Mostrando grande pazienza, don Juan parlò della consapevolezza intensa in termini del movimento del punto d'unione. Mentre continuava a parlare, io notai l'assurdità della mia richiesta: sapevo già tutto quello che mi stava dicendo. Osservai che non avevo davvero bisogno che mi si spiegasse nulla, ma lui disse che le spiegazioni non erano mai sprecate perché erano stampate in noi per uso immediato o procrastinato o per aiutarci a preparare la via per raggiungere la conoscenza silenziosa.

Quando gli chiesi di parlarmi della conoscenza silenziosa più in dettaglio, mi rispose subito che la conoscenza silenziosa era una posizione generale del punto d'unione, che secoli prima era stata la posizione normale; poi, per ragioni che sarebbe stato impossibile determinare, il punto d'unione dell'uomo stera spostato da quella collocazione specifica adottandone una nuova chiamata “ragione”.

Don Juan mi faceva notare che non tutti gli esseri umani rappresentavano questa posizione. I punti d'unione della maggior parte di noi non erano messi nella posizione esatta della ragione, ma nelle immediate vicinanze. Era accaduta la stessa cosa con la conoscenza silenziosa: nemmeno allora i punti d'unione di tutti gli esseri umani erano esattamente in quella posizione.

Aggiunse anche che “il luogo della non pietà”, un'altra posizione del punto d'unione, era il precursore della conoscenza silenziosa, e che un'altra posizione ancora del punto d'unione, “il luogo della sollecitudine”, era il precursore della ragione.

Non trovavo nulla di oscuro in quelle enigmatiche espressioni. Per me erano ovvie. Capivo tutto quello che diceva, mentre aspettavo che il suo solito colpetto fra le scapole mi facesse entrare nello stato di consapevolezza intensa. Ma il colpo tardava a venire e io continuavo a capire quello che lui stava dicendo senza accorgermi veramente di capire qualcosa. Quel sentirmi a mio agio e dare tutto per scontato, proprio della mia consapevolezza normale, rimase in me e io non dubitai della mia capacità di comprensione.

Don Juan mi guardò fisso e mi raccomandò di stare bocconi su di un masso rotondo, con braccia e gambe divaricate come un ranocchio.

Me ne stetti lì disteso per circa dieci minuti, completamente rilassato, quasi assopito, finché non fui strappato di soprassalto al mio torpore da un ringhiare, prolungato e penetrante. Sollevai il capo, guardai in su e mi si rizzarono i capelli per lo spavento. Un gigantesco giaguaro scuro era acquattato su un masso a neanche tre metri da me, sovrastante proprio il posto dov'era seduto don Juan. Il giaguaro, mostrando le zanne, mi fissava con occhi di fuoco, e sembrava pronto a balzarmi addosso.

«Non muoverti!» mi sibilò piano don Juan. «E non guardarlo negli occhi.

Fissagli il naso e non sbattere le palpebre. La tua vita è nel tuo sguardo.»

Feci quello che mi ordinava. Il giaguaro e io ci fissammo per un attimo finché don Juan non spezzò l'impasse lanciando il cappello come un frisbee in testa al giaguaro. Questi balzò all'indietro per non farsi colpire e don Juan emise un fischio forte, sostenuto e sibilante. Poi urlò con quanto fiato aveva in gola e batté le mani due o tre volte. Sembravano colpi di fucile un po' attutiti.

Don Juan mi fece segno di scendere dal masso e unirmi a lui. Tutti e due urlammo e battemmo le mani finché don Juan decise che avevamo cacciato via il giaguaro, spaventandolo.

Tremavo in tutto il corpo, eppure non avevo paura. Confidai a don Juan che quel che mi aveva spaventato di più non era stato il ringhio improvviso del felino o il suo sguardo, ma la certezza che il giaguaro fosse stato a guardarmi un bel po' prima che io lo sentissi e alzassi la testa.

Don Juan non disse una parola su quell'esperienza. Era profondamente assorto nei suoi pensieri. Quando feci per chiedergli se avesse visto il giaguaro prima di me, mi fece un gesto imperioso per zittirmi. Mi diede l'impressione che si sentisse a disagio o fosse un po' confuso.

Dopo un attimo di silenzio, don Juan mi fece cenno di cominciare a camminare.

Lui procedeva davanti; ci allontanammo dalle rocce, zigzagando di buon passo nel sottobosco.

Circa mezz'ora più tardi raggiungemmo una radura e ci fermammo un momento a riposare. Non avevamo scambiato neanche una parola e io ero ansioso di sapere cosa stesse pensando lui.

«Perché camminiamo a zig-zag?» domandai. «Non sarebbe meglio andare in linea retta e più velocemente?»

«No» rispose con enfasi. «Non servirebbe a niente. E' un giaguaro maschio, quello. Ha fame e ci inseguirà.»

«Un motivo in più per mettere le ali ai piedi» insistetti.

«Non è facile» replicò lui. «Quel giaguaro non è appesantito dalla ragione. Saprà esattamente cosa fare per prenderci. E, come è certo che ti sto parlando, leggerà i nostri pensieri.»

«Cosa vuol dire, il giaguaro che legge i nostri pensieri?» chiesi.

«E non in senso metaforico» precisò. «Dicevo sul serio. Animali grossi come quello hanno la capacità di leggere i pensieri. Non indovinare, ma conoscere direttamente ogni cosa.»

Tutto allarmato domandai: «Cosa dobbiamo fare, allora?».

«Dovremmo diventare meno razionali e cercare di vincere la nostra battaglia rendendogli impossibile leggere i nostri pensieri.»

«Come potrebbe aiutarci l'essere meno razionali?» gli chiesi.

«La ragione ci fa scegliere quello che sembra più efficace alla mente» disse.

«Per esempio, la ragione ti ha già detto di correre il più velocemente possibile in linea retta. Quel che la tua ragione non ha considerato è che noi dovremmo correre per sei miglia prima di poterci mettere al sicuro nella tua macchina. E il giaguaro corre più veloce di noi ci taglierebbe la strada, aspettando nel luogo più propizio per saltarci addosso.

«Procedere a zig-zag è una scelta migliore, anche se meno razionale.»

«Come sai che è migliore, don Juan?» chiesi.

«Lo so perché la mia connessione con lo spirito è molto chiara» replicò. «Cioè, il mio punto d'unione è nella posizione della conoscenza silenziosa. Di là posso vedere che si tratta di un giaguaro che ha fame, ma non ha mai mangiato esseri umani. Ed è sconcertato dal nostro modo di agire. Se adesso procediamo a zig-zag, dovrà fare uno sforzo per precederci.»

«Abbiamo altre alternative allo zigzagare?»

«Solo alternative razionali. E non abbiamo l'attrezzatura necessaria per appoggiarle. Per esempio, potremmo andare su un'altura, ma avremmo bisogno di un fucile per difenderci.

«Dobbiamo tenerci allo stesso livello del giaguaro. Le sue scelte sono dettate dalla conoscenza silenziosa. Noi dobbiamo fare quello che ci dice la conoscenza silenziosa, per quanto possa sembrare irrazionale.»

Cominciò a correre a zig-zag. Io lo seguivo molto da vicino, ma non avevo nessuna fiducia che correndo così ci saremmo salvati. Avevo una reazione ritardata di panico. Mi ossessionava il pensiero dell'oscura sagoma incombente di quel gattone.

Il chaparral desertico consisteva di alti e sparuti cespugli distanti l'uno dall'altro un paio di metri circa. Le limitate precipitazioni del deserto non permettevano la crescita di piante con fitto fogliame o di un ricco sottobosco. Eppure l'effetto visivo del chaparral era di una boscaglia fitta e impenetrabile.

Don Juan si muoveva con straordinaria agilità e io lo seguivo come meglio potevo. Mi suggerì di guardare dove mettevo i piedi e fare meno rumore. Disse che il rumore dei rami che si spezzavano sotto i miei passi mi tradiva sfacciatamente.

Feci molta attenzione per cercare di camminare nelle orme di don Juan per evitare di spezzare rami secchi. Zigzagammo così per un centinaio di metri prima che io scorgessi l'enorme massa scura del giaguaro a non più di una trentina di metri dietro di me.

Urlai a gola spiegata. Senza fermarsi, don Juan si girò abbastanza in fretta per veder scomparire il grosso felino dalla nostra vista. Don Juan emise un altro fischio penetrante, continuando a battere le mani per imitare il suono di fucilate attutite.

A voce molto bassa affermò che i gatti non amano andare in salita, così noi dovevamo attraversare a gran velocità l'ampia e profonda gola che si trovava a pochi metri da me, sulla destra.

Diede il via e ci lanciammo in mezzo ai cespugli alla massima velocità.

Scivolammo giù lungo un fianco del burrone, raggiungemmo il fondo e risalimmo per l'altro versante. Da lì avevamo una buona vista del declivio, del fondo della gola e del pianoro dov'eravamo prima. Don Juan bisbigliò che il giaguaro stava seguendo la nostra traccia e che se fossimo stati fortunati l'avremmo visto precipitarsi fino in fondo al burrone sulle nostre piste.

Guardando fisso sotto di noi aspettai con ansia di veder apparire l'animale, ma non lo vidi. Stavo cominciando a pensare che forse era scappato via quando udii il terrificante ruggito del bestione nella boscaglia alle nostre spalle. Rabbrividii nell'accorgermi che don Juan aveva avuto ragione. Per essere arrivato dov'era, il giaguaro doveva aver letto i nostri pensieri, attraversando la gola prima di noi.

Senza dire una parola, don Juan cominciò a correre a una velocità spaventosa.

Gli andai dietro e proseguimmo per un pezzo, sempre a zig-zag. Quando ci fermammo per riposare, ero completamente senza fiato.

Il timore di essere inseguito dal giaguaro non mi aveva impedito di ammirare la stupenda forma fisica di don Juan. Aveva corso come un giovanotto. Avevo cominciato a dirgli che mi aveva ricordato qualcuno che, nella mia infanzia, mi aveva colpito per la grande abilità nella corsa, ma mi fece cenno di smettere di parlare.

Ascoltava con grande attenzione, e ascoltai anch'io.

Sentii un lieve fruscìo nel sottobosco, proprio davanti a noi, e poi per un istante, a neanche cinquanta metri di distanza, fu visibile la nera sagoma del giaguaro.

Don Juan si strinse nelle spalle e fece un gesto in direzione dell'animale.

«Sembra che non riusciamo a levarcelo di torno» disse, con tono di rassegnazione. «Camminiamo con calma, come se facessimo una bella passeggiata nel parco, e raccontami la storia della tua infanzia. E il tempo giusto e l'ambiente adatto per farlo. Un giaguaro ci dà la caccia e tu ricordi il passato: il perfetto non-fare per essere inseguiti da un giaguaro.»

Rise sonoramente. Ma quando gli dissi che avevo perduto ogni voglia di raccontargli l'aneddoto, si piegò in due dalle risate.

«Ora mi stai castigando per non aver voluto ascoltarti, vero?» domandò.

E io, ovviamente, cominciai a difendermi. Gli replicai che le 'sue accuse erano chiaramente assurde. Io avevo davvero perduto il filo del racconto.

«Se uno stregone non ha boria, se ne infischia di aver perduto il filo» disse, con una luce maliziosa nello sguardo. «Visto che non ti è rimasta neanche un po' di presunzione, dovresti raccontarla adesso, la tua storia. Raccontala allo spirito, al giaguaro e a me, come se non avessi perso il filo per niente.»

Volevo dirgli che non mi andava di ubbidire ai suoi desideri perché la storia era troppo sciocca e l'ambiente opprimente. Volevo scegliere lo sfondo adatto, in un altro momento, come faceva lui per i suoi racconti.

Prima di dar voce alle mie opinioni, lui mi rispose.

«Sia il giaguaro sia io leggiamo i pensieri» disse sorridendo. «Se io scelgo luogo e tempo per le mie storie di stregoneria, è perché fanno parte dell'insegnamento e voglio ricavarne il massimo effetto.»

Mi fece cenno di cominciare a camminare. Camminavamo tranquilli, fianco a fianco. Gli confessai che avevo ammirato la sua falcata e la sua resistenza e che c'era un po' di presunzione in fondo alla mia ammirazione perché mi consideravo un buon corridore. Poi gli raccontai l'aneddoto della mia infanzia che mi ero rammentato vedendolo correre così bene.

Gli dissi che da ragazzo giocavo a calcio e correvo molto bene. Infatti ero talmente agile e veloce che pensavo di poter commettere impunemente qualsiasi marachella perché sarei riuscito a lasciare indietro chiunque avesse cercato di prendermi, specie i vecchi poliziotti che pattugliavano a piedi le strade della mia città natale. Se avessi spaccato il vetro di un lampione o cose del genere, tutto quel che dovevo fare era darmi alla fuga e me la sarei cavata.

Ma un giorno, senza che io lo sapessi, i vecchi poliziotti furono rimpiazzati da agenti più giovani, allenati militarmente. Giunse il fatale momento in cui mandai in frantumi la vetrina di un negozio e corsi via, fiducioso che la velocità fosse il mio salvacondotto. Un giovane poliziotto si diede al mio inseguimento. Corsi come non avevo mai corso prima, ma inutilmente. L'agente, che era un formidabile centrattacco nella squadra di calcio della polizia, aveva più velocità e forza di quanta potesse averne il mio corpo di ragazzo decenne. Mi afferrò e mi riportò a calci fino al negozio con la vetrina spaccata. Contava ad alta voce tutti i calci, come se si stesse allenando allo stadio. Non mi fece male ma mi s'inaridì la gola dalla paura. Tuttavia la mia cocente umiliazione fu attenuata dall'ammirazione, tipica in un ragazzino della mia età, per la bravura e il talento del calciatore.

Confidai a don Juan che quel giorno avevo provato la stessa sensazione con lui.

Era in grado di correre più velocemente di me, nonostante la differenza di età e la mia propensione per le fughe veloci.

Gli dissi anche che per anni avevo avuto un sogno frequente, in cui correvo così bene che il giovane poliziotto non riusciva ad acciuffarmi.

«La tua storia è più importante di quanto pensassi» fu il commento di don Juan.

«Credevo si trattasse di sculacciate materne.»

Il modo in cui enfatizzò le parole resero la frase molto buffa e canzonatoria.

Aggiunse che a volte era lo spirito, e non la nostra ragione, a decidere delle nostre storie. Questa era una di quelle volte. Lo spirito aveva fatto scattare questa particolare storiella nella mia mente, certo perché la storia riguardava la mia indistruttibile presunzione. Disse che la torcia della collera e dell'umiliazione aveva bruciato in me per anni e i miei sensi di fallimento e di depressione erano ancora intatti.

«Uno psicologo ci sguazzerebbe con la tua storia nel contesto attuale» continuò.

«Nella tua mente mi devo identificare con il giovane poliziotto che distrusse la tua idea di invincibilità.»

Ora che l'aveva menzionata lui, dovevo ammettere che l'avevo avuta, quella sensazione, benché non ci avessi mai pensato consciamente e men che meno l'avessi espressa a parole.

Camminammo in silenzio. Ero rimasto così colpito dalla sua analogia da dimenticare del tutto il giaguaro in agguato, finché un selvaggio ululato non mi ricordò la nostra situazione.

Don Juan mi consigliò di saltare sui lunghi rami bassi dei cespugli e, scuotendoli con forza, spezzarne un paio facendoli andare su e giù, per farne una specie di lunga scopa. Anche lui fece lo stesso. Correndo, le usavamo per sollevare una nuvola di polvere, agitando e smuovendo il terreno secco e sabbioso.

«Questo dovrebbe preoccupare il giaguaro» disse quando sostammo di nuovo per riprendere fiato. «Ci restano ancora poche ore di luce. Di notte il giaguaro è imbattibile, così faremmo meglio a cominciare a correre direttamente verso quelle alture rocciose.»

Mi indicò alcune colline, verso sud, lontane circa mezzo miglio.

«Noi dobbiamo andare verso est» affermai. «Quelle colline sono troppo a sud.

