La prima volta che Nakajima restò a dormire da me, vidi in sogno mia madre morta.
Accadde perché era la prima volta dopo tanto tempo che dividevo la stanza con qualcun altro?
L’ultima volta era stata quando dormii con la mamma e il papà nella stanza d’ospedale dove lei era ricoverata.
Mi svegliavo, controllavo che respirasse ancora, mi tranquillizzavo e tornavo a dormire. Il pavimento dell’ospedale era più polveroso di quanto uno si sarebbe aspettato, e io restavo a fissare sempre lo stesso mucchietto di polvere. Non riuscivo a dormire profondamente e ogni volta che mi svegliavo sentivo i passi delle infermiere nel corridoio. La presenza di tutte quelle persone così vicine alla morte mi trasmise la strana sensazione di essere più protetta lì, dentro all’ospedale, che fuori.
Il punto più scuro e profondo nasconde una dolcezza che non esiste in nessun altro luogo.
Era la prima volta, da quando la mamma non c’era più, che la sognavo.
Mi era già apparsa in sogno, ma in modo del tutto frammentario e confuso: non mi era mai capitato di vederla così a lungo. Fu come se finalmente l’avessi incontrata per davvero.
Può sembrare strano, trattandosi di una persona morta, ma era questa la mia impressione.
Potrei dire senza esagerare che in mia madre convivevano due personalità diverse che trasformavano di volta in volta il suo carattere.
Era estremamente socievole, aveva dei bei modi e si dimostrava sempre in gamba, ma era anche delicata, fragile come un fiore che anche la brezza più sottile può spezzare.
Questo aspetto era il meno evidente, e mia madre, una donna di buona compagnia, aveva fatto in modo di sviluppare soprattutto l’aspetto più sicuro e indipendente della sua personalità. L’aveva nutrito con mille storie d’amore, e la stima di cui godeva presso la gente aveva fatto il resto.
La mamma mi mise al mondo senza che lei e mio padre fossero sposati.
Lui era il presidente di una piccola azienda di import-export in una cittadina appena fuori Tōkyō, lei la bella mama-san di un club esclusivo nella zona più animata di quella cittadina in periferia.
Una sera un socio d’affari di mio padre lo trascinò nel club, e lui s’innamorò di mia madre al primo sguardo. Anche a lei lui piaceva molto. Alla chiusura andarono insieme in un ristorante coreano, risero a crepapelle, ordinarono un sacco di cibo e fecero amicizia. E il giorno dopo, e quello dopo ancora, anche quando nevicava, mio padre continuò ad andare nel locale finché, nel giro di due mesi, diventarono una coppia. E due mesi mi sembrano anche tanti, considerando com’era stato il loro primo incontro.
Quando domandavo perché quella volta avessero riso a crepapelle, sia la mamma che il papà rispondevano sempre allo stesso modo: “Eravamo finiti in un ristorante che non aveva nemmeno un cliente giapponese, l’avevamo trovato per caso, girovagando nel cuore della notte. Non capivamo una parola di quello che c’era scritto sul menu, quindi ordinammo alla cieca e cominciarono a portarci piatti mai visti, alcuni terribilmente piccanti, e in porzioni esagerate: fu troppo buffo”.
Dicevano sempre la stessa cosa, come se si fossero messi d’accordo, ma io sapevo che non era vero.
Secondo me erano su di giri per la felicità di trovarsi l’uno di fronte all’altra. Essere esposti al giudizio della gente deve avergli procurato tante preoccupazioni, ma ai miei occhi erano sempre stati una coppia tenerissima. Litigavano in continuazione, ma erano liti da bambini.
La mamma voleva un figlio e io sono nata poco tempo dopo, ma non si sposarono mai. Era un’altra delle loro stranezze, anche perché mio padre non aveva una famiglia, e tuttora non ce l’ha.
I suoi genitori, però, erano assolutamente contrari alla loro relazione, e lui non voleva coinvolgere la mamma più di quanto già non fosse, per cui mi riconobbe come sua figlia senza darmi il suo cognome.
Storie del genere si sentono di frequente, ma il papà era spesso a casa, quindi non mi sentivo affatto abbandonata.
Devo anche ammettere, però, che in fondo in fondo quell’ambiente mi aveva stancato.
Ero stanca di quella cittadina e anche della situazione. Potendo scegliere, avrei voluto dimenticare tutto. L’aspetto positivo della morte di mia madre è che non dovrò mai più tornarci. Niente, eccetto mio padre, mi lega a quel posto. Per evitare che la casa dove vivevamo noi tre si trasformasse nell’ennesimo motivo di discussione con i suoi genitori, la vendette immediatamente e depositò il ricavato su un conto bancario intestato a me. Non mi rese felice, sembrava quasi un risarcimento, ma di fatto era l’eredità di mia madre. In questo modo ogni mia traccia in quel posto era sparita, ma non mi dispiaceva affatto, anzi.
Il club di mia madre, per esempio, sembrava buio e polveroso quando ci andavo di giorno, con un sentore vago di sigarette e alcolici: era come svuotato. E quando gli abiti vistosi di mia madre arrivavano dalla lavanderia, guardandoli alla luce del sole mi apparivano veramente miseri.
Tutte queste sensazioni, prese insieme, riassumono ciò che provavo per quel luogo.
E oggi che ho quasi trent’anni non è cambiato nulla.
L’ultima volta che ci siamo incontrati, mio padre mi fissava con le lacrime agli occhi: ormai somiglio alla mamma. “E pensare che il bello doveva ancora arrivare, saremmo invecchiati insieme, tranquillamente, volevamo andare in un sacco di posti. Ci eravamo detti che sarebbe stato bello fare il giro del mondo in nave. Se avessimo saputo prima che sarebbe finita così... Saremmo dovuti partire e basta, senza starci a preoccupare del mio lavoro o del suo club.”
Mio padre regge bene l’alcol ed è di buona compagnia, quindi penso che in passato si sia goduto un po’ la vita, ma sono sicura che, dopo essersi messo con la mamma, non abbia avuto più relazioni con altre donne.
Anche se gli piace fare la parte del viveur, si vede benissimo che è tutta una posa: è un perfetto signore di provincia un po’ calvo e, da qualsiasi parte lo si osservi, in lui non c’è niente di sexy. È un totale sfigato. Un tipo talmente serio che se un vero donnaiolo lo vedesse probabilmente scoppierebbe a ridere.
Il papà è una persona fondamentalmente semplice, ma a me sembra che, forse per la posizione che occupa, forse perché ha dovuto prendere in mano l’attività di famiglia, abbia lasciato che tutto questo condizionasse la sua vita, senza mai cercare di opporre resistenza. Si è ritrovato a capo di un’azienda di import-export in una cittadina di provincia e ha fatto tutto ciò che doveva perché il ruolo di rampollo di una famiglia benestante gli calzasse a pennello.
Nella sua vita, il solo fiore che emanasse il profumo della libertà era quello della mamma.
Non ha mai lasciato che qualcosa, dall’esterno, contaminasse lo spazio che condividevano. Era come se solo lì dentro si sentisse la persona che aveva sempre voluto diventare quando per esempio, tornato a casa, si metteva ad aggiustare il tetto, sistemava il giardino, oppure usciva a cena con la mamma, mi controllava i compiti o riparava la mia bicicletta.
Ciononostante, non pensarono mai di lasciare quella cittadina. La loro vita consisteva nello stare insieme proprio lì.
Credo che la paura più grande di mio padre, oggi, sia che mi allontani da lui. Non si tratta di una paura vera e propria, più che altro è un pensiero vago che gli attraversa la mente di tanto in tanto, con un brivido.
Forse pensa che un giorno mi sentirà dire: “Non portiamo neanche lo stesso cognome: per me sei un perfetto estraneo”.
Certe volte trasferisce dei soldi sul mio conto senza nessun motivo, oppure mi spedisce roba da mangiare. Allora gli telefono per ringraziarlo. La sua paura si insinua attraverso la cornetta.
Siamo ancora padre e figlia? Questa è la sua preoccupazione.
Io lo ringrazio, accetto il denaro, ma non gli ho mai detto espressamente che il nostro rapporto non cambierà. È che non mi sembra affatto che ce ne sia bisogno. Non m’importa cosa pensi per via di quel suo leggero senso di colpa: se pure dovessi decidere di tagliare davvero i ponti con lui, per me resterà sempre mio padre.
Io, invece, potevo permettermi di non badare a certe cose.
Non avrei esitato a chiedergli una mano qualora ne avessi avuto necessità, ma se mi fossi fatta comprare qualcosa in particolare, prima o poi qualcuno, mosso dall’invidia e dall’avidità e senza nessun reale motivo, sarebbe venuto a curiosare (non saprei dire se le persone di questo tipo osservino per il gusto di osservare) e sarebbe stata una seccatura.
Tutto ciò che mi imprigionava in quella piccola città era una seccatura. Meno ci stavo e meglio era.
Forse la mamma e il papà non se ne rendevano conto, ma io credo che portassero delle catene ai piedi, catene che li legavano a quel posto.
Per questo motivo ho sempre cercato di fuggire. Se mi fossi messa con qualcuno, se senza rendermene conto me ne fossi innamorata e avessi poi finito per sposarlo con una cerimonia in un hotel del luogo o da qualche altra parte, se per puro caso fossi rimasta incinta, sarebbe stata la fine. Ecco perché restavo sempre indifferente quando le mie compagne di scuola si prendevano le prime cotte o iniziavano a fantasticare sul matrimonio. Ponderavo continuamente le conseguenze delle mie azioni. E subito dopo il diploma ho lasciato casa mia con il pretesto di iscrivermi a un’università di Tōkyō.
La sentivo nelle ossa. La discriminazione, sottile ma chiara. “Sarà anche la figlia di un pezzo grosso, ma resta una figlia avuta con la tenutaria di un club e per di più fuori dal matrimonio.” Simili pensieri mi opprimevano e non mi davano pace, soprattutto perché sapevo che mio padre era una persona in vista soltanto in quella cittadina.
Arrivata a Tōkyō, dove ero una studentessa di arte come tante altre, mi sentii leggera, mi sembrava di fluttuare nell’aria.
Ricordo ancora la gente che venne a vedere mia madre nella bara, pieni di curiosità, interesse, invidia, con le loro moine, gli abiti neri d’ordinanza, gli atteggiamenti di finta contrizione, le facce afflitte che tradivano un ghigno appena accennato... Non dimenticherò mai cosa ho provato in quel momento, mi sarei messa persino a ballare nuda pur di rovinare quell’atmosfera ipocrita e falsa.
Quegli sguardi sporchi non sono rimasti sul corpo della mamma, perché è stato purificato con il fuoco. Non avrei mai pensato che ci si potesse sentire così sollevati dopo la cremazione di un genitore. Gli abiti della mamma, il suo bell’aspetto e la cura con cui mio padre aveva organizzato il funerale – non aveva badato a spese – erano stati sufficienti a soddisfare la curiosità di quella gente.
Dovetti aprire la cerimonia, pronunciai un discorso di saluto, sorrisi e mi asciugai qualche lacrima, ma non lasciai trapelare nulla della rabbia e dell’indignazione che provavo dentro di me.
Erano emozioni pure, limpide, e quella gente, che si dava tanta pena nel tentativo di esibire qualcosa di inconsistente, non avrebbe mai potuto comprenderle.
Invece fui contenta di poter trascorrere del tempo con le signore del quartiere e le poche amiche di mia madre, di ricevere da loro parole sincere di conforto e bere del tè caldo insieme. Nella vita ci sono sempre degli aspetti positivi. Diventano più evidenti quando succede qualcosa di brutto: è triste, ma è così. Non me lo dissero a parole, ma con gli occhi: “Sappiamo che stai male”.
...Eppure, quando vidi mio padre singhiozzare aggrappato alla bara, pensai che avevo sbagliato tutto. Per lui non c’era nessun altro oltre alla mamma, mentre io mi lasciavo distrarre da tante cose inutili. Me ne stavo lì, di fronte alla storia d’amore del secolo (anche se soltanto loro la consideravano tale), una ragazzina che piange la morte di un genitore. Ma forse era semplicemente la differenza tra un marito e una figlia.
E così, quella notte, trovai mia madre vicino al cuscino, quella parte di lei che era come un fiore. La parte che più mi mancava, il fiore che si riparava sotto una corolla di leggerissimi petali.
Mi parlò. Era nella stanza d’ospedale dove aveva trascorso gli ultimi giorni nei quali non riusciva a mettersi a sedere, e quando in sogno glielo vidi fare fui colta da una profonda malinconia.
Dalla finestra arrivava una brezza e un raggio di luce tremolante. La mamma, con il suo pigiama rosa, sembrava una liceale in gita, ed era come avvolta in una dolce foschia. I fiori che le avevano portato in dono si confondevano con la luce.
La mamma era abbagliante, così fissai lo sguardo sullo strato di polvere che si era accumulato sul telaio della finestra. Mi parlò.
“Sai, Chihiro, basta un solo piccolo errore per finire a lamentarsi tutta la vita, proprio come ho fatto io. Se sei sempre arrabbiata con gli altri, se non fai che dargli addosso, vuol dire che dipendi da loro.”
Lo so, lo so. Tu non eri capace di prendertela con gli altri, di mostrarti condiscendente con i clienti abituali per il bene del locale, né di arrabbiarti con papà perché il lavoro non gli lasciava tempo per noi. Non eri tipo da dire cose come: “Che ci posso fare? Non sono neanche una vera moglie, sono solo la sua donna”, non eri così pratica dello stare al mondo, e in verità non eri neanche un fiore di campo: eri delicata, limpida, più simile a un piccolo fiore sbocciato su una rupe, dove non arrivano neanche gli uccelli né i cervi.
E papà lo sapeva. A modo suo, ma si prendeva cura di te.
Perché quando ti rilassavi insieme a lui somigliavi sempre a una ragazzina. Tutti e due sembravate dei bambini. La società, la gente... Non volevano proprio lasciarvi in pace, non è vero? Ma forse neanche voi avevate abbastanza fegato per pretenderlo. Avete vissuto una vita provvisoria fingendo che fosse reale, e fino alla fine non è mai cambiato niente, no?
Erano solo i miei pensieri, ma nel sogno mia madre annuiva: nei sogni è tutto più semplice. Poi riprese a parlare.
“A dire il vero, non avrei voluto che le cose andassero così. Non mi sono mai piaciuti né il trucco né la chirurgia estetica come metodi per ringiovanire. Gli ospedali mi hanno sempre messo paura, e me ne metteva anche chi ci andava nel tentativo di diventare più bella. Ero sempre in balìa del dolore e della paura. Mi lasciai influenzare da chi mi suggeriva di farlo, mi sembrò di non avere alternative, e lo feci. Dopo fui ancora più spaventata, ma cercai di dissimulare la paura scherzandoci su, anche se mi portavo dentro ferite profonde.
Non avrei voluto scaricare tutto su tuo padre. Ma ero sempre preoccupata, temevo che si sarebbe allontanato da me, perciò mi aggrappai così tanto a lui. Eppure sapevo che esistevano altri modi, oltre alla rabbia, per fargli capire ciò che provavo. Senza neanche rendermene conto avevo imboccato una strada senza uscita. L’ansia generava altra ansia, e siccome fingere rendeva tutto più facile, continuai così. Non riuscivo a smettere. Finché non sono morta.
Però adesso che mi trovo in questo posto, e guardo le cose nella loro interezza, mi sembra tutto più chiaro. Non c’è nulla che rimpianga, però ho capito che non avevo motivo di essere sempre così preoccupata. Ecco perché...”
Pensai: “Questo posto è il Paradiso? Esiste il Paradiso?”, ma la mamma si limitò a sorridere.
“In realtà ero così presa dalla mia vanità, così spaventata, da non vedere altro modo per proteggermi. Tu però cerca di non diventare come me, d’accordo? Tieni la pancia al caldo, sciogli il corpo e la mente così che il sangue non ti vada alla testa, cerca di vivere come un fiore. È un tuo diritto. Hai una vita a disposizione, ce la puoi fare. E non avrai bisogno di altro.”
Mia madre sorrise e mi ricordai che, quand’ero bambina, me lo diceva sempre: “Tieni la pancia al caldo”. Perché nel sonno avevo l’abitudine di scoprirmi la pancia, e ogni volta che veniva a rimboccarmi la trapunta mi ripeteva quelle parole. Mi venne da piangere, anche se stavo sognando.
Da piccola, ogni volta che aprivo gli occhi durante la notte, la trovavo lì, a massaggiarmi dolcemente la pancia, a sistemarmi il pigiama e coprirmi con la trapunta.
Me lo ricordavo ancora, lo ricordava il mio corpo: “Essere amati significa questo, avere qualcuno che desidera accarezzarti e trattarti con dolcezza”. Ecco perché il mio corpo è indifferente ai finti affetti. È stato “ben educato”.
Voglio vederti ancora, mamma. Ti voglio toccare, voglio sentire il tuo odore, pensai.
Persino il locale, di giorno, in penombra, mi mancava moltissimo, ora che non c’era più.
Non era un bel posto, ma restava il nido da cui avevo spiccato il volo. Era un mondo dominato dall’odore di mia madre. Era opprimente, ma anche caldo. Ero ancora una bambina, avevo bisogno di lei, eppure mi ero ritrovata a camminare da sola.
Nel sogno la tristezza era come raddoppiata, e mi sentivo ancora più fragile. Mi stava schiacciando.
Quando mi svegliai stavo ancora piangendo.
Mi girai di scatto e vidi Nakajima che dormiva profondamente accanto a me. Aveva un braccio scoperto, adagiato sul tatami, sembrava freddo. Tirai un lembo della trapunta e lo coprii.
Il brusco ritorno alla realtà aveva in parte ridimensionato la tristezza provata in sogno. Il ricordo della mamma mi era rimasto dentro, ma della nostalgia per i vecchi luoghi non vi era alcuna traccia.
Perché nel sogno avevo improvvisamente desiderato di tornare bambina? Non riuscivo a capire. Forse c’era ancora qualcosa che mi legava al passato: ero abbastanza nel “presente” per potermi permettere un’analisi del genere.
Ciò che davvero mi mancava era il nostro vecchio appartamento, che ormai non esisteva più. Di tanto in tanto mi veniva voglia di ritornarci, di essere un’altra volta bambina... E allora mi mettevo a ricordare.
Le domeniche mattina, i programmi televisivi in sottofondo con le loro musiche tranquille – oggi sarebbero impensabili – e papà che se la prendeva comoda in attesa che arrivassero colazione e pranzo insieme, mentre in cucina mia madre si cimentava in ricette esotiche con vari ingredienti di importazione: quell’atmosfera così allegra... Tutti e due soffrivano dei postumi di una sbronza, e a pensarci adesso, forse, erano così pigri perché la notte prima avevano fatto l’amore. Quella lentezza me li faceva sembrare un po’ dolci e un po’ assonnati. Li guardavo dal mio letto, ed era una scena meravigliosa.
Se si potesse tornare a quei tempi, allora anche la vecchia cittadina mi andrebbe bene.
Mi ricordai che Nakajima dormiva accanto a me ed ebbi un altro sussulto. Eh? Che ci fa Nakajima qui? Se è un sogno, non svegliatemi.
Ah, ecco com’è andata. È stato lui a dire che voleva dormire da me, credo.
Cominciò a tornarmi la memoria.
Mi ricordai anche che fino a poco prima avevamo fatto sesso – ce l’avevamo messa proprio tutta –, il che mi provocò un leggero imbarazzo. Adesso stavamo dormendo ed eravamo vestiti da capo a piedi, quindi si sarebbe detto che non era successo nulla. Era come se vivessimo così da sempre, però il fatto che Nakajima fosse lì continuava a sembrarmi strano. Ero in parte confusa, in parte tranquilla, una sensazione strana. Ecco perché avevo sognato mia madre, forse.
Non mi capita mai di avere in casa una persona particolare come lui.
Inoltre, mi ero fatta l’idea che Nakajima Nobu non fosse tipo da restare così a lungo a casa di qualcun altro. Pur avendolo visto nel suo appartamento con una donna che poteva essere la sua ragazza, non avevo avuto l’impressione che trascorressero tanto tempo insieme.
La sera prima, Nakajima mi aveva confessato piangendo che, se si fosse lasciato sfuggire quell’occasione, non sarebbe mai più riuscito a fare sesso con nessuno. A me naturalmente sembrò un’esagerazione, ma capii che gli era costato molto dirmelo, mi dispiaceva vederlo così, quindi presi il controllo della situazione.
E poi cos’era successo? L’avevamo fatto fino alla fine? O no?
Non avevamo bevuto, eppure i miei ricordi erano frammentari. Be’, in fondo Nakajima non se l’era data a gambe.
Il segno della presenza di mia madre mi attraversò di nuovo la mente.
Era stato un sogno triste ma bello.
Mia madre era lì, e nella forma che più desideravo vedere, quella che non si mostrava quasi mai.
Diceva tutto quello che le passava per la testa, risolveva ogni cosa con una risata, era orgogliosa e trasmetteva la sensazione che si potesse sempre contare su di lei, così, con il tempo, mi ero dimenticata di come fosse veramente.
Ma quando ero bambina, quando ogni tanto le scappava da ridere all’improvviso, o le volte che nel futon ci strofinavamo i piedi a vicenda, le mattine di neve, quando ci mettevamo a correre lasciando impronte sul manto fresco... In quei momenti vedevo la mia vera mamma, ed era come un’eterna ragazzina.
Fissai il petto di Nakajima che si sollevava a intervalli regolari sullo sfondo scuro della stanza e a poco a poco mi sentii intontita, come se qualcuno mi avesse ipnotizzato.
Nakajima, Nakajima... Che aspetto strano che hai, Nakajima.
Le sue narici allungate, i polsi sottili, le dita affusolate, la bocca spalancata, la linea magra del collo, quelle guance paffute di bambino, i capelli arruffati e gli occhi allungati, nascosti sotto lunghe ciglia: quanto mi piaceva. Quando un giorno esalerà l’ultimo respiro e si trasformerà in una stella (è una metafora che ho sentito non so dove, ma calza a pennello. Nakajima è semplicemente perfetto per diventare una stella. La vita, in lui, sembra un soffio lieve e nulla più), il mio spirito resterà con lui per sempre, lo sento. Non credo che sia amore, è più una forma di sorpresa, qualcosa che mi fa trasalire. E così lo guardavo, ma senza lasciarmi andare fino in fondo.
C’è ancora, non è sparito. E i miei sentimenti non sono cambiati! pensai.
In quei giorni che ero così presa da Nakajima, dal mio strano Nakajima, mi sentivo come rinata. Da quando stavo con lui non ero più io. Avevo sempre pensato solo a me stessa, alla disperata ricerca di un modo per superare i miei limiti, protesa in avanti e decisa a realizzare il futuro che desideravo, con il solo obiettivo di allontanarmi da quel posto, come un filo d’erba senza radici. Ma Nakajima era troppo forte, mi aveva sopraffatto e adesso mi trascinava con sé.
Qui il tempo non esiste. È come se fossimo separati dal resto del mondo. Ci siamo soltanto lui e io, fuori dal tempo e senza età.
Il tempo si è fermato e io guardo Nakajima senza desiderare nulla in particolare.
Sento che questa è la felicità.
Ho vissuto un’esistenza del tutto ordinaria – mi bastava essere una figlia illegittima in una cittadina di provincia dove qualsiasi dettaglio diventa immediatamente motivo di pettegolezzo – e non c’è mai stato niente di strano in me.
Quindi Nakajima, che un po’ strano lo era, mi appariva talvolta fuori dalla mia portata, e mi faceva venire voglia di fuggire via.
Del suo passato sapevo soltanto che era stato tremendamente difficile, ma non ne avevamo mai parlato in maniera approfondita.
Mi aveva detto che sua madre era morta e che l’aveva amata tanto, e ogni volta che la nominava si metteva a piangere. Non sapevo bene come fossero andate le cose, ma ero certa che Nakajima fosse una persona capace di sentimenti sinceri, perché era stato educato ad amare in totale naturalezza.
E sapevo che nessuno al mondo lo avrebbe mai potuto amare come sua madre.
Era un pensiero così difficile da accettare che, paradossalmente, mi permise di avvicinarmi a lui più serenamente.
Quanto tempo ci era voluto perché Nakajima cominciasse a trascorrere la notte a casa mia? Un anno a dir poco.
A un certo punto, senza tante cerimonie, ha iniziato a venire da me la sera, in modo del tutto naturale.
Se ero in casa veniva a trovarmi e poi a una certa ora si ritirava. Questa frequentazione poco entusiasmante è andata avanti per tre mesi, credo, ma non ne sono sicura.
Era un po’ come essere coinquilini, non conviventi: ognuno aveva la sua camera. Non sentivamo nessuna pressione. Quando con me c’era Nakajima sentivo del tepore nel centro esatto del torace.
Io abitavo in quell’appartamento e Nakajima al secondo piano di un edificio diagonalmente opposto al mio.
Avevamo entrambi l’abitudine di stare a lungo alla finestra, quindi non passò molto tempo prima che ci accorgessimo l’uno dell’altra e iniziassimo a salutarci. In città non accade spesso, credo, che incrociando gli sguardi dalla finestra due persone si salutino. Nella mia cittadina era una cosa normale e Nakajima non sembrava darci peso. Un alone di mistero lo circondava. Qualcosa di sommerso, di profondo, che non gli faceva temere neanche la morte.
Forse è per questo che ho capito che saremmo potuti andare d’accordo.
Poi c’era il fatto che la sua figura snella alla finestra sembrava un’immagine dipinta. Quando appoggiava le braccia magre sul davanzale c’era qualcosa di bello in lui, ricordava una scimmia selvatica.
E così, ogni mattina mi svegliavo, aprivo la finestra e guardavo verso la sua. Non mi preoccupavo di cosa avessi indosso o di come mi stessero i capelli. Mi ero abituata a lui come se fosse una parte del paesaggio. Non credevo che ci saremmo mai avvicinati l’uno all’altra.
Quando lui non c’era, vedevo il bucato steso con cura (con tanta cura che sembrava il lavoro di un artista. Li avrebbe potuti indossare senza nemmeno stirarli. Al confronto il mio modo di stendere i panni era così sciatto che avrei potuto semplicemente appallottolarli e buttarli fuori che non sarebbe cambiato nulla) oppure, qualche volta, una donna palesemente più grande di lui che si muoveva con molta naturalezza nei pressi della finestra e pensavo: Ah, c’è la sua ragazza. Si dà da fare, allora.
Ci stavamo avvicinando lentamente, un millimetro per volta.
Anche d’inverno, con il freddo, mi piaceva stare alla finestra, e così Nakajima e io continuavamo a salutarci con la mano.
“Tutto bene?” chiedevo.
“Tutto bene!” Mi rispondeva senza voce, ma con un sorriso e il movimento delle labbra.
Era come se vivendo in quel posto fossimo destinati a condividere qualcosa che nessun altro avrebbe condiviso. Ogni giorno guardavo verso la sua finestra e lui guardava verso la mia: iniziò a sembrarmi un po’ come vivere insieme. Quando spegneva la luce pensavo: Ah, Nakajima è andato a dormire, in effetti è ora che dorma anch’io, e quando tornavo a casa la sera, non appena aprivo la finestra lo vedevo arrivare come a dirmi: “Bentornata!”.
Non ci rendevamo neanche conto che il semplice pensare l’uno all’altra, il semplice accorgersi del rumore di una finestra che si apre, era l’inizio di un amore.
Nel periodo in cui percorrevo con mia madre il lungo cammino verso la fine, quando andavo e venivo dalla mia città natale, tornare a casa, per me, significava soltanto vedere la luce alla finestra di Nakajima e ritrovare così la mia serenità. In quei giorni di dolore, era la mia unica gioia.
Nelle ultime settimane di vita di mia madre stavo costruendo dei bei ricordi con lei e con papà, è vero, ma dal momento in cui ogni sera mettevo piede sul treno che mi avrebbe riportato a casa ero sola, la sola e unica figlia della mamma.
Era un viaggio che avrei dovuto affrontare in totale solitudine.
Mentre ero lì, al buio, ferma sulla banchina, ripensavo alla dura realtà che la mamma stava per morire, e i miei ricordi di lei si mescolavano all’aria annoiata dei passanti, immersi nelle loro attività quotidiane, e iniziavo a sentirmi persa e confusa. A chi e che cosa appartenevo? Ero un’adulta o una bambina? Dov’era casa mia, dov’erano le mie radici? Mi girava la testa.
E se mi innamorassi di Nakajima? Se gli permettessi di prendersi cura di me? Se con lui mi lasciassi andare? Se quella sagoma alla finestra si avvicinasse un po’ di più starei forse meglio? Ero così presa da quella situazione che non riuscivo neanche a fermarmi e pormi domande del genere.
In quel periodo Nakajima era lì, al posto giusto. Se fosse stato anche soltanto poco più vicino, o più lontano, non avrebbe funzionato.
Le nostre finestre erano separate dalla strada, ma non ho mai avuto l’impressione che fossimo distanti. Era come se qualcosa ci legasse l’uno all’altra. Lì, dove non arrivavano nemmeno le voci della strada e i rumori delle auto, riuscivamo a sentirci perfettamente. Vedere di notte il suo volto pallido, il sorriso tranquillo, era per me la consolazione più grande.
