VII
Un quintale
Pietro si sveglia alle due del pomeriggio, sudato fradicio su un materasso più bagnato di lui. Le stagioni non sono più quelle di una volta: è già ottobre, quasi novembre, eppure in camera da letto si schiatta dal caldo che manco in agosto. Tutta colpa di sua moglie che ha la mania delle finestre chiuse. La guarda ronfare beata con il lenzuolo attorcigliato alle gambe: ieri notte, portarla via dal bar in cui si sono fermati a bere dopo il lavoro è stato persino più difficile del solito. Adesso, mentre stira le braccia, una fitta lo sveglia del tutto e gli ricorda la sedia che lo ha colpito alla spalla.
Si è fermato alla farmacia di turno apposta per comprare la pomata, mentre tornavano a casa, ma poi era così stanco che probabilmente l’ha dimenticata di sotto.
In corridoio splende il sole, ma dal piano di sotto sale un buio appiccicoso di respiro: è lo stesso della sua camera da letto, tale e quale, solo rischiarato in un angolo dal tremolio del televisore acceso.
«Mitch» grida una voce disperata di donna.
Oltre la sagoma rettangolare del divano, un uomo con le mutande rosse corre sulla sabbia con un salvagente in mano.
«Puzza di fiato, qua dentro» dice Pietro affacciandosi allo schienale. Tutte le tapparelle sono abbassate, tutti i vetri chiusi.
«Ma se sono tornato da scuola un’ora fa» gli risponde Chicco.
«Allora puzza ancora da ieri sera» conclude Pietro. «Guarda la bionda che tette» aggiunge, illuminato, quando la bagnina Pamela Anderson entra in scena correndo entusiasta.
Chicco è cresciuto in altezza e in larghezza, i suoi occhi, che erano grandi, sono diventati piccoli e vicini come i fori per le dita sopra una palla da bowling. Si sta squagliando sul velluto del divano, i piedi incrociati sul tavolino, un’insalatiera ricolma in perfetto equilibrio sullo stomaco a cupola.
«Non aprire le serrande che poi non si vede più niente» dice a suo padre che si sta avvicinando alle finestre.
«Solo i vetri» gli risponde lui. «Fa caldo.»
«Ma se è autunno.»
«Ma se fa caldo… Hai visto in giro un sacchetto marrone?»
Chicco pesca due lunghe patatine scolorite, le inzuppa in una ciotola piena di maionese.
Pietro lascia perdere la spalla e per il momento decide di concentrarsi sullo stomaco. Non gli capita spesso di avere tempo per la colazione: lui e sua moglie, di solito, si svegliano appena in tempo per correre al ristorante. Porta al divano una scatola di wafer, si siede con suo figlio davanti al televisore. Lo guarda masticare con la coda dell’occhio e dopo tre biscotti gli è già passata la fame.
«Mangi solo quelle?» chiede.
«Sono a dieta» risponde Chicco senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Con le patatine?»
«Le ho cotte al forno» risponde.
Accasciato al buio mentre fuori c’è il sole, schiacciato tra il divano e la ciotola, suo figlio ha il triplo mento e si fruga sfacciatamente il naso con le dita. La felpa di Leonardo ormai gli schiatta addosso, le strisce rossonere del Milan si deformano sopra il suo stomaco teso. Quello era un osso secco, tale e quale a suo padre: quando se n’è andato a fanculo ha dimenticato quel cencio nella roba da lavare e Chicco, l’anno scorso, pur di continuare a mettersela gli ha tagliato il collo. Gli sta così stretta che sembra rantolare a ogni respiro, non riesce nemmeno a piegare bene le braccia, ma da quando l’ha trovata ce l’ha sempre addosso.
Pietro apre la bocca, poi non dice niente.
Mitch strappa alle onde una modella coreana su un materassino rosa, poi la porta alla torretta, le offre un drink e un tramonto californiano che incendia l’oceano solo per i suoi occhi.
