzoletti di colore. Sulla carrozza è seduto a cassetta un meraviglioso eroe da fiaba, dall'ampia barba fluente, in caffettano nuovo. Le sue braccia tese in avanti coi pugni chiusi,la testa gettata all'indietro,le spalle straordinariamente larghe gli conferiscono un aspetto non umano, non vivente; è tutto come impietrito...

- Ferma! - dice con voce esile, e subito soggiunge con voce pastosa di basso: - Fai le mattie! - (per il che sembra che nel suo largo collo ci sian due gole). - Ferma! Fai le mattie!

La via da entrambe le parti è assiepata di pubblico.

Fa' avanza-are! - gridano i paggi, sebbene non ci sia nulla da far avanzare, dato che la carrozza già da un pezzo è venuta avanti. Spira con l'immagine, la sposa e due amiche salgono in carrozza. Lo sportello sbatte, e la via echeggia dello strepito della vettura.

- Il landò per i paggi! fa' avanza-are!

I paggi balzano in landò e, quand'esso si mette in moto, si levano su a mezzo e, contraendosi come nelle convulsioni, s'infilano i cappotti.

Si fanno avanzare le vetture seguenti.

- Sofia Denìssovna, sedete! - si odono voci. - Favorite anche voi, Nikolài Mironic'! Ferma! Non datevi pensiero, signorina, ci sarà posto per tutti! Scansatevi!

- Senti, Makàr! - grida il padre della sposa. - Al ritorno dalla chiesa, passate per un'altra strada! Se no è cattivo augurio.

Le vetture strepitano sul selciato, rumori, grida... Infine tutti sono partiti, è tornata la quiete. Il padre della sposa rientra in casa; in sala i domestici sparecchiano la tavola, nell'attigua stanzetta buia, che tutti in casa chiamano «di passaggio», si soffiano il naso i musicanti, dappertutto tramestio, andirivieni, ma a lui sembra che la casa sia vuota. I soldati musicanti si agitano nella loro piccola, scura stanzetta, in nessun modo riescono a trovar posto coi loro ingombranti leggii e strumenti. Sono giunti da poco, ma già l'aria della stanza «di passaggio» s'è fatta notevolmente più densa, non c'è possibilità alcuna di respirare. Il loro «capo» Ossipov, in cui dalla vecchiezza baffi e fedine son diventati un mucchio di stoppa, sta in piedi davanti a un leggio e guarda irritato la musica.

- Tu, Ossipov, non vai alla fine, - dice il tenente colonnello. - Da quanti anni ormai ti conosco? Una ventina d'anni!

- Di più, alta signoria (1) Alle vostre nozze sonammo, se vi piace ricordarvene.

- Sì, sì... - sospira il tenente colonnello e si fa pensoso - Così, fratello, è la storia... I figli, grazie a Dio, li ho sposati, adesso, ecco, marito la figliuola, e restiamo io e la vecchia soli...

Bambinelli non ne abbiamo più. Abbiamo fatto piazza pulita.

- Chi sa? Forse, Jefìm Petrovic', Dio ve ne manderà ancora, alta signoria...

Jefìm Petrovic' guarda con meraviglia Ossipov e ride nella mano.

- Ancora?- domanda. - Come hai detto? Dio mi manderà ancora bambini? A me?

Egli soffoca dalle risa e lacrime gli spuntano negli occhi; i musicanti per urbanità ridono anche loro. Jefìm Petrovic' cerca con gli occhi la vecchia per riferirle quel che ha detto Ossipov, ma lei stessa già piomba difilato su di lui, impetuosamente, irritata, con gli occhi rossi di pianto.

- Non hai timor di Dio, Jefìm Petrovic'! - ella dice, giungendo le mani. - Noi cerchiamo, cerchiamo il rum, non stiamo più in piedi, e tu stai qui! Dov'è il rum? Nikolài Mironic' non può fare senza rum, ma tu non ci pensi più che tanto! Va', vedi di sapere da Ighnàt dove ha messo il rum!

Jefìm Petrovic' va nel sotterraneo dove è situata la cucina. Per la scala sudicia van su e giù donne e domestici. Un giovane soldato, con la giubba gettata su una spalla, ha appoggiato il ginocchio a un gradino e gira la manovella della gelatiera; il sudore gli cola dalla faccia rossa. Nella scura e angusta cucina, fra nuvole di fumo, lavorano i cuochi, presi a nolo al circolo. Uno sventra un cappone, un altro con delle carote fa stelline, un terzo, rosso come porpora, ficca nella stufa una leccarda. I coltelli picchiano, le stoviglie tintinnano, il burro sfriggola; Capitato in quell'inferno, Jefìm Petrovic' dimentica di che gli ha parlato la vecchia.

- E voi qui, fratelli, non siete allo stretto? - domanda.

- Non fa nulla, Jefìm Petrovic'. Siamo allo stretto ma nessuno ci fa torto (2), state tranquillo...

- Fate del vostro meglio, ragazzi.

In un angolo buio sorge la figura di Ighnàt, il credenziere del circolo.