Se andiamo in quella direzione, non arriveremo mai alla macchina.»

«Oggi, comunque, alla macchina non ci arriviamo» ribatté con calma. «E forse nemmeno domani. Chi può dirci se ci arriveremo mai?»

Sentii il morso della paura, ma poi scese su di me una strana pace. Dissi a don Juan che se la morte doveva cogliermi in quella boscaglia desolata, speravo almeno fosse indolore.

«Non preoccuparti. La morte è dolorosa solo quando viene nel proprio letto, per malattia. Quando si combatte per la vita, non si sente dolore. Se si prova qualcosa, è solo esultanza.»

Disse che una delle differenze più drammatiche fra gli uomini comuni e gli stregoni stava nel modo in cui li prendeva la morte. Solo con gli stregoni-guerrieri la morte era tenera e gentile; anche se feriti gravemente, non provavano alcun dolore. E, più straordinario ancora, la morte stessa si teneva in sospeso fino a quando lo stregone ne avesse bisogno.

«La differenza maggiore fra un uomo comune e uno stregone è che uno stregone comanda la morte con la propria velocità» proseguì don Juan. «Così il giaguaro non mangerà me, mangerà te perché tu non hai la velocità per fermare la tua morte.»

Poi elucubrò sulle tortuosità delle idee di velocità e morte degli stregoni. Asserì che nel mondo della vita quotidiana la nostra parola o le nostre decisioni si possono cambiare molto facilmente. Nel nostro mondo, l'unica cosa irrevocabile è la morte.

Nel mondo della stregoneria, d'altro canto, la morte normale può essere annullata ma la parola dello stregone no. Nel mondo della stregoneria le decisioni non si possono cambiare o modificare. Una volta prese, restano immutabili in eterno.

Gli dissi che le sue dichiarazioni, benché solenni, non riuscivano a convincermi che si potesse revocare la morte, così lui mi spiegò ancora una volta quel che mi aveva spiegato prima. Disse che per un veggente gli esseri umani erano delle masse luminose oblunghe o sferiche, formate da innumerevoli campi di energia statici eppur vibranti, e che solo gli stregoni erano capaci di indurre il movimento in quelle sfere di luminosità statica. In un millisecondo potevano spostare il punto d'unione in ogni angolo della massa luminosa. Quel movimento e la velocità con cui è effettuato comportava un istantaneo spostamento nella percezione di un altro universo totalmente diverso. Oppure, potevano spostare il punto d'unione senza fermarsi, attraverso tutti i loro campi di energia luminosa. La forza creata da questo movimento era così intensa da consumare all'istante tutta intera la loro massa luminosa.

Aggiunse che se in quel preciso momento una frana fosse precipitata su di noi schiacciandoci, egli sarebbe riuscito a cancellare il normale effetto di una morte accidentale. Ma usando la velocità con cui il suo punto d'unione si muoveva di solito, avrebbe potuto cambiare universo o farsi bruciare dal profondo in una frazione di secondo. Io, dal canto mio, sarei morto di una morte normale, schiacciato dalla frana, perché il mio punto d'unione non aveva la velocità per tirarmi fuori.

Dissi che mi sembrava che gli stregoni avessero appena scoperto una maniera alternativa di morire che non equivaleva a cancellare la morte. E lui mi rispose che tutto quel che aveva detto era che gli stregoni comandavano la propria morte.

Morivano solo quando era necessario.

Benché non dubitassi di quanto stava dicendo, continuai a fargli domande, quasi come in un gioco. Ma mentre lui parlava, pensieri e ricordi disancorati di altri universi percepibili stavano formandosi nella mia mente, come su uno schermo.

Feci notare a don Juan che stavo pensando cose strane. Rise e mi raccomandò di stare accanto al giaguaro perché era così reale che poteva solo essere una vera rappresentazione dello spirito.

L'idea di quanto fosse reale quella belva mi metteva i brividi. «Non sarebbe meglio se cambiassimo direzione, invece di andare diritto verso le colline?»

domandai.

Speravo di creare una certa confusione nel giaguaro, con un cambiamento inatteso.

«E' troppo tardi per cambiare direzione» affermò don Juan. «Il giaguaro sa già che non abbiamo altro posto dove andare oltre le colline.»

«Ma non può essere vero, don Juan!» esclamai.

«Perché no?»

Risposi che, anche se potevo testimoniare l'abilità dell'animale di essere un balzo avanti a noi, non riuscivo proprio ad accettare che il giaguaro riuscisse a leggere i nostri pensieri e potesse sapere dove volevamo andare.

«Il tuo errore sta nel pensare al potere del giaguaro nei termini della tua capacità di afferrare le cose» replicò. «Lui non può pensare. Sa solamente.»

Don Juan disse che la nostra manovra di sollevare polvere era servita a confondere il giaguaro dandogli un'informazione sensoriale su qualcosa che non ci serviva. Non avremmo potuto sviluppare un vero sentimento per sollevare la polvere, anche se ne fossero dipese le nostre vite.

«Veramente, non capisco cosa stai dicendo» mi lagnai.

La tensione stava esigendo da me il suo tributo: mi era molto difficile concentrarmi.

Don Juan mi spiegò che i sentimenti umani erano come correnti di aria fredda o calda, che una bestia poteva avvertire con facilità. Noi eravamo gli emittenti, il giaguaro il ricevente. Qualsiasi sentimento provassimo, sarebbe arrivato al giaguaro.

O meglio, il giaguaro riusciva a leggere qualsiasi sentimento che avesse per noi una certa utilità. Nel caso dell'operazione di sollevare polvere, il nostro pensiero in proposito era talmente fuori dal comune che poteva solo creare il vuoto nel ricevente.

«Un'altra manovra che la conoscenza silenziosa potrebbe ordinarci, sarebbe quella di prendere a calci la terra» disse don Juan.

Mi guardò per un attimo, come se aspettasse una mia reazione.

«Adesso cammineremo con grande calma» proseguì. «E tu scalcerai la terra in aria come se fossi un gigante alto tre metri.»

Dovevo avere un'espressione molto stupida perché don Juan fu agitato da grandi risate.

«Solleva nugoli di polvere con i piedi,» mi ordinò «sentiti enorme e massiccio.»

Provai e immediatamente ebbi un senso di imponenza. In tono scherzoso osservai che il suo potere di suggestione era incredibile e mi sentivo davvero gigantesco e feroce. Mi assicurò che il mio senso delle dimensioni non era prodotto dalla suggestione ma dallo spostamento del mio punto d'unione.

Raccontò che gli uomini dell'antichità erano entrati nella leggenda perché dalla conoscenza silenziosa avevano appreso del potere che si poteva ottenere spostando il punto d'unione. In scala ridotta, gli stregoni avevano ricatturato quell'antico potere.

Muovendo il punto d'unione riuscivano a manipolare le sensazioni e a cambiare le cose. Io stavo cambiando le cose sentendomi grosso e violento. I sentimenti trattati così prendevano il nome di intento.

«Il tuo punto d'unione si è già mosso un bel po'» continuò. «Nella posizione attuale puoi perdere quanto hai acquisito o far andare il tuo punto d'unione ben oltre.»

Disse che quasi tutti gli esseri umani in condizioni di vita normali avevano avuto, chi prima chi dopo, l'opportunità di liberarsi dai vincoli delle convenzioni.

Puntualizzò che non intendeva riferirsi alle convenzioni sociali ma a quelle che limitavano le nostre percezioni. Un momento di euforia sarebbe bastato per far muovere il nostro punto d'unione e infrangere le convenzioni. E così pure un momento di paura, di malessere, d'ira o di dolore. Ma di solito, ogni volta che si aveva l'occasione di spostare il punto d'unione, si provava paura. Entrava in gioco tutto il nostro retroterra religioso, accademico e sociale, che ci avrebbe assicurato un sicuro ritorno nel gregge della normalità con il ritorno del nostro punto d'unione nella posizione richiesta dalla vita quotidiana.

Mi spiegò che tutti i maestri mistici e spirituali che io conoscevo avevano fatto così: i loro punti d'unione si erano spostati, per disciplina o per caso, fino a una certa posizione e poi erano tornati alla normalità con un ricordo che durava tutta la vita.

«Puoi essere un bravo ragazzo, molto pio,» continua «dimenticando il movimento iniziale del tuo punto d'unione. O puoi spingerti oltre i limiti della ragionevolezza. Tu sei ancora dentro questi limiti.»

Sapevo di cosa stesse parlando eppure c'era una strana esitazione in me che mi faceva vacillare.

Don Juan portò avanti le sue argomentazioni. Disse che l'uomo comune, incapace di trovare energia percettiva al di là dei limiti del quotidiano, chiamava il regno della percezione straordinaria stregoneria, magia opera del demonio, e l'evitava senza approfondire l'esame.

«Ma tu non puoi più farlo» proseguì don Juan. «Tu non sei religioso e sei troppo curioso per scartare qualcosa troppo facilmente. L'unica cosa che potrebbe fermarti sarebbe la vigliaccheria.

«Tramuta tutto in ciò che è veramente: l'astratto, lo spirito, il nagual. Non c'è stregoneria, né il male, né il diavolo. C'è solo la percezione.»

Lo capii. Ma non avrei saputo dire quello che lui voleva facessi.

Guardai don Juan, cercando di trovare le parole più adatte. Mi sembrava di essere entrato in una disposizione d'animo molto funzionale e non intendevo sprecare una sola parola.

«Sii gigantesco!» mi ordinò con un sorriso. «Liberati della ragione!»

Allora seppi con esattezza quello che voleva dire. Seppi che avrei potuto accrescere l'intensità delle mie sensazioni di misura e ferocia fino a diventare un vero gigante che dominava su tutti i cespugli e vedeva ogni cosa intorno.

Cercai di dar voce ai miei pensieri ma vi rinunciai subito. Mi accorsi che don Juan sapeva tutto quel che stavo pensando e, ovviamente, molto, molto di più.

E poi mi accadde qualcosa di straordinario. Le mie facoltà cerebrali cessarono di funzionare. Sentii come se una coperta mi avesse letteralmente avvolto, oscurando i miei pensieri. Mi liberai della ragione con l'abbandono di chi non ha un problema al mondo. Ero convinto che se volevo allontanare quella soffocante coperta non dovevo fare altro che provare la sensazione di trapassarla.

In quello stato, sentii che qualcosa mi spingeva, mi faceva andare, mi faceva spostare fisicamente da un posto all'altro. In me non c'era traccia di stanchezza. La velocità e la facilità con cui potevo muovermi mi rendevano euforico.

Non mi sembrava di camminare ma nemmeno di volare, mi sentivo piuttosto trasportato senza alcuna difficoltà. I miei movimenti diventavano meccanici e sgraziati solo quando cercavo di volger loro il mio pensiero. Quando invece me li godevo senza pensarci, entravo in un incredibile stato di euforia fisica senza precedenti. Se mai avevo avuto un esempio di quel genere di felicità fisica nella mia vita, doveva essere stato così fugace da non aver lasciato in me alcun ricordo. Eppure, provando quell'estasi, ebbi una sensazione di vago riconoscimento, come per qualcosa una volta familiare e poi dimenticata.

L'esaltazione di muovermi nel chaparral era così intensa che tutto il resto non esisteva più. Per me c'erano solo quei momenti di estrema esaltazione e poi quelli durante quali restavo immobile davanti al chaparral.

Ma ancora più inspiegabile era la sensazione di essere sospeso sopra i cespugli che avevo avuto dall'istante in cui mi avevano fatto muovere.

A un certo punto vidi nettamente la sagoma del giaguaro davanti a me. Stava correndo velocissimo. Sentii che stava cercando di evitare le spine dei cactus, faceva molta attenzione ai propri passi.

Provai un travolgente desiderio d'inseguirlo e spaventarlo fino a fargli abbandonare ogni precauzione. Sapevo che si sarebbe punto con le spine. Nella mia mente silenziosa scaturì un pensiero - pensai che il giaguaro sarebbe stato più pericoloso se irritato dalle spine. Fu come se qualcuno mi svegliasse da un sogno.

Quando m'accorsi che riuscivo di nuovo a pensare, riattivate le mie funzioni cerebrali, mi trovai ai piedi di una catena di collinette rocciose. Mi guardai intorno.

Don Juan era poco lontano: sembrava esausto, era pallido e aveva il respiro affrettato.

«Che cos'è successo, don Juan?» chiesi, dopo essermi schiarito la voce roca.

«Dimmelo tu, quel che è successo» boccheggiò affannato, tra un respiro e l'altro.

Gli dissi quel che avevo provato. Poi mi accorsi che col mio sguardo potevo scorgere direttamente la cima della montagna. C'era ancora pochissima luce, e questo voleva dire che avevo corso, o camminato, per più di due ore.

Chiesi a don Juan di spiegarmi la differenza di tempo. Mi disse che il mio punto d'unione si era spostato oltre il luogo della non pietà fino a quello della conoscenza silenziosa, ma che ancora mi mancava l'energia per manipolarlo da solo. Per far ciò avrei dovuto avere energia sufficiente per muovermi a piacere tra la ragione e la conoscenza silenziosa. Aggiunse che se uno stregone avesse avuto bisogno di spostarsi per una questione di vitale importanza, avrebbe potuto fluttuare tra la ragione e la conoscenza silenziosa.

Le sue conclusioni sul mio caso erano che, vista la serietà della situazione, avevo lasciato che lo spirito spostasse il mio punto d'unione. Come risultato, ero entrato nella conoscenza silenziosa Naturalmente, il raggio della mia percezione s'era ampliato dandomi così la sensazione dell'altezza, di sovrastare i cespugli.

A quell'epoca, per la mia esperienza accademica, ero molto interessato alla convalida per consenso. Gli posi la domanda di prammatica in quei giorni.

«Se qualcuno della facoltà di antropologia dell'UCLA fosse stato lì a guardare, mi avrebbe visto come un gigante che batteva la boscaglia?»

«Davvero non lo so» rispose don Juan. «Il modo di scoprirlo sarebbe spostare il tuo punto d'unione quando sei nella facoltà di antropologia.»

«Ho tentato. Ma non accade mai nulla. Devo per forza averti vicino perché succeda qualcosa.»

«Allora non hai mai corso un pericolo mortale» disse. «In quel caso avresti spostato il tuo punto d'unione da solo.»

«Ma la gente vedrebbe quello che vedo io quando il mio punto d'unione si muove?» insistetti.

«No, perché il loro punto d'unione non sarà nella stessa posizione del tuo»

replicò.

«Allora, don Juan, l'ho forse sognato, il giaguaro?» chiesi. «E accaduto tutto solo nella mia mente?»

«Non proprio. Quel gattone è vero. Tu hai percorso miglia e miglia e non sei nemmeno stanco. Se hai ancora dubbi, guardati le scarpe. Sono piene di spine di cactus. Così ti muovesti davvero, dominando i cespugli, e nello stesso tempo non ti muovesti. Dipende dal fatto che il punto d'unione sia nella posizione della ragione o in quella della conoscenza silenziosa.»

Capivo tutto quel che stava dicendo mentre lo diceva, ma non ne avrei saputo ripetere nulla, se avessi voluto. Né avrei potuto determinare che cosa era quel che sapevo o perché quel che lui diceva aveva tanto significato per me.

Il ringhio del giaguaro mi riportò alla realtà del pericolo incombente. Di sfuggita scorsi la massa scura del giaguaro che saliva agilmente a una trentina di metri circa da noi, sulla destra.

«Che faremo, don Juan?» domandai, sapendo che anche lui aveva visto muoversi l'animale davanti a noi.

«Continueremo a salire fino alla vetta e vi cercheremo rifugio» rispose con calma.

Poi aggiunse, come se non avesse un pensiero al mondo, che io avevo sprecato tempo prezioso indulgendo nel piacere di levarmi al di sopra dei cespugli. Invece di dirigermi verso la sicurezza delle colline che lui mi aveva indicato, io me ne ero andato verso le montagne più alte, a oriente.