Pietro trova il tubetto del Voltaren insaccato tra i cuscini del divano. Se ne spreme un po’ in mano e comincia a spalmarselo sulla spalla. Indica il perizoma strizzato tra le chiappe della bagnante sprovveduta. «Hai capito la cinese» dice massaggiandosi. «Io alla tua età me n’ero già fatte un paio.» Mitch e la coreana cominciano subito a baciarsi con la lingua, ma la bagnina intellettuale, coi capelli corti e senza tette, inizia a battere la porta con le grandi mani aperte: i colleghi della torretta ovest hanno avvistato uno squalo tigre, enorme, a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Santa Monica.
«Mica cinesi, eh» puntualizza Pietro. «Qua non si trovano.» Ride. Punta su Chicco il tubo della pomata. «Tu quando ce la porti una femmina a casa?» dice, e lui rovescia gli occhi esasperato mentre quello continua a ridere a singhiozzi.
«Non ce l’ho la ragazza» gli ripete per l’ennesima volta. Si ficca in bocca le patate rimaste accartocciandole tutte in una sola mano.
«Per forza. Stai sempre chiuso qua dentro.»
Mitch e la più brutta del telefilm si lanciano insieme a caccia dello squalo.
«Pure la mazza di scopa, schifo non fa» commenta Pietro compiaciuto. «Qualche tetta dal vero almeno l’hai vista?» torna alla carica.
Chicco solleva fino al collo l’orlo della sua felpa, la pancia nuda frana sul davanti dei jeans, gli mostra il petto grasso e se lo strizza con la mano. «Le mie» risponde serio.
Lo squalo tigre giace riverso sulla sabbia dolce della California. Mitch, sempre pettinato, torna dalla modella coreana che lo aspetta sulla torretta.
Pietro chiude il tubo della pomata e resta in silenzio per qualche secondo. «Vabbe’. Vado a mettere a posto ’sta roba» dice alla fine alzandosi dal divano.
Lo stadio profuma di pino.
«Non ci voglio venire» sta dicendo Chicco.
«E allora che ci sei venuto a fare?» ribatte Pietro.
«Mi ci hai portato tu.»
«Ma mi sei venuto appresso con le gambe tue, mi pare. Non è che centocinque chili me li sono portati a spalla, no?»
«Cento e otto.»
«Aiutami a dire. Ci parlo io con Ermanno, te l’ho detto che lo conosco.»
«Tanto lo so che mi mettono con quelli più piccoli.»
«T’ho detto che non ti ci faccio mettere.»
«Ma io non so fare niente.»
«E che è, colpa mia?»
«A calcio non ci voglio giocare» dice Chicco. Alle medie lo costringevano, come tutti i ciccioni faceva sempre il portiere e toccava la palla solo se gli finiva addosso.
«Qua puoi fare tutti gli sport» lo rassicura Pietro salutando da lontano il suo amico Ermanno.
Lo raggiunge qualche metro più in là, confabulano a mezza voce sotto le fronde di un albero basso. Chicco rimane dov’è: naturalmente stanno parlando di lui.
Ermanno è alto, magro e abbronzato: ogni volta che si muove, muscoli lunghi e nervosi guizzano come delfini sotto la sua pelle conciata. Ha un fischietto appeso al collo e capelli bianchi lunghi sulla nuca. Allena da trent’anni, ragazzini e principianti, in tutti gli sport di squadra nonché in tutte le discipline dell’atletica leggera: è il pilastro dello stadio Adriatico, a sentire suo padre un professionista assoluto. Adesso annuisce, si volta verso di lui e si gratta la fronte sotto la visiera del cappellino.
Probabilmente sta dicendo che è buono al massimo per fare la palla.
Chicco si guarda intorno con aria nervosa, si sofferma su un ragazzo in tuta lanciato in corsa sulla pista di atletica. Taglia l’aria come una scheggia, la schiena tesa e la fronte alta, e poi all’improvviso si scaglia verso il cielo. Chicco si scherma gli occhi con la mano tremante: lo vede rimpicciolire contro il sole, cambiare posizione sospeso nel vuoto, traballare, per un istante, come un motore ormai pronto a partire: poi invece niente, ricade a picco su un tappetone blu. Ne scende con una capriola, e mesto torna indietro a piedi.