- State tranquillo, Jefìm Petrovic'! - dice. - Presenteremo tutto nel migliore aspetto. Con che cosa ordinate di fare il gelato: col rum, col "go-sotern" (3) o senza niente?

Tornato nelle stanze, Jefìm Petrovic' gironzola a lungo, poi si ferma sulla soglia della stanza «di passaggio« e torna ad avviare il discorso con Ossipov.

- Così è, fratello... - dice. - Rimarremo soli. Finché la nuova casa non sarà asciutta, i giovani vivranno con noi, e poi addio!

Abbiamo appena avuto il tempo di vederli...

Tutt'e due sospirano... I musicanti per urbanità sospirano pure, per il che l'aria si fa anche più densa.

- Sì, fratello, - continua fiaccamente Jefìm Petrovic', - c'era una sola figlia, e diamo anche quella. E' un uomo istruito, parla francese... Soltanto, ecco, sbevucchia, ma chi oggigiorno non beve?

Tutti bevono.

- Non fa nulla, che beva, - dice Ossipov. - La principale qualità, Jefìm Petrovic', è che sappia il fatto suo. E se, poniamo, berrà, perché poi non bere? Bere si può.

- Certo, si può.

Si odono singulti.

- Forse che lui può sentir gratitudine? - si lagna Daria Danilovna con una vecchia. - Vedete, noi a lui madre mia, abbiamo snocciolato diecimila rubli, copeca su copeca, la casa l'abbiam messa in testa a Liùboc'ka, un trecento "dessiatine" (4) di terra... è presto detto? Ma forse che lui può sentir gratitudine? Non son così fatti, oggigiorno, da esser riconoscenti.

La tavola con le frutta è già pronta. Le coppe stanno, fitte, su due vassoi, le bottiglie di sciampagna sono avvolte in tovagliuoli, nella sala da pranzo sibilano i samovàr. Un domestico senza baffi, con le fedine, annota su un foglietto i nomi delle persone alla cui salute annuncerà i brindisi durante la cena, e li legge, come li studiasse a memoria. Dalle stanze caccian fuori un cane altrui, un'attesa ansiosa... Ma ecco, echeggiano voci affannate:

- Vengono! Vengono! "Bàtiuska" Jefìm Petrovic', vengono!

La vecchia, stupefatta, con un'espressione di estremo smarrimento, afferra il vassoio col pane e sale, Jefìm Petrovic' gonfia le gote, e tutt'e due insieme si affrettano in anticamera. I musicanti, con ritegno, accordano frettolosi gli strumenti, dalla via giunge lo strepito delle vetture. Di nuovo è entrato dal cortile il cane, lo scacciano, esso guaisce... Ancora un minuto d'attesa, e nella stanza «di passaggio», scattando bruscamente, rabbiosamente, echeggia un'assordante, selvaggia, furiosa marcia. L'aria risuona di esclamazioni, di baci, schioccano i tappi, i domestici hanno facce severe...

Liùboc'ka e il suo consorte, un grave signore in occhiali d'oro, sono sbalorditi. La musica assordante, la luce viva, l'attenzione generale, la moltitudine di facce sconosciute li opprimono... Essi si guardano intorno ottusamente, senza veder nulla, senza capir nulla.

Si bevono sciampagna e tè, tutto si svolge con decoro e posatezza. I numerosi parenti, certi insoliti nonni e nonne che prima nessuno mai aveva visto, persone del clero, militari a riposo dalle nuche piatte, il padrino e la madrina di nozze dello sposo, i compari stanno in piedi attorno alla tavola e, sorseggiando cautamente il tè, discorrono della Bulgaria; le signorine, come mosche, si stringono alle pareti; perfino i paggi hanno perduto il loro aspetto inquieto e stanno pacifici presso l'uscio.

Ma passano un'ora o due, e tutta la casa già trema per la musica e le danze. I paggi hanno di nuovo un'aria come se avessero strappato la catena. Nella sala da pranzo, dove è stata imbandita in forma di p la tavola degli antipasti, si affollano i vecchi e la gioventù che non balla; Jefìm Petrovic', che ha già vuotato un cinque bicchierini, strizza l'occhio, fa schiocchi con le dita e soffoca dal ridere. Gli è venuto in mente che sarebbe bello dar moglie ai paggi, e la cosa gli piace, gli sembra spiritosa, divertente, e lui è felice, tanto felice che non può esprimerlo a parole, e sghignazza soltanto... Sua moglie, che non ha mangiato nulla dal mattino ed è ebbra per lo sciampagna bevuto, sorride beatamente e dice a tutti - Non si può, non si può, signori, andar nella stanza da letto! Non è delicato andar nella stanza da letto! Non guardate lì dentro!

Ciò significa: favorite guardar la stanza da letto! Tutta la sua vanità materna e tutte le sue capacità si sono profuse in quella camera! E c'è di che vantarsi! In mezzo alla camera stanno due letti con alte materasse; federe di pizzo, coperte di seta, trapunte, con complicati, incomprensibili monogrammi. Sul letto di Liùboc'ka sta una cuffia dai nastri rosei, e sul letto di suo marito una veste da camera di color topo con nappine celesti. Ciascuno degli ospiti, dato uno sguardo ai letti, stima dover suo strizzar l'occhio significativamente e dire: «M-già-a!», e la vecchia è raggiante e bisbiglia:

- La camera un trecento rubli è costata, "bàtiuska". E' uno scherzo?