Quando mia madre se ne andò, a Nakajima non lo dissi.
Di tanto in tanto capitava che ci incontrassimo per caso e andassimo a prendere un tè insieme. Quando si fu conclusa la cerimonia funebre, tornai a casa dopo tre settimane di assenza, feci le pulizie e andai a comprare qualcosa da mangiare al supermercato. Per strada ci imbattemmo l’uno nell’altra. Andammo in uno Starbucks e prendemmo un tè al bancone vicino alla vetrina.
Era da molto tempo che non mi trovavo in un luogo così animato, con l’odore del caffè e le voci degli adolescenti, e sentii come le vertigini. Pensai che la quotidianità dei vivi fosse ciò di cui gli spiriti sentono maggiormente la mancanza. Chissà con quanta nostalgia ripensano alle cose ordinarie e banali.
“D’ora in avanti non dovrò più tornare a casa nel fine settimana, perché i miei legami con quel posto sono quasi del tutto recisi. Ci tornerò solo di tanto in tanto.”
Nakajima mandò giù un sorso di caffè con una smorfia, perché era molto caldo. Poi mi domandò: “Tua madre è morta?”.
Rimasi di stucco.
“Come hai fatto a capirlo?”
“Da qualche tempo eri sempre via, quindi l’ho immaginato...”
Non era una spiegazione. Doveva averlo intuito dalla mia aria stanca: era un tipo molto attento. A giudicare dal riflesso nella vetrina, ero diventata un po’ più piccola. Come se mi fossi sgonfiata, se avessi perso consistenza. Effettivamente bastava un’occhiata per capire che avevo appena perso un genitore.
“Però adesso i miei fine settimana saranno meno tristi. Potrà sembrare brutto a dirsi, ma di questo sono felice. Non sai che noia la settimana scorsa, e quella prima ancora, quando la tua finestra era buia. È proprio bella la tua finestra. Molto più delle altre. Non c’è rumore né disordine, ed emana una luce tranquilla.”
“Dici?”
Per un attimo mi ero chiesta cosa intendesse con “sono felice”: era il mio lutto a renderlo felice? Dopo tutte quelle condoglianze di facciata la sua sincerità mi colpì al cuore.
“Sì. Quando non vedo la luce alla tua finestra, Chihiro, mi sento triste.”
Il mio nome, quando lo pronunciò Nakajima, splendette come una pietra preziosa. Mi sembrò una specie di incantesimo. Eh? Ha brillato. Dillo ancora.
Non riuscii a dirglielo e lo tenni per me, continuando a rimuginare sul suo modo di chiamarmi. Quella fu la prima volta in cui percepii qualcosa di sensuale in lui, ma non solo: provai anche una sorta di orgoglio.
“Meno male, allora, che sono ritornata.”
A quel punto non riuscii a trattenere le lacrime e piansi un poco.
“Fa male quando muore una madre, non è vero? Anche a me ha fatto male, e tanto.”
Non sapevo niente della sua vita e mi limitai a pensare che allora anche lui aveva perso la mamma.
Piangendo, risposi: “Sì, ma è una strada che prima o poi tutti dovranno imboccare”.
Strinsi forte la grande tazza di chai che tenevo tra le mani. Pochi istanti dopo ebbi la sensazione che tutto ciò che avevo vissuto sino ad allora, compresa la paura di non avere più una casa e una famiglia dove tornare, si acquietasse, lasciandomi libera e un po’ più serena.
Un paio di settimane dopo, nel weekend, Nakajima iniziò a farmi visita. Non era cambiato nulla delle nostre reciproche intenzioni, semplicemente era venuto a casa mia, come se si fosse spostato da una finestra all’altra.
Un giorno ci eravamo incontrati per caso e mi aveva chiesto: “Senti, Chihiro, ce l’hai il ragazzo?”.
“Non in questo periodo. Prima uscivo con un redattore che era libero solo nei fine settimana, ma nel periodo in cui accudivo mia madre abbiamo smesso di vederci.”
“Uhm... A quel tipo non andava giù che tua madre venisse prima di lui, eh?”
L’espressione “quel tipo” mi fece sorridere.
Trovavo tenero tutto ciò che faceva Nakajima. Lo vedevo sempre sotto una luce positiva. Il legame che ci univa era nato lentamente, da quei fugaci sguardi scambiati attraverso le finestre, era sedimentato sul fondo dei nostri cuori e non affiorava in superficie.
Risposi: “Così pare. Infatti non ne ho sofferto molto. Era molto peggio dover sempre cercare il tempo per incontrarlo. Rompere con lui è stato un sollievo. In fondo desideravo più tempo per me, e soprattutto avevo bisogno di dormire”.
“Capisco...”
Annuì. Quando annuiva aveva l’abitudine di inclinare leggermente il capo.
Fu così che, a partire da quella sera, prese a venirmi a trovare – ed era come se fosse a casa sua.
Cominciammo a mangiare insieme, a uscire per comprare gli yakitori (sia a me che a Nakajima, ma soprattutto a lui, non piaceva mangiare fuori, quindi non andavamo nemmeno nei locali a bere), a fare il bagno a turno e, una volta usciti dalla vasca, a bere birra chiacchierando, o in silenzio.
Quando c’era lui, la stanza si illuminava di una luce diversa, e per la prima volta sentivo di avere un amico, di non essere sola.
Mi ero fatta l’idea del tutto arbitraria che Nakajima fosse gay, che la ragazza che ogni tanto dormiva a casa sua fosse solo un’amica, e che lui si rivolgesse altrove per soddisfare certe necessità.
Mi dava l’impressione di non essere tanto interessato al sesso, inoltre era terribilmente magro, e benché in qualche occasione lo avessi visto fare delle scorpacciate, generalmente non mangiava quasi nulla, sembrava sempre a corto di energie e non appariva molto coinvolto nell’andirivieni di quella donna, ed ero arrivata a pensare che le rare sere in cui usciva si recasse in qualcuno di quei quartieri dove si riunivano quelli come lui.
O forse volevo pensarla così per salvaguardare il mio orgoglio. Perché non manifestava mai interesse nei miei confronti. Se pure mi fossi cambiata davanti a lui, non avrebbe provato alcun imbarazzo.
Qualche sera fa sembrava che Nakajima non se ne volesse proprio andare.
Continuava ad accampare una scusa dopo l’altra pur di non levare le tende, allorché mi venne da chiedergli: “Che c’è, hai dei creditori in casa? O magari qualche ex fidanzata?”.
“La giornata di oggi è legata a un brutto ricordo, quindi mi sento agitato. È inquietante, ma la mia testa e il mio corpo sono dotati di una buona memoria, e in occasione di certi anniversari mi sento sempre strano. Scusami, ma non mi va di parlarne. Se dovessi ricordare ogni dettaglio finirei per stare sempre peggio.”
Per un momento fui sul punto di dirgli che eravamo a casa mia e che stava facendo tutto lui, ma notai la sua sofferenza e intuii che doveva trattarsi di una storia molto seria, quindi decisi di non chiedergli niente.
Gli proposi soltanto di fermarsi a dormire, lui annuì e considerai chiusa la questione.
Stendemmo i futon l’uno accanto all’altro, io mi misi a leggere un libro e lui guardò un film alla tv dopo avermi chiesto il permesso. Per un bel po’ di tempo non scambiammo parola. Il film terminò, Nakajima spense il televisore e anch’io mi dissi che si era fatta l’ora di dormire. Avevo appena chiuso il libro, pensando a quanto fosse rassicurante avere qualcuno in casa di notte, sentire la presenza di un altro essere umano.
Con lo sguardo rivolto al soffitto, Nakajima disse: “A essere sinceri, io non riesco a fare sesso così facilmente”.
“...Ah, sì?” risposi io. Ero leggermente sorpresa, come se avessi ricevuto una dichiarazione d’amore. Di solito cercava di evitare l’argomento, o così mi sembrava.
In quei giorni avevo perduto ogni appetito sessuale, come è normale, quando muore una persona così importante per noi. Era come se tutta l’acqua del mio corpo si fosse prosciugata, e se nel bel mezzo di tutto ciò Nakajima ci avesse provato con me l’avrei cacciato fuori da casa mia. Il che significa che anch’io, forse in modo non del tutto consapevole, cercavo di tenermi alla larga da determinati discorsi e atmosfere.
Per una cosa simile lo avrei potuto perdere, e sarei stata ancora peggio, avevo paura.
Accudire mia madre durante la malattia era stato così stancante da farmi pensare che non avrei voluto dormire mai più con nessuno.
In parte era dovuto al fatto che non vedevo altro che sederi, pappagalli e contenitori per le urine. Quando portavano fuori la mamma per le analisi capitava persino che mi occupassi dell’anziano signore del letto accanto al suo.
Mi nauseava, ormai, l’idea che gli esseri umani fossero fatti di carne, carne impregnata d’acqua.
Quando cambiavo il pigiama a mia madre, alla base del colletto sentivo un odore che avrei potuto definire solo “di acqua”. Ora mi manca, vorrei sentirlo ancora, vorrei tornare indietro e sentirlo per tutta la vita, ma allora per me quel pensiero era opprimente: “Gli esseri umani sono fatti di acqua”.
A Nakajima non l’avevo detto, ma il motivo per cui avevo rotto con il mio ex era proprio che lui voleva fare sesso con me e io non riuscivo ad accontentarlo.
A causa dei suoi impegni di lavoro potevamo vederci soltanto nel fine settimana, quindi in quel periodo si presentava all’improvviso di sera, nei giorni feriali o di domenica. E naturalmente finivamo a letto, ma io proprio non ce la facevo. Invece lui aveva energie da vendere e l’avrebbe fatto sempre, giorno e notte, ovunque ci trovassimo. Quando si sta bene può essere anche divertente, ma se si hanno altri pensieri per la testa non lo è poi tanto. A farla breve, quel tipo non mi piaceva affatto. Era una specie di sex-friend, con il quale mi vedevo di tanto in tanto, quando ne avevo voglia. All’inizio, presa dall’euforia, devo aver pensato di provare dell’affetto per lui, ma mi sbagliavo.
Nemmeno io me ne rendevo conto, ma poi ho capito una cosa: quando c’era lui, non volevo mai aprire la finestra. Così tutto fu chiaro.
Non volevo che Nakajima lo vedesse in casa mia.
Quando si arriva a questo punto, di chiunque si tratti, significa che non è quello giusto.
E invece adesso c’era Nakajima, che pure mi piaceva, ma con il quale non potevo farlo perché stavo male. Non sapevo cosa pensare. Lì con me c’era un uomo, giovane, e non mi sentivo affatto eccitata, non avevo nessun istinto da controllare. Insomma, i sentimenti di Nakajima erano l’ultima delle mie preoccupazioni.
Tutt’al più mi capitava di pensare che magari saremmo potuti star bene insieme.
So che potrebbe apparire strano, però Nakajima dava sempre l’impressione che tutto fosse possibile, e quando mi lasciavo andare alla serenità che emanava da lui anche le ipotesi più assurde mi sembravano plausibili.
Per esempio, dopo averlo conosciuto ho preso coscienza, per la prima volta nella vita, del mio modo di pensare e di come lo avrei voluto modificare. Perché lui riusciva sempre a mettere tutto a fuoco perfettamente. Io mi lasciavo influenzare e cambiavo spesso opinione, cercavo di mostrarmi diversa a seconda dei miei vaghi rimorsi, legati magari a brutti pensieri sulle scelte dei miei genitori e sulla vita di mia madre... Di tutto ciò ho acquisito consapevolezza in quel periodo. Da qualche parte nel mio cuore aveva sempre albergato un senso di colpa legato alla mia incapacità di provare davvero empatia nei confronti di mia madre, dei suoi tentativi di uniformarsi alla società. Devo capirla, gli esseri umani sono fragili. In provincia la gente non può vivere così intensamente. Ero sola, vivevo in città, e questo mi portava a dimenticarlo, ma in provincia i rapporti tra le persone contavano ancora molto, e poiché la mamma apparteneva a quel posto era naturale che credesse di essere nel torto, che si sforzasse di correggere il proprio atteggiamento.
Da quando avevo incontrato Nakajima, però, e avevo visto come viveva – facendo, cioè, soltanto il minimo necessario, ciò che desiderava fare –, mi ero resa conto che in fondo la mamma e io eravamo della stessa razza, che anch’io, come lei, cercavo di uniformarmi perché non volevo essere diversa dagli altri.
Mi domandai l’utilità di tutto questo, e così capii che la mamma e io procedevamo in direzioni diametralmente opposte. Tutto ci separava: l’età, il modo di pensare, ciò che reputavamo importante. Naturalmente non voleva dire che non amassi la mamma, che non la rispettassi o che non accettassi il suo punto di vista.
Poco alla volta, timidamente, il velo dell’empatia che avevo simulato sino ad allora cadde, lasciando il posto a una nuova forma di comprensione.
Davanti a questo sentimento mai provato, capii che ero ormai un’adulta. E che Nakajima, abituato a vivere da solo, lo era già da tanto tempo.
Era un adulto, ed era un uomo. Anche se sembrava così fragile.
“Voglio dire, Chihiro, che non dipende dal fatto che tu sia poco attraente. Mi dispiace.”
Nakajima si rivolgeva a me nel buio, imbarazzato.
“Guarda che non c’è alcun problema. Non mi pare di avertelo mai chiesto. Come puoi sapere ciò che provo io?”
“Eh? Ho pensato che siccome sei una donna... Di solito le donne si arrabbiano quando un uomo con cui sono entrate così tanto in confidenza non fa il primo passo.”
“Per adesso non sono arrabbiata. E poi non direi che siamo già così tanto in confidenza, siamo ancora, come dire? A metà strada. Insomma, non ci ho mai pensato veramente. Quindi sta’ tranquillo.”
“Va bene. Sai, me ne sono capitate davvero tante. In passato, intendo. Quindi adesso certe cose mi spaventano, davvero, mi danno i brividi. Accostare il mio corpo nudo a quello di qualcun altro, per esempio. O semplicemente vedere il corpo nudo di un’altra persona. Ne ho così tanta paura che non vado neanche al sento né alle terme, mi credi?”
Non sapevo cosa fosse accaduto, ma doveva essere tremendo.
“Quando una persona ti racconta qualcosa di importante, la questione non finisce lì, un po’ come quando ti prestano del denaro. Essere il confidente di qualcuno comporta una responsabilità.”
La mamma me lo diceva spesso. Mi sembrava che fosse un modo un po’ freddo di ragionare, ma in fondo sapevo che aveva ragione.
Per questo motivo avevo preso l’abitudine di battere in ritirata appena intuivo che qualcuno voleva parlarmi di qualcosa di serio.
Quando si ha un genitore che lavora nel settore dei locali notturni, si impara sin da bambini che non vi è alcun limite alle storie terribili. Quando a scuola le amiche mi confidavano i loro crucci introducendoli con il classico “Non vorrei parlarne, ma vedi...” per me si trattava di giochi per poppanti. Ne avevo sentite anche troppe, per la mia età.
Ed ero relativamente giovane anche quando ho capito che l’aver fatto sesso o meno non significa poi chissà che, in determinate situazioni.
“Non c’è bisogno che tu me ne parli. Se ti fa così male, non sforzarti di raccontarlo,” gli dissi. “Se mai dovessi cominciare a provare quel genere di interesse per te, e se tu non fossi ancora in grado di farlo, non esiterei a trovarmi un ragazzo e ti caccerei via di qui. Non tornerei sui miei passi, credimi. Quindi non devi preoccuparti. Ora come ora, è l’ultimo dei miei pensieri. Dico sul serio.”
“...Va bene.”
Nakajima cominciò a piangere in silenzio.
D’un tratto ebbi la sensazione di essere di fronte a un bambino, e sentii una profonda malinconia. Perché piangeva proprio come un bambino. Era il pianto di chi non ha un posto dove andare, un pianto da condividere soltanto con gli dèi. Avrei voluto abbracciarlo, ma lo avrei spaventato, quindi gli dissi: “Teniamoci per mano, stanotte”. E gliela presi. Già da prima si era strofinato gli occhi con l’altra mentre piangeva, e continuava, sempre di più. Strinsi forte la sua mano sottile, fredda e asciutta.
Quel contatto mi diceva che ormai era troppo tardi, che gli era capitato qualcosa di irrimediabile. Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che in passato avesse subìto degli abusi sessuali. Qualcosa lo aveva devastato, lo aveva condotto a un punto di non ritorno, o forse era solo una questione di tempo.
Mi sentii in colpa. È facile buttare fuori parole a caso quando certe esperienze non si sono vissute in prima persona. Non avevo la più pallida idea di quanto Nakajima fosse turbato.
Con ogni probabilità, quelle piccole attenzioni che mi illudevo potessero essergli d’aiuto – e di cui qualsiasi altra donna sarebbe stata capace – lo facevano sentire ancora più a disagio.
D’altro canto, vedendo poco prima il suo viso imperlato di sudore, quando mi aveva fatto quella confessione, avevo provato io stessa un vago timore, come se stesse costringendomi a portare un peso. Sul momento ero ancora troppo stanca, non mi sentivo pronta a cominciare qualcosa di nuovo, ma dopo un po’ di tempo avrei voluto provare a innamorarmi ancora, a vivere in modo spensierato, come era giusto alla mia età. Andare al cinema, litigare, uscire insieme, mangiare fuori (cosa che Nakajima detestava): volevo perdere tempo così, divertendomi. Non volevo confrontarmi con situazioni gravose. Questo era ciò che desideravo, ma con uno come lui non sarei potuta nemmeno andare alle terme, e persino il sesso sarebbe diventato una penitenza. In quel momento riuscivo solo a ripetermi pensieri superficiali, che così non poteva funzionare, che volevo divertirmi.
Ma Nakajima mi disse, con voce nasale e quegli occhi da bambino delle elementari: “Possiamo provarci? Vediamo se ci riesco. Se non dovessi farcela stasera, probabilmente non ce la farei mai più”.
E io risposi che sì, potevamo. Niente in contrario.
Poiché si sarebbe sentito a disagio senza vestiti, cominciammo a toccarci con ancora i pigiami addosso. Nakajima aveva una conformazione fisica particolare, inoltre non mi sembrava che gli piacesse granché. Avevo la sensazione di stare imitando un atto sessuale con una persona che considerava il sesso un peccato.
A rendere il tutto ancora più assurdo, c’era un pensiero che continuava a ronzarmi nella testa, e cioè che se quella storia fosse andata avanti, avrei dovuto rivedere non poco le mie priorità.
Di tanto in tanto, però, i nostri movimenti sprigionavano un bagliore luminoso, c’era ancora speranza.
Fu quella la nostra prima notte insieme.
Dopo che ebbi salutato per sempre la mamma, il corso degli eventi cambiò rapidamente.
Non ero più obbligata a tornare a casa, Nakajima aveva cominciato a venire da me, io non riuscivo a capire quando tutto ciò fosse iniziato e mi sembrava sempre di stare sognando. Era come se stessi occupando i sogni di qualcun altro, se ci abitassi dentro. Era tutto vero? Non riuscivo a capire. Le ossa, il crematorio, tutto.
Poco tempo dopo, mi fu offerto un grosso lavoro.
Ero una pittrice di poche speranze specializzata in pittura murale. La mia caratteristica principale era l’uso eccentrico del colore, che di tanto in tanto mi aveva portato anche in tv, inoltre andavo ovunque mi chiamassero nonostante fossi una donna e lavorassi da sola (non sapendo guidare, però, mi capitava di assumere qualche ragazzo part-time per farmi accompagnare in macchina), quindi un po’ di lavoro mi arrivava. Non è che fossi particolarmente famosa, ma c’è sempre domanda per questo tipo di intervento, quindi ero spesso in giro a dipingere le pareti di case e giardini, il muro mezzo crollato di un acquario, l’interno del deposito di qualche associazione di quartiere. Volevo lavorare all’aria aperta e di solito non accettavo indicazioni in merito al soggetto da dipingere. Al massimo mi confrontavo e ascoltavo dei suggerimenti, per esempio da chi mi chiedeva di disegnare frutta, animali, il mare o altro. Finora ero arrivata a quota venti, tra pareti, magazzini e giochi nei parchi pubblici.
Detto ciò, non pensavo esattamente che quel genere di lavoro mi avrebbe dato di che vivere. Semplicemente ci avevo provato una volta, avevo lasciato una buona impressione, ed ero andata avanti.
Mi piaceva il mio stile di vita quando dipingevo murales, mentre non mi preoccupavo granché del loro valore artistico.
Sapevo che prima o poi sarebbero stati distrutti, magari ridipinti, quindi non era il caso di badare troppo ai dettagli. Mi accontentavo delle belle sensazioni che mi davano sul momento, chiacchieravo con chi avevo intorno, facevo amicizia con loro, mi bastava che in quei brevi periodi si dimostrassero benevoli nei miei confronti.
La parete che mi era stata commissionata stavolta si trovava nei pressi della mia vecchia scuola d’arte, e divideva la zona universitaria da quello che una volta era un parco giochi e adesso era una scuola preparatoria privata per bambini in età prescolare, un muro piuttosto basso. Dalla parte dell’università c’era già un vecchio murale, mentre l’altra facciata era semplicemente tinteggiata di giallo, quindi avrei potuto dipingerci sopra qualsiasi cosa.
Era un luogo a me caro e vicino a casa, perciò accettai immediatamente la proposta che mi fece la mia vecchia collega di studi, Sayuri, oggi insegnante di pianoforte per i bambini della scuola.
L’edificio era vecchio ma molto carino, perché era stato progettato da un architetto del quartiere che si era impegnato al massimo per garantire alle future generazioni la possibilità di frequentare una struttura innovativa.
Quando ero studentessa quel posto mi piaceva di più ogni volta che lo guardavo, amavo la forma del muretto e dell’edificio, il giardino costruito a misura di bambino, con le sue collinette artificiali; tutti i giorni consumavo il bentō appoggiata proprio a quella parete, osservando i bambini. Era una costruzione piena di calore, e se fossi stata io stessa una bambina mi sarebbe piaciuto andare a scuola lì.
Con il tempo, però, si era molto deteriorata ed era diventata pericolosa, ma dicevano che ristrutturarla sarebbe stato troppo costoso, quindi ci fu chi propose di demolirla, e la cosa andò a finire in tv. Intervistarono persino me, la pittrice di murales ingaggiata dagli abitanti del quartiere che desideravano salvare la struttura.
A me la questione politica interessava poco, più che altro volevo giocare con i bambini che passavano tutti i giorni davanti all’edificio per cercare di vederlo attraverso i loro occhi e trasferire quelle sensazioni sulla parete. Probabilmente quella primavera non avrei avuto tempo per nient’altro. Non riuscivo a pensare a nulla di ciò che sarebbe venuto dopo. E, tutto sommato, che importanza aveva?
È così che funziona quando si crea qualcosa: si ha l’impressione di tentarle tutte, convinti che l’ispirazione pioverà dal cielo, ma la verità è che da soli non si conclude un bel niente.
I bambini sarebbero corsi in mio aiuto, ne ero certa. E insieme avremmo inciso qualcosa di eterno su quella parete. Così eterno che sarebbe sopravvissuto persino a una demolizione. E per me era più che sufficiente.
Tra le cure a mia madre e la cremazione, negli ultimi tempi avevo vissuto così tante esperienze per me insolite che mi sentivo come contaminata dalla sporcizia del mondo, perciò speravo che concentrarmi su quel lavoro mi aiutasse a togliermela di dosso.
Mi occupavo della mamma con molto impegno e non facevo che pensare a quanto fosse dura per me, tuttavia sentivo che stavo facendo qualcosa di bello, davanti a me vedevo una luce, e non mi pesava affatto. Mi ci ero così abituata che mi sembrò strano, a un certo punto, non poter più chiacchierare con lei.
Tutto ciò che facevo era per la mamma, la quale, però, se ne stava lì, in coma, o comunque distratta, con la mente altrove. Questo mi feriva veramente.
La riunione del pomeriggio andò bene.
Ebbi una serena chiacchierata con i direttori della scuola – una coppia che aveva lavorato in un asilo negli Stati Uniti – e decidemmo che sulla parete avrei dipinto degli animali dai colori vivaci. Ero un po’ preoccupata per via delle irregolarità della parete, ma livellarla avrebbe richiesto troppo tempo e denaro, quindi pensai di ovviare al problema con uno spesso strato di vernice come base, inoltre mi dissero che non c’era bisogno stendere teli di plastica sul terreno.
Insomma, si prospettava un lavoro divertente, per il quale la municipalità aveva stanziato dei fondi, così che mi sarebbe fruttato ben cinquantamila yen: una somma sufficiente a permettermi di assumere l’autista part-time. Con un aiutante e un’automobile era anche più semplice trasportare ogni giorno le venti latte di pittura ad acqua che mi servivano. Avevo ottenuto in prestito dalla scuola una scala, e con un po’ di fortuna mi avrebbero accordato anche il permesso di lasciare i miei attrezzi nel loro magazzino. Stavo partendo decisamente con il piede giusto. Quando si lavora in contesti per metà pubblici, come in questo caso, basta un minimo intoppo nelle fasi iniziali a creare grosse difficoltà. Stavolta le premesse erano buone.
Anche stasera, quando sarò rientrata, Nakajima verrà a dormire da me? Ci pensavo osservando la parete, da sola, per prendere le misure.
Non ero esattamente su di giri, ma sentii una leggera sensazione di calore dentro di me.
Insomma, mi sentivo come una ragazza che si è appena trovata un fidanzato.
Qualche volta però mi chiedevo come avrei fatto se a un certo punto mi fossi innamorata follemente di qualcun altro: averlo in casa sarebbe stato un problema. Non sapevo ancora bene cosa pensare. Certo, lui esercitava una forte influenza su di me, ma un grande amore era tutt’altra cosa.
Per il momento il nostro rapporto mi piaceva, quindi non mi ponevo troppe domande, ma se fosse diventato più profondo mi sarei potuta trovare in difficoltà.
E che ne sarebbe stato di lui se fosse accaduto e lo avessi messo da parte? Si sarebbe suicidato? Avrebbe perso la testa?
Per me era impossibile anticipare le reazioni di una persona con un passato come il suo alle spalle, perché non portavo nel cuore delle ferite così profonde. Sarebbe stato un errore illudersi di capire. Ammettere di non capire è una forma di lealtà verso gli altri, credo.
Ma dentro di me ero abbastanza tranquilla: potevo continuare a volergli bene. Ero stata molto, forse troppo attenta, sino a quel momento, e ora cominciavo a innamorarmi di lui. Senza esagerare, potrei dire che nessun altro avrebbe potuto prendere il suo posto. Qualcosa in lui mi dava l’impressione che fosse quello giusto.
È un po’ come quando si costruisce una casa: si cerca il terreno, si assume un progettista e c’è persino chi vuole scegliere in prima persona tutto il materiale di cui saranno fatti i muri. Io però non sono una persona di questo tipo, preferisco che le cose mi capitino quasi per caso, quindi cerco di farmele andar bene e intanto imparo a conoscerle.
Tra i pittori come me ce ne sono alcuni che prima livellano tutte le irregolarità della parete, poi stendono uno strato di vernice bianca e individuano un motivo che sia intonato ai colori e alle atmosfere dell’ambiente circostante, infine riproducono perfettamente il bozzetto in scala.
Invece a me piace dipingere divertendomi, e se a un certo punto qualcosa va storto cerco di portare a termine il lavoro in un modo o nell’altro. Per me sono importanti il luogo e il periodo in cui sto dipingendo, prendo le mie decisioni sul posto e non faccio affidamento sulla razionalità. Mi piace lavorare il più possibile all’aria aperta, prestare attenzione alle forme e allo scorrere del tempo, stare in movimento.
E così, nella maggior parte dei casi, alla fine di tutto si produce un effetto di naturale armonia. In quei momenti mi sento come se stessi danzando con il mondo intero, tenendo il suo ritmo.
La sensazione di aver danzato con i luoghi, la terra, liberando il corpo e la mente... per poi pronunciare il mio addio e andare altrove.
Sì, ne sono consapevole: è un modo sciatto di lavorare. Ma per me allora la pittura murale era più un passatempo che una professione. Quindi andava bene così. A breve avrei dovuto decidere se trasformarlo in un lavoro, ma per il momento potevo ancora rimediare nel modo che ritenevo più opportuno ai problemi che di volta in volta si presentavano. E nel frattempo, magari, sarebbe diventato davvero il mio lavoro. In quella fase, speravo che se avessi affinato la mia tecnica il più possibile – e con un po’ di fortuna – avrei ottenuto risultati soddisfacenti, quindi procedevo tranquilla e senza fretta.
Naturalmente c’era anche chi mi criticava. Ha un bel fegato a concedere interviste, senza una tecnica, con quei disegni mediocri, pensa forse di essere una celebrità? Ma su un punto, uno solo, non nutrivo il minimo dubbio, perché sapevo di averlo coltivato e perfezionato sin nei minimi dettagli.Le studiavo davvero tutte per essere sicura che, anche con il passare degli anni, le pareti che dipingevo non sarebbero mai apparse superate.