«Dobbiamo raggiungere quel pendìo prima del giaguaro o non avremo scampo»

disse, indicandomi una parete quasi verticale, proprio in cima alla montagna.

Mi volsi a destra e vidi il giaguaro che balzava di roccia in roccia, decisamente cercando di venire verso di noi per tagliarci la strada.

«Andiamo, don Juan!» urlai, in preda al nervosismo.

Don Juan sorrise. Sembrava gli piacessero la mia paura, la mia impazienza. Ci muovevamo il più rapidamente possibile, continuando a salire. Io cercavo di non badare alla forma scura del giaguaro che appariva di tanto in tanto, sempre sulla destra, un po' davanti a noi.

Raggiungemmo la base del declivio tutti e tre contemporaneamente, il giaguaro una ventina di metri più a destra. Fece un balzo cercando di dare la scalata alla parete scoscesa, ma non ci riuscì. Il muro di roccia era troppo ripido.

Don Juan mi urlò di non sprecare tempo a contemplare il giaguaro perché si sarebbe lanciato su di noi non appena avesse rinunciato ai tentativi di scalata. Don Juan non aveva ancora finito di parlare che il giaguaro attaccò.

Non ci fu tempo per altri incitamenti. M'inerpicai per la parete rocciosa, seguito da don Juan. L'acuto grido dell'animale frustrato era appena sotto il tallone del mio piede destro. La forza propellente della paura mi fece volare sullo strapiombo come fossi stato una mosca.

Giunsi in vetta prima di don Juan, che stera fermato a ridere.

Al sicuro in cima allo sperone roccioso, ebbi più tempo di pensare a quel che era successo. Don Juan non volle discutere nulla. Sosteneva che a quello stadio del mio sviluppo ogni movimento del mio punto d'unione avrebbe continuato a essere un mistero. All'inizio del mio apprendistato, disse, era mio compito conservare le conquiste fatte più che cercare di spiegarmele ragionandoci sopra - a un certo punto avrei capito tutto.

Gli rivelai che avevo capito tutto in quel momento. Ma egli fu inflessibile e ripeté che dovevo riuscire a spiegare la conoscenza a me stesso prima di poter pretendere di aver capito tutto. Insisté a dirmi che per poter capire un movimento del mio punto d'unione avrei avuto bisogno di energia per fluttuare dal luogo della ragione a quello della conoscenza silenziosa.

Rimase in silenzio per un pezzo, percorrendo rapido il mio corpo con sguardo attento. Poi parve prendere una decisione, sorrise e riprese a parlare.

«Oggi hai raggiunto il luogo della conoscenza silenziosa» mi disse in tono deciso.

Mi spiegò che quel pomeriggio il mio punto d'unione si era mosso da solo, senza il mio intervento. Manipolando la mia sensazione di essere gigantesco avevo ottenuto lo spostamento usando l' intento, e facendo questo il mio punto d'unione aveva raggiunto la posizione della conoscenza silenziosa.

Ero molto curioso di sentire come avrebbe interpretato la mia esperienza don Juan. Dichiarò che un modo di parlare della percezione conquistata nel luogo della conoscenza silenziosa era chiamarla “qui e qui”. Mi spiegò che quando gli avevo detto che mi ero sentito giganteggiare sopra il chaparral desertico, avrei dovuto aggiungere che avevo visto il terreno e le cime dei cespugli nello stesso momento; oppure che ero stato contemporaneamente al mio posto e in quello del giaguaro, e così avevo potuto notare con quanta attenzione procedesse per evitare le spine di cactus. In altre parole, invece di percepire il normale qua e là, io avevo percepito “qui e qui”.

Le sue osservazioni mi fecero paura. Aveva ragione lui. Io non gli avevo menzionato, e non avevo neanche ammesso con me stesso, di essere stato in due posti contemporaneamente. Non avrei osato pensare in quei termini se non ci fossero stati quei suoi commenti.

Mi ripeté che avevo bisogno di più tempo e più energia per comprendere tutto.

Ero troppo inesperto; avevo ancora bisogno di molto controllo. Per esempio, mentre mi libravo sopra i cespugli, egli aveva dovuto far fluttuare molto rapidamente il proprio punto d'unione fra i luoghi della ragione e della conoscenza silenziosa per prendersi cura di me. Ecco perché era esausto.

«Spiegami una cosa» dissi, mettendo alla prova la sua ragionevolezza. «Quel giaguaro era più strano di quanto tu non voglia ammettere, vero? I giaguari non fanno parte della fauna di questa zona. I puma sì, ma non i giaguari. Come lo spieghi?»

Prima di rispondere si aggrottò in volto, facendosi di colpo molto serio.

«Credo che questo particolare giaguaro confermi le tue teorie antropologiche»

sostenne in tono solenne. «Ovviamente, il giaguaro stava percorrendo la famosa strada commerciale che collega Chihuahua al Centroamerica.»

Don Juan rideva così forte che le sue risate riecheggiavano per le montagne.

Quell'eco mi infastidì, come mi aveva infastidito il giaguaro. Non era l'eco in sé a darmi &stidio, ma il fatto che io non avessi mai sentito l'eco di notte. L'eco, nella mia mente, era associata solo alla luce del giorno.

Avevo impiegato parecchie ore per rammentare tutti i dettagli della mia esperienza con il giaguaro. In quel tempo don Juan non mi aveva parlato, si era semplicemente seduto appoggiandosi con la schiena contro una roccia, e si era addormentato. Dopo un po' non notai più che c'era e alla fine mi addormentai.

Mi svegliai per un dolore alla mascella. Avevo dormito con una guancia schiacciata contro una pietra. Non appena aprii gli occhi, cercai di scivolare giù dal masso su cui ero sdraiato ma persi l'equilibrio e caddi rumorosamente. Don Juan sbucò da un cespuglio in tempo per farsi una gran risata.

Si stava facendo tardi e io mi chiesi ad alta voce se saremmo riusciti a scendere a valle prima di notte. Don Juan non parve preoccuparsi. Venne a sedersi accanto a me.

Gli chiesi se volesse sentire i particolari del mio ricordo. Per lui andava bene, però non mi pose nessuna domanda. Pensai che stesse lasciando a me l'iniziativa, così gli dissi che c'erano tre punti nel mio ricordo che avevano per me un'importanza particolare. Uno, quando lui aveva parlato della conoscenza silenziosa; un altro, quando avevo fatto spostare il mio punto d'unione usando l' intento; e l'ultimo, quando ero entrato in stato di consapevolezza intensa senza richiedere un colpo fra le scapole.

«Il tuo risultato migliore è stato riuscire a muovere il punto d'unione con l' intento» disse don Juan. «Ma i risultati sono qualcosa di personale: sono necessari ma non costituiscono la parte più importante. Non è il residuo quello cui ambiscono gli stregoni.»

Credevo di sapere cosa volesse. Gli precisai che non avevo del tutto dimenticato l'avvenimento. Quel che mi era rimasto, nel mio stato di consapevolezza normale, era che un puma - poiché io rifiutavo l'idea del giaguaro - ci aveva inseguiti costringendoci a rifugiarci in vetta a una montagna e che don Juan mi aveva chiesto se mi ero sentito offeso dall'assalto del grosso felino. L'avevo assicurato che era assurdo che potessi sentirmi offeso, ed egli mi aveva detto che dovevo reagire allo stesso modo agli assalti degli uomini. Dovevo proteggermi o sparire dalla loro strada, ma senza sentirmi moralmente offeso.

«Non è questo il residuo che intendo» disse ridendo. «L'idea dell'astratto, lo spirito, è quello l'unico residuo importante. L'idea del sé personale non ha proprio nessun valore. Tu metti ancora per primo te stesso e i tuoi sentimenti personali. Ogni volta che ne ho avuto l'occasione, ti ho fatto notare il bisogno dell'astratto. Tu hai creduto sempre che io mi riferissi al pensare in modo astratto. No. Astrarsi significa rendersi disponibile allo spirito recependolo consapevolmente.»

Affermò che una delle cose più drammatiche della condizione umana è la macabra connessione fra stupidità e riflesso di sé.

Fu la stupidità a costringerci a scartare tutto quello che non fosse conforme alle attese del nostro riflesso di sé. Per esempio, come uomini comuni, non vedemmo la componente più importante della conoscenza a disposizione degli esseri umani: l'esistenza del punto d'unione e il fatto che potesse spostarsi.

«Per un uomo razionale è impensabile che ci possa essere un invisibile punto in cui converga la percezione» continuò. «E ancora più impensabile che tale punto non sia nel cervello, come ci si potrebbe vagamente aspettare se si potesse mai ammettere l'idea della sua esistenza.»

Aggiunse che il fatto che l'uomo razionale si tenesse aggrappato con tenacia all'immagine di sé ne confermava l'abissale ignoranza. Egli ignorava per esempio che la stregoneria non era incantesimi e parole magiche, ma la libertà di percepire non solo il mondo che si dava per scontato ma quant'altro ancora fosse umanamente possibile.

«Ecco dove la stupidità dell'uomo comune è più pericolosa» continuò. «Egli teme la stregoneria. Trema alla possibilità della libertà, che è lì a portata di mano. Si chiama il terzo punto, e si può raggiungere con la stessa facilità con cui si può far spostare il punto d'unione.»

«Ma tu stesso mi hai detto che far muovere il punto d'unione è così difficile da rappresentare una vera conquista» ribattei.

«Certo» mi rassicurò. «E' un'altra contraddizione degli sciamani: è difficilissimo, ma allo stesso tempo è la cosa più semplice del mondo. Ti ho già detto che una febbre alta può spostare il punto d'unione. E così la fame, la paura l'amore, l'odio e il misticismo, e anche l' intento inflessibile che è il metodo preferito dagli stregoni.»

Gli chiesi di spiegarmi di nuovo cosa fosse l' intento inflessibile. Mi disse che era una specie di facoltà di perseguire un unico scopo che hanno gli esseri umani; un'intenzione puntigliosamente ben definita e non revocata da contrastanti interessi o desideri; l' intento inflessibile era anche la forza che si generava quando il punto d'unione era mantenuto fisso in una posizione diversa dalla solita.

Don Juan fece poi una distinzione significativa - che mi era sfuggita in tutti questi anni - tra movimento e spostamento del punto d'unione. Un movimento era un profondo cambiamento di posizione, tanto radicale che il punto d'unione poteva perfino raggiungere altre fasce d'energia all'interno della nostra complessiva massa luminosa dei campi d'energia. Ogni fascia di energia rappresentava un universo completamente diverso da percepire. Invece lo spostamento era un piccolo movimento all'interno della fascia dei campi di energia che noi percepivamo come il mondo della vita di ogni giorno.

Egli continuò a dire che gli stregoni consideravano l' intento inflessibile come il catalizzatore che provocava le loro decisioni irrevocabili, o come l'opposto: le loro decisioni irrevocabili erano il catalizzatore che spingeva i loro punti d'unione nelle nuove posizioni, le quali a loro volta generavano l' intento inflessibile.

Dovevo apparire molto perplesso: don Juan rise dicendo che cercare di rendere logiche le descrizioni metafisiche degli sciamani era inutile come cercare di rendere logica la conoscenza silenziosa. Aggiunse che la difficoltà con le parole consisteva nel fatto che ogni tentativo di chiarire le descrizioni degli sciamani non faceva che renderle più confuse.

Lo sollecitai a cercare di chiarirle in qualunque modo potesse. Sostenni che qualsiasi cosa lui dicesse, per esempio sul terzo punto, l'avrebbe solo potuto chiarire, perché, sebbene io sapessi tutto in proposito, era ancora molto confuso.

«Il mondo della vita di ogni giorno consiste di due punti di riferimento» precisò.

«Per esempio noi abbiamo qua e là, dentro e fuori, sopra e sotto, buono e cattivo, eccetera eccetera. Così, a rigore, la nostra percezione delle nostre vite è bidimensionale. Nulla di quanto percepiamo delle nostre azioni ha qualche profondità.»

Protestai dicendo che stava mescolando livelli. Gli dissi che potevo accettare la sua definizione della percezione come la capacità degli esseri umani di comprendere con i propri sensi campi di energia scelti dai propri punti d'unione - una definizione molto "tirata" per i miei standard accademici, ma che al momento mi sembrava valida. Tuttavia non riuscivo a immaginare quale potesse essere la profondità di quello che noi facevamo. Sostenevo che era possibile che lui parlasse di interpretazioni-elaborazioni delle nostre percezioni fondamentali.

«Uno stregone percepisce le proprie azioni con profondità» disse. «Le sue azioni sono tridimensionali, per lui. Hanno un terzo punto di riferimento.»

«Come può esistere un terzo punto di riferimento?» chiesi con una sfumatura d'irritazione.

«I nostri punti di riferimento sono ottenuti soprattutto dal nostro senso della percezione. I nostri sensi percepiscono e differenziano quel che per noi è immediato da quello che non lo é. Usando quella distinzione fondamentale, deduciamo il resto.

«Per raggiungere il terzo punto di riferimento dobbiamo percepire due luoghi in una sola volta.»

Il mio richiamare alla memoria mi aveva provocato uno strano stato d'animo -

come se avessi vissuto quell'esperienza solo qualche minuto prima. Fui improvvisamente consapevole di qualcosa che non avevo notato in precedenza. Sotto la supervisione di don Juan, avevo sperimentato già due volte quella percezione divisa, ma questa era la prima volta che c'ero riuscito da solo.

Pensando a quel mio rammentare mi resi conto anche che la mia esperienza sensoriale era più complessa di quanto non avessi creduto prima. Nel periodo di tempo in cui avevo giganteggiato librandomi sulla boscaglia ero stato conscio - sia pure senza parole o pensieri - che l'essere in due luoghi, o “qui e qui” come aveva detto don Juan, rendeva la mia percezione immediata e completa in tutti e due i luoghi. Ma ero anche stato conscio che la mia doppia percezione non aveva la chiarezza totale della mia percezione normale.

Don Juan mi spiegò che la percezione normale aveva un asse. “Qui e là” erano le zone esterne di quell'asse, e noi eravamo parziali quanto alla chiarezza del “qui”.

Disse che nella percezione normale, solo “qui” si percepiva all'istante e in modo diretto e completo. Il suo termine di riferimento gemello, “là”, mancava di immediatezza. Era arguito, dedotto, previsto, perEmo presunto, ma non appreso direttamente con tutti i sensi. Quando noi percepivamo due luoghi contemporaneamente si perdeva la chiarezza totale ma si guadagnava la percezione immediata del “là”.

«Ma allora, don Juan, avevo ragione a descrivere la percezione come la parte più importante della mia esperienza» esclamai.

«No, avevi torto» fece lui. «Quel che tu provasti fu vitale per te perché ti aprì la strada verso la conoscenza silenziosa, ma la cosa più importante fu il giaguaro. Quel giaguaro fu, in verità, una manifestazione dello spirito.

«Quel gattone sbucò dal nulla, inosservato. E avrebbe potuto farci fuori senza problemi. Quel giaguaro era espressione di magia. Senza di lui non ci sarebbe stata l'euforia, la lezione, la comprensione.»

«Ma era un giaguaro vero?» chiesi.

«Certo, in carne e ossa!»

Don Juan osservò che per un uomo comune il grosso felino avrebbe rappresentato una stranezza terrificante. Un uomo comune sarebbe stato in difficoltà per spiegare in termini razionali cosa ci faceva un giaguaro a Chihuahua, tanto lontano dalla giungla tropicale. Ma uno stregone, grazie al suo anello di collegamento con l' intento, vedeva il giaguaro come un mezzo verso la percezione - non una stranezza, ma fonte di rispetto e timore reverenziale.

C'erano molte cose che volevo chiedergli, e tuttavia conoscevo le risposte prima ancora di articolare le domande. Seguii per un po' il filo delle mie stesse domande e risposte, finché non mi accorsi che non importava che conoscessi silenziosamente le risposte; per avere valore, le risposte dovevano essere espresse con parole.

Feci la prima domanda che mi venne in mente: chiesi a don Juan di spiegarmi quella che sembrava una contraddizione. Egli aveva asserito che solo lo spirito poteva muovere il punto d'unione. Ma dopo aver detto che i miei sentimenti, trasformati in intento, avevano mosso il mio punto d'unione.