Su via, andatevene, per gli uomini non sta bene venir qui.

Dopo le due servono la cena. Il domestico dalle fedine annuncia i brindisi e la musica suona una fanfara. Jefìm Petrovic' si ubriaca definitivamente e non riconosce più nessuno; gli pare di non essere a casa sua, ma in visita, e di essere stato offeso; nell'anticamera indossa cappotto e berretto e, cercando le sue soprascarpe, grida con voce rauca:

- Non desidero restar qui oltre! Siete tutti mascalzoni! Farabutti! Io vi smaschererò!

E accanto a lui sta la moglie e gli dice:

- Calmati, anima empia che sei! Calmati, testardo, erode, castigo mio!




NOTE:


1) Titolo che competeva al colonnello e al tenente colonnello.

2) Modo di dire russo.

3) "Haut-Sauternes": uno dei famosi vini bianchi di Sauternes, paese della Gironda, in Francia.

4) La "dessiatina" corrisponde a ettari 1,092.




IGNORANZA


Un giovanotto di campagna, biondiccio e grosso di zigomi, in un pellicciotto strappato e grandi scarpe nere di feltro, attese che il dottore provinciale, terminate le visite, se ne tornasse dall'ospedale al suo alloggio e gli si avvicinò timidamente.

- Vengo da vostra grazia, - disse.

- Che vuoi?

Il giovanotto si passò la palma sul naso di sotto in su, guardò il cielo e infine rispose:

- Da vostra grazia... Qui da te, signoria, c'è nella camerata dei detenuti mio fratello Vaska, il fabbro di Varvàrino...

- Sì, e che?

- Io, dunque, sono il fratello di Vaska... Nostro padre ha noi due:

lui, Vaska, e me, Kirila. Oltre a noi, ci son tre sorelle, e Vaska ha moglie e un bambinello... Molta gente, e nessuno che lavori... Nella fucina, son già quasi due anni che non s'è acceso il fuoco. Quanto a me, sono alla fabbrica di percalle, fucinare non so, e il padre che lavoratore gli è? Non soltanto lavorare, diciamo, ma anche mangiar a dovere non può, il cucchiaio non sa metterlo in bocca.

- Che t'occorre dunque da me?

- Fa' la grazia, manda fuori Vaska!

Il dottore guardò meravigliato Kirila e, senza dir nemmeno una parola, andò oltre. Il giovanotto gli corse avanti e gli si buttò ai piedi.

-Dottore, signor mio bello!-supplicò, battendo gli occhi e tornando a passarsi la palma sul naso. - Usaci la divina grazia, manda tu Vaska a casa! Fa' che si preghi in eterno Dio per te!

Signoria, mandalo! Crepan tutti di fame! La madre frigna tutt'il santo giorno. La donna di Vaska frigna... è proprio una morte! Non vorrei più veder la luce! Fa' la grazia, mandalo fuori, signor mio bello!

- Ma sei sciocco, o sei impazzito? - domandò il dottore, guardandolo con ira. - Come posso io mandarlo fuori? Ma s'è un detenuto!

Kirila si mise a piangere.

- Mandalo!

- Poh, che strambo! Che diritto ne ho io? Sono il carceriere, o che?

Me l'han portato all'ospedale in cura, io lo curo, ma di mandarlo via ho lo stesso diritto come di cacciar te in prigione. Testa di rapa!

- Ma lui l'han messo dentro per niente! Infino al processo, quasi un anno è stato in carcere, ma adesso si domanda, per che cosa ci sta?

Manco male se avesse ammazzato, diciamo, o rubato dei cavalli, ma c'è capitato così, per un bel nulla.

- Giusto, ma io che c'entro?

- Han messo dentro un uomo e loro stessi non san per che cosa. Aveva bevuto, signoria, non aveva coscienza di nulla e perfino il padre aveva ferito all'orecchio, e s'era picchiato una guancia contro un ramo, essendo ubriaco, e due dei nostri ragazzi - gli era venuto voglia, vedi, di tabacco turco - presero a dirgli che entrasse con loro di notte nella bottega dell'armeno, a pigliar tabacco. Lui, essendo ubriaco, diede retta, lo stupido. Ruppero, sai, la serratura, entraron dentro, e avanti a fare il diavolo a quattro. Misero tutto a soqquadro, ruppero i vetri, sparpagliarono la farina. Ubriachi, in una parola! Be', subito il brigadiere... questo e quello poi dal giudice istruttore. Un anno intero stettero in prigione, e una settimana fa, mercoledì, fecero il processo a tutti e tre, in città. Un soldato andava dietro col fucile... venne gente a giurare. Vaska è meno colpevole di tutti, e quei signori giudicarono ch'era stato il caporione. I due ragazzi li han mandati in carcere, e Vaska in una compagnia di detenuti (1) per tre anni. Ma per che cosa? Giudica in coscienza!

- Ancora una volta io non c'entro. Va' dall'autorità.