All’inizio mi concentravo sul paesaggio e sulla sua atmosfera, e in questo modo cominciavo a farmi un’idea dei colori e dei motivi più adatti. Se riuscivo a interpretarla nel modo giusto e a entrare in sintonia con l’ambiente circostante, l’opera finita non sarebbe mai sembrata vecchia, neanche a distanza di dieci, venti o cento anni. Di questo ero certa.
Così come il capomastro è orgoglioso delle case che ha costruito, anch’io ero sicura al riguardo. Niente mi avrebbe fatto vacillare. Non avevo dubbi. Così lasciavo la mia piccola traccia nel mondo, un po’ come i cani che marcano il territorio.
Non so se termini come “preparativi”, “progetti” o “fantasie” siano molto appropriati quando si parla d’amore, in ogni caso tra me e Nakajima non c’era niente di tutto questo. Ci limitavamo ad andare avanti, noi due soli, decidendo sul momento cosa fare.
Era una questione di istinto, non potevo comportarmi altrimenti.
Sapevo che al mondo non c’era nessun altro come Nakajima – nessuno che fosse strano come lui.
Non avevo mai visto nessuno stare così a lungo, di notte, al davanzale di una finestra. Non nutriva alcuna fiducia nella società e se ne stava in disparte. C’era qualcosa di malinconico e qualcosa di forte nel suo aspetto, e non potevo fare altro che continuare a guardarlo.
A pensarci adesso, quando guardavo la sua sagoma dalla finestra sembravo proprio una scolaretta alle prese con un amore non corrisposto. Volevo che quella figura si fissasse nei miei occhi. Mi chiedevo continuamente come riuscisse a mantenere una posizione così armoniosa.
Che malinconia...
Questo pensai levando gli occhi verso i rami spogli. Aperti come il palmo di una mano, lasciano filtrare la luce debole che annuncia la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.
Conoscevo quel luogo come le mie tasche perché una volta ci passavo ogni giorno. Non correvo il rischio di dipingere un soggetto poco appropriato. Ciononostante rimasi lì per qualche minuto ad accertarmi di non stare trascurando nulla. Volevo un disegno che emanasse malinconia, ma anche gioia. Distinguevo, riflessi sulla parete, i contorni di quella che era ancora un’immagine vaga.
“Torni a casa, Chihiro?”
Era Sayuri, l’amica che mi aveva contattato per il murale. La lezione di pianoforte era appena terminata. Doveva essere una delle rare pause che si concedeva: i bambini continuavano ad arrivare anche nel tardo pomeriggio.
Mi piaceva partecipare alla routine quotidiana di qualcun altro, per me era un po’ come viaggiare.
“Non subito. Vuoi bere qualcosa?”
“Temo di non avere abbastanza tempo.”
Così andai a comprare due caffè in lattina e ne portai uno anche a lei.
“Ti piace ancora quel ragazzo? Quello un po’ strano. Magro. Che va in quell’università per cervelloni.”
“Sì, te ne ho parlato, non è vero? Nakajima. Non solo mi piace, ma in questo periodo ci stiamo più o meno frequentando.”
“Cos’è che studiava?”
“Mi ha parlato di una ricerca sui cromosomi, ma onestamente non ho la minima idea di cosa faccia nello specifico. Adesso sta scrivendo un articolo sulla sindrome di Down e sul ventunesimo cromosoma, qualcosa del genere... È talmente complicato che, per quanto cerchi di spiegarmelo, non ci capisco niente. E poi scrive soprattutto in inglese. Non posso nemmeno sbirciare tra le sue carte.”
“È così difficile che neanche te lo ricordi, quindi. Ho capito solo che tu non ne capisci niente. Però sta andando avanti lo stesso, anche se non riesci a venire a capo di una cosa che per lui è così importante.”
“Sì, infatti. Sarebbe molto meglio se si occupasse che so, di antropologia culturale, di etnologia o anche di letteratura francese.”
“Riusciresti a farti un’idea vaga.”
“Mah, comunque sia non mi lamento. Mi piace la nostra quotidianità. Sono serena come mai prima d’ora. Mi sento tranquilla, come se fossi immersa in un’acqua calma ma a tratti anche mossa. Tutto il resto mi sembra sempre più distante. Non mi aspetto chissà quali sviluppi, ma non credo neanche che ci lasceremo.”
Sayuri si mise a ridere.
“Non state nemmeno insieme e già ti senti così?”
“Non gli ho mai chiesto di parlarmene, ma so che ha vissuto delle esperienze molto negative. Sono cose che si capiscono quando si sta insieme, no? Quindi ho deciso di non mettergli fretta, e mi sono rilassata anch’io. Credi che dovrei indagare, prendere qualche iniziativa?”
“Non credo. Se state bene così... Però spero che quest’esperienza terribile non sia stata davvero così terribile. Che non si tratti di atti criminali, fughe, magari una bancarotta. Cioè, può anche essere una cosa del genere, l’importante è che non vi crei problemi d’ora in avanti.”
“No, non è il tipo. Magari non è successo niente di particolare. Mi ha detto solo che per lui la morte di sua madre è stata uno choc enorme, perché le era molto legato, ma ho la sensazione che nasconda ferite ben più profonde.”
“Spero allora che non ci sia nulla che non va in lui.”
“Qualcosa c’è, mi auguro solo che non sia così grave da impedirgli di andare avanti con la sua vita. In fondo finora ce l’ha fatta. Deve vivere nel modo più semplice possibile e tutto tornerà a posto.”
Le mie parole nascondevano una preghiera. Voglio che viva.
Passando del tempo insieme a Nakajima avevo percepito la sua sofferenza, ma non c’era nulla che potessi fare per aiutarlo.
Sapevo che la stessa persona che di notte si svegliava urlando e tremando, che cominciava a sudare quando era in mezzo alla gente, che soffriva di emicrania ogni volta che sentiva determinate canzoni, aveva vissuto a lungo con il desiderio di accorciare il prima possibile la distanza che lo separava dalla madre. Erano solo frammenti, ma stando con lui avevo cominciato a capire.
C’è sempre un rovescio della medaglia. Dietro alla luce più intensa si nasconde l’oscurità più profonda. Come una creatura leggendaria, Nakajima non riusciva a controllare la forza che albergava in lui.
Sayuri disse: “Con il lavoro che faccio mi capita di incontrare molti bambini difficili. Escludendo quelli di indole crudele o affetti da problemi mentali, la maggior parte di loro soffre a causa dei genitori. Quando capita qualcosa ai genitori di un bambino molto piccolo, è come se una parte di lui restasse paralizzata o si spezzasse e, per quanto insignificante questa parte possa apparire, è necessario ricostruirla: ne vedo tanti così. C’è qualcosa di molto profondo che non si può rimettere a posto facilmente. Si tratta di ferite così diverse le une dalle altre, così particolari, che è impossibile intervenire. Io sono solo un’insegnante di pianoforte, ma se fossi una maestra d’asilo credo che mi sentirei davvero in difficoltà, perché dovrei interagire molto di più con i genitori dei bambini. Da qualche tempo a questa parte ci sono troppe famiglie distrutte, e per motivi sempre diversi. E genitori distrutti, anche”.
Annuii. Mi bastava stare lì per capire che aveva ragione. Si incontravano genitori e bambini completamente differenti da quelli di una volta. Ciononostante, avevo la sensazione che nel caso di Nakajima le cose non stessero proprio così.
“Di sicuro non ha vissuto una vita normale né semplicemente ‘strana’. Il suo passato deve nascondere qualcosa di molto grave. I suoi erano divorziati, ma non mi sembra che ciò abbia costituito un grosso problema per lui, così come non penso che questo amore così forte per la madre fosse legato a situazioni particolari: in generale, non credo che abbia avuto dei problemi con i genitori. Almeno stando ai pochi frammenti di informazioni di cui sono a conoscenza. Quello che conta è che sia una persona di animo buono... Ripeto, so solo che deve essergli capitato qualcosa di assurdo.”
“Assurdo in che senso?”
“Forse è stato rapito, o ha subìto degli abusi sessuali, naturalmente non da parte dei suoi genitori.”
Nel momento in cui pronunciai quelle parole tutto mi sembrò più chiaro.
Ogni tanto mi succede. Dico una cosa e me ne convinco. Capii di essere vicina alla soluzione. Sì. Ma continuai a parlare.
“È diverso dagli altri, come dire, è come se vivesse a tre metri da terra. Sai quelle persone un po’ al di sopra di tutto? A volte penso che sarebbe stato così anche se non gli fosse capitato nulla. Per ora voglio solo osservare, senza affrettare le cose. A quanto pare abbiamo entrambi bisogno di tempo. Per conoscerci, per parlare, per tutto.”
Parlando mi resi conto di quanto Nakajima ormai fosse importante per me. E non ero sicura di volerlo sapere.
Per questo mi sentivo così. Forse stavo cominciando a sentirmi coinvolta.
Forse ero innamorata di lui senza neanche rendermene conto. Forse, per la prima volta nella mia vita, amavo un uomo come amano le donne adulte, e non per passare il tempo.
Era chiaro, scritto nell’espressione seria del mio volto, che assomigliava sempre di più al volto della mamma quando guardava il papà.
Un’altra caratteristica di mia madre era proprio questa: quanto più amava, tanto più cercava di essere prudente.
“E che mi dici dei soldi? Ne ha?”
“Sì. A quanto pare suo padre lo sosterrà economicamente fino alla fine del dottorato, inoltre credo che la madre gli abbia lasciato qualcosa in eredità. Ha ancora casa sua, ma da quando sta da me contribuisce alle spese alimentari e a quelle di luce e riscaldamento. Calcola tutto con precisione e ogni mese mi passa la somma esatta. Non sbaglia di un minuto, di un centesimo.”
“Quindi è attento a questi particolari.”
“E tu che me lo chiedi, Sayuri, sei una che la sa lunga, eh?”
“Direi che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Potete continuare a vivere così anche per tutta la vita. Non è una situazione normale, ma nemmeno tu lo sei, quindi è perfetto.”
“Sì, sono d’accordo. Per un po’ lascerò che le cose continuino così.” Purché continuino, pensai. “A parte questo, Sayuri, volevi parlarmi di qualcosa? Perché mi sei venuta a cercare?”
“Sì. Volevo scusarmi per aver fatto finire te e il tuo murale in televisione.”
“Oh, ma figurati. Non fa niente.”
“Ma sei diventata famosissima, o sbaglio? Hanno parlato di te persino al notiziario.”
Scoppiai a ridere.
“Ma no che non sono famosissima!”
“In questo quartiere basta poco per diventare una personalità. Qualcuno è arrivato a dire che grazie al polverone sollevato dal tuo murale forse l’edificio non verrà demolito.”
“Sarà...”
“Non volevo coinvolgerti, mi dispiace.”
“Tu da che parte stai?”
“Non voglio che lo distruggano, è naturale. La scuola è la mia ragione di vita. Molti dei miei allievi vengono qui da anni, ormai. Ma non è per questo che ti ho contattato. Mi piaceva l’idea di poter vedere uno dei tuoi grandi disegni nel posto dove lavoro, tutto qui. Non intendevo né servirmi di te né farti creare qualcosa con la consapevolezza che a un certo punto sarebbe stato distrutto.”
Conoscendo Sayuri, ero certa che dicesse la verità.
Bastava guardarla per capire che era sincera: gli occhi fissi verso il basso, la peluria vicino alle orecchie, le sopracciglia folte. Doveva aver subìto diverse pressioni, ma aveva cercato di proteggermi tenendosi tutto dentro.
“Non preoccuparti, se si tratta di parlare dei miei murali posso fare tutte le interviste che vuoi. Quanto al resto, preferisco non pronunciarmi.”
“D’accordo, grazie. E ti chiedo scusa sin d’ora se prima o poi il palazzo dovesse essere demolito insieme con il tuo lavoro. Finché mi sarà possibile farò di tutto per proteggerli.”
“Stai tranquilla, non dipingo con la speranza di essere ricordata per sempre. E poi non sarebbe mica colpa tua.”
“In ogni caso faremo delle foto. E le conserveremo negli archivi del quartiere. Questo lo faremo di certo.”
Avrei mentito se avessi detto di non voler essere ricordata affatto. Ma avrei mentito di più se avessi espresso il desiderio di essere ricordata per l’eternità. Io mi limito a seguire il filo delle semplici emozioni quotidiane e ad annotarle in una forma un po’ più grande: quella dei disegni. Nulla di più. A pensarci bene, non è un atteggiamento molto professionale.
Mi sentivo quasi in colpa verso Sayuri, che invece era estremamente seria e attenta nel relazionarsi con i bambini.
In tutta onestà, non me ne importava molto. Per me non faceva differenza se la parete sarebbe stata demolita o elogiata. E se pure avessero chiuso la scuola, quelle persone erano così in gamba e intelligenti che sicuramente sarebbero riuscite a cavarsela da qualche altra parte.
Forse le cose definitive mi facevano paura. Avrei voluto scorrere come l’acqua, all’infinito, avrei voluto restarmene in disparte a guardare.
Per questo non avevo amici veri, con cui fossi perfettamente in sintonia, anche se c’erano persone alle quali ero affezionata: avevo sempre la sensazione di lasciare qualcosa in sospeso.
Nakajima era stato il mio primo vero amico... Era questa la sensazione che provavo. Era tremendamente fragile, ma in lui c’era qualcosa di solido.
Riusciva a mettermi di fronte a me stessa, come uno specchio. E sapevo di non sbagliare. Ero tranquilla.
Sino a quel momento mi ero illusa di aver raggiunto un’indipendenza soltanto perché non vivevo vicino a mia madre, ma adesso che ero rimasta sola mi stavo rendendo conto di quanto fosse importante per me il suo sostegno.
Non le chiedevo mai consigli, ma ogni volta che dovevo affrontare dei cambiamenti le telefonavo, parlavo con lei del più e del meno, andavo a trovarla. Adesso che non c’era più, sentivo che quello era l’asse su cui ruotava la mia vita... E che, nel bene o nel male, mi riportava sempre al punto di partenza. E dove fosse, questo punto di partenza, non saprei dirlo: forse esisteva da prima che io nascessi.
Da bambina mi bastava guardare in viso mia madre per capire dove mi trovassi, adesso non avevo altri che me stessa. Certo, c’era Nakajima, avrei potuto vedere il mondo attraverso di lui, ma mi sarebbe bastato distogliere lo sguardo per un istante e non avrei visto più niente. Non era come un genitore: loro sono qualcosa di assoluto.
L’avevo guardata morire per così tanto tempo che ancora non riuscivo a ricordarmi di mia madre quando era sana. Ricordavo solamente il respiro affaticato degli ultimi istanti e quella stanza d’ospedale pregna dell’odore di persone sul punto di morire. Riuscivo solo a rivivere il senso di impotenza di fronte alla realtà che la mamma stava soffrendo da sola, nel suo mondo, e io non la stavo sostenendo affatto. Per qualche strano motivo continuavo a pensare a una cosa che avevo letto da qualche parte, che se manifestiamo troppo attaccamento a una persona che sta morendo le impediamo di raggiungere il nirvana; per questo feci del mio meglio per non piangere e continuai a rivolgerle parole di gratitudine. Sono stata una stupida, non saprei in che altro modo definirmi. Avrei dovuto piangere più che potevo. Avrei dovuto piangere a singhiozzi, aggrapparmi alla bara, agitarmi come mio padre. Fregarmene degli occhi puntati su di me, delle chiacchiere della gente, lasciarmi andare.
Allora, forse, la mamma non si sarebbe preoccupata vedendomi così insicura dei miei sentimenti per Nakajima, né mi sarebbe apparsa in sogno.
“Vorrei incontrarmi con dei vecchi amici, ma ho paura di andarci da solo. Ti va di venire con me?”
Nakajima mi rivolse questo invito due settimane dopo la nostra conversazione.
Da allora non avevamo più fatto sesso, ma lui si fermava a dormire da me tutte le notti. “Non ti preoccupare, ricalcolerò le spese di luce e riscaldamento,” mi assicurava.
Mancava una settimana all’inizio del mio lavoro con il murale, quindi ero libera.
E proprio perché ero libera, mi cimentavo in varie ricette utilizzando l’enorme quantità di prosciutto pregiato d’importazione fattomi recapitare da mio padre. Riso saltato con ananas e prosciutto, bistecca al prosciutto, riso al vapore con prosciutto eccetera.
Mi ero data così tanto da fare che persino Nakajima, che non aveva un palato fine e non era particolarmente esigente, mi aveva detto di non poterne più di mangiare prosciutto.
Per il resto, era un periodo tranquillo: andavo in giro con il mio aiutante, un collega di università più giovane di me, a comprare la pittura, preparavo i pennelli di cui avrei avuto bisogno per il murale e stavo seduta per ore alla scrivania a disegnare bozzetti.
È divertente lavorare ai bozzetti, perché è un po’ come dipingere in miniatura. Non riproduco mai in maniera esatta quei disegni sulla parete, si tratta per lo più di schizzi buttati giù per raccogliere le idee, ma disegnare in scala ridotta mi dà un piacere particolare. Mi sembra di tornare a quando, da bambina, giocavo a fare la mamma. Piccoli pezzi, personaggi piccoli. Nella mia mente, però, assumono le normali proporzioni: qui sta il divertimento.
La parete da dipingere era bassa e lunga, quindi avevo pensato di disegnare una fila di scimmie, ma l’immagine che avevo in testa non mi sembrava ancora del tutto in linea con l’atmosfera del posto né abbastanza bella. Non avrei mai pensato di trovarmi così in difficoltà, ero bloccata e riflettevo su come uscirne: avrei potuto cominciare e vedere come andava, oppure chiedere ai bambini di compilare un questionario.
Se avessi dipinto un murale da principiante tanto valeva che lo facesse un qualsiasi funzionario del Comune. Dovevo tirar fuori qualcosa di singolare, di intimo. Ma che ricordi mi legavano alle scimmie? E, in effetti, quand’è che ne avevo vista una l’ultima volta? Dovevo forse andare allo zoo per raccogliere materiale? Ero sempre immersa in questi pensieri, per cui mi dissi che mi avrebbe fatto bene cambiare aria per un po’.
Senza alzare gli occhi dalla rivista che stavo sfogliando gli risposi: “Va bene. E se facessimo un picnic?”.
Non appena lo guardai in viso, però, la mia allegria si volatilizzò. Si capiva perfettamente che per lui non si trattava di una visita come le altre.
Il nostro rapporto non aveva fatto grandi passi avanti. Quella mattina ci eravamo alzati, avevo preparato un’omelette con l’unico uovo che avevo in casa (e con il prosciutto, naturalmente) e mentre io, in uno stato pietoso, mi passavo lo smalto sulle unghie dei piedi, Nakajima stava al suo PowerBook a scrivere una delle solite relazioni. Proprio mentre stavo pensando che, non appena si fosse preso una pausa, avrei preparato del tè, mi rivolse quella domanda.
Come aveva detto Sayuri, Nakajima era diverso da noi due, che avevamo frequentato una scuola d’arte di basso livello: lui veniva da un’università cui riuscivano ad accedere solo persone molto portate per lo studio.
Naturalmente gli avevo chiesto di parlarmene.
“Come fai a studiare così tanto? Anche da bambino ti piaceva?”
Ci pensò su, poi rispose: “Un giorno, all’improvviso, ho cominciato a studiare nella speranza di recuperare qualcosa”.
“È successo... Dopo che tua madre è morta?”
“Sì. Mentre io non c’ero, i miei genitori hanno dovuto affrontare diversi problemi; a un certo punto hanno cominciato a vivere separati e alla fine hanno divorziato. Da quel momento ho vissuto una situazione per qualche verso simile alla tua: ricevo ancora denaro per le spese di sussistenza e le tasse universitarie e di tanto in tanto mi vedo con mio padre, ma ho smesso di vivere con lui ai tempi del liceo, quando mia madre è morta... Perché dopo il divorzio era tornato dai genitori nella prefettura di Gunma. Non avevo alcuna voglia di traslocare di punto in bianco. Senza contare che già da tempo si era risposato e aveva avuto un altro bambino. Così mi sono ritrovato a vivere da solo, ma i soldi non mi mancavano, non avevo bisogno di lavorare chissà quanto, e poi non sono uno spendaccione: insomma, da un momento all’altro ho avuto un sacco di tempo libero. Allora mi sono messo a pensare seriamente a ciò che volevo fare della mia vita. Interagire poco con le altre persone, lasciarmi coinvolgere il meno possibile, dedicarmi a ciò che mi piaceva e, magari, anche rendermi utile un minimo. Mi sono guardato un po’ in giro e ho capito che la ricerca genetica avrebbe fatto al caso mio.”
“Mi chiedo come mai ti sia venuta in mente una cosa tanto difficile, forse sei stato ispirato da qualcuno che conoscevi?”
“Sì. Nel periodo in cui vivevo separato dai miei genitori avevo un solo buon amico, una persona adulta che aveva studiato in una facoltà dove si insegnavano questi argomenti, e quando me ne parlò ebbi l’impressione che mi sarebbe potuto interessare.
Dopo la morte di mia madre ero rimasto da solo, mi sentivo triste e la sola cosa che potessi fare era gettarmi nello studio con tutto me stesso. Il mio unico obiettivo era superare l’esame di ammissione, e siccome non volevo vedere nessuno ho studiato sempre da solo, senza neanche frequentare dei corsi preparatori.”
Mi spiegò a lungo e nel dettaglio il suo metodo di studio.
Lo ascoltai in silenzio, anche se dentro di me mi domandavo: “Ma come sarebbe a dire ‘il periodo in cui vivevi separato dai tuoi genitori’?”.
Aveva imparato a trovare la concentrazione separando il corpo dalla mente. Mi disse che per lui non era difficile, anche se aveva capito che, nel mondo reale, si trattava di una cosa piuttosto pericolosa.
Le sue parole erano tanto strane quanto il suo tono era tranquillo.
Mi raccontò di essere dimagrito di venti chili da quando aveva iniziato a studiare fino all’ammissione all’università che desiderava. A un certo punto non mangiava più niente, svenne per strada e fu portato al pronto soccorso, dove lo nutrirono con le flebo, salvandogli la vita.
“È normale che proprio uno che vuol diventare un medico faccia cose del genere?”
La mia domanda lo fece scoppiare a ridere. Mi spiegò che apparteneva al laboratorio della facoltà di medicina, e quindi era un dottorando: non studiava per diventare medico, ma ricercatore.
Non era più riuscito a smettere di studiare e una volta che ebbe acquisito la capacità di separare corpo e mente, i suoi risultati erano migliorati ancora: era così concentrato che gli sembrava addirittura di poter fare a meno del corpo.
“E poi ho capito che il corpo, una volta ricevuti gli ordini dal cervello, impiega sempre un po’ di tempo a reagire.”
“In che senso?”
“Le prime volte che ho fatto ricorso a questo metodo di autosuggestione è stato abbastanza semplice: usavo il corpo con un minimo dispendio di energie, lasciando che il resto andasse a finire nel cervello. Siccome mi è andata bene, ho acquisito eccessiva sicurezza. Non so bene come spiegarlo, ma a un certo punto l’intero processo ha subìto una specie di accelerazione, e anche se la testa si ostinava a inviare al corpo dei comandi per farmi nutrire o muovere braccia e gambe, era come quando si cerca di fermare una giostra: ci si poteva arrivare solo gradualmente, rallentando poco alla volta. Era un’eventualità che non avevo calcolato, avevo trascurato troppo il mio corpo. Ancora un poco e sarei morto.”
“Senti, capisco che lo sai fare, ma non sarebbe il caso di smetterla? Stai mettendo troppo alla prova il tuo fisico. Non ti preoccupi delle conseguenze?”
Nakajima si mise a ridere.
“Lo so, e infatti non studio più così. Adesso cerco solo di non restare indietro.”
Incredibile, cercava di non restare indietro e riusciva a frequentare corsi di dottorato, senza strafare scriveva comunque articoli ed effettuava ricerche preliminari, leggeva intere bibliografie: era davvero una persona portata per lo studio, lo ammiravo moltissimo.
“Studiando in maniera ossessiva mi sono accorto di una cosa. Se fossi andato avanti così avrei sicuramente terminato il corso di dottorato e, continuando a scrivere come facevo, avrei conseguito il titolo senza alcun problema. Avrei cercato un lavoro in Giappone e da qualche parte avrei trovato un laboratorio in grado di soddisfare tutte le mie aspettative. Ma non sono sicuro che in questo paese mi attenda un futuro brillante, ho bisogno di rifletterci su. Ho iniziato a pensare che forse preferirei andare fuori. Prima pensavo solo a sopravvivere, e non mi ponevo questo genere di problemi.”
Il suo tono era pacato.
Risposi: “Non mi intendo di queste cose, ma penso che se sei arrivato fin qui ce la puoi fare. Puoi fare qualsiasi cosa. È sufficiente che tu lo desideri”.
Andare fuori significava andare all’estero, il che a sua volta significava che tra noi forse sarebbe finita?
Quindi per Nakajima casa mia era un rifugio provvisorio in attesa della fuga dal Giappone...
Ma sentivo che non era il momento giusto per affrontare quella conversazione.
Nonostante dicesse di voler andare a trovare i suoi amici, ogni volta che ne parlava assumeva un’espressione terribilmente cupa e così, a un certo punto, gli domandai: “Senti di dover incontrare questi tuoi amici proprio adesso?”.
“Non necessariamente, ma forse adesso ci riuscirei.”
“Perché ci sono io con te, vuoi dire?”
“Esatto... Perché ci sei tu, che sei sempre così positiva.”
Risposi: “Sai, non è che io sia poi così positiva. Credo”.
Non mi aveva dato fastidio, ero sinceramente dispiaciuta per lui.
Probabilmente Nakajima percepiva – e ingigantiva – un solo lato della mia personalità, quello razionale e schietto che veniva fuori quando eravamo insieme, l’aria allegra che avevo ereditato da mia madre. E se le cose stavano davvero così, forse si sarebbe sentito tradito una volta venuto fuori l’altro lato, quello più malinconico e introverso.
“Sì, lo so, ma infatti... Non so quali siano le parole più adatte a esprimerlo ma, ecco, tu vai bene proprio così. È un modo strano per dirlo, ma tu rappresenti la misura ideale.”
Grossomodo avevo capito ciò che cercava di dirmi.
Trattandosi di lui, avrebbe saputo certamente spiegare con precisione come abusava del proprio corpo per studiare o quale fosse la composizione delle mie emozioni. Invece stava provando ad abbassarsi al mio livello, e per questo motivo risultava confuso.
Sentivo, però, che in quel momento parlare gli faceva bene e quindi inclinai la testa di proposito, per spingerlo a continuare.
“Voglio dire, per te non c’è niente che conti più dell’amore, non è vero, Chihiro? Però non cerchi di controllare le altre persone, mi sbaglio?”
“Non credo,” risposi.
“E sei ancora molto legata al ricordo di tua madre, non è vero? Certo, tutti si portano dentro del risentimento, succede in ogni famiglia, ma tu provi amore e odio con intensità normale, no? Metà e metà. Anche se a volte l’uno o l’altro sembrano prevalere.”
“Sì, direi che è così.”
“E non odi tuo padre, giusto?”
“Certo che no. Anzi, gli voglio bene. La nostra non era esattamente la situazione ideale, ma forse, proprio per questo, riuscivamo a dimostrare i sentimenti che provavamo gli uni per gli altri più facilmente rispetto a quanto accada in una famiglia normale. Non rientravamo in nessuna categoria, quindi dovevamo veramente impegnarci, ciascuno a suo modo.”
“Proprio così: tu non dai per scontata la tua famiglia, è per questo che con te mi sento sereno. Tu vedi le persone per quelle che sono, e anche me: non pretendi che io cambi.” Il suo tono era misurato. “È questo ciò che mi piace di te. Sono una persona patologicamente sensibile a qualsiasi tipo di violenza, capisco subito certe cose. La maggior parte della gente esercita una qualche forma di violenza sugli altri, anche senza averne l’intenzione. Tu invece non lo fai quasi mai, Chihiro.”
“E tu?”
“Non ne ho mai parlato apertamente prima, ma il modo ossessivo in cui mia madre si prendeva cura di me mi ha sempre fatto sentire sotto pressione. Esistevo soltanto io, al punto che mio padre non ne poté più e ci lasciò. Era opprimente, ma quando le circostanze ci avevano tenuti lontani per tanto tempo mi era mancata moltissimo. Poi eravamo tornati a vivere insieme, e a quel punto il suo amore mi soffocò... Quando uscivo, per esempio, non poteva fare a meno di chiedermi a che ora sarei rientrato, e se tardavo anche di poco la trovavo ad aspettarmi in lacrime: lei era fatta così.
La nostra vita insieme non era ricominciata da molto quando lei è morta, e questo non ha fatto che aumentare la mia confusione. Da un lato la idealizzavo, dall’altro sentivo una sorta di pressione, di insistenza tutta femminile: di lei mi sono rimaste impresse queste due immagini. Ma la parte più idealizzata era così straordinaria da farmi sentire impotente, insignificante, e so che è solo grazie a lei che adesso sono qui. Non sarei mai riuscito a esprimerle tutta la mia gratitudine, nemmeno se fosse rimasta in vita.
