1957: si va progressivamente affermando negli Stati Uniti

l'avanguardismo degli "Hipsters" che ha come esponenti Allen Ginsberg, Jack Kerouak, Kenneth Rexroth e altri. Escono "The Town" ("La città"), di W. Faulkner, "La jalousie" ("La gelosia") di Robbe-Grillet, "Quer pastieciaccio brutto di via Merulana" di C. E. Gadda, "Diario in pubblico" di F, Vittorini, "Il dottor Zivago" di B. Pasternak. 1958: "Il gattopardo" di G. Tomasi di Lampedusa. Il premio Nobel per la letteratura, conferito a B. Pasternak, suscita gravi polemiche in URSS

e largo interesse in Occidente, per cui lo scrittore rinuncia al premio. 1959: "The Mansion" ("La dimora") di W. Faulkner. 1960: "La noia" di A. Moravia, "La ragazza di Bube" di C. Cassola, "Critica della ragione dialettica" di J.-P. Sartre. 1961: "La religione del mio tempo", di P. P. Pasolini, "Luther" di J. J. Osborne. Alcuni grandi editori europei istituiscono due nuovi premi letterari: il Premio Internazionale degli Editori e il Premio Formentor. I vincitori della prima edizione dei due premi sono, rispettivamente, J. G. Hortelano e, exaequo, S. Beckett e J. L. Borges.

 

INTRODUZIONE.

 

Un libro nero e rosso.

 

"Avere e non avere" è un romanzo composto di tre racconti. Il primo (titolo originale "One Trip Across", "Una traversata") fu scritto a Madrid nel 1933 e pubblicato sulla rivista "Cosmopolitan" nell'aprile '34. L'altro si intitolava "The Tradesman's Return", "Il ritorno del mercante", quando nel febbraio 1936 uscì su "Esquire". Era stato scritto a Key West nel tardo '35 poco dopo la pubblicazione di "Verdi colline d'Africa". Nell'estate seguente venne per la prima volta -

sembra - a Hemingway l'idea di unire a quei due un terzo racconto col medesimo protagonista, ma in una prospettiva di situazioni e vicende molto diverse, e pubblicare l'insieme come un "romanzo" tripartito.

Cominciò il nuovo lavoro mentre in Spagna nasceva la guerra civile.

Volle finirlo, a tutti i costi, prima di rischiar la pelle e in ogni modo di togliersi ogni tempo libero andando in Spagna. Partiva per Madrid nel febbraio '37 dopo aver concluso la prima stesura.

Correzioni, ritocchi, furono compiuti durante un breve ritorno in America; il libro uscì mentre l'autore era immerso di nuovo nella guerra spagnola.

Hemingway stesso esitò giustamente, in queste condizioni, sul definire come romanzo un'opera formatasi attraverso schemi molto differenti, dall'una all'altra delle tre parti intitolate adesso "Primavera", "Autunno", "Inverno". Ma si decise a farlo, per sottolineare un processo di sviluppo che infine gli risultava unitario. Nel racconto del '33, una serie d'uccisioni ladronerie atti di brigantaggio costituisce una storia tesa - a meraviglia - su una linea d'oggettività completa, rigorosa, dove il protagonista Harry Morgan si colloca a livello di un navigato eroe machiavellico senza esclusione di colpi, anche brutalmente canaglieschi, fra ogni genere di schiume umane e marine da Cuba alla Florida. Nel secondo racconto Harry Morgan è di nuovo, s'intende, un contrabbandiere implicato nelle più aspre faccende del Golfo del Messico; ma si affaccia una polemica anticonformista e anti-classe dirigente che risale, in modo chiaro, all'autore come viva parte di situazioni locali (da sette anni ormai abitava a Key West), di umori sempre più diffusi in America, di tendenze contestatarie. Infine la terza sezione del libro dà luogo quasi continuamente al rapporto tra i fatti narrati e un groviglio di temi sociali, etico-politici. Harry Morgan è coinvolto nella peripezia di un gruppo di cubani che per dare nuove risorse a un "autentico"

movimento rivoluzionario, nella loro isola appena conquistata da una bassa genia di scrocconi, operano un violento colpo di mano in una banca di Key West. Per potere raggiungere Cuba col bottino, obbligano Morgan a dirigersi là col suo battello; la ribellione dell'ardito contrabbandiere termina in un eccidio generale. Prima, durante, dopo la catastrofe, tutta la vicenda ribolle d'elementi e di motivi aperti ai problemi economici dell'America in quel periodo, a un dibattito sulla disoccupazione, a un tristo spettacolo di personaggi con "yacht"

o versati in comportamenti parassitari, da sinistra e da destra. C'è uno scrittore - Richard Gordon - tutto emblematico di corruzione. E

nelle ultime pagine, quando Morgan ferito a morte sta su una branda nel "cutter" che lo riporta a Key West, parla così, nel delirio: "Un uomo... non ha nessuna non è non può proprio nessuna via d'uscita... Un uomo... Un uomo solo non ha. Nessun uomo solo ormai...