- Son già stato dall'autorità! Sono andato in tribunale, volevo presentare un'istanza, loro anche l'istanza non la presero. Sono stato anche dal commissario, anche dal giudice istruttore sono stato, e ognuno dice: non è affar mio! Ma di chi è affare? E qui all'ospedale non c'è nessuno superiore a te. Quel che tu vuoi, signoria, lo fai.

- Sei uno stupido tu! - sospirò il dottore. - Una volta che i giurati l'han trovato colpevole, non ci può più far nulla né il governatore, né il ministro perfino, altro che il commissario! Brighi inutilmente!

- E chi l'ha giudicato?

- I signori assessori giurati...

- Ma che signori eran quelli? I nostri stessi contadini. Andréi Guriev c'era, Alioska Chuk c'era.

- Be', io prendo freddo a discorrer con te.

Il dottore scosse la mano e andò rapido verso la propria porta. Kirila voleva già andargli dietro, ma, avendo visto la porta chiudersi con forza, si fermò. Una decina di minuti egli rimase immobile in mezzo al cortile dell'ospedale, guardando, senza mettersi il berretto, l'alloggio del dottore, poi fece un profondo sospiro, si grattò lentamente e si avviò verso il portone.

«Da chi andare dunque?», mormorava, uscendo sulla strada. «Uno dice:

non è affar mio, l'altro dice: non è affar mio. Di chi dunque è affare? No, certamente, finché non ungi le ruote, non fai nulla. Il dottore parla così, e intanto non faceva che guardarmi il pugno: non gli avrei dato un biglietto turchino (2)? Be', fratello, io fino al governatore arriverò».

Appoggiandosi ora su un piede, ora sull'altro, voltandosi di continuo a guardare senz'alcuna necessità, egli si trascinava pigramente per la strada e, visibilmente, era incerto su dove andare... Non faceva freddo e la neve cricchiava debolmente sotto i suoi piedi. Davanti a lui, non più in là d'una mezza versta, si stendeva su una collina la cittaduzza distrettuale in cui di recente avevano giudicato suo fratello. A destra nereggiava il carcere col tetto rosso e con le garitte alle cantonate, a sinistra c'era il gran bosco municipale, ora coperto di brina. V'era silenzio, solo un certo vecchio in giubbetto da donna e con un enorme berretto a visiera camminava più avanti, tossendo e ogni tanto gridando a una vacca che conduceva in città.

- Nonno, salute! - proferì Kirila, giunto a pari col vecchio.

- Salute...

- La porti a vendere?

- No, così... - rispose pigramente il vecchio.

- Sei un cittadino, o che?

Si misero a discorrere. Kirila raccontò perché era stato all'ospedale e di che cosa aveva parlato col dottore.

- Certo, il dottore queste faccende non le conosce, - gli diceva il vecchio, quando entrambi erano entrati in città. - Lui, pur essendo un signore, è stato istruito nel curare con ogni sorta di mezzi, ma quanto a darti un vero consiglio o, diciamo, a scrivere un verbale questo lui non lo può. Per questo c'è un'autorità speciale. Dal conciliatore e dal commissario sei stato. Questi pure nella tua faccenda non son competenti.

- Dove andare dunque?

- Per le vostre faccende di campagnuoli c'è un capo, e a quello è addetto il membro permanente. Va' dunque da lui. Signor Sineokov.

- Quello che sta a Zòlotovo?

- Ma sì, a Zòlotovo. Lui è il vostro capo. Se si tratta di qualcosa che riguarda le vostre faccende, di fronte a lui perfino l'"ispravnik" (3) non ha pieni poteri.

- C'è da andar lontano, fratello. Un quindici verste, penso, o anche più.

- Chi ha bisogno, anche cento verste farà.

- E' così... Presentargli un'istanza, o che?

- Là lo saprai. Se occorre un'istanza, lo scrivano te la farà alla svelta. Il membro permanente ha uno scrivano.

Separatosi dal "nonno", Kirila sostò in mezzo alla piazza, pensò un poco e tornò indietro dalla città. Aveva stabilito di andare a Zòlotovo.

Di lì a un cinque giorni, rientrando, dopo le visite dei malati, nel suo alloggio, il dottore vide nuovamente nel proprio cortile Kirila.

Questa volta il giovanotto non era solo, ma con un certo vecchio scarno, pallidissimo, che senza posa ciondolava il capo, come fosse stato un pendolo, e biascicava con le labbra.

- Signoria, ricorro di nuovo alla tua grazia! - cominciò Kirila. - Ecco, son venuto col padre, fa' la carità, manda fuori Vaska! Il membro permanente non è stato a discorrere. Dice: «Vattene via!».

- Alta signoria! - prese a sibilare in gola il vecchio, alzando i sopraccigli tremanti, - siate misericordioso! Noi siam gente povera, non possiamo ricompensare il vostro onore, ma se fa piacere a vostra grazia, Kiriuska o Vaska possono pagar col lavoro. E lavorino!

- Pagheremo col lavoro! - disse Kirila e alzò la mano come volesse pronunciare un giuramento.- mandalo fuori! Di fame crepano! A tutt'andare frignano, signoria!