Ma abbiamo vissuto anche momenti terribili. Momenti in cui eravamo come una coppia persa in un labirinto e incapace di scorgere una via d’uscita. All’epoca frequentavamo abitualmente gli ospedali, tutti e due, e ce la passavamo così male che, su consiglio dei medici, ci stabilimmo per qualche tempo in una piccola casa prestataci da un parente. Era una catapecchia in campagna, nel bel mezzo del nulla, e per un po’ vi conducemmo una vita tranquilla. Le estati erano fresche, mentre gli inverni erano incredibilmente freddi, ci sentivamo sempre gelare, ma in compenso c’era una bella veduta, con un lago in primo piano: era un posto malinconico ma stupendo.
Ora ci abitano i miei amici, quelli di cui ti ho parlato, e li vorrei andare a trovare, ma ogni volta che ci penso comincio a sudare freddo, proprio come adesso. Negli ultimi anni ci ho provato più d’una volta, ma comincio ad accampare scuse e alla fine non ci vado mai. Non so cosa sia a farmi sudare freddo, però succede. Non capisco se si tratti della memoria di mia madre o dei ricordi del periodo trascorso con loro.”
“Se ti fa soffrire così tanto, forse non ci dovresti andare, non credi?” dissi. “Aspetta che arrivi il momento giusto, no?”
Nakajima assunse un’espressione triste.
“Ma così non li vedrò mai. Non li vedrò mai più.”
“Quand’è stata l’ultima volta che hai incontrato questi tuoi amici?”
“Ci sono andato con mia madre quando lei era ancora viva... Saranno passati dieci anni. O magari anche di più. Di tanto in tanto li chiamo al telefono.”
“E li vuoi incontrare?”
“Sì, più di chiunque altro. Mi piacerebbe moltissimo incontrarli. E da quando sto con te, Chihiro, ne ho ancora più voglia, mi sembra di non poter resistere oltre.”
“Quanti sono?”
“Sono in due, li conosco da tanto tempo. Un ragazzo e sua sorella più giovane.”
Non avevo idea di dove intendesse portarmi, ma mi fidavo di lui. Lo sentivo sulla mia pelle: potevo fidarmi. Ci guardavamo negli occhi ogni giorno, e se in lui ci fosse stata l’ombra di una contraddizione l’avrei percepita. Nakajima aveva i suoi alti e bassi, ma sapevo che era sincero.
“Andiamo, allora. È lontano?”
“Tre ora circa in treno, incluse le coincidenze.”
“Ci vogliono molti soldi?”
“Mi stai accompagnando, quindi pago io.”
“Non preoccuparti, mi fa piacere.”
“Insisto: penserò io al biglietto e al resto.”
“In questo periodo non me la passo male, quindi me lo posso permettere. Mi hanno appena affidato questo nuovo lavoro.”
Mi misi a ridere.
Sorpreso, Nakajima mi domandò: “Come fai ad accettare così di buon grado di seguirmi senza sapere nemmeno dove stiamo andando? Al tuo posto non ci riuscirei”.
“Be’, si tratta di un posto triste, ma in cui desideri andare, no? È normale che voglia venire con te. Nessun altro a parte me ti ci potrebbe accompagnare. Sei sempre a casa mia. Ci incontriamo tutti i giorni e non vediamo l’ora di incontrarci.”
Se davvero fossi stata innamorata di lui, non sarei riuscita a dirgli quelle cose. Avrei cercato di tenerlo sulle spine, o forse non sarei riuscita a trovare le parole adatte. Era solo affetto. O forse, senza capire ancora bene il perché, avevo paura di ferirlo, una paura che non avevo mai provato nei confronti di nessuno. Al solo pensarci sentivo come un masso piombarmi sul petto.
“Grazie,” disse Nakajima, a bassa voce.
Il giorno successivo salimmo su un treno diretto a nord.
Scendemmo a una piccola stazione e c’incamminammo con l’aria fredda che ci colpiva il viso.
Di tanto in tanto un pallido raggio di sole si infiltrava attraverso le nubi.
C’erano tanti alberi che cominciavano a germogliare. Gemme dure e rotonde spuntavano sui rami di un verde brillante, gonfie, esuberanti. L’aria era limpida, mi attraversava il corpo da capo a piedi. La piccola stazione di provincia era immersa in un’atmosfera vivace che si esaurì dopo pochi metri: ben presto ci ritrovammo a camminare in una strada del tutto anonima, noi due soli. Sulle montagne, in lontananza, ancora si vedeva un po’ di neve. Quelle chiazze bianche si alternavano al marrone dei tronchi in un contrasto perfetto sotto il cielo azzurro.
E così arrivammo al lago, che non era poi così grande.
Era un giorno feriale e non c’era nessuno. Il lago era immerso nel silenzio, come se avesse inghiottito tutti i rumori. La superficie sembrava uno specchio, s’increspava a ogni soffio di vento. Si sentiva soltanto, ora alto, ora basso, il canto degli uccelli.
Nakajima indicò un punto con il dito. “Dalle parti di quel santuario. È lì che abitano i miei amici.”
Sull’altra sponda del lago si intravedeva un piccolo torii rosso.
Guardai Nakajima e mi accorsi che era tutto sudato e in viso era pallido.
“Stai bene?”
Gli presi la mano.
“Sto bene. Queste scale sono la parte peggiore. Ma non appena li vedrò starò meglio, ne sono sicuro.”
La mano di Nakajima era gelata, faceva spavento.
Mi chiesi quali prove avesse dovuto fronteggiare, con il corpo e con il cuore.
La prima parola che mi venne in mente era: “Poverino”. Non avrei saputo cos’altro dire. Sapevo perfettamente che la compassione non sarebbe servita a nulla, ma riuscivo a pensare soltanto che mi dispiaceva per lui. Immaginare lui che da bambino cercava di farsi una vita lontano dai suoi genitori era per me motivo di profonda tristezza.
Persino io mi ero accorta della frattura prodottasi in lui.
Dal mio punto di vista, stavamo facendo una piacevole passeggiata circondati da un paesaggio lacustre in una bella giornata di inizio primavera, mentre per lui tutto ciò non era visibile: soffriva come se si trovasse all’Inferno, trascinandosi dietro delle catene a ogni passo.
“Nakajima, aspetta un momento.”
“...Sì.”
Si fermò con aria assente, sudato da capo a piedi.
“Accovacciamoci un attimo.”
Aveva tutta l’aria di voler arrivare a destinazione il prima possibile, e la mia proposta lo infastidì palesemente, era seccato. Se avesse potuto mi avrebbe spinto via per filarsela. Lo sapevo bene. Sentivo che era contrariato. Ma mi accontentò, seppure con riluttanza.
È solo all’inizio di un amore che si accetta di fare qualcosa senza averne voglia. Con il tempo si smette, perché si comincia a capire ciò che l’altro non sopporta. Dissi a me stessa che potevo ancora permettermelo.
Ma in fin dei conti è solo teoria: la ragione, per me, seguiva sempre i movimenti del corpo.
Mi accovacciai vicino a lui e lo strinsi forte a me. In silenzio e a lungo. Sentivo il suo fiato sul collo. Dai suoi capelli promanava un sentore come di polvere. Il cielo era sconfinato, meraviglioso, sembrava chiedere agli uomini perché i loro cuori siano i soli a non sapere come lasciarsi andare. Il vento sul lago era freddo, un’eco dolce annunciava già la primavera.
Restai ferma finché Nakajima non smise di ansimare e di sudare.
C’era qualcosa di intenso tra noi, ma senza la minima traccia di sensualità. Non era il momento. Ero io a stringerlo, ma mi sembrava che fossimo aggrappati l’uno all’altra sul ciglio di un burrone.
“Prima o poi svanirà.”
Ne ebbi la certezza in quell’istante. Il peso che portava nel cuore lo avrebbe trascinato via a dispetto del suo desiderio di felicità, e tutto il mio amore, tutta la bellezza di questo mondo, non sarebbero bastati a sostenerlo: il mio corpo lo sentiva chiaramente. E lo sentiva la mia anima, in profondità.
Ma i ricordi non svaniranno, pensai. Altrimenti per che cosa avrebbe vissuto? Le lacrime mi velarono gli occhi.
“Grazie. Adesso sto bene.”
Non stava affatto bene, e la sua voce era roca.
Poi mi strinse forte la mano e con freddezza mi spinse via.
Dopo un po’ che camminavamo ebbi la sensazione di non riuscire più a vedere molto bene. Forse dipendeva dall’intensità con cui avevo stretto Nakajima fino a poco prima: magari avevo esagerato e avevo avuto un calo di pressione? Avevo qualche difficoltà a respirare, era come se mi fossi caricata di una parte delle sue sofferenze.
Vedendomi, Nakajima disse: “Perdonami, ma ogni volta che cerco di andarli a trovare non ci riesco, mi faccio prendere da tanti pensieri”.
“È naturale. Sai, Nakajima, tu usi spesso l’espressione ‘non ci riesco’, ma non dovresti. Non la voglio sentire. Ogni volta mi viene una fitta alle orecchie.”
“È vero, è come un intercalare. È dovuto al fatto che ho vissuto a lungo in un contesto nel quale non riuscire a fare qualcosa significava morire.”
“Davvero...?”
Forse le persone che stavamo per incontrare erano a conoscenza del suo segreto. E forse, parlandomi di loro, cercava di raccontarmi il suo passato. Era ciò che speravo. Volevo sapere. Tenevo a lui, quindi volevo sapere. Volevo sapere persino ciò che non riusciva a fare.
La superficie del lago sembrava torbida, e mi resi conto che era a causa della nebbia. In pochi istanti un sottile velo avvolse tutto il mio campo visivo. Vedevo il lago come dietro a una tenda di pizzo, di un bianco pallido, simile al latte.
Procedemmo ancora. Il sentiero scomparve dietro la nebbia mentre noi continuavamo imperterriti a camminare, senza capire dove stessimo andando. Quel percorso doveva essergli familiare. Dietro il velo della nebbia piccole luci erano diventate dei circoletti luminosi.
“Eccola, ora si vede,” disse Nakajima.
Oltre il torii rosso c’era una stretta scalinata di pietra in cima alla quale si trovava un piccolo santuario. Sicuramente da lì si vedeva tutto il lago. In fondo, in una strada laterale, riuscii a distinguere un’abitazione. Spuntò all’improvviso in mezzo alla nebbia, un rudere di legno di fronte al quale il mio primo pensiero fu: “Come avranno fatto a portare l’elettricità fin qui?”.
La scala all’ingresso aveva alcuni gradini mancanti che erano stati rimpiazzati alla buona con delle tavole di legno. I vetri rotti delle finestre erano coperti da teli di plastica. L’interno era in penombra.
Guardando con attenzione, però, mi resi conto che sia le tavole sia i teli erano stati fissati con cura, in modo semplice ma efficace. Era vecchia, ma non sembrava né sporca né trascurata. L’impressione che ne ebbi è ben riassunta dalle parole “povertà dignitosa”.
Diversi indizi facevano pensare che lì dentro ci fosse qualcuno che viveva normalmente: le piante in vaso, i raggi luccicanti di una bicicletta – vecchia anche quella, e con qualche buco nel cestino – appoggiata in un angolo.
A voce alta, Nakajima disse: “Buonasera!”.
L’interno della casa non era meno silenzioso del lago, e non ero sicura che ci fosse qualcuno, ma dopo qualche istante spuntò una persona.
Un adulto, doveva avere suppergiù trentacinque anni, molto minuto, sembrava un bambino. Aveva un viso contratto che lo faceva somigliare a un bulldog. I suoi occhi però brillavano, nella sua postura c’era un che di aristocratico.
“Wow, Nobu! Non è uno scherzo, vero?”
Portava un maglione tutto rovinato e un paio di vecchi pantaloni chino, tuttavia, così come la sua casa, aveva un’aria tutto sommato ordinata. I capelli lunghi raccolti con cura in una coda di cavallo, la schiena dritta nonostante un po’ di pinguedine. Mi fece un’ottima impressione.
“Mino, ciao. Ne è passato di tempo.”
Nulla, nel sorriso di Nakajima, tradiva la paura e i brividi che l’idea di quell’incontro gli aveva provocato fino a poco prima.
Forse cercava di comportarsi da uomo, forse era un po’ più complicato, fatto sta che la repentinità di quel cambiamento mi colpì.
Mi domandai quante altre cose mi stesse tenendo nascoste. Capii che avevamo ancora un mucchio di strada da percorrere.
“Finalmente sei venuto a trovarci... Mi dispiace per tua madre,” disse Mino. Poi aggiunse: “Ma ne è passato di tempo, non è vero?”. Accennò un sorriso. Un sorriso dolce, luminoso.
“Ci ho messo un po’ prima di decidermi a venire. Avevo molta voglia di rivedervi, ma c’era sempre qualcosa che mi frenava. Qui è pieno di ricordi di mia madre, e questo mi rattrista...”
Nakajima rivolse lo sguardo al soffitto e socchiuse gli occhi. Poi si girò verso di me.
“Ma c’era qualcuno a guidarmi, ed è andato tutto bene. Sono riuscito a venire, finalmente.”
Mino mi guardò e disse: “Lieto di conoscerla. Qual è il suo nome?”.
Nakajima rispose: “Lei è Chihiro, la mia ragazza. Chihiro, lui è Mino”.
Sorrisi e salutai, ma avevo una gran confusione in testa.
C’era qualcosa di singolare nella loro confidenza. Si scambiavano sorrisi senza dire niente, come due persone che avevano lottato l’una accanto all’altra su un campo di battaglia.
Un vento meraviglioso fendeva il cielo.
Se avessi potuto vivere lassù, come gli uccelli, libera, in un posto così inaccessibile e bello, non avrei avuto tante preoccupazioni. Una parte di me considerava Nakajima un peso. Abituata com’ero a occuparmi soltanto di me stessa, provavo un leggero fastidio all’idea che si appoggiasse così tanto a me. Per farla breve, pensavo: Vorrei sottrarmi a questa responsabilità. All’aria pesante che circonda queste persone così diverse da tutte le altre.
E intanto Mino mi guardava sorridente.
E io provavo un senso di pienezza, come se un angelo stesse vegliando su di me. Non cercavo neanche più di nascondere a me stessa ciò che sentivo nel cuore.
Di fronte ai suoi occhi limpidi, ogni mia debolezza sembrava sul punto di volatilizzarsi.
Nakajima domandò: “Dov’è Chii? Sta bene?”.
Mino rispose: “È dentro. La casa è piccola e trasandata, ma prego, entrate”.
Guardandoci, Nakajima e io annuimmo, poi entrammo.
L’interno della casa era semplice e ordinato, ricordava quelle abitazioni della campagna europea che si vedono nei film.
Al primo piano sembravano esserci soltanto la cucina, la stanza da bagno e i servizi. Fummo condotti in cucina, dove trovammo un tavolo quadrato – sembrava il banco di un’aula scolastica – con le sedie tutte diverse. Ognuno scelse quella che gli pareva più comoda e così ci mettemmo a sedere.
Nakajima disse: “Ho vissuto qui con mia madre. Era come stare in campeggio, come in un vecchio film francese: non avevamo nulla, ma ogni giorno riuscivamo a mettere insieme qualcosa e vivevamo tranquillamente. Con il lago sempre davanti agli occhi”.
“Davvero?” risposi.
Già da prima mi era sembrato un po’ euforico, e infatti continuò a parlare con un tono allegro: “All’epoca ogni tanto mi stancavo di questo tipo di vita, ma a pensarci adesso devo dire che mi divertivo parecchio. Non c’è molto spazio, quindi facevamo passeggiate ogni giorno. Gironzolavamo in riva al lago. Qualche volta prendevamo anche la barca. Poco alla volta mia madre si rimise in salute, e vederla mi dava gioia. Arrivò la primavera, e la sua salute migliorava di giorno in giorno. È bello guardare in viso una persona e capire che ha tutta una vita davanti a sé. Gli alberi e le montagne rinverdivano, e mia madre si riprendeva alla stessa velocità. Ero così felice, e me ne ricordo perfettamente”.
Mentre parlava, Nakajima stava piangendo.
L’interno della casa era silenzioso, fuori dalla finestra si vedeva solo la superficie liscia del lago nell’aria limpida di inizio primavera.
Era una scena triste, mi fece rabbrividire.
Ma nei ricordi di Nakajima, a dispetto della desolazione che evocava in me, quel luogo doveva essere pieno di colore.
Mino portò lentamente l’acqua a bollore e preparò del tè.
Non appena lo sorseggiai, un aroma delicato mi riempì la bocca. Era il miglior tè che avessi bevuto in vita mia.
Istintivamente lo dissi a Mino, che ne fu un po’ imbarazzato.
“L’acqua delle sorgenti qui intorno è ottima per il tè,” disse. “Vado a prenderla apposta ogni giorno.”
È solo l’acqua a essere buona? No, non è possibile, pensai. La sua ricchezza era tutta lì, era quel tè sorseggiato davanti al lago, in un mondo circoscritto e isolato.
Ed era qualcosa di grande. Si era costruito un mondo nel quale nessuno lo avrebbe mai potuto infastidire o minacciare.
Il suo aspetto distinto bastò a cancellare definitivamente uno strano sentimento di compassione che, come una signora di mezza età, all’inizio avevo provato per lui.
Il suo delizioso tè era stato così convincente da farmi cambiare idea.
Nakajima e Mino scambiarono quattro chiacchiere, e sembravano divertirsi come due scolaretti. Io intanto guardavo il lago senza starli veramente a sentire. Le onde si sollevavano, d’improvviso tutto sembrava gelido, poi la superficie tornava uno specchio, e la sponda, attraverso il vetro della finestra, era liscia come un lenzuolo pulito.
Nakajima disse: “Avrei voluto chiedere una cosa a Chii, ma se sta dormendo non importa”.
Mino gli rispose: “Tanto Chii dorme sempre. Va’ pure”. Poi mi guardò fisso per un istante e aggiunse: “Chii è la mia sorella minore, ed è costretta a letto ormai da anni. Non è proprio malata, ma il suo fegato e i reni non funzionano bene, quindi è sempre stanca e quasi non riesce a muoversi. Ecco perché è sempre a letto. Non ha neanche più la forza di andare in bagno, deve appoggiarsi alla parete per camminare e non mangia quasi niente: soltanto dello okayu e un po’ di sake una volta al giorno. Si alza di rado. Be’, si potrebbe dire che è malata, almeno in senso lato. Però non si sottopone a visite né a ricoveri, inoltre per me non è un problema dedicarle tempo e cure, quindi viviamo così, semplicemente. Cerco di tenerle braccia e gambe in movimento e di farla camminare dentro casa, ma sempre senza forzarla.”
“Capisco.” Non sapevo cosa rispondere.
“Quando vuole dire qualcosa, Chii mi guarda negli occhi e parla al mio cuore. Alcune volte le informazioni che mi trasmette sono speciali, e c’è chi viene per ascoltarla: è così che riusciamo a guadagnarci da vivere. Però non è che abbia sempre qualche cosa da dire – non può avere informazioni per chiunque –, quindi tendiamo a considerarlo un segreto. Le sarei grato se potesse evitare di parlarne a estranei.”
Gli domandai: “In altre parole... È come se fosse una specie di indovina?”.
“La si può anche vedere in questo modo, ma il più delle volte è una semplice conversazione. Non so perché, ma alcune persone sembrano riuscire a vedere le cose con più chiarezza, dopo aver parlato con lei. Dorme sempre, e nei sogni è libera di andare dove vuole. Ed è come se, rispetto a chi è sveglio, avesse accesso a un numero maggiore di informazioni.”
“Credo di capire. Non ne farò parola con nessuno.”
“Lo so. Non è un caso se è venuta qui.”
Gli occhi di Mino luccicavano, sempre più intensi, come stelle.
“D’ora in avanti può venire quando vuole, davvero. Ma se non avrà un motivo per venirci, questo posto non le tornerà più in mente.”
C’era qualcosa di enigmatico nelle sue parole.
Sorridendo, risposi: “Va bene”.
Di fronte a una persona così bella si poteva soltanto sorridere.
“Le va di conoscere mia sorella? Venga insieme a Nobu.”
“No, Nakajima ha diritto alla sua privacy, inoltre credo che sua sorella proverebbe imbarazzo a incontrare una persona per la prima volta mentre si trova a letto. Rimandiamo le presentazioni alla prossima volta.”
Sapevo quanto fosse importante, per Nakajima, incontrare queste persone, e non volevo essere d’intralcio. Il mio compito si limitava a trascinarlo fin qui. L’avevo portato a termine, e adesso volevo farmi da parte.
Nakajima disse: “Guarda che puoi venire. Tanto è sempre a letto”.
“Avrete un mucchio di cose da dirvi: preferisco restare qui.”
“Però vorrei presentarti a Chii.”
Scherzando, Mino mi chiese: “E se avesse qualche informazione che ti riguarda?”. La parte più meschina di me fu tentata di cedere, ma il pensiero del loro passato mi riportò alla ragione.
“Verrò a salutarla e poi tornerò giù ad aspettarvi.”
“Allora andiamo,” disse Mino.
In cima alla scala ripida e scricchiolante, il secondo piano era illuminato da una piccola finestra nel corridoio. C’erano due stanze, entrambe con la porta chiusa.
In silenzio, Mino ne aprì una. Ero leggermente emozionata, non riuscivo a muovermi. Dall’interno arrivava un buon odore, come di rose. Non erano davvero delle rose, si trattava piuttosto di un sentore dolce.
Con voce commossa, Nakajima disse: “Caspita, non sei affatto cambiata, Chii!”.
Su invito di Mino, entrai anch’io.
Vidi una giovane minuta, accoccolata in un letto di legno scadente e quasi sepolta sotto una coperta di pile piuttosto dozzinale.
Sembrava una bambina ma, come era stato con Mino, a guardarla bene si capiva che era un’adulta. Piccola, il collo e le braccia sottili come rami secchi, mentre solo le ciglia apparivano lunghe e forti.
Nakajima disse: “Mi sembra che stia proprio dormendo”.
Mino ribatté: “No, ti posso garantire che quando è così è perfettamente sveglia”.
“Quindi capisce ciò che le dico, giusto? Chii, è tanto che non ci vediamo. Sono Nobu. Scusa se per tutto questo tempo non sono venuto a trovarti. Oggi sono con Chihiro, la mia ragazza. Volevo presentartela. Me la sto cavando bene, sai? Sono andato all’università e adesso frequento un corso di dottorato. Non faccio altro che studiare.”
Mino si portò le mani alla testa, fece una pausa, poi disse: “Ti sei proprio dato da fare, allora”.
La sua voce era completamente diversa da prima. Dev’essere la voce della sorella, pensai.
E se fosse tutta una convinzione di Mino, se sua sorella, malata e debole, fosse ormai sul punto di morire e lui, non riuscendo ad accettarlo, si fosse inventato questa voce interiore?
Sarebbe stata la spiegazione più logica, ma l’atmosfera unica e nobile di quella stanza non lasciava spazio neanche a pensieri come quello.
“E che donna complicata ti sei portato dietro!” aggiunse Mino. “Non ti fa soffrire questa tua ostinazione a... A non voler esternare neanche la metà di quello che pensi? Sei riuscita a stemperare il risentimento nei confronti dei tuoi genitori grazie alla tua naturale propensione a vivere gli affetti con serenità. Ci hai pensato tanto e hai trovato una tua dimensione, sei diventata una persona tranquilla, ma dentro di te sei molto più audace, più libera, capricciosa, e il sesso è una componente fondamentale della tua vita, non è vero? Del resto sei una persona che sa rispettare gli altri. Fra non molto tornerai qui, da sola. Ne riparleremo allora.”
Quando mi resi conto che stava parlando con me ebbi un sussulto.
Non potevo dire che non fosse vero, ma nemmeno che avesse ragione su tutto.
Mino tornò in sé e disse: “Mi dispiace, mia sorella è un po’ troppo dura, non ha mai imparato a trattenersi e finisce sempre per creare qualche problema. Qualsiasi cosa dica, a chiunque, non fa che attirarsi lamentele: ogni tanto penso che è questo il motivo per cui è finita a letto. La prego, non se la prenda”.
“Be’, sì, è molto diretta... Ma non in modo sgradevole, anzi: a me piace.”
Certo, non erano cose da dire a una persona che si sta incontrando per la prima volta, ma non avevo avuto l’impressione che volesse ferirmi.
Mino si mise a ridere: “Grazie. Ma, soprattutto, non vorrei che pensasse che sia stato io a dire quelle cose”.
Feci un cenno con la testa e scesi al piano inferiore. A ogni modo, non avevo alcuna intenzione di tornare per sentire una simile descrizione di me stessa. Ma non perché mi fossi offesa. C’era qualcosa, nella misteriosa nobiltà degli abitanti di quella casa, che aveva suscitato in me ammirazione.
Non so che cosa si siano detti Nakajima e Chii.
Quando lo vidi scendere, però, capii che non si trattava né di noi due né della durata della sua vita: era stata una conversazione molto più leggera.
Mi disse: “Te l’ho già accennato: una volta che avrò finito il dottorato vorrei andare a lavorare presso un istituto di ricerca molto prestigioso che si trova a Parigi. Le ho chiesto se sia possibile che ciò accada, tutto qui”.
A Parigi? Laggiù? Conoscendolo, avrebbe studiato giorno e notte, si sarebbe dedicato alla tesi con tutto se stesso, avrebbe pubblicato articoli su articoli e in men che non si dica si sarebbe guadagnato il titolo che gli serviva. A quel punto che ne sarebbe stato della nostra precaria convivenza? Il solo pensiero mi provocò un tale dolore che ne fui sorpresa io stessa. Non potevo accettarlo, era come se qualcosa dentro di me si fosse incrinato.
No, non è come penso, è che siamo solo all’inizio: cercai di convincermi che fosse così perché non volevo essere coinvolta.
“Certo che è possibile, nutri qualche dubbio? Posso dartela anch’io una risposta: ci andrai, è sicuro.”
Nakajima rispose: “Avevo come la sensazione di potermi danneggiare da solo, impedendo a me stesso di partire. Chii però dice che l’anno prossimo di questi tempi sarò già a Parigi”.
Mentre lo diceva, sembrava molto felice. Avevamo fatto bene a venire.
Bevemmo un’altra tazza di buon tè, facemmo una chiacchierata e poi Nakajima e io lasciammo quella deliziosa casetta.
Dalla porta illuminata, Mino ci salutò a lungo con la mano. La sua bella silhouette ricordava le ombre cinesi, la lampadina brillava nel buio come una pietra preziosa.
Le tenebre avvolsero il lago trasformandolo in una profonda voragine, e solo il contrasto con gli alberi ne suggeriva la presenza.
Domandai a Nakajima: “Sei impaziente? Di andare a Parigi, voglio dire”.
“Non sono impaziente, ma non ho l’impressione che realizzerò questo progetto. Non so spiegare perché, ma è come se covassi un senso di colpa che tende a danneggiarmi. Mi basterebbe avere anche solo per una volta il presentimento di potercela fare, e allora sarei tranquillo. Indipendentemente da quando si realizzerà.”
“È giusto, non deve accadere per forza adesso. Dal mio punto di vista sarebbe meglio, perché vorrei vivere così ancora per un po’.”
Nakajima non rispose. Non riuscivo a decifrare i suoi sentimenti, non capivo se fosse felice o triste.
O magari aveva intenzione di rintanarsi di nuovo in casa per entrare in uno dei suoi periodi di studio matto? Se così fosse, potrei solo fargli visita di tanto in tanto, per verificare che sia ancora in piedi, pensai. Il flusso dei miei pensieri era rapido e limpido come il vento sulla superficie del lago. Come se fossero gli stessi da sempre.
La ghiaia del sentiero scricchiolava sotto i nostri piedi. I lampioni, cerchi luminosi, formavano una lunga colonna bianca.
Tenevo il braccio appoggiato a quello di Nakajima in modo del tutto naturale. Alcuni punti erano bui e non si vedeva per terra, temevo che da un momento all’altro sarebbe potuto spuntare un serpente. Quando glielo dissi mi rispose:
“Con questo freddo i serpenti non escono mica!”.
Al che ribattei: “Sì, ma può esserci qualsiasi cosa. Un insetto, per esempio”.
Il suo braccio era sottile come un pezzetto di legno, ciononostante emanava calore.
D’un tratto disse: “Anche a me piace vivere così. È bello ritornare a casa insieme”.
Era la sua risposta a ciò che gli avevo detto prima.
Mi sembrava che avessimo camminato così da sempre. In riva al lago. In un paesaggio fuori dal mondo. Chissà se in futuro avrei camminato con altre persone alla stessa maniera. Ma sicuramente non mi sarei sentita mai più così...
Non perché mi sentissi triste quando ero con Nakajima, ma perché tendevo ad attribuire più valore al tempo. Era tutto così bello, così tranquillo, che sarebbe bastata la presenza di un’altra sola persona a rovinare l’atmosfera. Se si fosse trattato di qualcuno come Mino forse non ci sarebbero stati problemi. Ma avevo la sensazione che un solo elemento esterno sarebbe stato sufficiente a mandare in frantumi quel nostro mondo così delicato. Il nostro legame era saldo, ma anche misteriosamente fragile.