Non importa che un uomo solo non ha maledettamente modo." Le sue parole estreme.

L'intenzione, dunque, di connettere i tre racconti in una specie d'affresco distribuito su uno sfondo ideologico, ha un'evidenza. Harry Morgan viene a rappresentarvi da principio l'individuo "tough", ben duro e coriaceo nonostante le sensitività del carattere, al quale tutto finisce ogni volta per "andar bene", nel suo quadro di lotta per la vita che certi affetti familiari condizionano. Poi, nel racconto intermedio egli si trova sostenuto, protetto efficacemente da un "compaesano" che non ama le regole del Codice Penale in queste e altre circostanze. Nella più lunga, magmatica e ardua trama conclusiva, la sua rovina è congegnata in modo da rientrare in un dramma sociale, dove altre cose segnalino che un uomo non può salvarsi da solo, come un estraneo alle grandi questioni collettive, - battendosi anche con una forza straordinaria per se medesimo e per la propria famiglia.

Non emerge un'ideologia nettamente di sinistra, neppure da questa parte ultima del trittico su Harry Morgan; tanto meno si può vedervi un "engagement" di tipo marxistico. Mentre la polemica e il sarcasmo riguardano, per esempio, gli intellettuali pseudo-rivoluzionari altrettanto che certa borghesia alla moda, tracce di aderenza a una precisa linea di pensiero non se ne vedono. Facile è ricondurre però un gran numero d'elementi all'interesse spiccato, con un linguaggio risentito e in sostanza protestatario, verso le congiunture sociali di un'America di Roosevelt ancora infestata da quella di Hoover. Nel '35, in settembre, un uragano venuto addosso alla Florida in modo prevedibile da qualche giorno aveva infierito su un campo di ex-combattenti, che presso Matecumbe erano stati raccolti per lavorare a opere pubbliche; ne erano morti centinaia, annegati in gran parte.

Hemingway, dalla vicina Key West, era accorso tra i primi sul luogo del disastro e quell'eccidio tutt'altro che dovuto alle sole forze naturali l'aveva preso alla gola, riempito di pietà e di collera. Su "New Masses", la rivista d'estrema sinistra che a lui si era rivolta per un articolo, pubblicò un lungo testo quasi immediatamente spedito per telegrafo. Non volle compenso: "da un delitto non si deve ricavare danaro". Altre collaborazioni sue a "New Masses" vennero in parte realizzate in parte progettate, da allora, benché egli avesse scritto nel '35 a Max Perkins di ritenere sempre più nettamente sbagliato l'atteggiamento politico-sociale della rivista.

In verità anche la lunga campagna sfavorevole o avversa, con violenza qualche volta, al suo "disimpegno", che intellettuali americani avevano condotto per anni seguitando intanto a lodare le sue prime opere e ad apprezzarne qualcuna tra le più recenti, gli aveva a poco a poco lasciato impressioni profonde. Quel critico sovietico, Ivan Kascikin, del quale ho ricordato nell'introduzione a "Verdi colline d'Africa" il saggio su Hemingway discusso con simpatia da Edmund Wilson, a sua volta non restò senza effetto con le proprie interpretazioni, tesi ideologiche e lagnanze. Era un suo buon traduttore, fra l'altro, di due racconti pubblicati nel '34 su una rivista sovietica. La definizione di "Mens morbida in corpore sano", che nel saggio riguarda specialmente lo Hemingway delle ultime annate, ebbe nel nostro autore un'intensa risonanza. D'altra parte egli aveva sempre mostrato di corrispondere nei modi più spontanei alle proprie esperienze e convinzioni dirette, scrivendo libri o racconti od articoli; le tragedie della disoccupazione americana in quegli anni, il maturare attraverso il nazismo di ciò che egli aveva presto denunciato nel fascismo, tutta la recente o presente storia di un Europa avviata alla guerra di Spagna, lo avevano disposto a intervenire anche in qualità e occasione specifica di narratore contro l'indifferenza, la poltronaggine, le compiaciute bugie sociali di molti. Nel '36, quando aveva appena deciso di sviluppare in un trittico i due racconti di Harry Morgan già pubblicati, l'esplodere della tragedia spagnola determinò senza dubbio nelle pagine nuove accenti più acri e più crudi.