Il giovanotto diede un rapido sguardo al padre, lo tirò per la manica e tutt'e due, come a un comando, si buttarono ai piedi del dottore.

Questi scosse la mano e, senza guardarsi indietro, andò in fretta verso la propria porta.




NOTE:


1) Una delle pene sancite dalla legge del tempo era l'invio alle compagnie di detenuti, organizzate militarmente e impiegate in lavori.

2) Cioè da cento rubli: i biglietti di banca russi si distinguevano e s'indicavano, nell'uso comune, secondo il colore (rossi, azzurri, grigi, iridati eccetera), in relazione col loro valore.

3) Capo di polizia distrettuale.




IL PENSATORE


Un afoso meriggio. Nell'aria né suoni, né movimenti... Tutta la natura è simile a un'immensa casa di campagna dimenticata da Dio e dagli uomini. Sotto il fogliame affloscito d'un vecchio tiglio che sorge accanto all'alloggio del direttore carcerario Jaskin, stanno seduti a un tavolino con tre gambe lo stesso Jaskin e il suo ospite, l'ispettore di ruolo della scuola distrettuale Pimfov. Entrambi son senza giacca; i loro panciotti sono sbottonati; i visi sudati, rossi, immobili; la loro capacità di esprimere alcunché è paralizzata dalla calura... La faccia di Pimfov s'è fatta del tutto agra e impregnata di pigrizia, i suoi occhi si sono appannati, il labbro di sotto gli pende. Negli occhi invece e sulla fronte di Jaskin si può ancora notare una certa quale attività; visibilmente, egli pensa a qualcosa... Entrambi si guardano a vicenda, stanno zitti ed esprimono i loro tormenti sbuffando e piombando con le palme addosso alle mosche. Sulla tavola una caraffa di vodka, del lesso tiglioso di manzo e una scatola vuota di sardine con sale bigio. Son già stati bevuti il primo, il secondo, il terzo bicchierino...

- Sissignore! -caccia fuori d'un tratto Jaskin, e così inaspettatamente che il cane, sonnecchiante non lontano dalla tavola, sussulta e, messa la coda tra le gambe, corre in disparte. - Sissignore! Qualunque cosa diciate, Filipp Maksimic', nella lingua russa moltissimi sono i segni d'interpunzione superflui!

- Cioè, perché mai? - interroga modestamente Pimfov, levando via dal bicchierino un'aluccia di mosca.- Anche se ci son molti segni, ciascuno di essi ha il suo significato e il suo posto.

- Questo poi lasciatelo stare. Nessun significato hanno i vostri segni. Pura sofisticheria... Uno colloca una decina di virgole in una riga e pensa di essere intelligente. Per esempio, il sostituto procuratore Merinov dopo ogni parola mette la virgola. Perché questo?

Egregio signore - virgola, avendo visitato le prigioni il tal giorno - virgola, ho notato - virgola (1), che i detenuti - virgola...

poh! Ti vengon le traveggole! E anche nei libri è la stessa cosa...

Punto e virgola, due punti, virgolette diverse. E' persin fastidioso leggere. E il tal bellimbusto, a cui un sol punto non basta, ci si mette e ne pianta tutt'una fila... Perché questo?

- La scienza ciò esige... - sospira Pimfov.

- La scienza... Ottenebrazione delle menti, e non scienza... Per darsi importanza hanno immaginato... di buttar polvere negli occhi... Per esempio, in nessuna lingua straniera c'è questa "iat'", e in Russia c'è (2)... A che serve? si domanda. Che tu scriva "chlieb" (3) con la "iat'" o senza la "iat'", o che non è la stessa cosa?

- Dio sa quel che dite, Ilià Martinic'! - si offende Pimfov. - Come si potrebbe scrivere "chlieb" con la e? Si dicon tali cose che ascoltare è perfino spiacevole.

Pimfov vuota il bicchierino e, battendo gli occhi con aria offesa, volta la faccia da una parte.

- E quanto mi frustarono per questa "iat'"! - continua Jaskin. - Me ne ricordo, mi chiama una volta l'insegnante alla lavagna e detta: «Il medico parti per la città». Io subito a scrivere «il medico» con la "e". Mi fustiga. Di lì a una settimana, di nuovo alla lavagna, di nuovo scrivi: «Il medico partì per la città». Lo scrivo questa volta con la "iat'". Daccapo a frustarmi. «Ma per che cosa, Ivàn Fomic'?

Scusate tanto, voi stesso m'avete detto che qui ci vuole la "iat'"!».

«Allora», dice, «ero fuori di strada, e avendo letto ieri l'opera di un certo accademico sulla "iat'" nella parola "medico", son d'accordo con l'accademia delle scienze. E ti frusto per debito di giuramento»... Be', mi frusta. E anche il mio Vassiutka ha sempre l'orecchio gonfio per questa "iat'"... Se io fossi ministro, vieterei ai vostri simili di turlupinar la gente con la "iat'".

- Addio,-sospira Pimfov, battendo gli occhi e indossando la giacca. - Non posso sentire io, se delle scienze...

- Via, via, via... già s'è offeso! - dice Jaskin, afferrando Pimfov per la manica. - Io, vedete, l'ho detto così, solo per discorrere...