«Solo gli stregoni possono trasformare i propri sentimenti in intento» disse.

«L' intento è lo spirito, così è lo spirito che muove i punti d'unione.

«La parte fuorviante di tutto questo è che io sto dicendo che solo gli stregoni sanno dello spirito, che l'intento è dominio esclusivo degli stregoni. Ciò non è vero affatto, ma è la situazione nel regno della normalità. La condizione vera è che gli stregoni sono più consapevoli dell'uomo comune del loro legame con lo spirito e cercano di manipolarlo. Questo è tutto. Te l'ho già detto, l'anello di collegamento con l' intento è la caratteristica universale condivisa da tutto ciò che esiste.»

Due o tre volte don Juan sembrò sul punto di aggiungere qualcosa. Esitò, apparentemente cercando di scegliere le parole. Alla fine spiegò che essere in due posti contemporaneamente era una pietra miliare che gli stregoni usavano per segnare il momento in cui il punto d'unione raggiungeva il luogo della conoscenza silenziosa.

Il movimento libero del punto d'unione, se ottenuto con mezzi propri, era chiamato percezione divisa.

Egli mi assicurò che, coerentemente, ogni nagual faceva tutto quanto in suo potere per incoraggiare il movimento libero dei punti d'unione dei suoi apprendisti.

Questo sforzo totale era enigmaticamente denominato “allungarsi fino a raggiungere il terzo punto”.

«L'aspetto più difficile della conoscenza del nagual» proseguì don Juan «e certo la parte cruciale del suo compito, è quella di allungarsi fino a raggiungere il terzo punto. Il nagual usa l' intento per il movimento libero, e lo spirito offre al nagual i mezzi per realizzarlo. Non mi sono mai servito dell' intento per cose del genere finché non sei arrivato tu. Per questo non avevo mai apprezzato pienamente il ciclopico sforzo del mio benefattore quando aveva usato l' intento per me.

«Per quanto sia difficile per un nagual servirsi dell' intento per il movimento libero dei suoi apprendisti» continuò don Juan «non è nulla a paragone della difficoltà che essi incontrano per capire quello che fa il nagual. Considera la fatica che fai tu!

La stessa cosa accadde a me. Per lo più, io finivo col credere che gli scherzi dello spirito fossero semplicemente opera del nagual Julian!

«Più tardi mi resi conto che dovevo a lui la vita e tutto il mio benessere. Ora so che gli debbo molto di più. Poiché non posso neanche cominciare a descrivere quello che veramente gli devo, preferisco dire che mi rigirò fino a quando non ebbi un terzo punto di riferimento.

«Il terzo punto di riferimento è la libertà di percezione; è l' intento; è lo spirito; il balzo del pensiero nel miracoloso; l'atto di allungarsi oltre i nostri limiti raggiungendo l'inconcepibile.»

I due ponti a direzione obbligata

Don Juan e io eravamo seduti al tavolo della sua cucina. Era mattina presto.

Eravamo appena ritornati dalla montagna, dove avevamo passato la notte dopo che io avevo richiamato alla mente la mia esperienza con il giaguaro. Rammentare la mia percezione divisa mi aveva messo in uno stato di euforia che don Juan aveva usato, come al solito, per farmi sprofondare in ulteriori esperienze sensoriali che ora non riuscivo a ricordare. La mia euforia, comunque, non si era spenta.

«Scoprire la possibilità di essere in due luoghi allo stesso tempo è molto stimolante per la nostra mente» disse. «Poiché la nostra mente è la nostra razionalità, e la nostra razionalità il nostro riflesso di sé, tutto quello che va oltre il nostro riflesso di sé ci ripugna o ci affascina, a seconda di che tipo di persona siamo.»

Mi guardò fisso e poi sorrise, come se avesse appena scoperto qualcosa di nuovo.

«Oppure ci ripugna e ci affascina in egual misura» aggiunse «e questo sembra essere il caso di noi due.»

Gli spiegai che per me non si trattava di ripugnanza o attrazione per la mia esperienza, ma del terrore per l'ampiezza delle possibilità della percezione divisa.

«Non dico di non credere di essermi trovato in due posti diversi contemporaneamente» dissi. «Non posso negare la mia esperienza, eppure credo di esserne così terrorizzato che la mia mente rifiuta di accettarlo come fatto.»

«Tu e io siamo il tipo di persona che è ossessionato da cose del genere e poi dimentica tutto sull'argomento» osservò ridendo. «Tu e io siamo proprio molto simili.»

Adesso ero io a ridere. Sapevo che stava prendendomi in giro, eppure dal suo aspetto emanava una tale sincerità che volli credere dicesse il vero.

Gli dissi che tra i suoi discepoli ero l'unico ad aver imparato a non prendere troppo sul serio le sue dichiarazioni di eguaglianza con noi. L'avevo visto in azione, e gli avevo sentito esclamare nel tono più sincero a ciascuno degli apprendisti: «Tu e io siamo così stupidi. Ci somigliamo tanto!». E io ero rimasto ogni volta sconcertato, rendendomi conto che tutti gli credevano.

«Tu non sei come nessuno di noi, don Juan. Tu sei uno specchio che non riflette le nostre immagini. Tu sei oltre la nostra portata.»

«Ciò di cui sei testimone é il risultato di una battaglia di tutta una vita» disse.

«Quello che vedi è uno stregone che ha finalmente appreso a seguire i piani dello spirito, ma questo è tutto.

«Ti ho descritto in molti modi i diversi stadi attraverso cui passa il guerriero lungo la via della conoscenza» proseguì. «Per il suo collegamento con l' intento un guerriero attraversa quattro stadi. Il primo è quando ha un anello arrugginito, inaffidabile con l' intento. Il secondo è quando riesce a pulirlo. Il terzo è quando riesce a manipolarlo, e il quarto quando riesce ad accettare i piani dell'astratto.»

Don Juan insisteva a dire che i risultati da lui ottenuti non lo rendevano intrinsecamente diverso. Accrescevano solo le sue risorse: così non faceva battute quando diceva a me o agli altri apprendisti di essere proprio come noi.

«Capisco esattamente quel che stai passando» continuò. «Quando rido di te, in realtà rido al ricordo di me nelle tue condizioni. Anch'io mi aggrappavo al mondo della vita di ogni giorno, mi aggrappavo con le unghie e con i denti. Tutto mi diceva di lasciarmi andare, ma io non ce la facevo. Proprio come te, implicitamente mi fidavo della mia mente e non avevo alcuna ragione per farlo. Non ero più un uomo comune.

«Il mio problema di allora è il tuo problema d'oggi. L'impeto del mondo d'ogni giorno mi trasportò e io continuai ad agire come un uomo comune. Rimasi disperatamente attaccato alle fragili strutture razionali. Non fare lo stesso.»

«Io non mi attacco a nessuna struttura, sono loro che si attaccano a me» dissi, e la mia frase lo fece ridere.

Replicai che lo capivo perfettamente ma che, per quanto ci provassi con tutte le mie forze, non riuscivo ad andare avanti come uno stregone avrebbe dovuto.

Osservò che il mio svantaggio nel mondo della stregoneria dipendeva dalla poca familiarità che ne avevo. In quel mondo dovevo rapportarmi con ogni cosa in un mondo nuovo, che era infinitamente più difficile perché aveva pochissimo a che fare con la mia continuità della vita di ogni giorno.

Per lui i problemi specifici degli stregoni erano due: uno, l'impossibilità di ristabilire una continuità interrotta, l'altro l'impossibilità di usare la continuità dettata dalla nuova posizione dei loro punti d'unione. La nuova continuità è sempre troppo tenue, troppo instabile, e non offre agli stregoni la sicurezza di cui hanno bisogno per funzionare come se fossero nel mondo della vita d'ogni giorno.

«Come risolvono questo problema gli stregoni?» chiesi.

«Nessuno di noi risolve nulla» rispose. «O lo risolve lo spirito per noi, o non lo risolve affatto. Se lo risolve, uno stregone si ritrova ad agire nel mondo della stregoneria, ma senza sapere come. E' questo il motivo per cui ho insistito con te dal primo giorno che l'impeccabilità è tutto quel che conta. Uno stregone vive una vita impeccabile e ciò sembra attirare la soluzione. Perché? Non lo sa nessuno.»

Don Juan restò in silenzio per un attimo. Poi, come se glielo avessi espresso a parole, fece un'osservazione su qualcosa che stavo pensando. Pensavo che l'impeccabilità mi faceva sempre venire in mente la moralità religiosa.

«L'impeccabilità, come ti ho detto tante e tante volte, non è la moralità» disse.

«Le assomiglia soltanto. L'impeccabilità è semplicemente il miglior uso del nostro livello di energia. Certo, esige frugalità, sollecitudine, semplicità, innocenza; e, soprattutto, esige mancanza del riflesso di sé. Tutto questo sembra un manuale di vita monastica, ma non lo é.

«Gli stregoni dicono che per comandare lo spirito, e con questo intendo comandare il movimento del punto d'unione, c'è bisogno di energia. L'unica a conservare energia per noi è la nostra impeccabilità.»

Don Juan rilevò che non occorre essere studiosi di stregoneria per muovere il proprio punto d'unione. Talvolta, per circostanze naturali anche se drammatiche, come guerra, privazioni, stress, fatica, dolore, impotenza, i punti d'unione degli uomini subiscono movimenti profondi. Se gli uomini che si trovano in circostanze simili fossero capaci di adottare l'ideologia di uno stregone riuscirebbero a massimizzare il movimento naturale senza problemi. E cercherebbero e troverebbero cose straordinarie, invece di fare ciò che fanno gli uomini in tali circostanze: desiderare spasmodicamente il ritorno alla normalità.

«Quando un movimento del punto d'unione è massimizzato» continuò ««sia l'uomo comune sia l'apprendista di stregoneria diventano stregoni, perché massimizzando quel movimento la continuità è irreparabilmente spezzata.»

«Come si porta al massimo quel movimento? chiesi.

«Riducendo il riflesso di sé» rispose. «La vera difficoltà non è muovere il punto d'unione o spezzare la propria continuità. La vera difficoltà è avere energia. Se si ha energia, una volta mosso il punto di unione, non si ha più alcuna difficoltà, neanche con l'inconcepibile.»

Don Juan mi spiegò che il guaio dell'uomo è che egli intuisce le proprie risorse nascoste ma non osa utilizzarle. E' questa la ragione per cui gli stregoni dicono che la condizione dell'uomo è un contrappunto fra la sua stupidità e la sua ignoranza. Disse che l'uomo ha bisogno, ora più che mai, che gli insegnino nuove idee che hanno a che fare esclusivamente con il suo mondo interiore - idee di stregoneria, non idee sul sociale; idee riguardanti l'uomo di fronte all'ignoto, di fronte alla morte. Ora, più di qualsiasi altra cosa, egli ha bisogno che gli si insegnino i segreti del punto d'unione.

Senza perdersi in preliminari e senza indugiare in pensieri, don Juan allora prese a raccontarmi una storia di stregoneria. Per un anno intero era stato l'unica persona giovane nella casa del nagual Julian. Era così completamente egocentrico da non notare neanche che all'inizio del suo secondo anno il benefattore aveva portato a vivere nella casa tre giovanotti e quattro giovani donne. Per quel che concerneva don Juan, quelle sette persone, arrivate una alla volta nell'arco di due o tre mesi, erano semplicemente dei servitori e non avevano nessuna importanza. Uno dei giovanotti fu persino nominato suo assistente.

Don Juan era convinto che il nagual Julian li avesse attirati con qualche lusinga, inducendoli a lavorare per lui senza alcun salario. Gli avrebbero fatto pena, non fosse stato per la fiducia cieca che avevano nel nagual Julian e per quel malsano attaccamento che provavano per qualsiasi persona o cosa di quella casa.

Gli sembrava che fossero degli schiavi e che egli non avesse nulla da dire loro.

Tuttavia fu costretto a coltivarne l'amicizia e a dar loro consigli, non perché lo desiderasse ma perché lo pretese il nagual come parte del suo lavoro. Quando si rivolsero a lui per consigli, fu inorridito dalla cruda drammaticità delle loro esistenze.

Si congratulò con se stesso segretamente perché stava meglio di loro. Si sentiva davvero più intelligente di tutti loro messi insieme. Si vantava di riuscire a leggere attraverso le manovre del nagual, anche se non poteva ancora pretendere di capire.

Rideva quando quelli tentavano di rendersi utili. Li considerava servili e diceva loro apertamente che erano sfruttati senza pietà da un esperto tiranno.

Ma ciò che lo faceva andare su tutte le furie era che tutte e quattro le ragazze avevano una tremenda passione per il nagual Julian e si sarebbero fatte in quattro per fargli piacere. Don Juan cercava conforto nel lavoro e vi si immergeva per dimenticare le sue ire, oppure leggeva per ore filate i libri che il nagual Julian aveva in casa. Leggere divenne la sua passione. Quando leggeva, tutti sapevano che non dovevano disturbarlo, tranne il nagual Julian, che sembrava provar gusto a non lasciarlo mai in pace. Continuava a insistere perché don Juan facesse amicizia con i giovani e le ragazze. Gli diceva che tutti, don Juan compreso, erano suoi apprendisti stregoni. Don Juan era convinto che il nagual Julian non sapesse nulla di magia, ma gli dava corda assecondandolo, e ascoltandolo senza mai credergli.

Il nagual Julian non era affatto turbato dalla mancanza di fiducia di don Juan.

Egli si comportava proprio come se don Juan gli credesse e riuniva tutti gli apprendisti insieme per impartire le sue lezioni. Periodicamente li portava tutti sulle vicine montagne a fare escursioni che duravano tutta la notte. Durante quasi tutte queste escursioni, il nagual li lasciava soli e abbandonati su quelle aspre montagne, affidandoli a don Juan.

La base logica per quelle gite era che nella solitudine e nella desolazione avrebbero scoperto lo spirito. Ma non lo scoprirono mai, almeno non in un modo che don Juan potesse capire. Tuttavia il nagual Julian insisteva così tanto sull'importanza di conoscere lo spirito che don Juan aveva l'ossessione di sapere cosa fosse lo spirito.

Durante una di quelle escursioni notturne, il nagual Julian spinse don Juan a inseguire lo spirito, anche senza comprenderlo.

«Logico, intendeva l'unica cosa cui potesse riferirsi un nagual: il movimento del punto d'unione» disse don Juan. «Ma usò le parole in un modo che, secondo lui, avrebbero avuto un senso per me: insegui lo spirito!

«Pensai che stesse dicendo sciocchezze. A quel tempo avevo già formato le mie opinioni e credenze ed ero convinto che lo spirito fosse ciò che va sotto il nome di carattere, volontà, fegato, forza. E credevo di non dover andarne in cerca, poiché avevo già tutto.

«Il nagual insisteva che lo spirito era indefinibile, che non si poteva neanche sentirlo e tanto meno parlarne. Si poteva solo cercare di attirarlo, riconoscendone l'esistenza. Io ribattei con parole molto simili alle tue: non si può allettare qualcosa che non esiste.»

Don Juan disse che aveva discusso così a lungo con il nagual che questi alla fine gli aveva promesso di fronte a tutti gli abitanti della casa che in un unico colpo gli avrebbe mostrato non solo cos'era lo spirito, ma come definirlo. Gli aveva anche promesso di organizzare una festa grandiosa, invitando anche i vicini, per celebrare la lezione di don Juan.

Don Juan ricordava che in quei giorni precedenti la Rivoluzione messicana il nagual Julian e le sette donne del suo gruppo si spacciavano per i ricchi proprietari di una grande hacienda. Nessuno dubitò mai di quell'immagine, specie di quella del nagual Julian, un ricco e piacente proprietario terriero che aveva messo in disparte la propria seria determinazione a intraprendere la carriera ecclesiastica per prendersi cura delle sette sorelle zitelle.