“Nakajima, non te ne andare. Non andare da nessuna parte,” dissi. “Non voglio dire che non devi andare a Parigi, lì ci puoi andare. Ma voglio che continui a vivere nel mio stesso mondo.”
“Ma sai, c’è qualcosa, nel mio corpo, che sembra ripetermi che non posso stare in questo mondo.”
“E allora combatti.”
“Sto combattendo, ma mi sono state portate via troppe cose, e a volte non ce la faccio.”
“Non devi scoraggiarti.”
“Ma se non riesco neanche a fare sesso come si deve con la ragazza che mi piace!”
“Non me ne importa, il sesso non mi interessa.”
“Stai mentendo, lo so. In realtà ti interessa eccome!”
“Ma come ti permetti!?”
La mia voce ruppe il silenzio e sembrò risuonare nel buio della notte.
“E anche ammettendo che sia così, ora come ora non avrei motivo di tirar fuori i miei appetiti sessuali con te.”
Nakajima rise di nascosto.
Nakajima, Mino, e persino Chii – benché l’avessi vista solo dormire e non mi fossi potuta fare un’idea precisa – avevano qualcosa in comune.
Era una sorta di paesaggio selvatico, immerso in un’atmosfera estremamente desolata e priva di speranza, le fondamenta distrutte, ma rimesso in piedi alla buona.
Dove si erano conosciuti quei tre? Cominciavo piano piano a capire. O almeno questa era la mia impressione, nonostante le mie fossero semplici congetture.
Ma era una vicenda così oscura che non riuscivo ad accettare che potesse far parte della realtà della vita.
In quel periodo credevo ancora che il mondo fosse un posto tutto sommato felice, fatto dei rumori delle famiglie a cena, del sorriso di una madre che saluta il marito quando va al lavoro, del tepore di un corpo accanto al nostro quando ci svegliamo nel cuore della notte.
Ma non era così per Nakajima: il suo mondo era immerso nel buio. Non dipendeva dal fatto che lui fosse un uomo e io una donna, ma dalla differenza nei nostri percorsi. Avevo sempre pensato di possedere una maggiore consapevolezza della vita, rispetto alle altre persone della mia età, ma non era niente a confronto del peso che Nakajima si portava dentro.
Ancora sorridente, mi prese la mano e camminammo in silenzio intorno al lago, diretti alla stazione. C’era calma. Decidemmo di comprare un bentō da consumare sul treno, e quella sera sentii che, un passo dopo l’altro, stavamo procedendo verso il futuro.
Mi voltai e vidi che il lago era immerso nella foschia, pallido, come sospeso.
La settimana successiva cominciai a lavorare al murale.
Come un operaio edile che va al cantiere, uscivo di casa ogni giorno alle otto. La luce del mattino è la migliore.
Davo un bacio sulla guancia a Nakajima, che dormiva, e andavo dritta sul posto di lavoro.
Il primo giorno disegnai alcune scimmie che si facevano scherzi. Subito dopo decisi che avrei disegnato sulla parte sinistra un grande lago, occupando circa un terzo della parete. E intorno avrei messo altre scimmie. Degli alberi, e qualche scimmia tranquilla. Due scimmie fratello e sorella che guardano il lago e poi una mamma scimmia con il suo piccolo.
Sapevo che un simile disegno mi avrebbe reso malinconica, ma ero decisa a eseguirlo.
“Stai disegnando delle scimmie?”
La prima a chiedermelo fu una bambina, e poco alla volta si avvicinarono anche tutti gli altri. Alcuni bambini volevano usare la mia pittura per farsi degli scherzi, quindi li sgridai, ma poi mi scusai e, con il tempo, iniziarono anche loro a capire cosa stessi facendo. Sotto suggerimento dei genitori e di Sayuri, un bambino mi chiese: “Grazie al tuo disegno la scuola non chiuderà?”. Era magro, con gli occhi grandi e il naso schiacciato. Si chiamava Yocchan e frequentava il corso di inglese.
“A prescindere dal mio disegno, se deve chiudere chiuderà.”
“Allora perché lo fai?”
“Perché è lavoro, e qualcuno mi ha chiesto di farlo. E anche se dovesse durare poco, sarà più bello avere un po’ di colore, non pensi?”
“Non è arte, questa?”
Mi misi a ridere. “Purtroppo temo di no... Sto solo disegnando delle scimmie.”
“Senti, ma quelle scimmie lì sono fantasmi?”
Con il dito mi indicava le quattro scimmiette vicino al lago. Erano solo abbozzate, quindi prive di colore e quasi trasparenti.
“Ma no, poi le colorerò.”
“Ah, ecco. Mi sembrava strano.”
I bambini sono incredibili, pensai. Non mi sarei mai sognata di mettere dei fantasmi in un dipinto così allegro.
Continuavo a riflettere mentre disegnavo.
La parte del lago doveva essere la più colorata, ma volevo conservare l’equilibrio rispetto al resto dell’immagine, il che significava che l’avrei riempita per ultima, anche se non potevo lasciare i fantasmi. Conducevano vite tranquille, quindi avrei utilizzato dei colori vivaci ma non troppo forti. Avrei scelto i toni più allegri che mi potessi inventare. Avrei disegnato anche del tè. E una torta. Tutto ciò che stava intorno a quella bella addormentata dalla lingua lunga sarebbe stato di colori meravigliosi.
Con mia grande sorpresa, Nakajima non se ne andò da casa mia neanche adesso che il lavoro per il murale mi teneva fuori da mattina a sera.
Avevo il presentimento che se ne sarebbe andato una volta iniziato il mio impegno.
Mi era successo persino di sognarlo, per poi svegliarmi di colpo. Piangevo, ero sorpresa io stessa. Tornavo a casa e non c’erano più né Nakajima né le sue cose. Correvo alla finestra, ma la luce della sua stanza era spenta. Non riuscivo a trovare alcuna traccia della sua esistenza. Finiva tutto così... Ecco il mio sogno.
Ogni volta mi dicevo che una cosa del genere sarebbe potuta verificarsi da un momento all’altro.
Ciononostante, quando tornavo a casa esausta, Nakajima era sempre lì.
Qualche volta mi preparava persino da mangiare.
Altre volte dormiva, stanco per aver studiato troppo. Accanto a lui c’erano sempre pile di libri di biochimica, ingegneria genetica e altri argomenti complicati, con tanti Post-it attaccati dappertutto.
Vivevamo giorni di totale incertezza. La sola cosa certa era che Nakajima si trovava ancora a casa e che era vivo.
Una sera, tornata a casa, lo trovai che dormiva e russava. Il suo PowerBook era aperto sul tavolino dove mangiavamo, il che lasciava supporre che si fosse addormentato mentre lavorava. Cercando di non svegliarlo, feci per rimboccargli le coperte, quando mi accorsi di qualcosa.
Nakajima stava stringendo qualcosa sotto l’ascella. Un oggetto quadrato, duro, color argento. Mi sembrò stranissimo, non riuscivo a capire di che cosa si trattasse. O forse no. Forse capivo, ma la mia testa si rifiutava di ammetterlo. Era così fuoriluogo, mi parve surreale.
Era una vecchia rete per cuocere il mochi.
Rabbrividii leggermente. Non capivo che cosa significasse.
Mi dissi che doveva essere doloroso dormire con quella rete sotto il braccio, quindi cercai di sfilargliela senza che se ne accorgesse, ma lui oppose resistenza, come un bambino che stringe un termometro con più forza del necessario: per toglierla, l’avrei dovuto svegliare.
Capii che per lui doveva trattarsi di un oggetto molto importante, ma nel profondo mi sentii smarrita.
Una volta sveglio avrei dovuto fargli domande?
Riflettei seriamente.
Mi resi conto di non poter fingere di non sapere. Eravamo a casa mia, in fondo. Sarebbe stato meglio se al suo risveglio non mi fossi fatta trovare? Ma anche quello non mi sembrava normale.
Ci pensai. E se quella rete per il mochi fosse l’unico oggetto in grado di eccitarlo sessualmente?
Se così fosse stato (con gli esseri umani non si può mai dire: tempo addietro avevo conosciuto un uomo che si eccitava con i pesci rossi. Pare che riuscisse a masturbarsi e a consumare rapporti soltanto se aveva dei pesci rossi davanti agli occhi), ero sicura di amarlo abbastanza da poter dire a me stessa: “Ma sì, sono cose che succedono”?
Non lo sapevo. In tutta onestà, la risposta sarebbe stata: “È possibile, ma non lo amo ancora fino a quel punto”.
Ero persa nei miei pensieri, angosciata, quando Nakajima si svegliò. Aprì gli occhi, si mise a sedere, restò intontito per un po’, sempre con la rete sotto il braccio.
Gli chiesi: “Vuoi del caffè?”.
“Eccoti, Chihiro, sei tornata. Ieri notte non ho chiuso occhio e adesso mi sono addormentato.”
“Puoi dormire ancora, se vuoi.”
“No, mi alzo. Prendo del caffè, grazie.”
Così dicendo, spostò la rete come se niente fosse. Sbadigliò e per un po’ fissò il vuoto con i capelli spettinati: si vedeva che si era appena svegliato.
Poi si accorse che stavo fissando la rete – aveva capito che avrei voluto dirgli qualcosa – e mi disse: “Ah, questa? È un ricordo di mia madre. Quando sento che potrei fare dei brutti sogni mi addormento tenendola sotto il braccio”.
“Ah, ora capisco...”
L’enigma si era risolto con una tale facilità che rimasi sorpresa. Ma perché proprio una rete per cuocere il mochi? Questo era il mio dubbio, e dovevo avercelo scritto in faccia. Infatti mi rispose.
“Non c’è una ragione particolare. Mia madre ci teneva e quindi me la sono portata dietro. È sottile, può stare tra le pagine di un libro. È stata usata a casa mia sin dai tempi di mia nonna.”
“E non hai nient’altro?”
“Con i documenti non posso dormire, i gioielli non li posso indossare, un animale di pezza non sarebbe igienico e sarebbe imbarazzante portare un orologio da donna... Questa è perfetta.”
“Ma in che senso? Mi sembra doloroso.”
“No, affatto. È così sottile.”
Ridendo, mi porse la rete per il mochi.
“Posso toccarla?”
“Certo.”
Era una normale rete per il mochi, leggermente bruciacchiata in alcuni punti. Leggera, dura, fredda.
Nakajima la usava regolarmente, proprio come uno spazzolino da denti o un rasoio. Ero un po’ stupita. Non era una cosa normale, ma per lui, a quanto pare, sì.
“La tua coperta di Linus è dura, eh?” dissi ridendo.
Arrossì e replicò: “Per caso è una cosa di cui mi dovrei vergognare? Non lo fanno tutti?”. La sua reazione fu così tenera da farmi sorridere.
“Ma no, non esiste niente di cui ci si debba ‘vergognare perché non lo fanno tutti’. In fin dei conti sei in casa.”
“Meno male. Pensavo che fosse un’altra abitudine insensata.”
In modo del tutto naturale, ma con cura, Nakajima infilò la rete tra le pagine di un libro.
Fui sorpresa io stessa della frase che avevo appena pronunciato. Era identica a quelle che pronunciava mia madre nel suo locale.
Diceva spesso: “Qui dentro la sola regola è che quando si sta seduti a bere al bancone ci si deve comportare decorosamente. Si può parlare di tutto. Anche di cose che di solito non si dicono, o di argomenti socialmente inaccettabili. In fondo qui si paga per avere in cambio un po’ di libertà”.
Lo diceva sempre a tutti quei clienti che esordivano con “Mi vergogno a dirlo, ma...” oppure “Non ho scusanti, ma...”.
La libertà d’animo di mia madre era un supporto per quella dei clienti e anche di mio padre.
La mamma continua a vivere nel mio cuore, pensai.
“Posso chiederti una cosa? Come fai a capire che farai un brutto sogno?”
“Prima di addormentarmi ho le vertigini e sento la testa pesante. Questo mi fa capire che sicuramente farò un brutto sogno. Credo che c’entri molto la mia condizione fisica, la stanchezza, anche la pressione atmosferica.” Il suo tono era calmo. “Non posso più correre tra le braccia dei miei genitori né pretendere che tu ti occupi di me, e così prendo la rete del mochi, come sempre.”
Annuii, ma mi sentii triste.
Quella sera, guardandolo di spalle mentre si lavava i denti, piansi un poco. Lo immaginai addormentato con la rete sotto il braccio perché si sentiva solo o perché aveva paura, pensai che da quando sua madre era morta era stato sempre così, ed era un po’ come prendere una medicina per far scendere la febbre o farsi venire uno spavento per interrompere il singhiozzo, e non riuscii a trattenere le lacrime.
Ma a che serviva piangere?
Aveva affrontato la solitudine in maniera razionale. Pensai che piangere equivalesse a insultarlo.
E cercai di smettere.
Ma quando di notte mi alzai per andare in bagno, e nel buio vidi luccicare un angolo della rete infilata nel libro, mi venne nuovamente da piangere.
Nakajima intanto ronfava.
E così capii. Non era il tipo da andarsene a dormire tranquillamente a casa di altri. Se stavolta l’aveva fatto, significava che i suoi sentimenti erano sinceri.
Ero ancora come una bambina – anzi, ero proprio una bambina –, ma promisi a me stessa che non avrei mai tradito la sua fiducia, che avrei fatto in modo che in casa mia potesse dormire sempre sonni tranquilli come quello.
Terminato il disegno del murale, ero nella fase di colorazione e l’immagine era ormai completa. Adesso dovevo soltanto procedere con quella in testa.
Mi piaceva lavorare con le mani, in silenzio, tutti i giorni. È la fase più divertente. Si intravede già il risultato finale e tutto fila liscio, procedendo semplicemente un passo dopo l’altro. Non dovevo pensare più di tanto e mi restava anche un po’ di tempo per giocare con i bambini. Il giorno precedente mi ero fatta aiutare dalle bambine a passare la vernice rosa. Correggere le sbavature è molto faticoso ma, non avendo fretta, mi divertiva anche quello.
E c’erano momenti in cui mi ritrovavo completamente sola. Mi accorgevo all’improvviso che non passava nessuno, che c’era silenzio, e mi sembrava un miracolo.
In quei momenti di serena solitudine, senza bambini e senza aiutante, superato ormai il pensiero della composizione... Non erano tanti quei momenti ma, quando si presentavano, a cosa pensavo? Preferirei che non lo sapesse nessuno.
Appoggiata al muro, versavo nel bicchiere il caffè ormai tiepido del thermos.
Mi faceva male il sedere e anche il collo. Avevo le braccia contratte. E tutto il corpo misteriosamente freddo.
Ma mentre muovevo le mani per dipingere mi dimenticavo di tutto.
E mi accorgevo all’improvviso che intorno a me non c’era nessuno, che ero sola sotto un cielo immenso. Di fronte a me, in lontananza, la bandiera dell’edificio scolastico sventolava, ma tutto il resto sembrava immobile.
Ciò a cui pensavo mentre sorseggiavo il mio caffè, la tristezza che mi portavo dentro voglio tenerli soltanto per me, non voglio condividerli con nessuno.
E il più delle volte mi dicevo anche che ero arrivata parecchio lontano.
“Ho preparato il tofu bollito.”
Al mio ritorno Nakajima era sveglio, e mi venne incontro con addosso il grembiule da cucina.
La stanza era impregnata del profumo del konbu cotto a lungo.
“Nakajima, così conciato mi sembri un pappone!”
Avevo mani e scarpe sporche di vernice e buttai le mie cose per terra con gli stessi modi rudi di un marinaio appena sceso da una nave.
“Be’, allora sarei il pappone di un maschio che lavora in un cantiere,” rispose. “Non conosco altre donne che ritornino a casa tutte sporche di vernice, muscolose e abbronzate.”
“Su questo hai ragione. Non sembro una prostituta,” dissi ridendo. Portavo jeans e una maglietta sportiva, i capelli raccolti e la faccia di uno strano colore bianco a causa dell’eccessiva quantità di crema solare che mi ero spalmata addosso, ero sporca di vernice dai calzini alla punta del naso.
Nakajima disse: “Cucinare per una persona sola è un vero spreco. Di ingredienti e di tempo. Non ho la stessa sensazione quando cucino per due, invece”.
Entrai in casa e sbirciai in cucina.
“Grazie. Wow, il tofu è tagliato benissimo!”
Nella pentola, i pezzi di tofu erano incredibilmente regolari, come se prima di tagliarli li avesse misurati uno per uno con una riga.
Mi lavai le mani e mangiammo il nostro tofu bollito uno di fronte all’altra.
A quell’ora mia madre era sempre al locale, e anche Nakajima era cresciuto in una casa diversa da tutte le altre: era come se stessimo imitando uno stile di vita che di fatto non conoscevamo, come se giocassimo a essere una famiglia. Né lui né io davamo quei momenti per scontati, ecco perché letteralmente li divoravamo, e ci rendevano davvero felici.
“È bello mangiare il tofu bollito con un’altra persona,” dissi.
“Sai,” fece Nakajima, “dopo il dottorato vorrei fare domanda per una borsa di studio ed entrare all’Istituto Pasteur di Parigi il prima possibile. Fino a poco tempo fa non pensavo che fosse alla mia portata, ma adesso credo di sì. Chii mi ha assicurato che ce la posso fare, inoltre ci sei tu accanto a me, e tutte queste cose mi hanno convinto. Dovrei riuscire a finire il dottorato, dopodiché voglio andare avanti e fare domanda. Naturalmente ho dovuto chiedere delle lettere di presentazione e inviare una sintesi del mio progetto di ricerca, inoltre dovrò sostenere un esame, ma mi sono informato, e pare che in Giappone ci sia una fondazione che intrattiene rapporti di cooperazione con l’Istituto e che ha creato un programma al quale dovrei riuscire a partecipare con relativa facilità. Se quest’anno dovesse andarmi male, ci riproverò l’anno prossimo. E se invece mi prenderanno, vorrei stare lì per sei mesi almeno.”
All’inizio non fui neanche sfiorata dal pensiero che mi sarei ritrovata da sola: ero solo felice. Nakajima riusciva a fare qualcosa soltanto se ne era entusiasta, quindi era un bene che la vedesse così.
“Tu che farai, Chihiro?”
“In che senso?” replicai. “A me di Pasteur non importa granché. Di lui so soltanto che ha fatto delle cose sui bachi da seta e che ha inventato il vaccino contro la rabbia. E che forse è seppellito sotto l’Istituto di cui mi hai parlato, o sbaglio?”
“Il fatto che tu sappia una cosa del genere ti fa solo onore.”
“L’hanno detto alla tv. In un documentario alla Nhk.”
“Ah, ecco. Ma a te non importa proprio dove io studi, in quale dipartimento, quale sia il mio campo di specializzazione?”
“Non particolarmente. Se pure tu me ne parlassi, mi dimenticherei tutto. Si tratta di dna, di genoma, cose del genere, no? E sei iscritto a medicina ma non per diventare medico, giusto? Fai ricerca, ma non su cose che io possa conoscere, tipo i condimenti industriali o il lievito di birra, mi pare. O la semola di riso.”
“Be’ sì. Sentendoti parlare mi rendo conto di quanto siano parziali le conoscenze scientifiche dei non addetti ai lavori.”
“Dici?”
“Non ti interessa proprio, eh?”
“Però mi ricordo che volevi fare ricerca sulle alghe azzurre. Per questo all’inizio ti eri iscritto ad agraria.”
“Non volevo fare ricerca sulle alghe azzurre, ma degli esperimenti. Volevo coltivarle, studiare le condizioni migliori per poterle modificare geneticamente. E non ero iscritto ad Agraria, anche se forse prima si chiamava così, ma alla facoltà di Biologia, corso di laurea in Biotecnologie. È tutta un’altra cosa, non ti pare? E adesso sono iscritto alla facoltà di Medicina, in un corso di dottorato.”
“Ma non mi posso ricordare tutte queste cose, se sento parlare di alghe azzurre le collego immediatamente alla facoltà di Agraria. E poi nemmeno a te interessa in cosa mi sono laureata io, no?”
“Sei laureata in scenografia e design alla Scuola d’arte N., giusto? Il tuo corso era di scenografia, non di design industriale.”
“Non posso credere che te lo ricordi. L’ho dimenticato persino io.”
“Non dimentico mai cose del genere. Mi basta sentirle una volta.”
“Va bene, ma qual era il punto? Cosa farò se te ne vai?”
“Sono sicuro che Parigi è piena zeppa di scuole d’arte.”
“Sì, ce ne sono parecchie.”
“Alcune propongono corsi di un semestre, altre di un anno.”
“Suppongo di sì.”
“E allora andiamoci. Partiamo insieme! Ho deciso che voglio vivere per sempre con te.”
“Che significa che hai deciso? È una proposta di matrimonio?”
Tutt’a un tratto mi sentii gravata da un peso. Non era piacevole.
Nakajima scosse piano il collo e candidamente rispose: “No”.
“E allora che vuoi dire?”
“È così che deve andare. Con te riesco a vivere, con altri no. E non voglio più stare da solo. Sono stanco di dormire da solo con quella rete sotto il braccio. Adesso che so com’è stare con qualcun altro, non posso più tornare alla vita di prima.”
“Tutta questa sincerità non mi fa impazzire, sai? Mah, Parigi... Ci vorrei andare, ma al momento il mio lavoro mi piace.”
“Però non hai in programma altri impegni dopo di questo, giusto?”
“No. Qualche idea c’è. Ma niente di immediato.”
“E allora qual è il problema? Perché adesso, a questa età e in questo momento specifico, devi stare per forza in Giappone?”
Aveva ragione. Non ero particolarmente interessata a Parigi, ma mi sarebbe piaciuto avere qualche giorno a disposizione per poter visitare da cima a fondo il Louvre – ci ero stata solo una volta, per un’ora circa, con mia madre – o la reggia di Versailles.
Inoltre, adesso che mia madre non c’era più, niente mi tratteneva in Giappone.
Nell’istante in cui me ne resi conto, mi sentii terribilmente sola.
Avrei voluto che mia madre fosse viva, e che mi tenesse legata. Che si mostrasse contraria, che obiettasse che era troppo lontano, che sarebbe stato difficile vedersi. Avrei voluto sentirla pronunciare queste parole. Ma non sarebbe accaduto.
“Credo che tu abbia ragione.”
“Questo modo di ragionare è tipico delle persone che hanno un posto fisso in cui stare...”
Dopo aver introdotto un discorso così impegnativo, Nakajima si interruppe.
Taceva così quando aveva detto tutto ciò che poteva e voleva dire: mi ci ero abituata ormai. Non mi era tutto chiaro nel dettaglio, ma capivo a grandi linee dove volesse arrivare.
Dopo un po’ riprese: “Sarebbe bello condividere un appartamento e i pasti. L’ho detto prima io, quindi non dobbiamo fare a metà per le spese: se necessario, provvederò alla tua parte.”
“Era un po’ che non sentivo l’espressione ‘L’ho detto prima io...’,” tergiversai. “Ho il denaro che mi ha lasciato mia madre, quindi dovrei farcela. Inoltre sono sicura che mio padre mi darebbe una mano.”
Nakajima annuì. “In fondo, quando tua madre è morta, tuo padre ha ereditato il locale, giusto? Hai tutto il diritto di chiedergli un po’ di soldi. Qualche volta prestare del denaro è il modo migliore per dimostrare il proprio affetto, non ti pare?”
Anche su questo aveva ragione. Benché si trattasse di un pensiero che avevo sempre cercato di allontanare.
“Sei troppo disinteressata al denaro, ma nel senso opposto.”
Mi divertiva che Nakajima mi desse queste lezioncine di vita pratica. Sorrisi.
Da un po’ di tempo parlava con maggiore libertà, diceva tutto ciò che gli passava per la testa. E a me faceva piacere.
Avrei fatto qualsiasi cosa per incoraggiarlo.
Avrei persino incontrato mio padre con il sorriso sulle labbra.
Un pomeriggio Yocchan, di cui ormai ero diventata buona amica, venne a trovarmi vicino al muro con la sua compagna Miki, e mi portarono la merenda. Senbei, patatine e cioccolata.
“Adesso che è quasi tutto colorato non sembrano più fantasmi, non è vero?”
Il disegno era quasi finito e io trascorrevo le giornate a fissarlo, aggiungendo colore qua e là e correggendo alcune parti per renderle più equilibrate. A quel punto i diversi elementi iniziavano a comunicare gli uni con gli altri, dando forma al loro mondo.
Yocchan disse: “Poveri fantasmi, sembrano soli”.
Miki ribatté: “Non parlare così, mi fai paura! Io odio i fantasmi”.
“Anche quelli delle scimmie?” chiesi io.
Pensai che, nonostante i colori, dal disegno trasparisse ancora la loro solitudine.
“Sì.”
“Io non ho mai visto un vero lago,” disse Yocchan.
“Io sì, ho visto il lago Ashi,” disse Miki.
Li ascoltavo parlare, incantata dalla loro spontaneità. Allo stesso tempo riflettevo sul fatto che avevo sbagliato, perché le scimmie sembravano ancora fantasmi. I bambini avevano capito che erano diverse dalle altre. Del resto, se ero capace di esprimere atmosfere del genere, significava che non ero poi così male come pittrice...
Subito dopo, Yocchan e Miki si misero a parlare di programmi televisivi, mentre io continuai a colorare. Mi stavano tra i piedi, ma ero contenta che fossero venuti.
Mi voltai e li vidi accovacciati a mangiare la merenda che mi avevano portato insieme con dei manjū) offerti da Sayuri, e intanto continuavano a chiacchierare. Bevvi un sorso di tè alle erbe dal mio thermos chiedendomi come avrei potuto fare per riversare nel disegno un po’ dei colori che illuminavano la loro conversazione.
Avevo il sedere freddo a furia di stare seduta sul terreno, e le braccia mi facevano male perché le tenevo costantemente sollevate, tuttavia non riuscivo a smettere di dipingere. Ogni volta che aggiungevo un colore, un altro si materializzava davanti ai miei occhi, e continuavo a inseguirli, uno dopo l’altro, finché il sole non tramontava impedendomi di dipingere oltre, così tornavo a casa, dove, esausta, dormivo della grossa.
Quando pensavo a “casa”, adesso, immaginavo Nakajima. Studiava sempre, era sempre in casa, anche quando io non c’ero. Significa che mi vuole vedere, pensavo. Se veniva, era perché voleva stare lì. Ne ero sicura, come non ero mai stata con nessuno.
Per me la casa era dovunque fosse Nakajima. Per questo potevo vivere le mie giornate senza preoccuparmi di niente. Neanche di ciò che avrei fatto della mia vita.
Alla fine i bambini se ne andarono e io, compiaciuta dei progressi della giornata, stavo facendo una pausa, quando comparve Sayuri, scura in volto, e venne dritta verso di me.
Ogni volta che la vedevo era sorridente, salutava con la mano, così aspettai, chiedendomi cosa fosse successo.
“Posso parlarti un attimo, Chihiro?”
“Non sembrano buone notizie.”
Pensai che dovevano aver deciso di abbattere la scuola con tutto il murale.
In realtà la questione era più complicata, e ci misi un po’ a capire.
“Il presidente del municipio ha telefonato per dire che hanno trovato uno sponsor.”
“Uno sponsor? Pensavo che fosse il municipio a pagare, mi sbagliavo?”
“Pare che ne abbiano parlato, e che qualcuno si sia offerto di fare da sponsor, coprendo tutte le spese, purché il progetto restituisca vitalità al quartiere.”
“Strano, a questo punto non mi sembra nemmeno che sia necessario.”
Sayuri annuì. “Di fatto, vorrebbe che tu inserissi l’immagine della mascotte della sua azienda da qualche parte nel dipinto, bella grande. È quella dell’insegna di quella grossa ditta che produce kon’nyaku proprio vicino all’ingresso dell’autostrada.”
Sayuri mi mostrò una fotografia. Era il logo più strano che si potesse immaginare: un’orrenda combinazione di colori, tutti sul grigio, con la mascotte nel mezzo. La mascotte era un pezzo di kon’nyaku con gli occhi, il naso e la bocca.
Ridendo, dissi: “Ma che roba è? Stai scherzando!”. Anche Sayuri si lasciò andare a una grossa risata.
Sia io che lei sapevamo bene che, nel mondo reale, i brutti scherzi si verificano di continuo. Mi ricomposi, mi asciugai le lacrime dovute alle troppe risate, e le dissi: “È impossibile. Ho quasi finito il disegno”.
Mentre parlavo, cercavo di immaginarmi un modo ironico per inserire il logo nel murale, ma era tutto inutile.
E avevo come la sensazione che, seppure l’avessi fatto, lo sponsor non avrebbe apprezzato eventuali sfumature ironiche del logo della sua azienda.
Sayuri disse: “Cercherò di trovare un punto di incontro. Non disperiamo”.
Un po’ spazientita, replicai: “Senti, io mi faccio da parte. Potete chiedere a qualcuno di farci il logo. Oppure potete farlo rifare daccapo con dentro il logo”.
Con un’espressione seccata, Sayuri ribatté: “Ma perché per te è sempre tutto bianco o nero?”.
Dovetti ricominciare.
“Allora ascolta: visto che sopra alla mia firma devo comunque indicare il municipio, che ha collaborato, che ne dici se mettiamo lì anche il logo, magari in piccolo?”