Via, mettiamoci a sedere, beviamo!

L'oltraggiato Pimfov siede, beve e volta la faccia da una parte. Segue un silenzio. Accanto ai due che bevono passa la cuoca Feona con una bacinella di rigovernatura. Si sente lo sguazzare dell'acqua sporca e il guaito del cane annaffiato. Il viso senza vita di Pimfov si fa anche più agro; è sul punto di fondere dal caldo e di colar giù sul panciotto. Sulla fronte di Jaskin si raccolgono delle rughettine. Egli guarda con aria riconcentrata il manzo tiglioso e pensa... S'avvicina alla tavola un invalido, sbircia arcigno la caraffa e, veduto ch'è vuota, porta una nuova razione... Bevono ancora.

- Sissignore! - dice a un tratto Jaskin.

Pimfov sussulta e guarda spaventato Jaskin. Si aspetta da lui nuove eresie.

- Sissignore! - ripete Jaskin, guardando pensoso la caraffa. - A parer mio, anche di scienze ce n'è molte superflue!

- Cioè, come sarebbe a dire? - domanda piano Pimfov. - Quali scienze giudicate superflue?

- D'ogni sorta... Quante più scienze l'uomo conosce, tanto più presume di sé. Maggiore è l'orgoglio... Io le impiccherei tutte queste...

scienze... Via, via... già s'è offeso! Ma che permaloso, perdinci, non si può dire una parola! Sediamo, beviamo!

S'avvicina Feona e, puntando irritata i suoi gomiti paffuti dai lati, mette davanti agli amici una minestra di cavoli verdi in un vaso di terracotta. Comincia un rumoroso mangiar col cucchiaio e masticare.

Come di sotterra, spuntano tre cani e un gatto. Essi stanno davanti alla tavola e gettano occhiate tenere alle bocche masticanti. Alla minestra di cavoli segue una "kascia" (4) al latte che Feona posa con tanta rabbia che dalla tavola si spargono cucchiai e turaccioli. Prima della "kascia" gli amici bevono in silenzio.

- Tutto a questo mondo è superfluo! - osserva a un tratto Jaskin.

Pimfov lascia cader sui ginocchi il cucchiaio, guarda spaventato Jaskin, vuol protestare, ma la lingua gli s'è indebolita per l'ebrietà e s'è imbrogliata nella "kascia" densa... In luogo del consueto «cioè, come sarebbe a dire?», non si ha che un mugolio.

- Tutto è superfluo... - continua Jaskin. - E le scienze, e gli uomini... e gli istituti carcerari, e le mosche... e la "kascia"...

Anche voi siete superfluo... Benché siate un brav'uomo, e crediate in Dio, pure anche voi siete superfluo...

- Addio, Ilià Martinic'! - balbetta Pimfov, sforzandosi d'indossar la giacca e in nessun modo riuscendo a infilar le maniche.

- Adesso, ecco, noi ci siamo rimpinzati, inghebbiati, e a che scopo questo? Così... Tutto ciò è superfluo... Mangiamo, e noi stessi non sappiamo per che cosa... Via via... già s'è offeso! Io, vedete, solo così... per discorrere! E dove avete da andare? Sediamo un po', chiacchieriamo... beviamo!

Segue un silenzio, interrotto solo ogni tanto dal tintinnio dei bicchierini e da un ebbro raschiare in gola... Il sole comincia ormai a volgere al tramonto, e l'ombra del tiglio cresce sempre più. Viene Feona e, sbuffando agitando bruscamente le braccia, stende accanto alla tavola un tappetino. I due amici in silenzio bevono un'ultima volta, si accomodano sul tappeto e, voltandosi il dorso a vicenda, cominciano ad assopirsi...

«Sia lode a Dio», pensa Pimfov, «che oggi non s'è spinto fino alla creazione del mondo e della gerarchia se no c'era da sentirsi rizzare i capelli e si sarebbero scandalizzati anche i santi... ».




NOTE:


1) In russo è obbligatoria la virgola davanti alla congiunzione "che".

2) Si tratta di una vocale il cui suono, "ie", è identico a quello di un'altra (la "e"): molto discussa fra i grammatici russi venne infine soppressa con la riforma ortografica sovietica dei 1918.

3) Pane.

4) Intriso, simile al risotto, che si fa in Russia con varie qualità di granaglie, specialmente con gran saraceno.




LA FIGLIA DI ALBIONE


Alla casa del possidente Griabov si accosta una magnifica carrozza aperta con cerchioni di gomma, grasso cocchiere e sedile di velluto.

Dalla carrozza balzò fuori il capo distrettuale della nobiltà Fiodor Andreic' Otsòv. In anticamera lo ricevette un domestico assonnato.

- I signori sono in casa? - domanda il capo della nobiltà.

- Nossignore. La padrona e i bambini sono andati in visita, e il padrone e "mamsèl" (1) la governante sono a pescare. Fin da stamane.