Chicco si avvicina alla pista per vedere meglio: trova, dietro l’albero, i ritti e l’asticella a ridosso del tappeto; scopre un lungo bastone sottile in mano a un altro in tuta che prende la rincorsa. Lo punta a terra e decolla, lui trattiene il respiro, ma ancora prima che gli manchi il fiato quello è già caduto sulla gommapiuma.
Il vecchio e suo padre gli arrivano alle spalle. Chicco non se ne accorge, ma Pietro lo costringe a voltarsi piantandogli una mano in cima alla testa.
«Un bel ragazzone robusto» attacca allegro l’allenatore. Schiaffeggia il suo braccio nudo chiazzando di rosso il bianco medusa. Lo squadra da capo a piedi e annuisce compiaciuto osservando l’insieme dei suoi vestiti. La canotta dei Chicago Bulls, i pantaloni lucidi col cavallo basso, le scarpe tonde, nere, pagate centocinquantamila lire nel negozio in centro dove vanno tutti: Chicco si sente meno grasso, vestito come i neri nei video di Mtv.
«Ti piace il basket, eh?» continua il vecchio con l’aria di saperla lunga.
«Veramente non ci ho mai giocato» ammette Chicco alzando le spalle. Spia con la coda dell’occhio un altro schianto sul materassone. «Quello che sport è?» chiede indicando i ritti e l’asticella.
«Per quello ci vuole un altro fisico» ribatte pronto Ermanno. «Per provare il salto con l’asta dovresti perdere almeno» fa un passo indietro, la testa leggermente inclinata, si gratta col pollice il mento sbarbato, «venticinque chili. Anche trenta. E poi è uno sport che si comincia da piccoli, undici, dodici anni.» Si sofferma un attimo a osservarlo meglio. «Tu quanti anni hai?»
«Quindici» risponde Chicco.
«Quasi sedici» lo corregge Pietro, e l’allenatore scrolla la testa.
«Basket» conclude, e con un gesto secco della mano taglia la testa al toro. I suoi occhi a mezzaluna si stringono su Chicco, le labbra color pelle abbozzano un sorriso. «Sono tutti ragazzi della tua età» spiega. «Vedrai come ti diverti.»
«Tu in pratica stai qua fermo, se arriva qualcuno per fare canestro lo blocchi, gli freghi la palla e la passi dall’altra parte del campo.»
«Una specie di portiere?» dice Chicco.
«Una specie di portiere il cazzo» risponde Tommaso. «Qua o ti muovi o te ne vai a fanculo.»
Dopo sei giri di campo e dieci minuti a raccogliere mele dai rami alti di un albero immaginario, il riscaldamento è finito e l’allenatore se ne va: mentre Ermanno siede solo sulle gradinate del campo di calcio e rimira gli allenamenti dell’amato Pescara Calcio, consumandosi di nostalgia per il suo passato da terzino, il resto della lezione di basket passa nelle mani del suo unico pupillo.
Tommaso è rasato come Chicco e alto più o meno quanto lui, però magro e ricoperto di muscoli e vene pulsanti che si gonfiano appena alza la voce. È lui a fare le squadre, lui a guardarti in faccia e capire subito se servirai a qualcosa. Chicco s’immaginava almeno di poter provare a fare canestro, dal momento che suo padre gli pagava la scuola di basket: ma nella rigida gerarchia organizzata da Tommaso all’interno delle squadre – in ordine di valutazione decrescente, Quelli che toccano il ferro, Quelli che arrivano alla rete, Quelli che ci vanno vicino e infine I sacchi di merda – lui è stato sacco di merda fin dalla prima volta che ha incrociato il suo sguardo, il che significa che può fare solo il pivot o se non gli va bene sciacquarsi immediatamente dal cazzo.
«Alzale quelle braccia lardose. È inutile che ti vergogni che ti balla la cellulite sotto le ascelle. Non te le guardiamo, le tette!» gli urla contro, rosso come un peperone, dall’inizio alla fine di ogni singolo allenamento. E tutti scoppiano a ridere ogni volta come se fosse la prima.