Un giorno, nella stagione delle piogge, il nagual Julian annunciò che, non appena le precipitazioni fossero cessate, avrebbe organizzato la grande festa che aveva promesso a don Juan. Una domenica pomeriggio portò tutti quelli di casa sulle rive del fiume in piena per le pesanti piogge. Il nagual Julian era in sella al suo cavallo, mentre don Juan gli stava rispettosamente dietro, come d'abitudine, nel caso che incontrassero qualcuno dei vicini; per quel che loro sapevano, don Juan era il cameriere personale del padrone.

Per il picnic, il nagual scelse un posto situato su un'altura lungo le rive del fiume. Le donne avevano preparato cibo e bevande, e il nagual aveva perfino fatto venire un gruppo di musicisti dalla città. Era una grande festa che includeva i peones dell'hacienda, i vicini e anche quelli che, trovandosi a passare di là, si erano avvicinati per unirsi al divertimento.

Tutti mangiarono e bevvero a sazietà. Il nagual ballò con tutte, cantò e recitò poesie. Raccontò barzellette e, con l'aiuto di alcune ragazze, allestì scenette comiche che divertirono tutti.

A un dato momento il nagual Julian chiese se qualcuno dei presenti, specie tra gli apprendisti, volesse condividere la lezione di don Juan. Tutti dissero di no, ben consapevoli delle dure tattiche del nagual. Allora egli chiese a don Juan se fosse ben sicuro di voler scoprire quel che era lo spirito.

Don Juan non poté dire di no. Non poté proprio tirarsi indietro. Dichiarò di essere pronto come non mai. IL nagual lo guidò fino all'argine del fiume ribollente e lo fece inginocchiare. Poi cominciò un lungo incantesimo nel quale invocava il potere del vento e delle montagne e chiedeva al potere del fiume di consigliare don Juan.

Il suo incantesimo, benché significativo, aveva espressioni così irriverenti da suscitare l'ilarità generale. Quando ebbe finito, egli chiese a don Juan di alzarsi a occhi chiusi. Poi lo prese in braccio come fosse un bambino, e lo scaraventò nelle acque impetuose, urlando: «Per amor di Dio, non odiare il fiume!».

Raccontare l'incidente provocò in don Juan risate a crepapelle. Forse in altre circostanze l'avrei trovato comico anch'io. Stavolta invece la storia mi scombussolò moltissimo.

«Avreste dovuto vedere le facce di quelle persone» continuò don Juan.

«Intravidi fuggevolmente il loro sbigottimento mentre volavo in aria verso il fiume.

Nessuno aveva previsto che quel diabolico nagual avrebbe fatto una cosa del genere.»

Don Juan disse che aveva pensato di essere giunto alla fine dei suoi giorni. Non era un buon nuotatore, e mentre precipitava sul fondo del fiume imprecò contro se stesso per aver permesso che si verificasse tutto ciò. Era così rabbioso che non ebbe il tempo di avere paura. Tutto quello a cui poteva pensare era la sua decisione di non farsi fregare in quel fottuto fiume da quel fottuto individuo.

Toccò il fondo con i piedi e si diede una spinta all'insù. Non era un fiume profondo, ma la piena l'aveva allargato moltissimo. La corrente era rapida e lo trascinava con sé mentre lui resisteva nuotando, cercando di non farsi sommergere dalle acque impetuose.

La corrente lo trascinò per un pezzo. Mentre veniva trascinato e faceva ogni sforzo per non soccombere, entrò in uno stato d'animo strano. Conosceva il proprio difetto: era molto irascibile e la sua ira repressa gli faceva odiare chiunque gli fosse intorno. Ma non poteva odiare il fiume, né mostrare impazienza o preoccuparsi, come faceva di solito con tutto e con tutti. Tutto quello che poteva fare era seguire la corrente.

Don Juan sosteneva che già quella constatazione e l'acquiescenza da essa provocata aveva capovolto la situazione e lui sperimentò un movimento libero del suo punto d'unione. D'improvviso, senza essere per nulla consapevole di quanto accadeva, invece di essere travolto dalle acque vorticose, don Juan si sentì correre lungo la riva. Stava correndo così veloce che non aveva tempo di pensare. Una forza tremenda lo tirava, facendogli superare massi e tronchi caduti come se non ci fossero.

Dopo aver corso così alla disperata per un bel po', don Juan osò dare un rapido sguardo alle impetuose acque rossastre e si vide trascinato con violenza a testa in giù dalla corrente. Nulla della sua esperienza precedente l'aveva preparato a un momento simile. Seppe allora, senza coinvolgere i processi mentali, di essere in due posti nello stesso tempo. E in uno di questi, le rapide del fiume, era debole e impotente.

Ogni sua energia si concentrò nel cercare di salvarsi.

Senza pensarci, cominciò a muoversi obliquamente dall'argine. Ci vollero forza e determinazione per avanzare un centimetro alla volta. Gli sembrava di star trascinando un albero. Andava così adagio che gli ci volle un'eternità per fare pochi metri.

Lo sforzo fu troppo, per lui. Di colpo non stava più correndo, ma precipitando in un pozzo profondo. Quando arrivò giù nell'acqua, la temperatura gelida lo fece urlare.

E si trovò di nuovo nel fiume, trascinato dalla corrente. Il suo terrore nel ritrovarsi nelle acque tumultuose fu così intenso che riusciva solo a desiderare con tutte le forze di essere sulla riva, al sicuro. E immediatamente fu di nuovo lì che correva a rotta di collo, parallelo al fiume anche se a una certa distanza.

Mentre correva, guardò le acque turbinose e vide se stesso che lottava per restare a galla. Voleva urlare un ordine, voleva comandare a se stesso di nuotare in diagonale, ma non aveva voce. La sua angoscia per quella parte di sé che era nell'acqua lo opprimeva. Gli faceva da ponte fra i due Juan Matus. Si ritrovò all'istante ancora una volta in acqua, a nuotare obliquamente verso la riva.

L'incredibile sensazione di alternarsi fra due luoghi fu sufficiente a sradicare la sua paura. Non gli importava più del suo destino. Alternava liberamente nuotare nel fiume a correre sull'argine. Ma qualsiasi cosa facesse, si spostava costantemente sulla sinistra, correndo via dal fiume o nuotando verso la riva sinistra.

Circa cinque miglia più a valle uscì dal fiume, sulla riva sinistra. Dovette aspettare li, riparandosi fra i cespugli, per più di una settimana. Aspettava che le acque si abbassassero in modo da poter passare a guado dall'altra parte, ma aspettava anche che si placasse la sua paura in modo da poter riprendere la propria interezza.

Don Juan accennò che la forte e prolungata emozione di lottare per la vita aveva fatto sì che il suo punto d'unione si muovesse diritto fino al luogo della conoscenza silenziosa. Poiché non aveva mai fatto attenzione a quel che il nagual Julian gli aveva detto sul punto d'unione, egli non aveva alcuna idea su cosa gli stesse capitando. Era terrorizzato al pensiero di non ritornare più normale. Ma mentre esplorava la sua percezione divisa, ne scoprì il lato pratico e gli piacque. Rimase doppio per giorni.

Poteva essere completamente l'uno o l'altro, o tutti e due nello stesso tempo. Quando era entrambi, tutto diventava sfocato e nessuna delle due creature era reale, così lasciò perdere quell'alternativa. Ma il poter essere l'uno o l'altro gli aprì inconcepibili possibilità.

Mentre si rimetteva fra i cespugli, appurò che una della sue nature era più flessibile dell'altra e poteva percorrere grandi distanze in un batter d'occhio, e trovare da mangiare o un ottimo angolo per nascondersi. Fu questa creatura che andò una volta a casa del nagual per vedere se si stavano preoccupando per la sua sorte.

Sentì che i giovani piangevano per lui e la cosa lo sorprese. Avrebbe continuato a guardarli all'infinito, poiché gli piaceva l'idea di scoprire quel che pensavano di lui, ma il nagual Julian lo colse in flagrante e lo fece smettere.

Fu quella l'unica volta in cui ebbe davvero paura del nagual. Don Juan sentì che gli ordinava di piantarla con quell'idiozia. Gli apparve all'improvviso, sotto forma di un enorme oggetto a forma di campana, pesantissimo e fortissimo, nero come la pece, che lo afferrò. Don Juan non sapeva che fosse il nagual ad afferrarlo, ma si sentì malissimo. Provava acute fitte nervose allo stomaco e all'inguine.

«Mi ritrovai subito seduto sull'argine» disse don Juan ridendo.

«Mi alzai, guadai il fiume da poco tornato alla normalità e mi avviai verso casa.»

Fece una pausa, chiedendomi poi cosa pensassi della sua storia. Gli risposi che mi aveva fatto un'impressione enorme.

«Avresti potuto annegare, in quel fiume!» dissi, quasi urlando. «Che brutalità, farti una cosa del genere! Il nagual Julian doveva essere pazzo!»

«Aspetta un attimo» protestò don Juan. ««Il nagual Julian era diabolico, ma non pazzo. Fece quel che doveva fare nel suo ruolo di nagual e maestro. E' vero che avrei potuto morire, ma è un rischio che dobbiamo correre tutti. Anche tu avresti potuto facilmente finire divorato dal giaguaro o morire per una qualsiasi delle cose che ti ho fatto fare. Il nagual Julian era coraggioso e autorevole e affrontava tutto direttamente.

Con lui non si girava intorno a un argomento, si parlava con franchezza, senza mezzi termini.»

Insistetti che, per quanto preziosa potesse essere una lezione, mi sembrava che i metodi del nagual Julian fossero comunque eccessivi e bizzarri. Dovetti ammettere con don Juan che tutto quel che avevo sentito sul nagual Julian mi aveva dato talmente fastidio che mi ero fatto di lui un'idea molto negativa.

«Penso che tu abbia paura che uno di questi giorni io ti scaraventi nel fiume o ti faccia indossare abiti da donna» affermò, cominciando a ridere. «Ecco perché tu non approvi l'operato del nagual Julian.»

Riconobbi che aveva ragione ed egli mi assicurò di non avere nessuna intenzione di imitare i metodi del suo benefattore perché non erano adatti a lui, in quanto era sicuramente spietato come il nagual Julian, ma non altrettanto pratico.

«A quell'epoca» continuò don Juan «io non apprezzavo la sua arte e certo non gradivo quel che mi faceva, ma adesso ogni volta che ci penso lo ammiro sempre di più per il modo eccezionale e diretto con cui mi piazzò nella posizione della conoscenza silenziosa.»

Don Juan disse che per l'enormità di quanto aveva appena passato aveva dimenticato completamente il mostro. Aveva camminato da solo fin quasi alla soglia della casa del nagual Julian, ma poi aveva cambiato idea e si era recato invece dal nagual Elìas a cercar conforto. E fu il nagual Elìas a spiegargli la profonda consistenza delle azioni del nagual Julian.

Il nagual Elìas aveva contenuto a stento la propria emozione nel sentire il racconto di don Juan. In tono entusiastico aveva spiegato a don Juan che il suo benefattore era grande maestro nell'arte dell' agguato, sempre a caccia di praticità, nella ricerca continua di visioni e soluzioni pragmatiche. Il suo comportamento quel giorno giù al fiume era stato un capolavoro dell' agguato. Aveva manipolato e coinvolto tutti. Perfino il fiume sembrava ai suoi ordini.

Il nagual Elìas sosteneva che, mentre don Juan era trascinato dalla corrente e lottava contro la morte, il fiume lo aveva aiutato a capire cos'era lo spirito. Grazie a quella comprensione, don Juan ebbe l'opportunità di entrare direttamente nella conoscenza silenziosa.

Don Juan disse che, essendo un giovane inesperto, aveva ascoltato il nagual Elìas senza capire una parola, ma era stato vinto da sincera ammirazione per l'intensità del nagual.

Per prima cosa, il nagual Elìas aveva spiegato a don Juan che nell' agguato il suono e il significato delle parole avevano una grandissima importanza. Le parole erano le chiavi che i maestri dell' agguato usavano per aprire tutto ciò che era chiuso e per questo dovevano dichiarare i loro scopi prima di tentare di ottenerli. Ma non potevano rivelare i loro fini reali all'inizio e quindi dovevano usare attentamente le parole per nascondere l'azione principale.

Il nagual Elìas chiamava quest'azione svegliare l' intento. Spiegò a don Juan che il nagual Julian aveva svegliato l' intento affermando davanti a tutti quelli di casa che avrebbe fatto vedere a don Juan, in un colpo solo, cos'era lo spirito e come definirlo.

Ciò era una vera assurdità, in quanto il nagual Julian sapeva che non c'era modo di definire lo spirito. In realtà, quel che stava cercando di fare era mettere don Juan nella posizione della conoscenza silenziosa.

Dopo aver fatto quella dichiarazione che celava il suo vero proposito, il nagual Julian adunò quante più persone riuscì, facendone cosi suoi consapevoli o inconsapevoli complici. Tutti conoscevano la sua mira dichiarata, ma nemmeno uno sapeva quel che aveva realmente in animo di fare.

La convinzione del nagual Elìas di riuscire a scuotere don Juan da quella impossibile posizione di ribellione e indifferenza totali era completamente sbagliata.

Eppure, con pazienza, il nagual Elìas continuò a spiegargli che, mentre aveva lottato contro la corrente del fiume, aveva raggiunto il terzo punto.

Il vecchio nagual spiegò che la posizione della conoscenza silenziosa si chiamava terzo punto perché, per arrivarci, si doveva passare dal secondo punto, il luogo della non pietà.

Il punto d'unione di don Juan aveva acquistato la fluidità sufficiente a farlo sdoppiare, permettendogli di essere sia nel luogo della ragione sia in quello della conoscenza silenziosa, alternativamente o allo stesso tempo.

Il nagual precisò a don Juan che aveva ottenuto un magnifico risultato e lo abbracciò come fosse un bambino. Non riusciva a smettere di parlare del modo in cui don Juan - nonostante non sapesse nulla - o forse proprio perché non sapeva nulla -

aveva trasferito la sua energia totale da un posto all'altro. Per il nagual questo significava che il punto d'unione aveva una fluidità naturale, estremamente favorevole.

Disse a don Juan che ogni essere umano aveva la capacità di produrre quella fluidità, tuttavia la maggior parte la immagazzinava e non la usava mai, tranne nelle rare occasioni provocate dagli stessi stregoni, come l'esperienza che lui aveva appena fatto, o in drammatiche circostanze naturali come una lotta fra la vita e la morte.

Don Juan ascoltava, ipnotizzato dal suono della voce del vecchio nagual.

Quando stava attento riusciva a seguire tutto quello che egli diceva, come non era mai riuscito a fare con il nagual Julian.

Il vecchio nagual continuò a spiegargli che l'umanità era al primo punto, la ragione, ma che non tutti i punti d'unione di tutti gli esseri umani erano esattamente sulla posizione della ragione. Coloro che si trovavano in quella esatta posizione erano i veri capi dell'umanità. Il più delle volte si trattava di sconosciuti il cui talento era l'esercizio della ragione.

Il nagual aggiunse che c'era stato un altro periodo in cui l'umanità s’era trovata al terzo punto, che, naturalmente, allora era il primo. Ma, dopo, l'umanità stera spostata al luogo della ragione.

Quando la conoscenza silenziosa era stata il primo punto, aveva prevalso quella condizione. Neanche allora i punti d'unione di tutti si erano trovati in quella posizione. Ciò significava che i veri capi dell'umanità erano stati sempre quegli esseri umani il cui punto d'unione si trovava al punto esatto della ragione o della conoscenza silenziosa. Il vecchio nagual disse a don Juan che il resto dell'umanità faceva solo da pubblico. Ai giorni nostri, erano coloro che amavano la ragione. Nel passato, erano stati quelli che avevano prediletto la conoscenza silenziosa, che avevano ammirato e cantato odi agli eroi di tuttte due le posizioni.

Il nagual dichiarò che l'umanità aveva trascorso la maggior parte della sua storia nella posizione della conoscenza silenziosa, e che questo spiegava il nostro intenso desiderio.