“Ma il presidente lo vuole grande, e vuole che faccia parte del disegno. Ma se alla fine diventa uno spot pubblicitario non ha senso che sia tu a dipingerlo. Per il momento sto cercando di spaventarli, sto dicendo loro che ci vorrà un milione di yen per rifarlo daccapo.”
Sorrise.
Mi piaceva Sayuri quando faceva così, quindi cercai di risponderle nel modo più gentile possibile, per non darle l’impressione di volerla contraddire.
“A dire la verità, non credo che le mie opere siano particolarmente belle. E ho lavorato a questa pensando che sarebbe stata demolita di qui a poco.
Ma credo che ci sia una grossa differenza tra lo scegliere di non dipingere qualcosa perché si sa che andrà distrutto e, per lo stesso motivo, dipingere qualsiasi cosa a cuor leggero. Non sarò una grande pittrice, ma non ripeto cose già fatte, come quelli che rifanno a mano i poster dei film. Quando mi propongono un lavoro, accetto a condizione di poter dipingere ciò che voglio, e credo di essere capace – forse a malapena capace, ma comunque capace – di tirar fuori dei disegni che giustifichino questa pretesa di libertà. Quindi se uno viene così, come se niente fosse... Se viene da me e mi chiede di mettere in un mio disegno qualcosa, anche se la mascotte del kon’nyaku fosse stata carina, anche se si fosse trattato, che so, di Pikach), Gundam o Hamtarō, significa che mi ha affidato un lavoro senza capire niente di me.”
“Lo capisco, credimi. È esattamente il motivo per cui ho voluto che fossi tu a occuparti di questo lavoro, e mi assumo tutta la responsabilità per ciò che sta succedendo, quindi non preoccuparti. Sono solo venuta a informarti, non sto cercando di convincerti a fare qualcosa.”
Da brava insegnante, Sayuri mantenne la calma e mi ispirò fiducia.
“In ogni caso, se la richiesta dovesse rivelarsi inflessibile rinuncerò: non posso lavorare in un sistema così. È fondamentalmente sbagliato. Si sono rivolti alla persona meno adatta. Puoi dire loro di rivolgersi a un disegnatore di insegne. Non per mancare di rispetto a chi disegna insegne, ma è un altro tipo di lavoro. Io sono poco più che una pittrice amatoriale, ma non posso cambiare professione.”
Guardai il murale. Povere scimmie. Forse passeranno una mano di vernice su di voi e scomparirete. Ma chi lo sa? Magari Yocchan e i suoi amichetti si ricorderanno che siete stati al mondo, anche se per poco tempo.
Questo pensiero mi fece sentire libera, come se le mie fissazioni si fossero allentate e il vento le avesse spazzate via, cancellandole. Potevo andare ovunque desiderassi, ora.
Bene così, pensai.
Decisi di fotografarlo e lo feci, con la mia macchina digitale e il cielo sullo sfondo. Volevo fissare la gioia di quella fase del lavoro.
“Dev’esserci un modo,” disse Sayuri. “Innanzitutto mostrerò loro il video del programma televisivo su di te, Chihiro, e farò leva sul tuo valore artistico.”
“Mi imbarazza un po’, non è che io valga poi tanto.”
Per la prima volta iniziavo a prendere il mio lavoro un po’ più sul serio.
Poiché il presidente dell’azienda di kon’nyaku non aveva ancora visto il murale non potevo saperlo con sicurezza, ma dovevo ammettere che parte della responsabilità di ciò che sarebbe successo ricadeva su di me: non ero ancora brava abbastanza da dipingere murali in cui qualcuno volesse infilare il logo della propria ditta.
Sarebbe stato bello studiare ancora, vedere tante opere d’arte meravigliose, sentire sulla mia pelle quanto ero piccola... La strada verso Parigi si stava aprendo in modo naturale davanti a me. Immaginai il profilo di Nakajima tutto intento a studiare nel mio appartamento.
Avrei voluto avere la stessa espressione quando dipingevo. Non per fuggire da tutto quello che mi era capitato durante il giorno, ma per trasformarlo in una nuova forma di energia che diventasse parte di me. Come succedeva a lui.
Ma prima dovevo finire ciò che avevo cominciato.
“D’accordo, allora io cercherò di far parlare di me in qualche rivista, per dare più risonanza al mio nome. I vecchi si lasciano abbindolare da queste cose, no? Posso anche chiedere alla relatrice della mia tesi di laurea di scrivere una lettera al presidente del municipio: è un’artista molto nota ed è originaria di qui, per cui credo che la sua opinione conti parecchio. Sono sue quelle strane sculture di bronzo di fronte alla stazione,” dissi. “E poi scriverò al presidente dell’azienda e gli invierò del materiale sul murale, non sarò polemica e userò toni gradevoli, nel tentativo di convincerlo. Se non dovesse funzionare, ci arrenderemo.”
Modestamente, mi sembrò un’idea ottima. A meno che non fosse una persona molto ricca ed eccentrica, il presidente della ditta di kon’nyaku non mi avrebbe pagato per cancellare un murale già finito e poi farmene fare un altro: poteva funzionare.
“Bene, ma mi dispiace che tu debba prestarti a una cosa del genere,” disse Sayuri.
“Non ti preoccupare. Farò ciò che posso.”
Dopotutto poteva trattarsi del mio ultimo lavoro in Giappone. Non ero così determinata a continuare con la pittura murale, né sapevo cosa il futuro avesse in serbo per me.
Con ogni probabilità, d’ora in poi mi sarei trovata in situazioni del genere qualsiasi fosse stato il mio lavoro e, indipendentemente dal risultato, avrei dovuto fare sempre del mio meglio, come stavolta. E respirare la brezza della libertà che, seppur di rado, soffia e inebria con il suo dolce profumo.
“Quando si saprà qualcosa di sicuro informami, mi raccomando,” le dissi. “Fino ad allora mi riposerò. Naturalmente so che tu non hai nessuna colpa, Sayuri.”
Avevo bisogno di tenermi occupata, di calmarmi, mi rattristava guardare il disegno proprio adesso che era quasi finito, e allora misi insieme le mie cose in gran fretta.
Ovviamente non ero arrabbiata. Piuttosto, mi dispiaceva per Sayuri.
Non ero un’artista famosa e quindi era del tutto naturale che pensassero di potermi comprare a buon mercato e che avrei accettato le loro richieste, anche se si trattava di fare pubblicità a uno sponsor: in fondo non ero una personalità autorevole.
In un certo senso è normale. In una società come la nostra, questa propensione al compromesso è dominante. Dalle banche al ponzu... Be’, questi sono soltanto esempi, ma il punto è che la gente è riuscita a trovare dappertutto minime possibilità di profitto secondo modalità non sempre chiare. Mi è capitato di vedere gente allinearsi al punto di vista altrui e mantenere segrete le proprie opinioni soltanto in nome di minimi profitti, nessuno vuole assumersi responsabilità, tutti preferiscono starsene nel mezzo, con vigliaccheria, così che le cose appaiono sempre più torbide e alla fine ci si ritrova imprigionati all’interno di una specie di rigida cornice: ho visto questa storia ripetersi all’infinito.
Tutta questa sciatteria mi dava la nausea.
Cercavo di andare d’accordo con il resto del mondo, di migliorarlo almeno un poco, di volare un po’ più in alto, ma dentro di me ero annoiata.
Se fossi stata al posto di Sayuri, se la scuola fosse stata per me la cosa più importante, se avessi fatto parte del sistema, allora mi sarei adoperata per trovare la soluzione migliore, e che fosse tale per tutti.
Ma se avessi assecondato quella richiesta, l’intero mio lavoro non avrebbe più avuto senso. E se fossi stato uno di passaggio, e avessi visto sulla parete una pubblicità, avrei trovato il tutto molto deprimente. E se devo dirla tutta, non riesco ad avere una buona opinione di un’azienda che si sente in diritto di infilare il suo logo dappertutto soltanto perché ha sganciato cinquecentomila yen.
Ora come ora cinquecentomila yen per me sono una somma enorme, ma ciò non significa che farei qualsiasi cosa per guadagnarla. Soprattutto non modificherei il mio modo di lavorare, perché verrebbe meno l’equilibrio di tutto il resto della mia esistenza.
Questa storia mi ricordò un episodio accaduto a uno scultore di cui avevo molta stima.
Gli era stata commissionata una scultura per la piazza di una città, e nel luogo dove sorgeva la piazza una volta c’era un bosco abitato da zingari, molti dei quali erano morti durante una guerra. Egli, allora, si offrì di creare un’opera che rappresentasse gli zingari, in considerazione di tutte le sofferenze che questi avevano dovuto patire. Era persuaso che un luogo aperto come una piazza fosse perfetto per onorare la memoria di un popolo che era stato vittima della cattiveria umana, un popolo la cui vera storia era sempre stata occultata e insabbiata. Ma sia il sindaco che gli abitanti della città si opposero, affermando che gli zingari c’erano ancora, che erano dediti agli scippi e ai borseggi e spaventavano i turisti: nessuno poteva accettare che si dedicasse loro una statua.
Questo dimostra che le cose variano a seconda della prospettiva da cui le si osserva.
A mio modo di vedere, ciò che conta non sono gli sforzi per cercare di appianare le differenze, ma la piena consapevolezza di tali differenze e la volontà di comprendere i motivi per cui certe persone sono come sono.
Il mio lavoro consisteva nel portare avanti il mio modo di pensare, e per farlo avevo bisogno di migliorare la tecnica. Sarei potuta diventare famosissima, ma le differenze sarebbero esistite sempre e in fondo, se pure fossi stata negata per il disegno, non avrebbe avuto davvero importanza.
O forse l’avrebbe avuta. Forse, se avessi avuto più fiducia in me stessa, sarei riuscita meglio a valorizzare le differenze.
Questo era ciò che contava.
La verità, purtroppo, è che non sono ancora del tutto convinta di poter affermare che la gente del quartiere preferirebbe il mio murale al bizzarro logo dell’azienda. Dissi a me stessa, con un po’ di imbarazzo, che ero ancora troppo giovane e immatura.
Tornai a casa in anticipo e trovai Nakajima immerso nello studio, il PowerBook acceso e il dizionario aperto davanti a sé.
“Che ci fai a casa così presto?”
“Ho preso qualcosa da mangiare, quindi non c’è bisogno che prepari la cena.”
Non era proprio quello che volevo dire, ma lo dissi.
“Uh, speravo di potermi distrarre anche stasera preparando la cena,” disse Nakajima. “Allora potremmo fare due passi e prendere qualcosa alla torrefazione, che ne dici?” Poi aggiunse, guardandomi in viso per la prima volta da quando ero arrivata: “Ti è successo qualcosa di spiacevole, non è vero?”.
Annuii e gli raccontai tutto.
“Hmm, non mi sorprende, considerando che tu non sei molto conosciuta e che la gente, in questo quartiere, è piuttosto provinciale.”
“Tu non conosci mezzi termini, eh?” gli chiesi, ammirata.
“Be’, se uno non dice ciò che pensa poi va a finire che, nelle occasioni in cui si deve pronunciare, può solo mentire, non ti sembra?”
“Comunque sia, non posso aggiungere il logo dell’azienda al mio disegno, non è possibile.”
“Hai visto di che si tratta?”
“Sì, è un pupazzo a forma di kon’nyaku con sopra delle strane scritte: è orrendo.”
“E non lo puoi fare in un angolo, magari molto piccolo?”
“Per me non ci sarebbero problemi, ma lo vogliono per forza grande.”
“Però te l’avrebbero dovuto dire sin dall’inizio.”
“Appunto.”
“E anche se il tuo lavoro è ancora rudimentale, prima o poi diventerà grande, è come una piantina che si trasformerà in un grande albero, si capisce, e lo devono capire anche loro.”
“Eccolo di nuovo che non usa mezzi termini... Ma sai, nemmeno io riesco ancora a percepire quel tipo di valore nei miei murali. Ecco perché non ho difficoltà a dipingere su un muro che potrebbe essere abbattuto.”
“Lo so, ma una cosa è la modestia con cui giudichi te stessa, e un’altra è la decisione di trasformarlo in una specie di cartellone pubblicitario.”
“Sono d’accordo.”
“E poi ti hanno affidato un lavoro, e non possono cambiare idea all’improvviso su cosa tu debba dipingere.”
“Esatto.”
“E se provassi a dire loro: ‘O accettate che lo disegni piccolo e lo metta in un angolino o rinuncio al lavoro’?”
“È ciò che intendo fare.”
“...Hai qualche conoscenza? Magari un professore della scuola d’arte, o un critico famoso?”
“Sì, certo.”
“Faglielo dire da loro. Rispondi all’autorità con l’autorità. E se riuscissi a farti intervistare, a far scrivere un articolo in grado di sottolineare il significato del tuo dipinto, credo che riusciresti a rendere più solida la tua posizione. E se pure a un certo punto doveste finire in tribunale, quale sarebbe il problema? Ci penserebbe Sayuri. Vedi, le persone come noi non stanno mai nel mezzo. Siamo sempre ai margini, e in linea generale sono convinto che sia meglio non distinguersi troppo. Il più delle volte vediamo le cose al contrario rispetto a tutti gli altri, e se ci distinguiamo finiamo inevitabilmente per attirarci inimicizie. Ma ci sono cose sulle quali è importante non cedere mai, o si finisce per vivere come degli eremiti.”
Le sue idee somigliavano così tanto alle mie che ascoltandolo mi domandai se non stessi assistendo a un qualche incantesimo.
Il fatto che la pensassimo quasi allo stesso modo spazzò via la mia irritazione e il proposito di interrompere il lavoro e prendere qualche altra iniziativa inutile. Un altro incantesimo.
In passato, quando mi capitava qualcosa di brutto, ciò che mi calmava era tornare a casa e accarezzare il mio gatto. Nakajima sembrava avere un effetto simile su di me: era capace di diluire il veleno che si addensava nel mio cuore.
Per come ero fatta qualche tempo prima sarei rientrata senza dire una parola per poi cercare di rilassarmi facendo sesso con il mio ragazzo, senza raccontargli niente, tenendomi tutto dentro. Questo significava, per me, avere un ragazzo.
Ma con Nakajima era diverso: con lui era una cosa seria.
Mi stavo innamorando per la prima volta. Mi pesava, mi seccava, ma mi ripagava pienamente, anche. Era come levare gli occhi al cielo. O guardare un mare di nuvole luminose dal finestrino di un aereo.
Era così bello da somigliare alla tristezza.
Alla sensazione che si prova quando ci si rende conto che, in una prospettiva più ampia, il tempo che ci è concesso su questa terra non è poi così lungo.
C’era ancora una cosa che dovevo fare.
“Papà, sono alla stazione. Possiamo vederci oggi?”
Non volevo telefonargli al lavoro, così lo chiamai al cellulare dalla stazione.
“Così, all’improvviso?”
“Mi sono liberata all’ultimo momento da un impegno di lavoro,” risposi. “Altrimenti non sarei riuscita a venire.”
“Stasera posso assentarmi per un po’. Vediamoci tra due ore, così ceniamo insieme.”
Mio padre scelse un ristorante italiano assolutamente mediocre dove immancabilmente veniva sottolineata la sua posizione di personalità importante del posto, e io non lo sopportavo.
Del resto lo avevo contattato senza preavviso, inoltre era lui a offrire, quindi non potevo proprio lamentarmi.
Con una famiglia come la mia, niente avrebbe mai potuto ferirmi – se non l’avessi fatto io stessa – e lo avevo capito frequentando Nakajima. Pensavo di essere più forte, e invece alla stazione versai qualche lacrima.
Evidentemente i giorni trascorsi con mia madre erano ancora lì, impressi a fuoco ovunque guardassi.
L’atmosfera della stazione riportò tutto a galla. Rividi me stessa correre all’ospedale, felice senza sapere di esserlo. La felicità si comprende sempre quando è troppo tardi. Forse perché le sensazioni fisiche come gli odori e la stanchezza non trovano spazio nei ricordi. Affiorano solamente le parti migliori.
Questa felicità che si manifestava nella memoria mi sorprendeva ogni volta.
Stavolta era la sensazione che provai scendendo dal treno. Il ricordo di com’era quando andavo a trovare mia madre sapendo che era ancora viva, anche se per poco, anche se solo per quel giorno. Stavo rivivendo la gioia di quella consapevolezza.
E la solitudine. L’impotenza.
Giunta in stazione, avrei incontrato mio padre ma non mia madre, non più.
“Lo chef di questo ristorante ha trascorso quattro anni in Italia, lo sai? Scusa, chiederesti allo chef Sugiyama di venirci a salutare, appena ha tempo? Gli voglio presentare mia figlia.”
Sapevo che lo avrebbe detto. Dentro di me pensavo: Per piacere, me lo hai già detto, e poi come può avere tempo con il ristorante così affollato? Ma restai in silenzio.
Alla fine si presentò un signore con un cappello da cuoco, scambiò due parole con mio padre, mi salutò e io sorrisi.
A breve avrei lasciato il Giappone e forse non avrei visto mio padre per un po’: al pensiero, mi sembravano care anche le sue vanterie.
Dopodiché cominciarono ad arrivare i piatti, e l’enorme porzione di pasta mi sembrò decisamente scotta per uno chef che aveva vissuto ben quattro anni in Italia, mentre i piatti principali erano in quantità striminzite. Probabilmente si era dovuto adeguare suo malgrado ai gusti dei clienti locali. All’università c’erano degli studenti di scambio provenienti dall’Italia, e avevo visitato più volte le loro città di origine – erano viaggi da studenti squattrinati. Inutile dire che nessuno dei ristoranti in cui ero stata in Italia era così mediocre.
Ripensando a quei bei tempi, iniziai a rendermi conto che ero davvero sul punto di andare in Europa. E che ci stavo andando per me stessa.
“Papà, l’anno prossimo vorrei andare a studiare a Parigi.”
“Con un ragazzo, vero?”
La sua prontezza mi lasciò di stucco.
“Perché pensi che ci vada con un ragazzo?”
“Hai un’espressione diversa, è come se potessi rimanere incinta da un momento all’altro.”
“Dici?”
Sorrisi. Dovevo dare l’impressione di essere tra le nuvole, molto più di quanto credessi.
“Mah, mi fa piacere. È un bene che tu voglia farlo. E fammi conoscere questo ragazzo prima che partiate.”
“Se riesco sì. Sii paziente, però.”
Si può presentare alla propria famiglia un tipo strano come Nakajima?
“E che fa questo tizio? Spero proprio che non voglia diventare un pittore.”
“No.”
“È più giovane di te? Studia ancora?”
Su molte cose aveva indovinato: pensai con ammirazione a quanto siano perspicaci i genitori.
“Studia medicina. Abbiamo la stessa età, ma lui frequenta un corso di dottorato. Quando avrà completato la tesi vorrebbe continuare a fare ricerca presso un laboratorio laggiù con una borsa di studio.”
“Sapevo che c’era un uomo di mezzo, e non mi piace. Non mi piace proprio.”
Sembrava davvero seccato.
“Sei pessimo, mi hai fatto confessare tutto!” dissi ridendo.
“Una volta che avrai deciso quale scuola frequentare, inviami un resoconto delle spese da sostenere. E prometti che di tanto in tanto tornerai a far visita a tuo padre.”
“Non devi, ho il denaro che mi ha lasciato la mamma,” risposi. “E verrò a trovarti anche se non mi dai niente. Però devi venire anche tu a Parigi. A dirla tutta, è solo te che ho voglia di incontrare, papà. Di tutti gli altri non m’importa.”
“Nemmeno a me fa piacere vederti infastidita quando devi frequentare mia sorella e il resto della famiglia. Ma se ti dovessi inviare del denaro, non lo rifiutare. E qualsiasi cosa dovesse accadere, tienimi sempre informato. Se ti fai male, se resti incinta, se rompi con questo ragazzo e inizi a vivere da sola, o se lasci la scuola, mi raccomando, informami di qualsiasi cambiamento. E se ci riesci, presentamelo, quando vuoi.”
“Sì.”
Grazie, pensai, con quella pasta gommosa sotto i denti.
Il rapporto tra mio padre e me stava entrando in una nuova fase.
È così che si diventa adulti, lungo il cammino, facendo delle scelte, e non importa che lo si desideri o no. Ciò che conta è scegliere per se stessi.
Stando accanto a mio padre, mi resi conto che il suo corpo non aveva più l’odore di un uomo di mezza età. Tutt’a un tratto odorava come un nonno.
Sono cose che si capiscono quando si vive separati.
Probabilmente non vivremo mai più sotto lo stesso tetto, pensai, e nello stesso istante tutte le giornate banali che avevamo trascorso insieme mi sembrarono irripetibili e preziose. Ancora una volta mi confrontavo con il tempo che mi ero lasciata alle spalle. E mio padre era stato parte della mia vita, una maglia dello stesso ordito, indistinguibile dal resto, senza differenze di colore.
Ma la vita va avanti. I suoi affari sarebbero potuti andare male, avrebbe potuto fallire ed essere abbandonato da tutta la città, avremmo potuto vivere nuovamente vicini. Io sarei potuta diventare molto ricca e magari avrei potuto affittare un appartamento per lui. Non sarebbe mai successo, ma lavorare di immaginazione alleviava un po’ la mia gelosia.
Quella che, in seguito alla morte della mamma, avevo sempre provato verso quella cittadina che si era presa mio padre.
Dentro di me, la bambina che ero stava piangendo.
Perché non hai fatto solo il padre, dopo la morte della mamma? Come fai a mandare avanti l’azienda come se niente fosse, come fai a frequentare i tuoi parenti? Il tempo che abbiamo trascorso insieme come famiglia non conta niente per te? Era solo un gioco? Eravamo solo un gioco?
Ma l’adulta che ero diventata desiderava la sua libertà, e sarebbe stato un grosso problema se mio padre si fosse dedicato a me anima e corpo.
E così restammo in silenzio, come una coppia che si ama segretamente, serbando nel cuore un vago desiderio di poter vivere insieme ancora una volta.
E quindi esistono anche amori così.
Amare non significa soltanto preoccuparsi l’uno dell’altra, abbracciarsi, voler stare insieme. Ci sono momenti in cui comunichiamo più con il silenzio che con le parole. Sentimenti profondi che si presentano sotto forma di prosciutto o di denaro.
E la capacità di percepirli è un vero tesoro.
La nostra strategia di negoziazione aveva evidentemente funzionato, perché tutto andò nel verso giusto.
Riuscii a farmi intervistare appena in tempo, prima che una certa rivista andasse in stampa. La tempistica fu perfetta, e parecchi lettori vennero a vedere il murale quando io ci stavo ancora lavorando. Gli abitanti del quartiere, dopo aver letto il pezzo, sembrarono convincersi che il mio lavoro, benché somigliasse allo scarabocchio di un bambino, doveva pur valere qualcosa, se la stampa ne parlava.
La lettera che avevo scritto con tanto impegno fu recapitata al presidente della ditta di kon’nyaku insieme con la missiva di presentazione della docente della scuola d’arte, e lui venne a vedere il murale. Fu piacevolmente sorpreso nel constatare che avevamo attirato tanta attenzione, e ammise che sarebbe stato un peccato rovinare il disegno, acconsentendo quindi a farmi inserire il logo soltanto in un angolo. Mi sentii sollevata, perché era un uomo prestante e simpatico, che in effetti ricordava anche un po’ un pezzo di kon’nyaku. Mi chiese di menzionare l’azienda una volta che, a lavoro finito, il quotidiano locale e la tv via cavo fossero venuti a intervistarmi.
Per me era sufficiente che il murale fosse salvo, del resto non m’importava nulla, quindi accettai sorridendo. Sayuri, che aveva coordinato le fasi della trattativa e organizzato tutti gli impegni, mi disse che, se avesse perso il lavoro, si sarebbe reinventata come mia agente.
“Grazie, Nakajima. Sono riuscita a finire il murale. Tutto è andato liscio.”
Gli espressi la mia gratitudine mangiando un piatto di maiale allo zenzero in una tavola calda vicino a casa.
“Bene, lo sapevo che quella gente si sarebbe lasciata abbindolare da una che vende il suo nome ai mass media: dopotutto non distinguerebbero un cartellone pubblicitario da un murale.”
Sincero come sempre.
Qualcosa, nella sua franchezza, mi ricordava Chii.
“Mah, suppongo che sia così in tutti i paesi del mondo,” dissi io.
“Forse sarebbe stato diverso se avessi dovuto interagire con gente che vede tutti i giorni edifici di grande valore archittettonico, bei dipinti o chiese con i soffitti affrescati. Io di arte non capisco granché, quindi davvero non ho idea di cosa sia tutto ciò, ma non vedo l’ora di essere laggiù per imparare.”
Mentre parlava, mangiava il suo piatto di sgombro bollito.
“Ho la sensazione che in paesi del genere anche il modo di considerare la ricerca sia differente, e questo mi entusiasma molto. Penso proprio che dovrò confrontarmi con tante cose più grandi di me.”
“Anche per me è così. Quando sarò lì, potrò contemplare quanto mi pare le stesse opere che al Museo d’arte di Ueno posso guardare per poco più di quindici secondi facendo la fila. Sono altri numeri. E avrò la possibilità di guardare tantissimi dipinti nelle chiese. Quelli che mi interessano di più sono gli affreschi. Se ne avessi l’opportunità mi piacerebbe anche studiare restauro: quante cose voglio fare! C’è così tanto da imparare. Da quando ti conosco mi è venuta una gran voglia di studiare a fondo tutto quello che mi interessa.”
Il ristorante era pieno di studenti e uomini soli, alla tv davano il baseball. Gli ordini venivano chiamati uno dopo l’altro e i camerieri correvano avanti e indietro. Mangiavo fuori raramente e tutto mi appariva nuovo, fresco. Le persone mi sembravano emanare una luce abbacinante: ero come una talpa appena uscita dalla tana.
Avevo proposto a Nakajima di uscire per esprimergli la mia gratitudine, e avrei offerto io. Mi venne dietro borbottando che per una volta si poteva anche fare.
Avremmo mangiato qualcosa alla tavola calda vicino a casa, punto. Sarebbe stata una scena assolutamente abituale ai tempi in cui vivevo da sola, ma adesso che c’era Nakajima era come se ognuna delle sue idee fosse collegata a un intero universo alternativo, la banalità delle abitudini si decomponeva e a me sembrava di sbirciare in uno spazio differente.
“Piuttosto, ciò che mi preoccupa è che, adesso che hai iniziato a far parlare di te qui in Giappone, possano arrivarti molte richieste di lavoro, tante da farti passare la voglia di venire a Parigi.”
Parlava con gli occhi bassi, masticando lentamente le vongole della zuppa di miso.
“Certo, se riceverò delle offerte le accetterò fino a poco prima della partenza, e sono disposta ad andare in qualsiasi parte del paese. Così potrò anche mettere da parte più soldi. Ma verrò a Parigi. La nostra vita insieme per me è importante, e inoltre voglio lasciarmi andare, adesso che sono ancora giovane – e non durerà molto. Voglio lasciarmi trasportare da qualcosa di grande. Voglio migliorare, anche solo un po’.”
“Bene.”
Un’altra sua caratteristica era che nei momenti in cui avrebbe dovuto provare felicità non mostrava mai i suoi sentimenti.
Parliamo come una coppia sposata, pensai.
Giocavo a marito e moglie, a padre e figlia, a fare l’adulta, tutto era un gioco per me.
Ma era un modo come un altro per cercare di continuare a vivere, e non significava affatto che non fossi sincera.
La tabella di marcia si fece più serrata, dovetti restare in piedi fino a tardi più d’una volta, ma alla fine riuscii a terminare il murale.
Feci una foto ricordo con Sayuri e il direttore della scuola, concessi interviste, secondo gli accordi, al quotidiano locale, nominai il produttore di kon’nyaku davanti alle telecamere e lo ringraziai per l’aiuto, poi scattai un’altra foto davanti al murale, stavolta con i bambini della scuola, che erano ormai diventati miei amici – sembravamo appena tornati da un campeggio – e poi mi fu offerto un banchetto a base di yakiniku.
Quando tutto fu finito, nel cuore della notte, scavalcai il cancello e restai in piedi davanti al murale.
Forse perché lo avevo appena terminato, fatto sta che mi sembrò meraviglioso. Era il mio miglior lavoro. Aveva qualcosa di maestoso che neanche il buio riusciva a celare, e poco importava se nessuno era lì a guardarlo.
E così, alla fine, un vago senso di fiducia gettò l’ancora dentro di me.
Potevo partire, sarebbe andato tutto bene.
Le scimmie del murale si muovevano a destra e sinistra come se non volessero sprecare neanche un minuto.
Piccole esplosioni di colore si sovrapponevano l’una all’altra e si irradiavano a formare una specie di arcobaleno.
Guardai la scimmia che beveva il tè e quella che dormiva nel suo letto, ed ebbi un’illuminazione.
Sì, devo andare da Mino, ci devo andare da sola.
Andrò a mostrargli la foto e ne approfitterò per parlare con la sorella.
Che linea ferroviaria era, dov’è che si deve cambiare, e il lago come si chiamava? Mentre mi chiedevo queste cose, le parole che aveva pronunciato Yocchan mi attraversarono la mente all’improvviso.