Chicco continua a frequentare il corso solo perché Pietro ha solennemente promesso che se dimostra buona volontà gli trova un motorino. Gli insulti, in fondo, sono gli stessi di sempre: niente che lui non sappia già, niente che alle scuole medie non abbia imparato a farsi scivolare addosso. Per il resto deve solo stare sotto al canestro, molleggiare sulle ginocchia, e di tanto in tanto farsi scartare dagli attaccanti avversari, caracollandogli addosso mentre palleggiano verso la rete.
Tommaso lo degrada alla prima occasione, e da pivot che era diventa solo un mezzo pivot.
«Io me li sono presi in squadra l’altra volta» sta dicendo Matteo.
«Ci stavo pure io in squadra con te, l’altra volta» gli risponde Luca.
«Ma hai giocato di merda. Se non era per loro ci facevi perdere tu, quindi tanto vale che te li prendi pure stavolta. Tanto con o senza fai cacare uguale.»
«Guarda che se sei più forte di me te li devi prendere tu, sennò siamo squilibrati e la partita d’allenamento non ci serve a niente.»
«Io gioco per vincere.»
«Eh, io invece gioco per il cazzo che mi frega.»
«Poi forse oggi nemmeno vengono. Io non li ho visti.»
«Come no, uno arriva all’ultimo che abita in culo ai lupi, e quell’altro sta già là, viene prima apposta per guardarsi quelli dell’atletica leggera, capito perché poi non gioca, si stanca a farsi le seghe…»
«Tomma’!»
Matteo lancia uno strillo rauco verso il fondo dello spogliatoio. Tommaso li raggiunge senza fretta, schiaccia il mozzicone di una Marlboro Oro sotto la suola delle Reebok Pump.
«M’avete rotto il cazzo» annuncia. «Ve ne prendete uno per uno, così le squadre sono equilibrate e possiamo vedere chi di voi due fa più cacare.»
«E no Tomma’, così che giochiamo a fare?»
«Non è che la scelgo io, la gente. Sono venuti, pagano e ce li teniamo. Se devi rompere i coglioni te ne vai a fanculo tu, vabbò?»
«Mettiamoli in panchina.»
«Che panchina?»
«Ma che vengono a fare?»
«Per me Cicciolo è frocio» dice un altro.
«Forse s’è innamorato di te, Euggè.»
«Fottiti.»
«Ma attivo o passivo?»
«Ci pensate a trovargli il buco del culo, a quello?»
«Io no, tu ci pensi spesso?»
«Va a cacare pure tu, Tomma’. E dammi una sigaretta che m’avete fatto girare i coglioni.»
Chicco sta seduto su uno spigolo di granito, a metà della scalinata marziale che sale all’arena del campo di calcio. Finge di non vederlo come al solito, ripiegandosi tutto sul suo orologio da polso, mentre quello si sbraccia a salutare e gli corre incontro al piccolo trotto.
«Ciao» si rassegna a dire quando gli si siede di fianco.
«Gli altri?» chiede Guerino. È lui, l’altra metà del mezzo pivot che Chicco è ormai diventato: i pantaloni della tuta gli lasciano scoperte le caviglie, non porta mai i calzini, i capelli cominciano già a diradare sopra il cocuzzolo della sua testa oblunga; ma il peggio assoluto è la gobba sulla schiena, che solleva la felpa a scoprire dieci centimetri di mutanda. È arrivato a basket dieci giorni dopo Chicco: è talmente sfigato che non lo prendono nemmeno per il culo, ma in quanto a fargli toccare la palla, quello è tutto un altro paio di maniche.
«Stanno ancora dentro a fare a botte su chi ci deve prendere in squadra» gli risponde Chicco. Di solito li mettono a giocare in coppia, due per uno come i fustini dei detersivi: si intralciano a vicenda e fanno peggio che da soli, ma è una decisone di Tommaso e quindi non si discute.
«Guarda quello» dice Guerino, gli occhi spalancati davanti a un saltatore in bilico sull’asta.
«Non c’è niente da vedere. Sono tutti cacasotto, è per quello che cadono sempre.»
«Tu sei capace senza cadere?»
«Io che c’entra, sono grasso.»
«E quindi vieni a basket per dimagrire?»