Don Juan chiese al vecchio nagual che cosa stesse facendo con esattezza a lui il nagual Julian. La sua domanda suonava più matura e intelligente di quel che in realtà non fosse. Il nagual Elìas rispose in termini per lui completamente inintelligibili a quell'epoca. Disse che il nagual Julian stava allenando don Juan, attirando il suo punto d'unione nella posizione della ragione, in modo che potesse essere un pensatore e non un componente di quel pubblico semplice ma emotivamente caricato che amava le sistematiche opere della ragione. E nello stesso tempo lo stava addestrando a essere uno stregone davvero astratto, e non solo parte di un pubblico morboso e ignorante di appassionati dell'ignoto.

Il nagual Elìas assicurò don Juan che solo un essere umano che fosse un modello di razionalità poteva muovere facilmente il proprio punto d'unione e diventare un modello di conoscenza silenziosa. Solo coloro che si trovavano con esattezza in una posizione o nell'altra potevano scorgere chiaramente la posizione diversa, ed era stato così che era nata l'età della ragione. La posizione della ragione era chiara, vista dalla posizione della conoscenza silenziosa.

Il vecchio nagual disse a don Juan che il ponte a direzione obbligata che andava dalla conoscenza silenziosa alla ragione si chiamava “preoccupazione”. Cioè l'interesse che gli onesti uomini della conoscenza silenziosa avevano per l'origine di quel che conoscevano. E l'altro ponte a direzione obbligata che andava dalla ragione alla conoscenza silenziosa si chiamava “comprensione pura”. Cioè l'agnizione che svelava all'uomo di ragione come la ragione fosse solo un'isola in uno sconfinato arcipelago.

Il nagual aggiunse che un essere umano che avesse operanti tutti e due i ponti doveva essere uno stregone in diretto contatto con lo spirito, la forza vitale che rendeva possibili tutt'e due le posizioni. Egli fece notare a don Juan che tutto quel che il nagual Julian aveva fatto quel giorno al fiume non era stato che una messinscena, non per il pubblico degli umani ma per lo spirito, la forza che lo stava guardando.

Aveva saltellato e scherzato con trasporto facendo divertire tutti, specie il potere cui si stava rivolgendo.

Don Juan riferì che il nagual Elias gli aveva assicurato che lo spirito ascoltava solo quando chi gli parlava lo faceva a gesti. E gesti non sta per cenni o movimenti del corpo, ma per atti di puro slancio, di generosità, di arguzia. Come gesto per lo spirito, gli stregoni rivelano il meglio di sé per offrirlo in silenzio all'astratto.

L'aspetto dell' intento

Don Juan avrebbe voluto fare un'altra escursione in montagna con me prima che me ne tornassi a casa, ma non vi riuscimmo. Mi chiese invece di portarlo in macchina in città, perché doveva incontrare qualcuno.

Durante il percorso parlò di tutto fuorché dell' intento. Fu un vero sollievo.

Nel pomeriggio, dopo che ebbe sbrigato i suoi affari, ci sedemmo sulla sua panchina preferita, nella piazza. Non c'era nessuno. Io ero stanco e assonnato ma poi, proprio inaspettatamente, mi rianimai. Avevo la mente limpida come cristallo di rocca.

Don Juan notò immediatamente il cambiamento e rise della mia sorpresa. Mi pescò un pensiero nella testa, o forse fui io a pescarne uno dalla sua.

«Se pensi alla vita in termini di ore invece che di anni, le nostre esistenze sono molto lunghe» disse lui. «Anche se pensi in termini di giorni, la vita è ancora interminabile.»

Era proprio quello che stavo pensando.

Mi rivelò che gli stregoni contavano le proprie vite in ore e che in un'ora era possibile vivere in intensità l'equivalente di una vita normale. Questa intensità è un vantaggio quando si tratta di immagazzinare informazioni sul movimento del punto d'unione.

Gli domandai di spiegarmi questo dettagliatamente. Molto tempo prima, poiché era cosi scomodo prendere appunti delle nostre conversazioni, mi aveva raccomandato di tenere tutte le informazioni che ottenevo sul mondo della stregoneria ordinate per bene ma non sulla carta o in mente, ma nel movimento del mio punto d'unione.

«Il punto d'unione, con il movimento più infinitesimale, crea isole di percezione completamente distaccate» disse don Juan. «Vi si possono immagazzinare informazioni sotto forma di esperienze nella complessità della consapevolezza.»

«Ma come si possono immagazzinare informazioni in qualcosa di così vago?»

chiesi.

«La mente è ugualmente vaga, eppure tu ne hai fiducia perché ti è familiare»

ribatté. «Non hai ancora la stessa familiarità con il movimento del punto d'unione, ma è all'incirca lo stesso.»

«Quel che volevo dire é: come si immagazzinano le informazioni» insistetti io.

«Le informazioni si immagazzinano nell'esperienza stessa» mi spiegò. «In seguito, quando uno stregone muove il suo punto d'unione fino al posto esatto in cui era prima, rivive l'esperienza totale. Questo rammentare degli stregoni è la maniera di riavere tutte le informazioni immagazzinate nel movimento del punto d'unione.

«L'intensità è un risultato automatico del movimento del punto d'unione»

continuò. «Per esempio, tu stai vivendo questi momenti con più intensità della norma, cosi, a esser più esatti, stai immagazzinando intensità. Un giorno rivivrai questi momenti facendo tornare il tuo punto d'unione nella posizione precisa in cui si trova adesso. E cosi che gli sciamani immagazzinano informazioni.»

Gli intensi ricordi che avevo avuto negli ultimi giorni trascorsi mi erano tornati in mente senza alcun processo mentale di cui fossi conscio.

«Come si può riuscire a rammentare volontariamente?» chiesi.

«L'intensità, essendo un aspetto dell' intento, è collegata per natura allo scintillio degli occhi degli stregoni» mi spiegò. «Per ricordare quelle distaccate isole di percezione, gli stregoni devono usare l' intento per il particolare brillio associato a qualsiasi luogo dove vogliano tornare. Ma questo te l'ho già spiegato.»

Dovevo proprio sembrare perplesso. Don Juan mi guardò con espressione seria.

Aprii due o tre volte la bocca per fargli domande, ma non riuscii a formulare i miei pensieri.

«In poche ore uno sciamano può vivere l'equivalente di una vita normale» disse don Juan «perché il suo grado d'intensità è più alto della norma. Il suo punto d'unione, spostandosi in una posizione non familiare, prende più energia del solito.

Quel flusso aggiunto di energia si chiama intensità.»

Capii quel che stava dicendo con estrema chiarezza, e la mia razionalità barcollò all'impatto con la tremenda implicazione.

Don Juan mi guardò fisso e poi mi consigliò di diffidare da una reazione che angustiava tipicamente gli stregoni: frustrante desiderio di spiegare l'esperienza magica con parole convincenti e ben ragionate.

«L'esperienza dello stregone è cosi fuori dalla norma» prosegui don Juan «che gli stregoni la considerano un esercizio intellettuale e l'usano per tendere agguati a se stessi. La loro carta vincente come maestri dell'agguato, però, è che restano ben consape oli che siamo dei percettivi e che la percezione ha più possibilità di quante possa concepirne la mente.»

Come unico commento, espressi la mia apprensione per le possibilità fuori dalla norma della umana consapevolezza.

«Per proteggersi da quell'immensità gli stregoni imparano a mantenere una perfetta fusione di spietatezza, astuzia, pazienza e dolcezza. Queste quattro basi sono mescolate insieme in modo inestricabile. Gli stregoni le coltivano con l' intento. Esse sono, naturalmente, posizioni del punto d'unione.»

Prosegui dicendo che ogni azione degli stregoni era governata per definizione da questi quattro principi. Cosi, a rigore, ogni azione di ogni stregone è voluta nel pensiero e nella realizzazione e ha la specifica unione delle quattro basi dell' agguato.

«Gli stregoni usano i quattro modi dell' agguato come guide» continuò. «Sono quattro diverse forme mentali quattro diversi tipi di intensità che gli stregoni possono usare per indurre i loro punti di unione a muoversi verso posizioni particolari.»

Parve improvvisamente seccato. Gli chiesi se lo avesse infastidito la mia insistenza nell'avanzare ipotesi.

«Sto considerando che la nostra razionalità ci pone fra l'incudine e il martello»

osservò. «Abbiamo tendenza a ponderare, a indagare, a scoprire. E non è possibile far questo nell'ambito della stregoneria. La stregoneria è l'arte di raggiungere il luogo della conoscenza silenziosa, e la conoscenza silenziosa non si può discutere razionalmente. Si può solo sperimentarla.»

Sorrise, con gli occhi che gli brillavano come due stelle. Disse che gli stregoni, nello sforzo di proteggersi dall'effetto travolgente della conoscenza silenziosa, avevano sviluppato l'arte dell' agguato. Essa fa muovere il punto d'unione poco per volta ma in modo costante, dando cosi agli stregoni tempo e quindi possibilità di rafforzarsi.

«Nell'arte dell' agguato» proseguì don Juan «c'è una tecnica molto usata dagli stregoni: la follia controllata. Essi affermano che la follia controllata è l'unico modo che hanno per trattare con se stessi - nel loro stato di accentuata consapevolezza e percezione - e con qualunque persona o cosa nel mondo della quotidianità.»

Don Juan aveva spiegato la follia controllata come l'arte del raggiro controllato o l'arte di fingere di essere completamente immersi in qualcosa a portata di mano - e fingere tanto bene che nessuno potesse vedere la differenza tra vero e falso. La follia controllata non è un vero e proprio inganno, mi aveva detto, ma un mezzo sofisticato e artistico di essere separati da tutto pur restando parte integrale di tutto.

«La follia controllata è un'arte» continuò don Juan. «Un'arte molto noiosa, difficile da apprendere. Molti stregoni non riescono a sopportarla, non perché ci sia in quell'arte qualcosa di male, ma perché richiede molta energia nel praticarla.»

Don Juan ammise di praticarla coscienziosamente, benché non fosse proprio entusiasta di farlo, forse perché il suo benefattore ne era stato un grande esperto. O

forse perché la sua personalità - che secondo lui era tortuosa e meschina - non aveva affatto l'agilità necessaria a praticare la follia controllata.

Lo guardai con sorpresa. Smise di parlare e mi fissò con quei suoi occhi maliziosi.

«Quando ci accostiamo alla stregoneria, la nostra personalità è già formata»

disse, e si strinse nelle spalle per indicare rassegnazione «e tutto quello che possiamo fare è praticare la follia controllata e ridere di noi stessi.»

In uno slancio di empatia, gli dissi che per me non era affatto meschino e tortuoso.

«Ma è la mia personalità di fondo» insisté lui.

E io insistetti che non lo era.

«I maestri dell' agguato che praticano la follia controllata credono che, per quanto concerne la personalità, tutta la razza umana si divide in tre categorie.»

Sorrise come faceva tutte le volte che mi provocava.

«Ma è assurdo!» protestai io. «Il comportamento umano è troppo complesso per essere diviso così semplicemente.»

«I maestri dell' agguato dicono che non siamo così complessi come pensiamo e che tutti apparteniamo a una delle tre categorie.»

Risi, nervoso. Di solito avrei preso la sua dichiarazione come uno scherzo, ma stavolta, con la mente così limpida e i pensieri così acuti, sentii che parlava proprio seriamente.

««Dici sul serio?» gli chiesi, con quanta più gentilezza potei.

«Come no!» rispose, cominciando a ridere.

Le sue risa mi fecero rilassare un po', ed egli cominciò a spiegarmi il sistema di classificazione. Disse che le persone della prima classe sono perfetti segretari, assistenti, colleghi. Hanno personalità molto fluide, ma la loro fluidità non arricchisce.

Tuttavia sono servizievoli, interessati, amanti della casa, pieni di risorse entro certi limiti, spiritosi, beneducati, teneri, delicati. In altre parole, la gente migliore che si possa trovare, ma con un enorme difetto: non riescono a funzionare da soli, hanno sempre bisogno di qualcuno che li diriga. Sotto una direzione, per quanto possa essere dura o antagonistica, rendono benissimo. Da soli non ce la fanno.

Le persone della seconda classe non sono affatto simpatiche. Sono meschine, vendicative, invidiose, gelose, egoiste. Parlano solo di sé e di solito chiedono che gli altri si uniformino al proprio livello. Prendono sempre loro l'iniziativa, anche se non si sentono a proprio agio. Sono perennemente impacciati in ogni situazione e non si rilassano mai. Sono insicuri e sempre insoddisfatti, e più si sentono insicuri, più diventano scortesi. Il loro fatale difetto è che ammazzerebbero chiunque per amor del potere.

Nella terza categoria ci sono quelli che non sono simpatici ma nemmeno odiosi.

Non sono servi di nessuno ma neanche si impongono a nessuno, sono piuttosto degli indifferenti. Hanno un'alta idea di se stessi derivata solo da sogni a occhi aperti e da pii desideri. Se si distinguono per qualcosa è perché sono sempre in attesa che qualcosa succeda. Attendono di essere scoperti e conquistati e hanno una grande abilità a creare l'illusione di avere in serbo grandi cose, che promettono sempre di offrire: in realtà ciò non avviene perché non ne hanno la capacità.

Don Juan mi precisò che lui, ovviamente apparteneva alla seconda classe. Mi chiese poi di classificarmi e con una certa riluttanza suggerii che potevo essere una combinazione delle tre.

«Non rifilarmi quell'idiozia della combinazione» mi disse, ancora ridendo. «Noi siamo creature semplici, ognuno di noi appartiene a uno solo dei tre tipi. Secondo me, tu appartieni alla seconda classe. I maestri dell' agguato li chiamano peti.»

Presi a protestare che il suo schema di classificazione era avvilente, ma mi fermai proprio mentre stavo per abbandonarmi a una lunga tirata. Invece gli feci notare che, se davvero c'erano solo tre tipi di caratteri, tutti eravamo bloccati a vita in una delle tre categorie, senza speranza di mutamento o riscatto.

Convenne che era proprio così, ma restava una via di recupero. Gli stregoni avevano appreso molto tempo prima che solo il nostro riflesso di sé personale cadeva in una delle categorie.

«Il nostro problema è che noi ci prendiamo sul serio» disse.

«A qualsiasi categoria appartenga la nostra immagine di sé, importa solo per la nostra presunzione. Se non fossimo presuntuosi, le categorie non importerebbero affatto.

«Sarò sempre un peto» continuò, scosso in tutto il corpo dalle risate. «E anche tu. Ma ora io sono un peto che non si prende sul serio, a differenza di te.»

Ero indignato. Volevo discutere con lui, ma non riuscii a mettere insieme l'energia necessaria.

Nella piazza vuota la risonanza della sua risata aveva del soprannaturale.

Egli cambiò argomento, poi, passando in rapido esame i noccioli fondamentali che aveva discusso con me: le manifestazioni dello spirito, il tocco dello spirito, lo stratagemma dello spirito, la discesa dello spirito, le esigenze dell' intento e la manovrabilità dell' intento. Me li ripeteva come se stesse offrendo alla mia memoria l'occasione di ricordarli bene tutti. Dopo, mi riassunse per sommi capi tutto quello che mi aveva detto in proposito. Fu come se deliberatamente mi stesse facendo immagazzinare tutte quelle informazioni approfittando dell'intensità del momento.

Osservai che i noccioli fondamentali rappresentavano ancora per me un mistero.

Avevo forti dubbi sulla mia capacità di comprensione e mi dava l'impressione che stesse per accantonare quell'argomento, mentre io non ne avevo afferrato affatto il significato.

Ripetei che dovevo fargli altre domande sui noccioli astratti.

Parve valutare quello che stavo dicendo, poi scosse lentamente il capo.

«Questo soggetto era molto difficile anche per me. E anch'io facevo molte domande. Forse io ero un po' più egocentrico di te. E molto villano. L'unico modo di far domande che conoscessi, era trovar da ridire su tutto. Anche tu sei piuttosto aggressivo, come inquisitore, e alla fine, naturalmente, tu e io diamo altrettanto fastidio, ma per motivi diversi.»