Otsòv sosta un poco, rifletté e andò a piedi verso il fiume a cercar Griabov. Lo trova a un paio di verste da casa, vicino al fiume. Avendo guardato giù dall'erta ripa e veduto Griabov, Otsòv scoppia a ridere... Griabov, un uomo grande, grasso, dalla testa grossissima, era seduto sulla sabbia, con le gambe ripiegate sotto di sé alla turca, e pescava alla lenza. Il cappello gli stava sulla nuca, la cravatta gli era scesa da un lato. Accanto a lui stava in piedi un'alta, sottile inglese dagli occhi convessi di gambero e dal gran naso di uccello, simile piuttosto a un uncino che a un naso. Era vestita con un abito bianco di mussolina, attraverso il quale fortemente trasparivano le spalle magre, gialle. Da una cintura dorata le pendeva un orologio d'oro. Ella pure pescava alla lenza. Intorno ai due regnava un silenzio di tomba. Entrambi erano immobili, come il fiume su cui nuotavano i loro galleggianti.

- Una voglia da morire, ma un destino crudele! - si mise a ridere Otsòv. - Buon giorno, Ivàn Kuzmic!

- Ah... sei tu?-domanda Griabov, senza staccar gli occhi dall'acqua. - Sei arrivato?

- Come vedi... E tu ti occupi ancor sempre della tua sciocchezzuola!

Non te ne sei ancora disavvezzato?

- Che diavolo... E' tutto il giorno che pesco, dal mattino... Non so perché, oggi si pesca male. Non abbiamo preso nulla né io, né questa fantasima. Stiamo qui, stiamo qui, e almeno si pigliasse un accidente!

C'è addirittura da gridare al soccorso.

- E tu sputaci su. Andiamo a ber la vodka!

- Aspetta... Forse qualcosa acchiapperemo. Verso sera il pesce abbocca meglio.. Son qui, fratello, fin da stamane! Una noia così grossa che nemmeno te lo posso esprimere. M'ha proprio trascinato il diavolo a prender quest'abitudine della pesca! So ch'è un'insulsaggine, e sto qui! Sto qui come un lazzarone qualunque, come un forzato, e guardo l'acqua, come un qualunque imbecille! Alla falciatura bisogna andare, e io pesco. Ieri a Chapanievo officiava Sua Eminenza, e io non ci andai, rimasi qui con questa specie di storione... con questa diavolessa...

- Ma... sei impazzito? -domanda Otsòv, sbirciando impacciato l'inglese. - Sparli davanti a una signora... e di lei stessa...

- Ma che il diavolo la porti! Tant'è, di russo non capisce un'acca.

Parlane bene, parlane male, per lei è tutt'uno! Guarda il suo naso!

Soltanto il naso ti farà svenire! Stiamo insieme giornate intere, e almeno dicesse una parola! Sta lì come uno spauracchio e sgrana le sue lanterne sull'acqua.

L'inglese sbadiglia, cambia il vermicciolo e getta l'amo.

- Mi meraviglio, fratello, non poco! - continua Griabov. - Vive questa scema in Russia da dieci anni, e almeno sapesse una parola di russo!... Un nostro qualunque aristocraticuccio va nel loro paese e ben presto impara a bestemmiarne la lingua, loro invece... il diavolo li conosce! Tu guardale il naso! Il naso guardale!

- Su via, smettila.., Non sta bene... Perché dai addosso a una donna?

- Lei non è donna, ma ragazza... Sogna, scommetto, i fidanzati, questa pupattola del diavolo. E manda non so che odor di putredine... L'ho presa in odio, fratello! Non posso vederla con indifferenza! Quando mi guarda coi suoi occhiacci, mi sento tutto rimescolato, come se avessi dato del gomito contro una ringhiera. Le piace anche pescare.

Guardala: pesca, e celebra un rito! Guarda ogni cosa con disprezzo...

Sta lì, la canaglia, e ha coscienza di esser uomo e, per conseguenza, «re della natura». E sai come si chiama? Uilka Ciàrlsovna Tfais!

Poh!... non si può nemmeno pronunciare!

L'inglese, avendo udito il suo nome, gira lentamente il naso dalla parte di Griabov e lo misura con uno sguardo sprezzante. Da Griabov leva gli occhi su Otsòv e lo inonda di disprezzo. E tutto ciò in silenzio, con gravità e lentamente.

- Hai visto? - domanda Griabov, ridendo forte. - To', dice, è per voi! Ah, tu, fantasima! Solo per i bambini tengo questo tritone. Se non ci fossero i bambini, anche a dieci verste dalla mia proprietà non la lascerei avvicinare... Il suo naso è come quello dell'avvoltoio...

E la vita? Questa pupattola mi rammenta un lungo chiodo. E così, sai, la prenderei e la pianterei in terra. Aspetta... Da me, pare, abbocca...

Griabov balza in piedi e solleva la canna. La lenza si tese... Griabov tira ancora una volta e non poté trar fuori l'amo.

- S'è impigliato! - disse e fece una smorfia. - A una pietra, probabilmente... Che il diavolo lo porti...

Sul viso di Griabov si dipinse la sofferenza. Sospirando, movendosi inquieto e borbottando maledizioni, egli comincia a tirar la lenza. Il tirare non valse a nulla. Griabov impallidì.

- Che seccatura! Bisogna scendere in acqua.