Chicco scrolla la testa. «Io non dimagrisco.» Accennando una risata. «Tu che ci vieni a fare, che pesi trenta chili e manco sei buono?»
«Per imparare» risponde Guerino pragmatico. Il vento muove i rami degli alberi e l’ombra delle foglie sul cemento dell’antistadio, mentre chiude in un grande fiocco i lacci di una delle sue scarpe di tela.
«Ti potevi almeno comprare le scarpe.»
«Queste costavano poco.»
«Appunto. Scivolano e non ti danno elevazione.»
«Guarda che sei un sacco di merda pure tu che porti le Nike. Se avevo i soldi mi ci compravo un motorino da mettere a posto, altro che scarpe.»
«Con centomila lire?»
«Gli amici miei me lo trovavano. Da mettere a posto.»
«Mio padre, il mio, l’ha pagato cinquecento, però gli funzionava già tutto.»
«E che motorino è?»
«Il Malaguti Fifty.»
«Bello…»
«Nero.»
«Il più bello.»
«Non l’ho nemmeno scelto io, il colore. Mio padre me l’ha fatto trovare sotto casa al compleanno.»
«Ma che versione è?»
«Che versione?»
«Ce l’ha le marce?»
«Quattro» risponde Chicco.
«Proprio come serve a me. Ce l’hai presente il Colle della Vecchia?» Guerino gli mostra la mano secca inclinata di settanta gradi. «Prima di San Silvestro e dopo i Colli Innamorati. Io abito in cima.»
«Ti accompagnano in macchina e ti vengono a riprendere ogni volta?»
«Prendo l’autobus» risponde Guerino, alza le spalle e fa sussultare la gobba. Il vecchio Ermanno sta fischiando: quelli dell’atletica se ne sono andati, il gruppo del basket avanza dagli spogliatoi a passo di scimmia, Chicco si alza e li raggiunge di corsa. Spera che nessuno lo abbia visto parlare con lo sfigato: per fortuna è rimasto un pezzo indietro, allaccia l’altra scarpa e poi si ficca la canottiera nell’elastico dei pantaloni.
«è il Malaguti Fifty Top 50» dice Guerino.
Alla fine dell’allenamento Chicco lo ha perso di vista, e adesso eccolo, fuori dallo stadio, felice come una pasqua a cavalcioni del suo motorino.
«Mi sa che è l’ultimo modello» continua Guerino. «O il penultimo. Per la fretta di venire a vederlo non mi sono nemmeno fatto la doccia. L’ho riconosciuto subito che era il tuo.»
Scivola giù dalla sella, si accuccia di fronte alla targa, ficca tutto il naso nel tubo della marmitta. Gli lancia da sotto in su uno sguardo di approvazione: «L’hai già truccato» dice.
«Io non gli ho fatto niente» risponde Chicco.
Intorno non si vede nessuno. Gli altri sono usciti dallo spogliatoio prima di lui, se ne sono andati tutti insieme senza nemmeno salutare. Monta sulla sella e il motorino si fa più piccolo; afferra il manubrio, punta i piedi a terra, si spinge in avanti per togliere il cavalletto.
«Ma c’erano già tutti i pezzi o ci hai dovuto rimettere qualcosa?» insiste Guerino esaminando il telaio.
«Mio padre me l’ha dato intero.»
«Ci credo, cinquecento carte.»
Sull’altro lato della strada un autobus s’accosta al marciapiede: lascia tre vecchi e poi riparte immediatamente.
«Mica era il tuo?» dice Chicco.
Guerino alza gli occhi, di scatto, sul cinque barrato che sparisce lesto dietro la curva.
«Cazzo» dice.
«Tanto ne arriva un altro, no?»
«Tra un’ora» sbuffa.
Chicco s’infila il casco, gira la chiave dell’accensione, il cruscotto del Fifty s’illumina di verde e arancione fosforescente. Si guarda intorno con più attenzione: controlla la strada, il cancello dello stadio, i tavolini all’aperto di fronte alla sede dei Pescara Rangers. Pesta forte il pedale e dà gas al motore.
«Sali» dice.
«Ma ce l’hai un altro casco?»
«Non ci ho ancora mai provato, a portare qualcuno.»