Ci fu solo un'altra cosa che don Juan aggiunse alla nostra discussione sui noccioli fondamentali prima di cambiare argomento: che si rivelavano con grande lentezza avanzando e ritirandosi in modo strano, irregolare.

«Non ripeterò mai abbastanza spesso che ogni uomo il cui punto d'unione si muove, può muoverlo ancora» cominciò. «E l'unico motivo per avere un maestro è perché continui a spronarci senza pietà. Altrimenti la nostra reazione naturale sarebbe quella di fermarsi a congratularci con noi stessi per aver coperto tanto terreno.»

Disse che entrambi eravamo ottimi esempi della odiosa tendenza di prendersela comoda. Il suo benefattore, per fortuna, da quel grande maestro dell' agguato che era, non lo aveva risparmiato.

Don Juan raccontò che nel corso delle loro escursioni notturne nella zona desertica il nagual Julian gli aveva tenuto lunghe lezioni particolareggiate sulla natura della presunzione e sul movimento del punto d'unione. Per il nagual Julian, la presunzione era un mostro dalle tremila teste, che si poteva affrontare e distruggere in tre maniere. La prima era mozzare le teste una a una; la seconda era raggiungere quel misterioso stato d'essere chiamato il luogo della non pietà, che distruggeva la presunzione affamandola lentamente; e la terza era di pagare con la propria morte simbolica l'immediato annientamento del mostro dalle tremila teste.

Il nagual Julian raccomandava la terza alternativa, ma disse a don Juan che avrebbe potuto considerarsi fortunato se avesse avuto la possibilità di scegliere.

Perché di solito era lo spirito a determinare in quale direzione dovesse andare uno stregone, ed era dovere dello stregone seguirla.

Don Juan precisò che, come lui aveva guidato me, il suo benefattore aveva guidato lui a tagliare le tremila teste della presunzione, una a una, ma che i risultati erano stati piuttosto diversi. Mentre io avevo risposto molto bene, lui non aveva risposto.

«La mia era una condizione particolare» proseguì. «Dal momento in cui il mio benefattore mi vide, disteso per terra con una ferita d'arma da fuoco al petto, seppe che ero io il nuovo nagual. Egli agì di conseguenza e fece muovere il mio punto d'unione non appena il mio stato di salute lo permise. E io vidi con grande facilità un campo di energia sotto l'aspetto di quell'uomo mostruoso. Ma questa impresa ostacolò ogni ulteriore movimento del mio punto d'unione, invece di agevolarlo come avrebbe dovuto. E mentre i punti d'unione degli altri apprendisti si muovevano regolarmente, il mio restò fisso al livello a cui poteva vedere il mostro.

«Ma il tuo benefattore non ti disse quello che stava accadendo?» chiesi, sconcertato dalla inutile complicazione.

«Il mio benefattore non credeva che la conoscenza si potesse passare di mano in mano. Riteneva che la conoscenza impartita così mancasse di efficacia. non c'era nel momento del bisogno. Invece, se la conoscenza era solo suggerita, la persona interessata avrebbe potuto escogitare il modo di pretenderla.»

Don Juan disse che la differenza tra il suo insegnamento e quello del suo benefattore era che lui credeva nella libertà di scelta e il suo benefattore no.

«Ma il maestro del tuo benefattore, il nagual Elias, non ti disse quel che stava accadendo?» insistetti io.

«Cercò» rispose don Juan sospirando «ma io ero davvero impossibile. Sapevo tutto ciò. Lasciavo che i due mi assordassero con i loro discorsi ma non prestavo mai attenzione a quel che dicevano.»

Per superare quell'impasse, il nagual Julian aveva deciso di costringere don Juan a effettuare un movimento libero del suo punto d'unione ancora una volta, ma in modo diverso.

Lo interruppi per chiedere se ciò era accaduto prima o dopo la sua esperienza al fiume. Le storie di don Juan infatti non seguivano l'ordine cronologico, come mi sarebbe piaciuto.

«Accadde parecchi mesi dopo. E non credere nemmeno per un istante che solo perché avevo provato quella percezione divisa io fossi davvero cambiato, che fossi più saggio o più sobrio. Nulla del genere.

«Considera il tuo caso» proseguì. «Io non solo ho rotto la tua continuità più volte, ma l'ho ridotta in brandelli, e guardati un po': ti comporti ancora come fossi integro. E' il risultato supremo della magia, opera dell' intento.

«Anch'io ero così. Per un po' barcollavo sotto l'impatto di quanto stavo provando, e poi dimenticavo e riannodavo gli estremi recisi come se nulla fosse successo. Ecco perché il mio benefattore credeva che noi saremmo cambiati solo morendo.»

Tornando alla sua storia, don Juan disse che il nagual si servì di Tulio, quella persona poco socievole che faceva parte del gruppo, per impartire un ulteriore devastante colpo alla sua continuità psicologica.

Don Juan disse che tutti gli apprendisti, compreso lui, non si erano mai trovati d'accordo su niente tranne che nel ritenere Tulio un ometto di una arroganza spregevole. Lo odiavano tutti perché Tulio li evitava o li ignorava sdegnosamente. Li trattava con tale disprezzo che loro si sentivano nullità. Erano tutti convinti che Tulio non parlasse mai con loro perché non aveva nulla da dire, e che la sua caratteristica saliente, quello spocchioso distacco, fosse una copertura per la sua timidezza.

Eppure, nonostante il suo sgradevole carattere, Tulio esercitava, con disappunto di tutti gli apprendisti, un'influenza irragionevole su tutta la casa, specie sul nagual Julian, che stravedeva per lui.

Una mattina il nagual Julian aveva mandato tutti gli apprendisti in città per l'intera giornata a far commissioni. L'unico rimasto in casa, oltre agli anziani, era don Juan.

Verso mezzogiorno il nagual Julian si era diretto verso lo studio per sbrigare la contabilità quotidiana. Mentre stava entrando aveva chiesto a don Juan col tono più naturale del mondo di aiutarlo a fare i conti.

Don Juan aveva cominciato a controllare le ricevute e presto si era accorto che per continuare aveva bisogno di alcune informazioni che Tulio, il sovrintendente della proprietà, aveva, e si era dimenticato di annotare.

Il nagual Julian era decisamente irritato dalla disattenzione di Tulio, e ciò fece piacere a don Juan. Il nagual gli ordinò con impazienza di cercare Tulio, che era fuori nei campi a sorvegliare i lavoranti, e di chiedergli di venire nello studio. Don Juan, gongolante, fece di corsa il mezzo miglio che lo separava dai campi, accompagnato naturalmente da un lavorante per proteggerlo dal mostro.

Trovò Tulio che, come sempre, sorvegliava i braccianti da una certa distanza.

Don Juan aveva notato che Tulio detestava il contatto diretto con la gente ed effettuava sempre le sue sorveglianze da lontano.

Con voce dura e modi esageratamente imperiosi, don Juan chiese a Tulio di andare con lui in casa perché il nagual aveva bisogno dei suoi servigi. Tulio, con voce appena udibile, rispose che al momento era troppo occupato ma che di lì a un'ora circa sarebbe stato libero e sarebbe andato dal nagual.

Don Juan aveva insistito, pur sapendo che Tulio non si sarebbe degnato di stare a discutere con lui ma l'avrebbe licenziato con un cenno del capo. Fu scioccato quando Tulio cominciò a vomitargli addosso un'oscenità dopo l'altra, urlando. La scena non era affatto in carattere con Tulio e perfino i braccianti smisero di lavorare e si guardarono l'un l'altro interrogativamente. Don Juan era certo che non avessero mai sentito Tulio alzar la voce e men che meno abbaiar parolacce. La sua sorpresa fu tale da provocargli un riso nervoso che rese Tulio furibondo. Arrivò a tirare un sasso contro l'atterrito don Juan, che scappò via.

Con la sua guardia del corpo, don Juan tornò di corsa a casa. Sulla soglia dell'ingresso principale trovò Tulio che stava parlando tranquillamente con alcune donne, ridendo. Come d'abitudine, volse il capo ignorando don Juan, che cominciò a criticarlo aspramente perché se ne stava lì a chiacchierare mentre il nagual lo voleva nel suo studio. Tulio e le donne fissarono don Juan come se fosse impazzito.

Ma Tulio quel giorno era diverso dal solito. Gridò immediatamente a don Juan di chiudere la sua boccaccia e di badare agli stramaledetti affari suoi. Accusò sfacciatamente don Juan di volerlo mettere in cattiva luce con il nagual.

Le donne mostrarono il loro costernato affanno e guardarono don Juan con riprovazione. Cercarono di placare Tulio. Don Juan ordinò a Tulio di andare nello studio del nagual per spiegargli i conti. Tulio gli rispose di andare all'inferno.

Don Juan tremava dalla collera. Il semplicissimo compito di chiedere i conti era diventato un incubo. Controllò le proprie emozioni. Le donne lo stavano osservando con attenzione, e questo lo fece infuriare ancora di più. In silenzio si precipitò verso lo studio del nagual, mentre Tulio e le donne riprendevano a chiacchierare e a ridere.

La sorpresa di don Juan fu completa quando, entrando nello studio, vi trovò Tulio che, seduto alla scrivania del nagual, era tutto assorto nei suoi conteggi. Don Juan, con uno sforzo enorme, controllò la sua ira. Sorrise a Tulio. Non aveva più bisogno di affrontarlo, perché aveva improvvisamente capito che il nagual Julian stava usando Tulio per mettere lui alla prova e vedere se perdeva le staffe. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione.

Senza alzare gli occhi dai conti Tulio gli disse che, se cercava il nagual, l'avrebbe trovato all'altro capo della casa.

Don Juan corse all'altro capo della casa e trovò il nagual che passeggiava lento per il patio con a fianco Tulio. Il nagual sembrava impegnato in conversazione con Tulio. Questi gli diede garbatamente di gomito, annunciandogli a bassa voce che c'era il suo assistente.

Il nagual, con tono più che naturale, spiegò a don Juan tutto quel che c'era da sapere sulla contabilità controversa cui si erano dedicati. Fu una spiegazione lunga, dettagliata e completa. Poi aggiunse che tutto quel che don Juan doveva fare era portare il libro mastro dello studio, in modo da registrare la nuova voce e farla firmare a Tulio.

Don Juan non riusciva a comprendere quel che stava accadendo. La spiegazione dettagliata e il tono naturale del nagual avevano portato ogni cosa nel mondo degli affari terreni. Tulio con impazienza ordinò a don Juan di fare in fretta a prendere il registro perché lui aveva da fare. C'era bisogno di lui da un'altra parte.

A quel punto don Juan si era rassegnato a fare il clown. Intuiva che il nagual stava architettando qualcosa: aveva negli occhi quello strano sguardo che don Juan associava sempre ai suoi scherzi tremendi. Inoltre Tulio aveva parlato più quel giorno che non in tutti e due gli anni durante i quali don Juan era stato in quella casa.

Senza dire una parola, don Juan tornò allo studio. Come prevedeva, Tulio era già lì, seduto sullo spigolo della scrivania, in attesa impaziente di don Juan, battendo ritmicamente i tacchi degli stivali sul pavimento. Aveva in mano il libro mastro che don Juan cercava, glielo porse e poi gli disse di far presto.

Nonostante se l'aspettasse, don Juan era stupefatto. Guardò Tulio a occhi sgranati e l'altro andò su tutte le furie e cominciò a insultarlo. Don Juan dovette lottare con se stesso per non esplodere. Continuò a ripetere che si trattava solo di un test attitudinale. Si vedeva già fuori dalla casa se non avesse superato la prova.

Nel bel mezzo di questo bailamme era ancora capace di chiedersi come facesse Tulio a essere così veloce da arrivare sempre prima di lui.

Don Juan certo prevedeva di trovare Tulio ad attenderlo insieme al nagual, eppure quando lo vide, benché non sorpreso, fu incredulo. Aveva attraversato la casa di volata, seguendo il percorso più breve. Tulio non avrebbe potuto assolutamente correre più velocemente di lui. Per giunta, se Tulio avesse corso, avrebbe dovuto correre al suo fianco.

Il nagual Julian prese il registro della contabilità dalle mani di don Juan, con aria indifferente. Fece la registrazione e Tulio la firmò. Poi continuarono a parlare di conti, ignorando don Juan che aveva gli occhi fissi su Tulio. Don Juan voleva scoprire a che razza di esame lo avesse sottoposto. Doveva essere un test attitudinale, pensò. Dopotutto, in quella casa, il suo comportamento era sempre stato oggetto di discussione.

Il nagual disse a don Juan che poteva andare, perché voleva restare solo con Tulio per parlare d'affari. Don Juan andò subito a cercare le donne per sentire che cosa avrebbero detto di questa strana situazione. Ma non aveva percorso neanche tre metri che ne incontrò due insieme a Tulio, in animata conversazione. Li vide prima che loro vedessero lui, così tornò di corsa dal nagual. Tulio era ancora lì, che chiacchierava con lui.

Un incredibile sospetto gli attraversò la mente: Tulio era assorto con la contabilità e non mostrò di accorgersi della presenza di don Juan. Don Juan gli chiese cosa stesse accadendo, ma Tulio questa volta si comportò secondo il suo solito: non degnò don Juan di una parola o di uno sguardo.

In quel momento don Juan ebbe un altro pensiero inconcepibile. Si precipitò alle stalle, sellò due cavalli e chiese alla sua guardia del corpo del mattino di accompagnarlo di nuovo. Si recarono al galoppo là dove avevano trovato Tulio prima: era esattamente dove lo avevano lasciato. Non parlò a don Juan. Fece spallucce e girò il capo quando don Juan gli rivolse delle domande.

Don Juan e il suo compagno ritornarono alla casa; egli lasciò l'uomo a occuparsi dei cavalli e si precipitò dentro. Tulio stava pranzando con le donne. E Tulio stava anche chiacchierando con il nagual. E Tulio stava anche lavorando alla contabilità.

Don Juan si sedette. Aveva i sudori freddi per la paura. Sapeva che il nagual Julian lo stava mettendo alla prova con uno dei suoi terribili scherzi. Rifletté che gli si presentavano tre soluzioni: avrebbe potuto comportarsi come se non stesse accadendo nulla di straordinario, avrebbe potuto scoprire da solo di quale prova si trattasse, o, visto che il nagual gli aveva impresso bene in mente che lui era lì per spiegare qualsiasi cosa don Juan gli chiedesse, avrebbe potuto presentarsi al nagual e chiedere chiarimenti.

Decise per questa terza soluzione. Andò dal nagual e gli chiese di spiegargli cosa gli stavano facendo. Il nagual era solo e stava ancora controllando i conti. Mise da parte il libro mastro e sorrise a don Juan. Gli disse che i ventuno non-fare che aveva insegnato a don Juan erano i mezzi con cui mozzare le tremila teste della presunzione, ma che quei mezzi non si erano dimostrati per nulla efficaci con don Juan. Così stava provando il secondo metodo per distruggere la presunzione, il che voleva dire mettere don Juan nello stato di essere chiamato il luogo della non pietà.

Don Juan si convinse che il nagual Julian era completamente pazzo. Sentendolo parlare di non-fare e di mostri con tremila teste o di luoghi della non pietà ne ebbe quasi compassione.

Con molta calma il nagual Julian pregò don Juan di recarsi nel capannone che serviva da deposito sul retro della casa, chiedendo a Tulio di uscire.

Don Juan sospirò e fece del suo meglio per non scoppiaa ridere. I metodi del nagual erano troppo ovvi: don Juan sapeva che il nagual voleva continuare la prova, usando Tulio.

Don Juan interruppe il racconto e mi chiese cosa pensassi del comportamento di Tulio. Risposi che, per quel che conoscevo del mondo della stregoneria, avrei detto che Tulio era uno stregone che stava muovendo il proprio punto d'unione in un modo estremamente sofisticato per dare a don Juan l'impressione di essere in quattro posti contemporaneamente.