- E tu smetti!

- Non si può... Verso sera si pesca bene... Guarda un po' che scocciatura, che il Signore mi perdoni! Toccherà scendere in acqua.

Toccherà! E se tu sapessi quanta poca voglia ho di spogliarmi! Bisogna cacciar via l'inglese... In sua presenza è scomodo spogliarsi. E' pur sempre, vedi, una dama!

Griabov si tolse cappello e cravatta.

- "Miss"... eh-eh-eh... - si rivolse all'inglese. - Miss Tfais!

"Ze vu pri" (2)... Be', come dirle? Be', come dirti, perché tu capisca? Ascoltate... là! Andate là - Senti?

"Miss" Tfais inondò Griabov di disprezzo ed emise un suono nasale.

- Che cosa? Non capite? Vattene di qui, ti si dice! Devo spogliarmi, pupattola del diavolo! Vattene là! Là!

Griabov tira la miss per una manica, le indica i cespugli e si accoccolò: va' dietro i cespugli, le diceva con ciò, e nasconditi là.

L'inglese, movendo con energia i sopraccigli, pronuncia rapidamente una lunga frase in inglese. I due possidenti scoppiarono a ridere.

- E' la prima volta in vita mia che sento la sua voce... Non c'e che dire, una vocina! Non capisce! Su via, che ho da fare con lei?

- Sputaci su! Andiamo a ber la vodka!

- Non si può, adesso si deve pescare.., La sera... Be', che vuoi che faccia! Che scocciatura! Toccherà spogliarsi in sua presenza...

Griabov si tolse giacca e panciotto e sedette sulla sabbia per cavarsi gli stivali.

- Ascolta, Ivàn Kuzmic', - disse il capo della nobiltà, ridendo forte nella mano. - Questo poi, amico mio, è scherno, derisione.

- Nessuno la prega di non capire! Sarà di lezione per loro, stranieri!

Griabov si leva gli stivali, i calzoni, si tolse la biancheria e si ritrova vestito come Adamo. Otsòv si prese il ventre. Egli era arrossito dalle risa e dalla confusione. L'inglese moveva i sopraccigli e batteva gli occhi... Sulla sua faccia gialla correva un altezzoso, sprezzante sorriso.

- Bisogna freddarsi un poco, -disse Griabov, battendosi sulle anche. - Dimmi di grazia, Fiodor Andreic', perché a me ogni estate viene uno sfogo sul petto?

- Ma scendi al più presto in acqua o copriti con qualche cosa!

Animale!

- E almeno si fosse confusa, la vigliacca! - disse Griabov, entrando in acqua e segnandosi. - Brr... che acqua fredda... Guarda come muove i sopraccigli! Non se ne va... Sta al disopra della folla! He- he-he!... Nemmeno in conto di uomini ci tiene!

Entrato fino ai ginocchi nell'acqua e drizzatosi in tutta la sua enorme statura, egli strizza l'occhio e disse:

- Questa, fratello, per lei non è l'Inghilterra!

"Miss" Tfais cambia freddamente il vermicciolo, sbadigliò e gettò l'amo. Otsòv si volse in là. Griabov sganciò l'uncino, si tuffò e, soffiando, uscì dall'acqua. Di lì a due minuti era già seduto sulla sabbia e tornava a pescare.




NOTE:


1) Per mademoiselle.

2) "Je vous prie" (vi prego).




IN TERRA STRANIERA


Mezzogiorno di domenica. Il possidente Kamiscev se ne sta seduto in sala da pranzo davanti a una tavola apparecchiata con lusso e lentamente fa colazione. Divide la mensa con lui un vecchio francesino lindo e ben raso, monsieur Champougne. Questo Champougne fu un tempo precettore in casa di Kamiscev, insegnò ai suoi figli le belle maniere, la buona pronuncia e le danze, e poi, quando i figli di Kamiscev furon cresciuti e diventati tenenti, Champougne rimase come una specie di "bonne" (1) di sesso maschile. I doveri dell'ex precettore non son complicati. Egli deve vestir con decoro, odorar di profumi, ascoltare l'ozioso chiacchierio di Kamiscev, mangiare, bere, dormire, e nulla più, mi pare. Per questo egli riceve la mensa, la camera e uno stipendio indeterminato.

Kamiscev mangia e, al solito, ciancia.

- E' cosa da morire! - dice, asciugando le lacrime spuntategli dopo che ha mangiato un pezzo di prosciutto densamente spalmato di mostarda. - Uff! M'ha dato alla testa e in tutte le giunture. Ma la vostra mostarda francese non produrrà quest'effetto, anche se mangerai tutt'il barattolo.

- A chi piace quella francese, a chi la russa...-dichiara mansuetamente Champougne.

- A nessuno piace quella francese, fuorché ai soli francesi. Ma qualunque cosa si dia al francese mangerà tutto: e la rana, e il topo, e gli scarafaggi.. brr! A voi, per esempio, questo prosciutto non piace, perché è russo, ma se vi si desse del vetro arrosto e si dicesse ch'è francese, lo mangereste e schiocchereste anche le labbra... Secondo voi, tutto ciò ch'è russo è cattivo.