“Fantasmi.”
E cominciai a pensare.
Forse quel posto non era mai esistito per davvero, esisteva soltanto nella testa di Nakajima. Possibile che quei due non fossero più al mondo? Che Yocchan avesse ragione?
Rabbrividii. Mi sembrò un’ipotesi molto più plausibile.
Sono una persona molto pragmatica e certe cose non le penso mai, eppure... Eppure, stranamente, l’idea aveva una sua logicità, e la sensazione di essermi persa tra le nebbie dei miei ricordi stentava a svanire. Nakajima aveva il potere di non farmi più capire fino a che punto avessi vissuto un’esperienza sulla mia pelle. Ebbi la sensazione che la stessa sua esistenza fosse orientata verso una direzione tutt’altro che rassicurante.
Stavo bene con lui, in una certa misura potevo dire di esserne innamorata, quindi non me ne preoccupavo, ciononostante mi capitava di avere delle strane sensazioni, c’era qualcosa che mi spaventava.
Ma forse doveva essere così, faceva parte dello stare insieme.
Era del tutto normale, e semplicemente gli altri tentavano in ogni maniera di salvare le apparenze.
Per fingere che quella solitudine così singolare, la sensazione di affacciarsi alle tenebre, non esistesse per davvero.
È naturale, quando due universi si incontrano.
Da piccola, per esempio, mi era capitato spesso di vedere gente in preda ad attacchi di vomito e diarrea, donne adulte ubriache fradicie fasciate in abiti troppo stretti, uomini di mezza età che fissavano con insistenza il mio corpo di bambina. E sapevo che c’era ancora tanto da vedere... Non faticavo a immaginarmi un mondo in cui anche l’omicidio rientrava nella norma. Non era il mio mondo, neanche quello dei miei genitori, ma sapevo che esisteva, che la strada che mi ci avrebbe condotto era già dentro di me.
Si vive fingendo di non vedere, anche se tutti conosciamo bene cosa sia seppellito lì sotto. Un giorno dopo l’altro, guardando solo ciò che vogliamo guardare.
Qualche volta, però, capita di incontrare persone come Nakajima, persone in grado di farci ricordare tutto. Indipendentemente da ciò che dice o fa, è sufficiente guardarlo per ritrovarsi di fronte alla vastità del mondo intero. Perché lui non cerca di farne parte. Perché non distoglie lo sguardo.
Mi fa sentire come se mi fossi svegliata di colpo, e mi viene voglia di guardarlo per sempre. Ecco di che si tratta. La sua profondità mi incute soggezione.
Qualche giorno dopo, di mattina, mi misi in viaggio tutta sola per raggiungere il lago.
Scendendo, ebbi l’impressione che la stazione fosse ancora più deserta. L’unica cosa che dava segni di vita – era ormai pomeriggio – era un enorme supermercato illuminato a giorno. Era come se risucchiasse le persone: anziani, casalinghe che sembravano più vecchie della loro età.
Percorsi la lunga strada che partiva dalla stazione finché non trovai il sentiero che conduceva al lago. Superati una piccola casa galleggiante, un vecchio negozio di articoli da pesca e un ristorante chiuso, giunsi sulla sponda del lago.
Ora che Nakajima non era con me capivo perfettamente quanto mi fosse caro: così tanto da farmi tremare.
La volta precedente, quando avevamo camminato sin laggiù insieme, il lago mi era parso più bello, più splendente. Forse ero già innamorata. Forse sì.
Il lago, ora immobile, sembrava dimenticato dal mondo. Non era ancora calata la foschia e i raggi tristi del sole illuminavano i rami ancora spogli degli alberi.
Continuai a camminare in direzione del torii rosso. Procedevo a passo incerto, come se stessi sognando. Cosa farò se al mio arrivo troverò un rudere disabitato da cent’anni? mi chiesi. Non mi sembrava impossibile.
Quando riuscii a scorgere la piccola abitazione, provai sollievo e, subito dopo, trasalii.
Mino stava in piedi davanti alla porta e salutava con la mano. Gli corsi incontro.
“Com’è possibile?” dissi.
“Chii mi ha detto che saresti arrivata, e da sola. Sono venuto ad aspettarti.”
“È incredibile che sia in grado di prevedere certe cose. Per non parlare del fatto che tu le dia retta e mi venga ad aspettare come un cagnolino.”
Istintivamente, gli accarezzai la testa. In fondo aveva gli occhi grandi e rotondi come quelli di un cane, e poi faceva troppa tenerezza lì, in piedi davanti alla porta.
“Guarda che non sono un cane,” disse ridendo. “Entra, ti preparo un tè.”
Risi anch’io e lo seguii.
Mi sentii profondamente sollevata. Non era stato un sogno.
Più che altro doveva essere stato lo strano atteggiamento di Nakajima a farmeli percepire come irreali.
Come la volta precedente, la casa era ordinata e accogliente. Credo che dipendesse dal fatto che la visitavo per la seconda volta. Sentivo che potevo rilassarmi, sapevo come muovermi.
Osservai Mino che metteva l’acqua a bollire e preparava il tè. Non c’era niente di particolare nei suoi movimenti, ma era impeccabile. Era pacato ma non svogliato. Mi sembrava di assistere a una cerimonia.
“È inutile che cerchi di carpire i miei segreti: la chiave sta nell’acqua,” disse Mino sorridendo.
“Allora me ne porterò un po’ a casa.”
“Più tardi ti accompagno a prenderla.”
Le foglie con cui preparò il tè avevano un aroma leggermente affumicato, e il risultato fu così buono che mi sentii rinata. Era un aroma dolce, con un retrogusto fruttato.
“Ottimo...” dissi, emozionata.
“È buffo,” ribatté Mino. “Di solito non esco quasi mai, perché ordino su internet tutto ciò che ci serve, dai libri alle foglie di tè, e il solo posto in cui vado è il supermercato vicino alla stazione. Non ho nessun interesse a incontrare altre persone, ma provo gioia quando qualcuno mi fa i complimenti per il mio tè.”
“Forse perché sai che chi te li fa si intende di tè?”
“Forse sì.”
Credo di sapere cosa volesse dire.
Se non fossi stata un’amica di Nakajima, se fossi stata una viaggiatrice incontrata casualmente per strada o una turista capitata chissà come da quelle parti, Mino non si sarebbe aperto come aveva appena fatto. Non sarebbe riuscito a parlare con la stessa sensazione di intimità.
In questo Mino e Nakajima si somigliavano molto.
Erano privi della leggerezza che caratterizza la maggior parte delle persone. Non erano capaci di mostrarsi benevoli verso qualcuno solo perché ce l’avevano davanti.
Forse c’era un risvolto triste in questo loro modo di fare, ma a me dava sicurezza. Perché ai miei occhi era normale.
Quasi sempre i rapporti umani presuppongono la consapevolezza di come si sia venuti in contatto con qualcuno e di che tipo di persona si tratti. Nel caso di Mino e Nakajima, però, il discorso era parecchio più complesso.
I bambini, per esempio, sono sinceri ma cauti: non sarebbero mai venuti a sedersi accanto a me e a farmi domande sin dal primo giorno. Ci vuole sempre almeno una settimana prima che comincino a riempirti di domande e a girarti intorno.
Avevo più esperienza di loro, e mentre dipingevo il murale pensavo sempre a una cosa. Tanto prima o poi diventeremo amici, e poi finirò il murale e me ne andrò: non sarebbe meglio se vi sbrigaste a venire da me?
Ma è proprio perché esistono simili condizioni che la distanza tra le persone non si potrà mai colmare. I bambini hanno ragione.
Mino non aveva sovrastrutture, e questo mi tranquillizzava, perché sapevo che poco alla volta ci saremmo avvicinati proprio come mi succedeva con i bambini.
Non si tratta soltanto di parole: la distanza che intercorre tra le persone è anche fisica. Ci guardiamo negli occhi, sentiamo i rispettivi odori, beviamo del tè insieme, e istante dopo istante accumuliamo fiducia. E poi c’è il destino. Se Nakajima avesse cercato di ridurre la distanza tra noi solo due settimane prima, molto probabilmente lo avrei preso in antipatia. Non mi sarei commossa vedendo la sua rete per il mochi.
“Penso che potrei farci l’abitudine: prendere il treno, arrivare fin quassù, passeggiare intorno al lago, presentarmi a casa tua e bere un buon tè.” Ero seria. “Mino, ti farebbe piacere se di tanto in tanto venissi qui con Nakajima? Non per farci predire il futuro.”
“Sì,” rispose Mino con un tono tranquillo. “Così forse il tempo ricomincerebbe a scorrere anche per noi.”
Capii che si trattava dello stesso tempo di Nakajima.
“Sei una principessa, eh?” disse Mino, ma con la voce di Chii. Teneva gli occhi chiusi.
Anche Chii teneva gli occhi chiusi. Dormiva, il respiro leggero, il petto si alzava e si abbassava con movimenti quasi impercettibili sotto la morbida trapunta che l’avvolgeva.
“Se lo dici tu... Non lo sono?” risposi. Era la seconda volta, quindi non accusai il suo sarcasmo e riuscii a rimanere rilassata.
Avevo capito perché Nakajima desiderasse incontrarli. Tanto per cominciare, erano delle persone interessanti e perbene. Erano riusciti a mettere in piedi un ambiente sano e solido su fondamenta decisamente instabili. Custodivano con discrezione delle caratteristiche, come la modestia e la grazia, di cui la gente di città si era disfatta da tempo.
“È Nobu ‘la principessa’. Tu sei quella che lo ha liberato dalle segrete in cui si era rinchiuso e dormiva da tempo.”
Mi sembrava di capire ciò che Chii volesse dire.
“Vai a Parigi insieme a lui. C’è la possibilità che vi ritroviate a vivere lì per molto tempo, ma che importa? Stai ancora tentennando, ma ormai ti ha catturato, te ne sei accorta? E tu hai catturato lui: non può più vivere da solo. Penso di poterti mostrare un’immagine che ti aiuterà a capire meglio. Dammi la mano.”
Guardai Chii e vidi che aveva gli occhi aperti. Le sue iridi erano di un colore così intenso che rabbrividii. Qualcosa dentro di me mi diceva di non toccarla, ma doveva essere un istinto che cercava di tenermi alla larga dalle cose troppo forti. Ormai ero arrivata sin lassù ed ero decisa a fare qualsiasi cosa, così le presi la mano. Era liscia e piccola. La mano di una bella addormentata che non partecipa alla vita di tutti i giorni.
“Chiudi gli occhi. Respira insieme a me. Sembra ipnosi, e in effetti ci si avvicina, ma non lo è. Voglio soltanto condividere un’immagine con te. Sta’ tranquilla.”
Feci ciò che chiedeva. Lo schermo nero davanti ai miei occhi non rifletteva nulla. Ma dopo qualche istante di immobile attesa, un’immagine si materializzò nella mia mente. Arrivò all’improvviso.
Cade la neve... Vidi la neve scendere da un cielo scuro, come granelli di polvere e piume di uccello che fluttuano leggere nell’aria.
Guardavo il cielo dall’alto. Lo capii osservando i fiocchi di neve che volteggiavano sotto di me. Senza sapere come potevo trovarmi su un albero e guardare in basso verso la strada. A poco a poco capii che c’erano altri alberi in fila. Era una normale strada asfaltata su cui la neve si posava per sciogliersi subito dopo. Un sottile velo si formava soltanto sui tetti delle auto in sosta.
Dalla direzione opposta vidi arrivare Nakajima che camminava portandosi in spalla una pesante borsa piena di libri. Si capiva che dentro c’erano libri, perché la forma era perfettamente quadrata.
Ah, è Nakajima. Quanto mi piace, pensai come in risposta a un riflesso involontario. La curvatura della schiena, le lunghe dita dei piedi chiusi nelle scarpe, tutto mi piace. Qui la ragione non c’entrava nulla.
Quando si fu avvicinato, notai che era magro, che non aveva un bel colorito e che sembrava instabile. Forse aveva studiato senza concedersi neanche un minuto per mangiare, come se volesse liberarsi di qualche cosa. Si fermò di colpo e guardò in alto.
Forse i nostri sguardi non si sarebbero incrociati, perché io ero trasparente. All’improvviso si sedette per terra con la schiena appoggiata al tronco dell’albero. In strada non c’era nessuno, solo la neve che cadeva leggera. Nakajima guardava la neve. La guardava con i suoi begli occhi. Con l’espressione di chi sta vedendo qualcosa di buono.
Poi aprì la borsa e, con gesti incerti, tirò fuori un oggetto che era infilato tra i libri che, come avevo pensato, teneva stipati all’interno. Era la vecchia rete per cuocere il mochi. Se la infilò sotto il braccio come se fosse un termometro e chiuse gli occhi.
“No! Non ti puoi addormentare lì! Morirai!” gridai.
Aprii gli occhi al suono delle mie grida.
Chii aveva gli occhi aperti e mi guardava, sempre tenendomi la mano.
Poi Mino parlò con la voce della sorella.
“Ciò che hai visto simboleggia il passato e il futuro di Nobu. Quello che gli è successo e che potrebbe succedergli ancora.”
“Non posso permetterlo,” dissi, mentre senza accorgermene avevo cominciato a piangere.
Ero sconvolta, proprio come quando sognavo mia madre.
“Non è la realtà, è solo una rappresentazione simbolica, ma potrà accadere.”
Poiché era soltanto un interprete, Mino pronunciò queste parole senza alcuna emozione.
Ma io la percepii. Percepii l’ombra di dolore ben celata nei suoi occhi.
“Ho capito. Ho capito perfettamente.”
Chii si lasciò cadere come se avesse esaurito tutte le energie e richiuse gli occhi.
Tornato in sé, Mino disse: “Sicuramente a Parigi vi aspettano meravigliose sorprese. Forse sarà più semplice vivere lì che qui”. Capii dunque che la seduta era terminata.
“Quanto le devo?” domandai.
“Fanno diecimila yen,” rispose Mino.
“Conveniente, eh?”
Considerando come si era svolto il tutto, ero sicura che la tariffa sarebbe stata più alta, quindi fui sorpresa.
“Non potremmo chiedere di più a nessuno,” disse Mino.
Guardai nella direzione di Chii perché volevo ringraziarla e notai che alle sue spalle, mentre dormiva, c’era una fotografia della loro madre. Sino a quel momento non ci avevo fatto caso.
Capii che era la madre perché il suo corpo era minuto e dalle proporzioni particolari, proprio come loro. Guardava dritto verso di me dalla cornice bianca di legno.
Poi ebbi l’impressione di conoscerla. L’avevo vista in tv.
In quel momento capii ogni cosa.
“Oh, Mino! Non ne sapevo niente.”
Mino aveva capito ciò che volevo dire.
Ma si limitò a fare un cenno di conferma.
E io decisi di non dire più nulla.
“Devo andare,” dissi, alzandomi in piedi. Strinsi forte la mano di Chii, che a sua volta strinse forte la mia.
E, mentre uscivo, udii una voce flebile e acuta come quella di un uccellino che mi diceva: “In bocca al lupo”.
Mi voltai a guardare, ma Chii stava dormendo.
“Era da molto che non sentivo la voce di Chii,” disse Mino. “Non capisco perché debba sempre servirsi di me per parlare, quando potrebbe farlo da sola.”
“Forse pensa che anche il suo fratellone abbia bisogno di lavorare, no? E poi per parlare dovrebbe usare parecchia energia.”
“Be’, allora la mia presenza ha un senso,” disse ridendo.
“Non ha solo un senso: per tutti noi tu sei molto importante.” Lo pensavo sinceramente.
Mino restò in silenzio.
Il suo modo di tacere era identico a quello di Nakajima e mi strinse il cuore. Era il silenzio di chi è convinto che il mondo non abbia bisogno di lui.
Prendemmo un’altra tazza di tè e uscimmo. Mino aveva con sé una bottiglia di plastica vuota. Voleva farmi portare un po’ d’acqua della sorgente come ricordo.
Quel giorno la superficie del lago era increspata da piccole onde. Tirava un po’ di vento. Le barche, ormeggiate senza nessuno a bordo, dondolavano meste al ritmo delle onde.
Mi sentivo confusa, come se mi trovassi in un mondo irreale.
Anche i rami degli alberi, protesi verso il lago, tremavano leggermente. Mi accorsi che erano ciliegi. Nel periodo della fioritura il lago sarebbe stato coperto da un velo rosa.
“Dev’essere bello quando i ciliegi fioriscono, non è vero?”
“È l’evento più bello dell’anno, da queste parti.”
Non si spinse fino a invitarmi a venire in quell’occasione, ma per me fu come se lo avesse fatto.
Salimmo la vecchia scalinata in pietra che portava al santuario nel cui recinto si trovava la sorgente. Mi voltai a guardare e il lago, visto dall’alto, aveva l’aspetto di una deliziosa miniatura circondata dal verde. Le barche allineate sembravano dei modellini.
L’acqua della sorgente era fresca e aveva un gusto leggermente salato e corposo.
Nel santuario non c’era nessuno, all’interno del recinto spazzato con cura si sentiva solo il canto degli uccelli. Mi chiesi se Nakajima ci fosse venuto ogni giorno a prendere l’acqua con sua madre. Provai a immaginarmeli che vivevano aiutandosi l’uno con l’altra.
Erano così feriti, così provati da non essere più sicuri di nulla, ma nessuno avrebbe mai potuto negare che fosse l’amore a unirli.
Mino disse: “Chihiro, forse dal tuo punto di vista questo lago è sempre stato uno scenario di sogno, bello e indecifrabile. Ma è perché è attraverso Nobu che l’hai visto per la prima volta. Qui le giornate non sono tutte uguali. Il lago mostra facce sempre diverse. Per questo non stanca mai. Ci sono giorni sereni, in cui la luce del sole è abbagliante, e si riempie di barche. Poi ci sono anche giorni in cui la neve va a sciogliersi sulla sua superficie, e altri ancora in cui c’è tanta di quella nebbia che non si distinguono bene neanche gli alberi del nostro giardino. Giorni così scuri che scambiamo le biciclette appoggiate per cumuli di spazzatura.
Non è vero che per noi il tempo si è fermato. Cambia in continuazione, anche se lentamente, a un ritmo quasi impercettibile. Vado al supermercato, mi mescolo ai bambini e compro il curry sulla cui confezione sono disegnati i personaggi dei cartoni animati, raccolgo i buoni per la spesa. Qualche volta compro un secchio. O uno scopino per il water. Li carico sulla bicicletta e con fatica me li porto a casa. Sai...”
Mino indicò un emporio poco distante.
“Il proprietario di quell’emporio fa parte della mia stessa associazione di quartiere, e quando ci incontriamo al supermercato mi dà sempre uno strappo in auto. È originario di Shizuoka, e in inverno mi regala tanti mandarini: glieli manda la sua famiglia. Ma non entriamo più in confidenza di così. Il sacerdote del santuario è imparentato con Nobu, e nelle occasioni formali di incontro ci sorridiamo a vicenda, ma non mangiamo mai insieme, né ci frequentiamo abitualmente. Ci leghiamo solo di rado alle persone. La gente ci teme perché siamo diversi. E anche noi abbiamo paura della gente. Ma viviamo, come tutti. Abitiamo qui. Siamo particolari, ma viviamo, giorno dopo giorno.”
“Lo so,” risposi. “E sono sicura che anche Nakajima lo capirà, un giorno. Che non rappresentate solamente il passato. Voleva vedervi, anche se sapeva che gli avrebbe fatto male, anche se il solo pensiero di venire fin qui lo metteva a disagio, ma aveva voglia di incontrarvi e si è deciso a farlo. Per questo so che tornerà a trovarvi. È venuto una volta, e tornerà. Nakajima verrà. In qualsiasi momento, tante volte, per sempre.”
In silenzio, Mino fece un cenno profondo con la testa.
Poi disse: “Prima, quando ci hai mostrato le fotografie, non sono riuscito a dirtelo, ma ti ringrazio per averci disegnati. Grazie per aver capito subito che, anche se sembriamo dei fantasmi, in realtà siamo vivi”.
Era passato moltissimo tempo da quando avevo visto in tv la madre di Mino e Chii. Era identica a loro.
Era famosa per essere una madre terribile, colpevole di aver trascinato i suoi bambini in un gruppo che si era macchiato di azioni orribili.
In effetti non credo che Mino e sua sorella avessero un padre. Erano nati fuori dal matrimonio. Mi sembra di ricordare che l’identità del padre fosse sconosciuta. In quel periodo i telegiornali riportavano continui scandali. E, mentre la madre di Mino era presentata come un simbolo del male, quella di Nakajima rappresentava il bene.
Credo che le cose fossero meno lineari, tuttavia questa è l’immagine che ne proponevano i media.
Se non sbaglio, all’epoca frequentavo ancora le elementari.
Se invece della rete per cuocere il mochi Nakajima mi avesse mostrato una foto di sua madre, avrei capito subito. E forse non me l’aveva mostrata proprio perché sapeva che avrei capito.
La madre di Nakajima faceva continui appelli.
“Per favore, restituitemi mio figlio. È vivo, lo sento. Lo sento perché sono sua madre.”
Ogni volta che si presentava l’occasione, che fosse in tv, sulla stampa, alla radio, ai raduni pubblici, portava il suo appello. Raccontava la storia del rapimento di suo figlio.
Nakajima era un bambino più intelligente degli altri, forse un po’ troppo intelligente, quindi frequentava un istituto speciale. Durante un campo estivo a Izu, una sera Nakajima non aveva fatto ritorno all’alloggio. Nei suoi appelli, la madre ripeteva che, sino ad allora, nessuno scandalo aveva mai coinvolto la loro famiglia, che erano sempre stati felici.
Poco tempo dopo, si cominciò a parlare di una certa setta. Non era esattamente un gruppo religioso, predicavano determinati princìpi per un’umanità ideale. C’era una sorta di guida, e i seguaci che si riunivano per ascoltare i suoi discorsi avevano fondato una comune in mezzo alle montagne, dove vivevano in maniera quasi autonoma.
Si era parlato così tanto della loro organizzazione che ne ero a conoscenza persino io, che seguivo i notiziari solo sporadicamente. Dopo che venne alla luce la storia del rapimento, il gruppo si sciolse, o forse sopravvisse di nascosto in qualche altra forma.
Storie come quella, in realtà, si verificano continuamente. Stando nel locale di mia madre ne avevo sentite di tutti i colori. Alcune erano incredibili, e si parlava spesso anche di casi assimilabili a dei rapimenti veri e propri.
Certo, io sono stata educata in modo tutt’altro che convenzionale, visto che prima ancora di compiere dieci anni frequentavo il locale di mia madre e svolgevo mansioni che di norma svolgerebbero delle hostess. Ma la mamma e il papà erano sempre lì per proteggermi, per fare in modo che a nessun cliente venisse in testa di alzare un solo dito su di me, e questo rendeva il locale un ambiente familiare, nel quale potevo fare ciò che desideravo, in qualsiasi momento e nel modo che ritenevo migliore. Per quanto uno si dia da fare, un locale di quel genere resta sempre un luogo dove le persone vanno per liberarsi dalle tensioni, e penso che sia inevitabile subirne l’influenza. In me l’impronta è rimasta, anche se leggera. Il sentore purpureo della notte, la dolcezza dell’oscurità sono rimasti attaccati al mio corpo. Da noi, tutto sommato, i clienti si comportavano bene, ma sapevo perfettamente quanto le persone potessero diventare volgari, e come fossero durante il giorno. Non si diventa volgari per colpa dell’alcol: si diventa volgari perché lo si è già.
Ricordavo di aver sentito alcuni clienti parlare dell’incidente e di aver guardato dei servizi alla tv. Ma questo preciso episodio, nella mia mente, si confondeva a tanti altri, e non riuscivo a rammentare nulla che riguardasse il caso di Nakajima.
Sua madre non aveva mai gettato la spugna. Si parlava di lei nelle trasmissioni alla tv e nelle riviste più disparate, si era rivolta a investigatori, medium, telegiornali, approfondimenti televisivi... Credo di non esagerare se dico che non passava giorno senza che la si vedesse da qualche parte. Compariva regolarmente in pubblico per fare in modo che la sua storia non venisse dimenticata.
Fu lei a restarmi impressa, più ancora che l’episodio in sé. Parlava con un tono pacato, diceva soltanto ciò di cui aveva assoluta certezza, non piangeva quasi mai e guardava dritto davanti a sé. Fino al ritrovamento di suo figlio, quella donna non sarebbe stata in grado di mangiare con gusto né di fare bei sogni la notte: avrebbe dormito sonni agitati e nessun paesaggio l’avrebbe emozionata, perché davanti agli occhi avrebbe avuto soltanto l’immagine del suo bambino lontano. Si percepiva nettamente il suo desiderio di mettersi in contatto con lui.
La sua perseveranza era incredibile: era tutta intenta a seguire un filo sottile, una ragnatela che solo di rado vedeva la luce del sole, e lei era decisa a non lasciarsi cogliere impreparata quando ciò fosse accaduto. Sarebbe stato sufficiente guardarla in volto per capire che si trattava di amore, ma anche di forza di volontà. E il suo volto raccontava anche la determinazione a non perdere mai di vista il suo obiettivo, perché se solo avesse abbassato la guardia, se solo avesse creduto che Nakajima fosse ormai morto, allora lo avrebbe perso per davvero. Il suo era l’archetipo dei volti di tutte le madri del mondo, era il volto di un bodhisattva.
E poi Nakajima fu ritrovato. Le energie che sua madre aveva dedicato a distribuire volantini e fotografie per tutto il Giappone e a comparire in tv fino allo sfinimento avevano dato i loro frutti.
Un ragazzino scappato dal gruppo fu ritrovato in un villaggio alle pendici di una montagna, dove qualcuno che aveva visto la madre di Nakajima in tv si insospettì e si rivolse alla polizia.
All’epoca la notizia ebbe un’enorme risonanza, ed era davvero strano che non me ne fossi ricordata prima. Ma come avrei potuto immaginare che, in futuro, questa storia mi avrebbe riguardato?
È terribile, è tremendo, che farei se capitasse a me? Sicuramente pensieri come questi mi avranno attraversato la mente per poi svanire subito dopo. In fondo avevo un papà e una mamma, e la mia vita era appena iniziata. Quanto ero ignara, quanto ero innocente.
È così che va il mondo, le storie si ripetono e sono tutte collegate come a formare un unico strato di pelle, eppure io non me ne rendevo conto.
Credo che non saprò mai che cosa provino quei tre.
E, ironia della sorte, è proprio questa mia incapacità a comprenderli che li tranquillizza.
Ecco perché penso che anche le persone come me valgano qualcosa. Non faccio in tempo a chiedermi chi io “sia” o “non sia”, che sto già ruotando con il grande ingranaggio del mondo.
In un certo senso sono come una schiava. Comunque la pensi, è già tutto deciso.
Nakajima, che era dotato di un fiuto infallibile, quella sera mi guardò e capì tutto.
“Ah.”
Sicuramente percepì la mia confusione non appena misi piede in casa.
Aprì bocca nell’istante esatto in cui alzai la testa dopo essermi sfilata le scarpe.
Poi fece finta di niente e ritornò a occuparsi delle pulizie.
Nakajima era un maniaco della pulizia e rassettava il mio appartamento così di frequente che certe volte mi sentivo in colpa. Al mio ritorno trovavo uno stato di igiene quasi innaturale, persino i libri erano accuratamente allineati. Avevo la netta sensazione di essere, tra noi due, quella a cui era andata meglio. In ogni caso, quando cominciava a pulire non riusciva a fermarsi finché non aveva finito. Proseguì dunque in silenzio.
Ciò che gli avrei voluto dire, quel giorno, era: “Ormai non posso più avvicinarmi a te con l’atteggiamento che ho avuto sinora”.
Fintanto si fosse trattato di un enigma, anche dell’enigma più inestricabile, sarei riuscita a sopportarlo. Ma adesso che i fatti avevano assunto forme più concrete, la mia immaginazione si era arricchita di odori e sensazioni tattili.
C’è una grossa differenza tra “Mi è capitata una cosa veramente terribile” e “C’è stato un periodo nella mia vita in cui sono stato rapito e sottoposto a lavaggio del cervello”.
Tutti i nodi tornarono al pettine. Il terrore del contatto fisico, la paura di incontrare i vecchi amici, l’attaccamento esagerato della madre, la capacità di immergersi nello studio separando la mente dal corpo, l’intensità del suo amore per la mamma: le incertezze rassicuranti erano svanite e restava soltanto un peso opprimente e gravoso.
Capii che non sarei mai riuscita a chiedergli di raccontarmi sin nei dettagli come avesse vissuto in quel periodo o perché il sesso lo spaventasse.
Dopo un bel po’ di tempo, gli domandai: “Perché prima hai detto ‘Ah’?”.
Fece una cosa che non faceva mai: interruppe le pulizie e mi guardò.
Ed era il solito Nakajima, quello malinconico e bello che conoscevo bene. I peli un poco arricciati vicino al collo, la schiena leggermente curva, i movimenti misurati. Le mani asciutte, come sempre.
Mi sentii più tranquilla. La nostra storia insieme era iniziata da poco, ma non aveva niente a che fare con il suo passato.