«Così, cosa pensi che abbia trovato in quel capannone?» domandò don Juan, con un sorriso sardonico.

«Direi che tu potresti aver trovato Tulio o nessuno» replicai.

«Se fosse stato così non avrei subìto nessuno shock alla mia continuità» disse don Juan.

Cercai di immaginare cose bizzarre e suggerii che forse aveva trovato il corpo sognante di Tulio. Ricordai a don Juan che lui stesso aveva fatto a me qualcosa di simile con uno del suo seguito di stregoni.

«No» ribatté lui. «Ciò che trovai io era uno scherzo che non aveva equivalenti nella realtà. Eppure non era bizzarro né fuori dal mondo. Cosa credi che fosse?»

Dissi a don Juan che odiavo gli indovinelli. Aggiunsi che con tutte le bizzarrie che mi aveva fatto provare, le uniche cose che riuscivo a immaginare erano ulteriori stranezze; Visto però che non si trattava di cose bizzarre, rinunciavo a indovinare.

«Quando entrai nel capannone ero pronto a scoprire che c'era nascosto Tulio»

disse don Juan. «Ero sicuro che l'altra parte del test sarebbe consistita in un irritante gioco di nascondino. Tulio mi avrebbe fatto impazzire acquattandosi all'interno del capannone.

«Ma non accadde nulla di quello cui mi ero preparato. Entrai nel capannone e vi trovai quattro Tulios.»

«Cosa intendi per quattro Tulios?» domandai.

«C'erano quattro uomini in quel capannone. E tutti e quattro erano Tulio. Puoi immaginare la mia sorpresa! Tutti e quattro erano seduti nell'identica posizione, a gambe incrociate. Mi stavano aspettando. Io li guardai e corsi via sbraitando.

«Il mio benefattore mi tenne fermo per terra, appena fuori dalla porta.E allora, davvero inorridito, vidi che i quattro Tulios uscivano dal capannone dirigendosi verso di me. Urlai e urlai, mentre loro mi beccavano con le loro dure dita come uccellacci da preda all'attacco. Continuai a urlare finché non sentii che in me cedeva qualcosa ed entrai in uno stato di suprema indifferenza. Non avevo mai provato nulla di tanto straordinario Scostai i Tulios e mi rialzai. Mi stavano solo facendo il solletico. Andai direttamente dal nagual e gli chiesi di spiegarmi quei quattro uomini.»

Quello che il nagual Julian aveva spiegato a don Juan era che quei quattro erano esempi dell'arte dell' agguato. I nomi li aveva inventati il loro maestro, il nagual Elìas, che, come esercizio di follia controllata, aveva preso i numerali spagnoli, uno, dos, tres, cuatro e li aveva aggiunti al nome Tulio, ottenendo così Tuliùno, Tuliòdo, Tulìtre e Tulìcuatro.

Il nagual Julian li presentò uno alla volta a don Juan. I quattro erano in piedi, allineati. Don Juan era di fronte a loro e fece un cenno col capo; a turno ognuno ricambiò il cenno. Il nagual disse che i quattro erano maestri dell' agguato di talento così straordinario, come don Juan aveva appena confermato, da rendere inutile ogni elogio. I Tulios erano il trionfo del nagual Elìas; erano l'essenza della discrezione.

Con la loro grande esperienza dell' agguato, solo uno di loro esisteva ai fini pratici.

Benché la gente li vedesse e avesse a che fare con loro ogni giorno, nessuno oltre i componenti della casa sapeva che c'erano quattro Tulios.

Don Juan comprese con perfetta chiarezza tutto ciò che il nagual Julian andava dicendo sui quattro uomini. Per l'insolita chiarezza, seppe di avere raggiunto il luogo della non pietà. E capì, da solo, che il luogo della non pietà era un posizione del punto d'unione, una posizione che rendeva inoperante l'autocommiserazione. Ma don Juan apprese anche che la sua saggezza, il suo discernimento erano estremamente transitori. Il suo punto d'unione sarebbe inevitabilmente tornato al luogo di partenza.

Quando il nagual chiese a don Juan se avesse domande da porgli, si accorse che avrebbe fatto meglio ad ascoltare attentamente la spiegazione del nagual invece di speculare sulla propria prescienza.

Don Juan voleva sapere come facevano i Tulios a dare l'impressione di essere una persona sola. Era estremamente curioso perché, osservandoli insieme, si era accorto che essi non erano poi tanto simili. Avevano gli stessi vestiti, e più o meno la stessa statura, età e conformazione, ma la loro somiglianza finiva lì. Eppure, anche mentre li guardava, avrebbe potuto giurare che si trattava di un unico e solo Tulio.

Il nagual Julian spiegò che l'occhio umano era abituato a mettere a fuoco solo i punti salienti di qualsiasi cosa, e che quei punti salienti erano già noti in precedenza.

Così l'arte dei maestri dell' agguato consisteva nel creare un'impressione presentando i punti di loro scelta, punti che secondo loro non potevano assolutamente passare inosservati. Rinforzando ad arte certe impressioni, i maestri dell' agguato riuscivano a creare in chi guardava la convinzione incontestabile di quanto i loro occhi avevano visto.

Il nagual Julian disse che quando don Juan era arrivato indossando abiti da donna, le donne del suo gruppo si erano divertite e avevano riso apertamente. Ma l'uomo che era con loro, e che era Tulìtre, offrì immediatamente a don Juan la prima impressione - Tulio. Si girò a mezzo per nascondere la faccia, scrollò le spalle sdegnoso, come se tutto ciò lo annoiasse e se ne andò a ridere come un matto per conto suo, mentre le donne aiutavano a consolidare quella prima impressione mostrandosi apprensive, quasi seccate, per l'asocialità di quell'individuo.

Da quel momento in poi, qualsiasi Tulio si fosse trovato vicino a don Juan, non avrebbe fatto che rafforzare l'impressione, perfezionandola ulteriormente finché gli occhi di don Juan non vedevano niente oltre quello che veniva loro offerto.

Tuliùno allora parlò e disse che avevano impiegato circa tre mesi in azioni attente e consistenti per rendere don Juan cieco a tutto tranne che a quello verso cui loro lo pilotavano. Dopo tre mesi la cecità era così accentuata che i Tulios non erano più stati tanto cauti. In casa si comportavano normalmente: avevano perfino smesso di vestirsi allo stesso modo e don Juan non aveva notato la differenza.

Quando si portavano a casa altri apprendisti, però, i Tulios dovevano ricominciare tutto da capo. Questa volta la sfida era difficile perché c'erano molti apprendisti, ed erano astuti.

Don Juan chiese a Tuliùno dell'aspetto di Tulio. Tuliùno rispose che il nagual Elias sosteneva che l'aspetto era l'essenza della follia controllata e che i maestri dell' agguato lo creavano con l' intento, invece di crearlo con l'aiuto di supporti scenici. Questi creavano aspetti artificiali che sembravano falsi agli occhi. In questo rispetto, usare l' intento per l'aspetto era un esercizio esclusivo per i maestri dell' agguato.

Dopo parlò Tulitre. Spiegò che le apparenze erano sollecitate dallo spirito.

Erano chieste e richieste con forza; non furono mai inventate razionalmente. L'aspetto di Tulio dovette essere chiamato dallo spirito. Per facilitare l'operazione, il nagual Elias mise tutti e quattro gli uomini in un piccolissimo deposito fuori mano e lì lo spirito parlò loro. Disse che prima dovevano usare l' intento per ottenere l'omogeneità.

Dopo quattro settimane di isolamento totale, l'omogeneità arrivò.

Il nagual Elìas precisò che l' intento li aveva fusi insieme e che essi avevano acquisito la certezza che la loro individualità non sarebbe stata scoperta. Ora dovevano chiamare l'aspetto che sarebbe stato visto da chi li avrebbe guardati. E si diedero da fare, affidando all' intento l'aspetto dei Tulios che don Juan aveva visto.

Dovettero lavorare sodo per perfezionarlo. Sotto la direzione del loro maestro, si concentrarono sui dettagli che lo avrebbero reso perfetto. I quattro Tulios diedero a don Juan una dimostrazione dei tratti salienti di Tulio che erano: gesti molto accentuati di sdegno e arroganza; improvvisi volger del capo verso destra, come per collera; piegamenti del torso, come per nascondere il viso con la spalla sinistra; movimenti rabbiosi di una mano sugli occhi, come per scostare i capelli dalla fronte; il passo d'una persona agile e impaziente, troppo nervosa per decidere in quale direzione andare.

Don Juan ammise che quei dettagli comportamentali e molti altri avevano reso Tulio un tipo indimenticabile. Tanto indimenticabile che per proiettare l'immagine di Tulio su don Juan e sugli altri apprendisti come su uno schermo, uno qualsiasi dei quattro non doveva fare altro che insinuare una caratteristica, e don Juan e gli apprendisti avrebbero automaticamente fornito il resto.

Don Juan disse che per la forte consistenza del materiale di presentazione Tulio era un essere disgustoso per lui e per gli altri, ma nello stesso tempo, se avessero scavato nel profondo di se stessi, avrebbero dovuto riconoscere che Tulio tornava sempre in mente. Era agile, misterioso e, intenzionalmente o no, dava l'impressione dì essere un fantasma.

Don Juan chiese a Tuliùno come avessero fatto a chiamare l' intento. Tuliùno spiegò che i maestri dell' agguato chiamavano l' intento ad alta voce. Di solito lo si chiamava da una stanza piccola, buia e isolata. Si metteva sul tavolo nero una candela con la fiamma a pochi centimetri dagli occhi; poi si pronunciava a bassa voce la parola intento, molto nitidamente, ripetendola con attenzione tante volte quante si riteneva necessario. Il tono della voce saliva o calava senza un pensiero particolare.

Tuliùno fece notare che la parte indispensabile della cerimonia per chiamare l' intento era la totale concentrazione sul motivo. Nel loro caso il motivo era l'omogeneità di tutti e quattro e l'aspetto di Tulio. Dopo essere stati fusi dall'intento, impiegarono ancora un paio d'anni per raggiungere la certezza che la loro omogeneità e l'aspetto di Tulio sarebbero stati realtà per chi li avesse osservati.

Chiesi a don Juan cosa pensava del loro modo di chiamare l'intento. Mi rispose che il suo benefattore, come pure il nagual Elias, era più incline al rituale di quanto non lo fosse lui, e per questo preferivano candele, sgabuzzini e tavoli neri.

Casualmente osservai che anch'io ero molto attratto dal rituale, che mi sembrava essenziale per concentrarsi. Don Juan prese sul serio le mie parole. Disse di aver visto che il mio corpo, come campo di energia, aveva un particolare che, per sua conoscenza, tutti gli stregoni dei tempi antichi avevano avuto, ed era avidamente ricercato negli altri: una zona brillante in basso a destra nel bozzolo luminoso. Quello splendore era associato all'intraprendenza e a una propensione alla morbosità. Gli stregoni cupi di quei tempi si compiacevano di imbrigliare quell'ambito particolare attaccandolo al lato oscuro dell'uomo.

«Allora c'è un lato malvagio nell'uomo» affermai giubilante. «Lo neghi sempre.

Sostieni sempre che la malvagità non esiste, che esiste solo il potere.»

Fui io stesso sorpreso dal mio scatto. In un attimo tutta la mia educazione cattolica si metteva all'opera su di me e il Principe delle Tenebre incombeva gigantesco.

Don Juan rise finché non gli mancò il fiato e cominciò a tossire.

«Ma certo che c'è un lato buio in noi» disse. «Noi uccidiamo senza pietà, no?

Mettiamo la gente al rogo in nome di Dio. Ci distruggiamo; cancelliamo la vita sul nostro pianeta, distruggiamo la Terra. E poi indossiamo la tonaca e Dio ci parla direttamente. E cosa ci dice Dio? Ci dice che dobbiamo essere bravi o lui ci castigherà. Il Signore ci minaccia da secoli e non succede niente. Non perché noi siamo cattivi, ma perché siamo stupidi. L'uomo ha un lato buio, sì, e si chiama stupidità.»

Non aggiunsi altro ma applaudii in silenzio e pensai con piacere che don Juan aveva una grande dialettica. Era riuscito un'altra volta a volgere contro di me le mie stesse parole.

Dopo un attimo di pausa, don Juan mi spiegò che nella stessa misura in cui il rituale costringeva l'uomo comune a costruire enormi cattedrali che erano monumenti alla presunzione, esso costringeva gli stregoni a costruire edifici di morbosità e ossessione. Come risultato, ogni nagual aveva il dovere di guidare la consapevolezza in modo da farla volare verso l'astratto, libera da privilegi e ipoteche.

«Cosa intendi per privilegi e ipoteche, don Juan?» domandai.

«Il rituale può intrappolare la nostra attenzione meglio di qualsiasi altra cosa, ma comporta anche un prezzo altissimo. Quell'altissimo prezzo è la morbosità; e la morbosità può avere pesanti privilegi e ipoteche sulla nostra consapevolezza.»

Don Juan disse che la consapevolezza umana era come un'immensa casa popolata di fantasmi. La consapevolezza della vita di ogni giorno era come essere sigillati per tutta la vita in una stanza di quella immensa casa. Noi si entrava in quella stanza da un'apertura magica, la nascita, e si usciva da un'altra magica apertura, la morte.

Gli stregoni, tuttavia, erano capaci di trovare ancora un'altra apertura ed erano in grado di uscire da quella stanza sigillata quando erano ancora in vita. Una conquista stupenda. Ma l'impresa più sorprendente era che, una volta usciti da quella stanza sigillata, scegliessero la libertà. Sceglievano di abbandonare quella casa immensa invece di perdersi in altre sue parti.

La morbosità era l'antitesi dell'impulso di energia di cui aveva bisogno la consapevolezza per raggiungere la libertà. La morbosità faceva perdere la strada agli stregoni, che finivano intrappolati nelle intricate, buie e poco frequentate stradine dell'ignoto.

Chiesi a don Juan se ci fosse morbosità nei Tulios.

«La stranezza non è morbosità» rispose. «I Tulios erano attori istruiti dallo stesso spirito.»

«Per quale motivo il nagual Elìas educò i Tulios a quel modo?» domandai.

Don Juan mi scrutò con attenzione e rise fragorosamente. In quell'istante si accesero le luci nella piazza. Egli si alzò dalla sua panchina preferita, lisciandola col palmo della mano, come se fosse un cagnolino.

«La libertà» disse. «Voleva che fossero liberi dalla convenzione percettiva. E

insegnò loro a essere artisti. L' agguato è un'arte. Per uno stregone, poiché non è un mecenate né un mercante d'arte, l'unica cosa importante di un'opera d'arte è la sua realizzazione.»

Eravamo in piedi accanto alla panchina e guardavamo la folla che passeggiava in su e in giù nella sera. La storia dei quattro Tulios mi aveva lasciato addosso un certo presentimento. Don Juan mi propose di tornarmene a casa; il lungo viaggio in macchina fino a Los Angeles avrebbe dato un po' di tregua al mio punto d'unione dopo tutto il movimento degli ultimi giorni.

«La compagnia del nagual è molto faticosa» proseguì. «Produce una stanchezza strana e può persino essere nociva.»

Lo rassicurai dicendogli che non ero affatto stanco e che la sua compagnia era per me tutt'altro che nociva. Per me, invece, era come una droga - non riuscivo più a farne a meno. Poteva sembrare adulazione, ma ero sincero.

Facemmo tre o quattro volte il giro della piazza, nel più completo silenzio.

«Va' a casa e rifletti sui noccioli fondamentali delle storie di stregoneria»' mi disse don Juan con una nota conclusiva nella voce. «O meglio, non pensarci, ma fa'

muovere il tuo punto d'unione verso il luogo della conoscenza silenziosa. Muovere il punto d'unione è tutto, ma non significa nulla se non si tratta di un movimento sobrio e controllato. Così chiudi la porta del riflesso di sé. Sii impeccabile e avrai l'energia per raggiungere il luogo della conoscenza silenziosa.»

SOMMARIO

Prefazione

 

5

Introduzione

7

I