Nell'insieme, il "romanzo" potrebbe aver un titolo rovesciato in confronto a quello famoso di Stendhal, chiamarsi "Il nero e il rosso".

La prima parte è uno splendido "racconto nero", svolto con perfezione flaubertiana (Conrad c'entra molto meno) lungo le trasparenze marine e i riflessi sanguigni di un piccolo mondo tropicale duramente, anche "razionalmente" invaso dall'affluire della Società dei Consumi. Nella terza parte il color rosso predomina, un rosso sangue-marcio con i suoi elementi di nerezza, con alcuni luccichii interni da nascente fiamma giacobina. Ci si arriva percorrendo uno spazio intermedio dove l'alternativa stendhaliana riesce di nuovo limpida, penetrante, e amabile nelle conclusioni. Che il deliberato seguito ai due primi racconti sia o no una buona opera dello scrittore è proprio un altro discorso.

Scrivere: come e perché?

 

"Lo scrittore", egli usava ripetere nei suoi scorci di teoria letteraria, "deve soprattutto dire la verità." Quanto al metodo, le raccomandazioni migliori credo che vengano da una pagina di "Morte nel pomeriggio", forse non abbastanza famosa: "... Abbiamo visto passare tutto questo, continueremo a vedere dei fatti che passano. La gran cosa è resistere e far il nostro lavoro, e vedere e udire e imparare e capire; "e scrivere quando si sa qualcosa; non prima e, accidenti, non troppo tempo dopo"."

Poi, bisogna tener conto di un'intervista quasi testamentaria concessa a George Plimpton, e uscita, in "Paris Review", nel 1958; vi si legge fra l'altro (domanda e risposta):

""Lei ha detto una volta, che era capace di scriver bene solo quando era innamorato. Potrebbe svolgere un po' l'idea?" - Che domanda!... Si può scrivere in qualunque momento, a patto che ti lascino quieto e non ti interrompano. Ma il meglio, certamente lo si scrive quando si è innamorati. Se per lei fa lo stesso, preferirei non svolgere quest'idea..."

E per i problemi di carattere tecnico, risposta fondamentale: "Le parole giuste...". Ma anche: "Correggere e riscrivere quando il testo è stato ribattuto a macchina, e lo si vede correttamente dattiloscritto. L'ultima occasione, infine, sono le bozze. Si è grati a queste varie occasioni che ci sono offerte".

Aveva detto, ridetto, specialmente poco prima di concludere "Avere e non avere", che si riesce meglio nelle professioni creative quando ci sente degli zingari, in una società non di zingari: uno spirito nomade, che osserva e possibilmente studia uomini, cose in un insieme di condizioni esplicite per un certo tempo ai suoi occhi liberi. Voler insegnare ai lettori, e tanto più ai propri personaggi, un miglior modo di vivere ciò che vivono, è sconsigliabile per quelli che scrivono opere di fantasia.

E intanto raccomandava all'America (novembre 1935, "Esquire") di restar fuori dalla guerra che gli europei stavano certamente per fare, di nuovo. "In Europa sta per scoppiare la guerra: è certo come è certo che l'inverno segue all'autunno. Se vogliamo starne fuori, è adesso il momento di deciderlo. Adesso, prima che cominci la propaganda. E' il momento di render impossibile a qualunque uomo, a qualunque centinaio d'uomini, a qualunque migliaio d'uomini, di portarci alla guerra nel giro di dieci giorni, una guerra che loro non dovranno combattere."

Tutto il senso apertamente sviluppato di questo articolo, come di altri che egli aveva scritto anche in passate e molto diverse circostanze, è che gli americani non dovevano unirsi a un'altra guerra in Europa. Ma il penultimo capoverso, nell'articolo del novembre '35, dice come se esprimesse un concetto non decisivo: "Entro dieci anni, si combatterà molto, e gli Stati Uniti avranno di nuovo la possibilità di mutare l'equilibrio delle potenze in Europa: avranno di nuovo un'occasione di salvare la civiltà, di combattere un'altra guerra per farla finita con la guerra". Molto presto, pochi mesi dopo, l'inciso avrebbe cominciato a diventare tesi conclusiva nella situazione presente, e a trovare conferme nell'attività di Hemingway anche in quanto scrittore.