Sarebbe bastato un soffio di vento a spazzarla via, ma la nostra storia esisteva.
Nakajima rispose candidamente: “...Ho pensato che ti fossi accorta di qualcosa. Qualcosa che riguarda il mio passato”.
“Come hai fatto a capirlo?”
“Mi è capitato con molte altre persone, quindi mi basta un’occhiata. E poi sono sempre stato all’erta, sapevo che prima o poi avresti intuito qualcosa, Chihiro. E, forse, da qualche parte dentro di me nutrivo la speranza che ciò avvenisse. Ti faccio schifo? Tra noi è finita?”
Presi la sua mano e la strinsi forte al cuore, così forte che quasi gliela spezzai.
“Non dirlo neanche.”
Se avessi avuto un bambino gli avrei parlato con lo stesso tono.
E, come un bambino, Nakajima disse “Ok” e tornammo alla nostra vita.
Io mi misi a cucinare, lui riprese a pulire. In silenzio, come se ci stessimo preparando a un trasloco. Come se fossimo in procinto di iniziare una nuova vita. Come se non avessimo fatto altro per cent’anni. Dimenticando tutto, decisi a ricominciare daccapo, come Adamo ed Eva.
Ma era una decisione che poggiava su fondamenta fragili, che ancora una volta sarebbe bastato un soffio di vento a spazzare via.
Il passato di Nakajima era sempre lì, e le fondamenta sarebbero potute crollare da un momento all’altro. Questo succede quando le persone distruggono altre persone, pensai.
Dopo cena, Nakajima disse: “Posso andare a vedere il tuo murale?”.
“Per me va bene, ma adesso è sera. Di giorno si vede meglio.”
“Certo, ci andrò anche di giorno. Adesso pensavo di farci solo un salto così, per passeggiare. L’hai finito, no?”
Pensando che l’avrebbe potuto vedere in qualsiasi momento, non mi ero presa la briga di comunicargli che era finito.
“Va bene, allora vengo con te. A quest’ora c’è ancora il guardiano, e se gli dico che ho dimenticato qualcosa all’interno ci farà passare. Ormai mi conosce bene. Vicino alla parete c’è un lampione, quindi non è che non si veda, però è meglio se ci portiamo la torcia elettrica più grande che abbiamo.”
I profumi della primavera riempivano l’aria nella strada buia, le stelle brillavano pigre oltre una nebbia leggera.
Mentre camminavamo, Nakajima iniziò a parlare.
“Stavo partecipando a un campo estivo della mia scuola quando mi persi, mi inoltrai nei sentieri di montagna e, senza sapere dove stessi andando, mi ritrovai su una statale dove, per puro caso, incontrai quelle persone, che mi fecero salire sulla loro auto e mi portarono via. Allora non c’erano ancora i telefoni cellulari.”
Così cominciò il suo racconto.
Le parole sgorgarono come acqua e non finivano mai.
Sembrava un disco rotto.
Nakajima camminava e parlava, le braccia intrecciate davanti al petto.
Io riuscivo solo ad annuire.
“Sai come ci si sente quando si viene rapiti? Devi farti andare a genio i tuoi rapitori. Altrimenti non potrai sopravvivere.
Sai che significa?
Tanto per cominciare, mi hanno cancellato la memoria. Con l’ipnosi e i farmaci. E poi mi hanno fatto credere che il posto in cui mi trovavo non era il Giappone.
Ero un bambino intelligente, e conoscevo il modo per resistere all’ipnosi. Si trattava di vaghi ricordi di cose lette in un libro, ma non avevo scelta e quindi ci provai.
Si tratta di una specie di autosuggestione: fai in modo di ricordare una determinata persona ogni volta che vedi un determinato oggetto e, dal momento che ci trovavamo a Izu e sapevo che nelle vicinanze c’era il mare, associai quest’ultimo a mia madre: così, ogni volta che mi trovavo in riva al mare, mi ricordavo di lei. Per il resto, mi mostrai remissivo. Avevo paura, ma alla fine funzionò.
Diversi mesi dopo ci recammo in spiaggia in piena notte per svolgere degli esercizi di meditazione, e quando vidi il mare mi ricordai di mia madre. Ci volle ancora un po’ di tempo perché riuscissi a ricordare che ci trovavamo in Giappone e che forse ero stato rapito. C’erano diverse famiglie, come Mino e la sorella con la loro mamma, e io mi ero così abituato che mi sembrava normale. Ubbidendo ai princìpi della setta, la madre di Mino non stava nella loro stessa stanza, mentre noi tre dormivamo insieme. Tenendoci per mano, come a formare l’ideogramma che significa ‘fiume’.
Di giorno, invece, venivano diversi insegnanti con i quali discutevamo di vari argomenti e studiavamo. Partecipavano anche gli adulti.
Nel momento in cui ricordai, fui molto confuso e credetti di impazzire, ma feci passare alcuni giorni senza lasciarmi sfuggire nulla, e poco a poco cercai di analizzare la situazione in cui mi trovavo. Quando ebbi formulato l’ipotesi che mi sembrava più plausibile, decisi di darmi alla fuga.
Non sarebbe stato strano se in quel periodo fossi uscito di senno.
Dovevo agire d’impulso, lottare contro me stesso.
Gli esseri umani tendono a scegliere istintivamente la via più semplice, quella meno dolorosa.
Io non volevo credere che le persone con le quali condividevo le mie giornate fossero cattive, e la mia mente si sottraeva al mio controllo, mi diceva che erano i miei ricordi a essere falsi. Odiavo il pensiero di dover lasciare Mino e Chii, e mi preoccupavo di quello che sarebbe capitato loro se, in seguito alla mia fuga, fosse arrivata la polizia. In momenti del genere si è portati a immaginare i risvolti peggiori.
Ero all’estero? No, dovevo essere in Giappone. Ma non ero nato e cresciuto lì? No, mi sbagliavo, ero stato rapito. Il rapimento è una cosa brutta, dovevo fare qualcosa. Ma non potevo accusare quelle persone così brave. Da quanto tempo mi trovavo laggiù? Era così tanto tempo? La mamma era ancora viva? Non capivo più niente. Era mia madre la persona di cui mi ricordavo? No, forse mi sbagliavo, forse era un’allucinazione derivata dal mio desiderio di avere una madre... Questi pensieri si confondevano dentro di me e mi opprimevano. E non è solo un modo di dire: nella mia testa non c’erano più appigli, tutto cadeva a pezzi, e io mi sentivo psichicamente instabile.
A quel punto, mi convinsi a confidarmi con Mino.
Durante la notte, a bassa voce, Mino mi disse: ‘Forse hai ragione, Nobu. Io vivo con queste persone da quando sono nato, quindi non ne sono sicuro, ma penso che tu sia stato preso. È strano anche che tua madre non sia qui. E poi, vedi, noi siamo in Giappone. Questo è certo. Anche se sembra che siano tutti decisi a dire che non è così’. Mino mi confessò come la pensava senza preoccuparsi di ciò che sarebbe successo loro. In un certo senso, questo suo gesto mi ha salvato la vita, e io gliene sarò grato per sempre.
Anche se non riuscivo ad andarlo a trovare.
Il motivo per cui Chii è costretta a letto, e per cui io a volte mi sento esausto, non è legato a un trauma subìto. Allora ci somministravano quantità esagerate di farmaci che ci hanno distrutto il fegato. Mino si è ripreso bene, anche se penso che qualche problema di salute ce l’abbia.”
“La loro madre è morta di tumore al fegato subito dopo lo scioglimento della setta.
La casa in cui vivono adesso era utilizzata come una sorta di magazzino e sala riunioni per il santuario, dunque la mamma e io abbiamo potuto abitarci per un periodo: quando la madre di Mino morì, decidemmo di invitarli a stare da noi senza chiedere loro di pagare l’affitto. Ci faceva piacere che restassero lì fino a quando avessero voluto, anche se non sono ancora sicuro se questa scelta abbia influito positivamente su di loro. A volte penso che forse sarebbe stato meglio se non avessi fatto la spia, quando sono scappato, così avrebbero potuto continuare la loro vita lì per sempre. Volevo aiutarli, proteggerli dalla società. E anche mia madre lo voleva.”
Sempre con le braccia strette davanti al petto, Nakajima percorreva la solita strada, ma che ora sembrava sospesa in aria e leggermente più curva.
“All’inizio i membri del gruppo non vivevano lì stabilmente, ma si spostavano da un punto all’altro del paese, cercando un posto in cui fermarsi, e così c’era un continuo andirivieni dei personaggi più disparati. Era del tutto normale trovarsi improvvisamente di fronte a una faccia mai vista o perdere le tracce di qualcuno, quindi per me non fu difficile scappare.
L’idea che mi spaventava di più era che avrei potuto correre all’infinito senza arrivare però da nessuna parte, e che se pure avessi raggiunto un centro abitato, avrei potuto scoprire di essere davvero in un paese straniero, quindi non sarei riuscito a comprendere la lingua e magari avrei capito che tutti i miei ricordi erano soltanto delle allucinazioni. Non avevo un passaporto, il che significava che in nessun caso sarei potuto tornare in ciò che definivo la mia ‘casa’. E quindi sarei dovuto tornare indietro e riprendere la mia vita lì dove l’avevo lasciata. Senza speranza. E se fosse stata la verità? Non riuscivo a smettere di pensare a queste cose.
Mi dicevo che se davvero fosse andata così, se era davvero così che stavano le cose, allora avrei preferito morire. Se avessi perduto quel fragile sogno che custodivo dentro di me... Non era soltanto mia madre che sognavo, era la scena della mia venuta al mondo, il profumo di libertà che aleggiava da sempre sulla mia vita, la sicurezza che mi davano le speranze e l’amore dei miei genitori: allora ero solo un bambino, e queste cose, per me, erano tutto.
La testa mi girava, davanti a me vedevo nero, avrei voluto lasciarmi andare, sdraiarmi a terra lì sul posto.
Ma avevo Mino. Le sue parole, incise con forza nella mia mente, in quel momento rappresentavano la realtà.
Mino per me era una sicurezza. Se non avesse condiviso con me la sua ipotesi, che ci trovavamo in Giappone, in un posto chiamato Shimoda, anche se nessuno lo diceva, forse avrei avuto ancora più paura.
Grazie alle informazioni che riceveva dalla sua misteriosa sorella, Mino aveva cominciato a nutrire sempre più sospetti. Dentro di sé temeva che, se gli adulti fossero venuti a conoscenza dei poteri della sorella, la posizione di sua madre all’interno dell’organizzazione si sarebbe rafforzata ancora, e loro sarebbero rimasti ancora a lungo in quel luogo. Cercava di tenere gli adulti all’oscuro di ciò che Chii diceva, ma era molto difficile. Ecco perché dovevo salvarli. Ma non so se loro sarebbero d’accordo con la parola ‘salvezza’. In fondo i loro genitori erano sempre stati dell’organizzazione – perché forse anche il padre ne faceva parte. Le loro ferite, come la loro disperazione, dovevano essere ben più profonde delle mie.
Ciò che Mino ha fatto per me, quel gesto così nobile, forse ha fatto crollare le sue certezze. E quelle della sorella. Dopo cambiò tutto. Forse era mosso dal desiderio di salvare me e Chii, fatto sta che era stato lui a volerlo, e quel suo atto d’amore è ciò che ancora oggi gli dà la forza di sorridere.
Nel folto della foresta, camminai senza fermarmi pensando solamente alle parole di Mino e a mia madre.
Mi sembra che la maggior parte delle persone sia convinta che quando ci si sottrae a un lavaggio del cervello si provi una sensazione di sollievo, ma non è così. Ci si sente stanchi, confusi, meschini. Questa è la verità. Credevo che non ci fosse niente di buono ad attendermi. Fu una sensazione che durò a lungo, ma allora, in quella strada buia di montagna, non mi persi d’animo. Lottai con tutto me stesso per non finire in mille pezzi.
A un tratto vidi delle luci, il cuore iniziò a battermi forte, la testa prese a farmi male come se fosse sul punto di spaccarsi e mi tornarono in mente tutte le brutte storie che avevo sentito sino ad allora, più soffocanti che mai. Ma continuai a camminare. Feci un passo verso la luce e quasi persi l’equilibrio. Non sapevo cosa fosse, ma ebbi l’impressione di essere osservato da qualcosa di bello, in uno spazio recintato, così mi avvicinai e c’era una stalla con cinque cavalli che guardavano nella mia direzione.
Quando mi videro, i cavalli non si innervosirono né si imbizzarrirono, ma continuarono a fissarmi. I loro occhi neri, i manti lucidi, mi trasmisero un senso di tranquillità. Allungai la mano e provai a toccarli. Non avevo paura che mi mordessero. Erano belli e volevo toccarli. La pelle era calda ed emanava l’odore tipico degli animali, i peli dritti avevano la consistenza gradevole dell’erba, mi venne da piangere. Il cavallo mi guardava e non aveva l’aria di pensare ad alcunché, ma i suoi occhi erano così belli da risucchiarmi, come un lago.
Credo che per tutta la vita sarò grato ai cavalli.
Quegli animali, con i loro occhi selvatici, mi hanno fatto tornare in me, mi hanno tranquillizzato.
Mi feci forza... Era un piccolo maneggio. Bussai alla porta della club house. All’interno alcune persone che avevano appena finito di andare a cavallo stavano chiacchierando e bevendo caffè con i proprietari e quando mi videro la loro sorpresa fu evidente. La moglie del proprietario capì immediatamente che la situazione era seria e mi invitò a entrare, mi fece sedere in fondo alla sala e mi offrì del caffè. Oltre all’odore del caffè, sentivo che quella donna emanava il profumo tipico delle madri. Quel buon profumo delle madri che non perdono mai di vista i bambini, che li antepongono a qualsiasi cosa, quel profumo carnale. Mi colse una nostalgia incontenibile e non riuscii a trattenere le lacrime.
‘Lei è giapponese, vero? Qui siamo in Giappone, vero? La prego, chiami la polizia. In questo momento, mi deve credere, non riesco a ricordare il mio nome. Sono stato rapito.’ Piangevo e riuscivo soltanto a ripetere queste parole.
I clienti dissero che sapevano chi ero, che avevano visto mia madre in tv, quindi il proprietario telefonò subito alla polizia.
La signora mi diede del caffè e del riso al curry, dicendo che avremmo parlato dei dettagli più tardi. C’era tanta carne, e mi resi conto che anche quella mi era mancata. Laggiù era vietato mangiarne.
E mi ricordai che questo sono le madri: in qualsiasi situazione, sono pronte a riscaldarti se hai freddo, a nutrirti se hai fame. Fu un ricordo così intenso, così vivido. Capii che finalmente potevo ricordare, e volevo piangere, ma non ci riuscii. Dovevo dare al cuore il tempo di liberarsi.”
Arrivammo alla scuola e Nakajima interruppe il suo racconto per salutare la guardia.
Oltrepassammo il cancelletto e gli domandai: “Dopo essere ritornato sei andato subito a vivere con tua madre vicino al lago?”.
Nakajima annuì. Parlava sempre più lentamente.
“Avevo quasi dieci anni ormai, ma dopo il mio ritorno la mamma prese a dormire nel mio stesso futon tutte le notti, stringendomi forte a sé. E per circa tre mesi, ogni mattina al risveglio mi fissava il viso per poi scoppiare a piangere. Anche se tenevo gli occhi chiusi, sentivo che qualcuno mi guardava mentre dormivo ed era soffocante, me lo ricordo ancora adesso. Sapevo che se avessi aperto gli occhi mi sarei trovato di fronte il suo volto in lacrime, quindi fingevo di dormire. Era una sensazione pesante, molto più, credo, di quella che provi tu stando accanto a me adesso, con tutto ciò che di me non riesci a decifrare. Era una situazione così difficile che mio padre non riuscì più a sostenerla e se ne andò.”
Nakajima rise.
“Temendo che fosse impazzita, le chiesi di accompagnarmi durante le sedute di analisi, anche se dovevano riguardare me soltanto, e per un po’ ci andammo insieme. Nonostante ciò, fece il possibile per proteggermi, quando per esempio i mass media cercavano di raccogliere informazioni sul mio caso. Tentava di recuperare il tempo perduto, e di tanto in tanto ce ne andavamo in giro, anche con mio padre, in qualche luna-park o in altri posti del genere.
All’inizio ero impassibile, qualsiasi cosa facessimo ero sempre teso, ma era semplicemente dovuto al fatto che non riuscivo a esprimere i miei sentimenti. Dentro di me vivevano le emozioni più diverse, ma non ero in grado di tirarle fuori. Giorno dopo giorno, però, poco alla volta, iniziai a sentire un calore, in me, che sciolse il gelo. Ricominciai ad amare mia madre e tornai quello di una volta. Ricordo perfettamente tutto il processo.
Il medico ci consigliò di andare a vivere per qualche tempo in un luogo tranquillo, e fu allora che ci trasferimmo nella casa in riva al lago.”
Era stata proprio quell’esperienza a far sì che decidesse di prendersi cura di se stesso senza pesare né su di me né su chicchessia.
Continuò: “Non è che mi sottoponessero a maltrattamenti, semplicemente mi costringevano ad allenarmi con l’obiettivo di tirarmi su come una specie di superuomo; erano gentili con me, anche i pasti erano buoni, con tanti frutti di mare, avevo amici con cui giocare ogni giorno, era divertente, ma i rapporti con gli adulti erano sempre gli stessi: distaccati, privi del coinvolgimento emotivo e della ricchezza di sfumature che avevano caratterizzato il legame con mia madre.
Sperimentai sulla mia pelle la differenza tra un’esistenza governata dalla razionalità e dalla sicurezza e una vita omologata e tranquilla. Omologarsi equivale a perdere di vista se stessi.
L’amore in cui mia madre mi intrappolò non appena fui uscito da quella situazione penetrò in profondità dentro di me, intenso, come una zuppa troppo forte. Percepivo il flusso dei suoi sentimenti come un vestito pieno di inutili fronzoli.
Il risultato fu che, a causa mia, la mamma e il papà si separarono, e lei morì troppo presto, credo. Mi sembrò la cosa più normale del mondo, anche se era fuori da ogni logica. Pagò per tutte le energie e gli sforzi profusi nel tentativo di ritrovarmi. Ciò di cui aveva bisogno allora le fu portato via. Sapeva che sarebbe accaduto, eppure fece ricorso a quella forza.
Naturalmente non so se vivrò a lungo, per questo per me era normale chiedermi cosa stesse facendo, e desideravo dirle che non avevo bisogno della sua vita, che apparteneva soltanto a lei. Ma sapevo di non essere capace di pregare con la sua stessa intensità. Lei era in grado di dare tutto ciò che aveva, spremendo il suo corpo fino all’ultima goccia per risalire il filo sottile che la portava a me.
Molte volte mi sono sentito distrutto, ed è da tempo che so che non potrò vivere una vita normale. Ma grazie a mia madre sono riuscito, in un modo o nell’altro, a far quadrare i conti, e adesso le cose vanno per il meglio.
Solo che ancora mi rende un po’ triste il pensiero che, mentre lei si dedicava anima e corpo a cercare di rintracciarmi, io mangiavo sashimi, ridevo con i miei amici e mi avventuravo alla scoperta del sesso”.
Disse che gli veniva da piangere quando parlava di queste cose, e in effetti cominciarono a scendergli le lacrime.
Nel tentativo di recuperare il tempo perduto, Nakajima e la madre avevano vissuto come due amanti, e quelli si erano trasformati nei giorni migliori della loro vita, nei ricordi più belli. Pensai che non gli sarebbe mai capitato nulla di più grande. Viveva serbando nel cuore il ricordo di un tempo perfetto, e questo gli conferiva un senso di malinconia e di calma.
“Ma le emozioni non valgono poi granché. Io lo so bene. Così come i ricordi della vita al lago con mia madre sono per me i più belli, quando abbiamo cominciato a vivere insieme mi tornavano sempre in mente le giornate al mare, quando nuotavo con Mino e Chii, ed erano bei ricordi anche quelli... A Shimoda il mare era sempre agitato, e noi giocavamo a nascondino tra le onde. Ridevamo a crepapelle senza sapere perché, ci buttavamo per terra, ci lasciavamo trasportare dalle onde e giocavamo fino a non avere più forze.
Quando cerco di mettere insieme ‘le cose belle’ mi ritrovo con un numero infinito di combinazioni di eventi che posso inserire in quella categoria, poi elenco ‘le cose brutte’ e cominciano ad affiorare i ricordi, e non si fermano, sgorgano dal cuore, dalla mente, e alla fine non significano nulla.
Anche se è andata a finire male, il rapporto mio e di mia madre non è cambiato affatto. Le nostre passeggiate in riva al lago, mano nella mano, sono ancora lì, così come le risate in spiaggia con Mino e Chii e le volte che ci fermavamo a guardare i gabbiani. Non è né un bene né un male: quelle scene sono semplicemente dentro di me, vi resteranno per sempre, le loro qualità e quantità saranno sempre le stesse. Il cielo rosato dell’alba a volte sembra più luminoso di quello del tramonto, e nei momenti di tristezza il paesaggio circostante appare più scuro, ma è il filtro della nostra sensibilità a determinarlo, perché le cose, in realtà, sono sempre le stesse. Esistono, soltanto questo.
Forse non è corretto neanche dire che sia andata a finire male. Di sicuro si è verificata una serie di singoli episodi che hanno ridotto in brandelli la mia vita, e una mano animata da una passione eccessiva ha cercato disperatamente di rimetterli insieme, trasformandomi in un povero diavolo rattoppato. Ma la mia vita è reale. È una vita irregolare, estenuante, incerta, piena di sensi di colpa e fragile, ma qualcosa, in fondo, c’è. Qualcosa di splendido, che supera sempre le mie emozioni.”
Nakajima mormorava, come se si fosse messo a parlare controvoglia.
Per me, che non mi ero mai ritrovata messa al tappeto come lui, ascoltare era facile. Le persone sono tutte più o meno così, in qualsiasi parte del mondo: ci convinciamo che non sia necessario perdonare ogni singolo errore né imparare ad apprezzarli ma ci limitiamo a perdonare solo l’indispensabile.
Mia madre, per esempio, morta giovane dopo essersi sottoposta a innumerevoli interventi di chirurgia estetica, con una figlia avuta fuori dal matrimonio e un locale da gestire, goffa e incapace di fare di conto, per non parlare di mio padre, che si mette a darsi delle arie in un ristorante italiano di ultima categoria. Ma la nostra famiglia poteva essere solo così.
Il caso di Nakajima era anche più complicato, elevato all’ennesima potenza.
Ma forse, se si fosse abituato all’idea che ogni giorno è un ripetersi delle stesse cose, delle stesse persone, timidi voli del cuore che danno colore al mondo... Forse, allora, qualcosa sarebbe cambiato.
La parete era illuminata, oltre che dalle luci dei lampioni, anche da una luna quasi piena, che faceva sì che il disegno si vedesse anche a una certa distanza. I colori non erano vividi come di giorno, ma il modo in cui gli angoli esterni sfumavano nel buio conferiva all’insieme un’aura misteriosa.
“Guarda, ho disegnato tutti qui,” dissi con un pizzico di orgoglio.
“Wow, è questo il disegno, quindi,” rispose Nakajima studiando attentamente la parete. Aveva la stessa espressione di quando era immerso nei suoi libri, il che mi rese felice.
Capii quanto contassero le cose più semplici, come sentirsi orgogliosi del proprio lavoro, trovare qualcosa divertente, aprirsi per poi chiudersi in se stessi.
Evidentemente anch’io mi stavo rialzando, a poco a poco.
Mi sarei ripresa per poi prenderlo per mano e percorrere un nuovo tratto di strada insieme. Come in occasione della nostra prima visita a Mino, mi avvicinai istintivamente a lui, senza nessuna intenzione in particolare.
Guardando il murale, gliene spiegai i contenuti.
Nel parco buio e deserto, la mia voce era un’eco leggera.
“Questo sei tu. Stai mangiando una banana mentre ti rilassi all’ombra degli alberi. Questa è tua madre, che sorride sempre vicino a te. Questo invece è il lago e questo il santuario, vedi? E questo è Mino. Prepara il tè e ride. È basso, vedi? Questa invece è Chii. Dorme in un letto a baldacchino. È una principessa delle scimmie, e anche se nessuno lo capisce questo è un mondo felice. Nessuno lo può rovinare. Nessuno saprà, ma questo muro entrerà negli sguardi di tutti, e poi sarà distrutto e sparirà. Ma una piccola parte della vostra felicità resterà nell’inconscio delle altre persone. Bello, vero?”
Nakajima annuì in silenzio.
Brontolando che da un po’ di tempo non faceva che piagnucolare, si soffiò il naso, e io cercai di non guardare nella sua direzione. Ma che significa?, pensai irritata, questo non è amore, è volontariato! La scena dovrebbe essere diversa: la donna si commuove e l’uomo la stringe a sé, o sbaglio?
E poi restammo a lungo davanti alla parete, in piedi, fino a sentire freddo.
Tutte le volte che vedrò il murale mi ricorderò di questa notte.
Indipendentemente da dove saremo e da ciò che staremo facendo.
“Ascolta, Chihiro, non so bene come chiedertelo, ma ti sono sembrati infelici?” Sulla via del ritorno, dopo un lungo silenzio, Nakajima mi pose questa domanda con voce roca.
Ci pensai su.
Capii che se avessi mentito allora avrei continuato a mentire per sempre.
C’è la superficie, e poi c’è quello che vediamo sotto la superficie. Un tè delizioso, una stanza impolverata, il lago che luccica fuori dalla finestra...
Feci del mio meglio per cercare di mettere tutto insieme, come una millefoglie, in una singola impressione. Quindi risposi alla domanda.
“Non mi sono sembrati infelici. Affatto. Ma non mi sono sembrati neanche felici. Mi è sembrato che vivessero momenti di infelicità ma anche di felicità.”
“Bene.”
Nakajima parve sollevato.
Una conversazione con lui poteva trasformarsi in un duello, ma non mi dispiaceva. Anzi, mi divertiva.
“Sai, Chihiro, sei proprio come pensavo, sei una persona rara: non imponi quasi mai agli altri le tue emozioni.”
“Non è vero. Ho anch’io i miei lati inquietanti, tutti ce li hanno.”
“Non dico che tu non ne abbia, dico che ne hai pochi. E per me è sufficiente. Avevo una tale paura di perderti da non riuscire ad avvicinarmi di più a te. Ma non ti importava, eri sempre lì, ogni giorno, incurante dell’altra gente, nel tuo mondo. Nel tuo perimetro ben definito, con le mani e il resto del corpo in movimento, a dipingere: questo mi dà sicurezza. Però è proprio il tuo atteggiamento positivo a mettermi un po’ in soggezione. Ho paura di riporre la mia fiducia in qualcuno. Ma sono attratto da te. Mi verrebbe voglia di mandare tutto all’aria, una buona volta, ma non lo riesco a fare, perché ti voglio bene.”
Verso la fine, accennò un sorriso.
“Bravo, finalmente riesci a dirlo,” replicai, e lo pensavo veramente.
“Scema! e io che voglio anche andare a Parigi con te...” disse, e sembrava un bambino.
“Allora vacci da solo,” dissi ridendo.
“Va bene, ci vado da solo e ti aspetto. Ma invece perché una volta non mi accompagni a Shimoda? Mi piacerebbe andarci, vorrei visitare il maneggio e ringraziare quelle persone, ma soprattutto i cavalli. Adesso però sarebbe ancora difficile. Non come prima, ma ancora impensabile.”
“Quando da Parigi torneremo in visita, potremmo andarci una volta, che ne dici? Se dovesse capitare d’estate potremmo anche farci una nuotata insieme, no?”
Nakajima e io passeggiavamo nel solito quartiere, chiacchierando come sempre di cose né felici né tristi. Ero rilassata, ma percepivo anche una misteriosa tensione. La sensazione che ogni cosa che dicevamo, le nostre conversazioni, si sarebbero potute interrompere da un momento all’altro, e questo le rendeva preziose: quel momento condiviso aveva qualcosa di miracoloso.
Eravamo insieme, eppure eravamo così lontani... perché?
Provavo un senso di dolce solitudine, come quando ci si sciacqua il viso con dell’acqua gelida.
“Ma prima dobbiamo andare a trovare Mino al lago. Andiamoci quando le rive si riempiranno di ciliegi in fiore.”
“Ci vuoi tornare davvero?”
“A furia di andarci le cose si sistemeranno. Varie cose.”
Eravamo incredibilmente instabili, in bilico su una sottile lastra di ghiaccio, lì lì per scivolare e trascinare l’altro giù in fondo, un’accoppiata estremamente fragile, eppure sapevo ciò che dicevo, ne ero sicura.
In quel momento camminavamo sulle nuvole emanando luce.
“Farà piacere anche a loro.”
“E forse un giorno o l’altro riusciremo a vedere anche Chii muoversi sulle sue gambe.”
Era improbabile, ma non c’è niente di male a serbare una piccola speranza. Un minuscolo barlume di speranza può essere sufficiente a scaldare braccia e gambe congelate, nessuno può dire il contrario.
“Intanto torniamo a casa: ti preparerò del tè con dell’ottima acqua. Be’, non mi verrà buono come quello di Mino, però...”