Ebbene, sotto altri aspetti, non riferibili in modo preciso alla politica internazionale e a prospettive di guerra "per la civiltà", l'ultima parte di questo romanzo porta in sé un'analoga spinta. Le idee sulle condizioni migliori per scrivere, per "scrivere bene", non si erano trasformate. L'esigenza tipica delle "parole giuste" e quella non irrisoria, di poter rifare e correggere un testo nei modi replicatamente più liberi, meno soggetti a interruzioni, a preoccupazioni soverchianti e a un viavai d'altre presenze fisiche o ideali, restavano entrambe chiare per Hemingway. Soltanto, può diventare impossibile a un uomo mettersi nelle migliori condizioni intime e tecniche per esprimere ciò che assolutamente gli si fa spontaneo, in un dato quadro di cose. Lo scrittore resta un uomo o non è nulla. Hemingway sembra aver compiuto davvero quanto entrava nelle sue possibilità, anche dall'estate 1936 in avanti, per corrispondere a questo non pacifico assioma dell'antropologia letteraria, sentito molte volte come un'ovvia inezia dagli esperti del mestiere.

 

Antologia critica.

 

"Non ti ho mai detto quanto mi sia piaciuto "Avere e non avere". C'è un'abilità di osservazione e di descrizione che i giovani imiteranno con furore - passi e pagine che sono al livello di Dostoevskij nella loro incorrotta intensità.

Con il Vecchio Affetto"

 

"Francis Scott Fitzgerald.

Lettera pubblicata in "L'età del jazz", Il Saggiatore, 1960".

 

"In un'antologia di H. includerei a un posto supremo l'amplesso di Harry Morgan con la moglie in "Avere e non avere" (capitolo 12); dove una mortuaria disperazione e la sfrontatezza e il cinismo del vero amore, si fondono con un lirico furore che forse Hemingway non aveva ancora mai raggiunto. (E se cotesta non è grande poesia, vorrei sapere chi oggi abbia saputo scriverne.)

"Ci vuol poco a constatare che, quasi sempre, si tratta di scene e racconti a struttura dialogica: il famoso "dialogato" di Hemingway; a trattar del quale occorrerebbero analisi ed esemplificazioni troppo minuziose, per una scorsa d'insieme come la presente. I guai che doveva combinarci questo "dialogato", che del resto, in Hemingway è sempre in pelle in pelle, anche là dove non è ombra d'interlocutori o di dialogo. Ch'è insomma la nativa forma d'associazione molecolare della sua fantasia; e tecnicamente il miglior regalo ch'egli fece alla letteratura. Un regalo che prestissimo doveva diventare una sorgente di contagio internazionale. Oggi ce lo ritroviamo fra i piedi dovunque. Nella prosa narrativa corrente, e nelle corrispondenze giornalistiche; in forma d'un ripetere, riprendere e giuocarsi fra i denti una frase comune, sbadata, insignificante: modificarla impercettibilmente, darle un certo tono di mistero; per poi tornare a evocarla, palleggiarla e ringhiottirla, farsela di nuovo uscir fuori da una manica o da una narice, all'infinito. Ma rileggiamo quell'addio coniugale in "Avere e non avere", a purgarci del disgusto per le balordaggini dei copisti."

 

Emilio Cecchi, in "Mercurio", ottobre 1945.

 

"Come sempre, Hemingway ha espresso qui un problema suo proprio.

L'individuo americano che, sempre maggiormente si vede bloccato nelle proprie sorti e nelle proprie speranze da coloro che hanno tradito gli ideali dei pionieri, non sa più salvarsi mediante un tipo di lotta tutto personale. Harry Morgan lo ha creduto ancor possibile (...) Avendo egli respinto in maniera sommaria il problema della solidarietà umana, delle azioni collettive, è condannato a morte da Hemingway: la morale individualista ha finito ormai d'essere valida."

 

G.A. Astre in "Hemingway par lui-mˆme", editions du Seuil, 1966.

 

"... L'introspezione non è un genere d'arte narrativa adatto a Hemingway, e i pensieri notturni in "Avere e non avere" sono da mettere tra le sue ultime cose meno riuscite. Hemingway dà il meglio di sé nel rappresentare dei fatti, degli eventi, che non si svolgano a grande distanza dal primo piano della narrazione."

 

Harry Levin, in" Osservazioni sullo stile di E.H.", originariamente su "Kenyon Review", aprile 1951.

 

BIBLIOGRAFIA: TRADUZIONI IN ITALIANO.

 

"L'invincibile", prefaz. di G. Surace, Jandi-Sapi, Milano-Roma, 1944.

"E il sole sorge ancora", traduz. di R. Dandolo, Jandi-Sapi, Milano,