Carlos Castaneda
IL POTERE
DEL SILENZIO
Traduzione di FRANCESCA BANDEL DRAGONE
Biblioteca Universale Rizzoli
Prefazione
I miei libri sono il resoconto veritiero del metodo d'insegnamento adottato da don Juan Matus, uno sciamano indio del Messico, per aiutarmi a comprendere il mondo della magia. In questo senso, i miei libri sono il resoconto di un processo in fieri, che per me diventa sempre più chiaro con lo scorrer del tempo.
Ci vogliono anni di esercizio per apprendere a muoverci con intelligenza nel mondo della vita di ogni giorno. Il nostro insegnamento - sia di semplici argomentazioni, sia di soggetti formali - é rigoroso perché la conoscenza che cerchiamo di impartire è molto complessa. Gli stessi criteri si applicano nel mondo degli stregoni: la loro scuola, che si fonda su insegnamenti orali e manipolazioni della consapevolezza, benché diversa dalla nostra, è altrettanto rigorosa perché la loro conoscenza è altrettanto - se non più - complessa.
Introduzione
In diverse occasioni don Juan tentò di dare un nome alla sua conoscenza, a mio beneficio. A suo parere il termine più adatto era nagualismo, anche se un po' oscuro.
Dire semplicemente «conoscenza» rendeva tutto troppo vago, e chiamarla “negromanzia” era spregiativo. «La padronanza dell'intento» era troppo astratto e «la ricerca della libertà totale» troppo lungo e metaforico. Alla fine, non riuscendo a trovare un lemma più appropriato, la chiamò “magia”, pur ammettendo una certa inaccuratezza.
Nel corso degli anni egli mi aveva fornito varie definizioni della magia, ma aveva sostenuto che le definizioni cambiano con il crescere della conoscenza. Verso la fine del mio apprendistato, mi sentii in grado di apprezzare una definizione più chiara, così gli posi la domanda ancora una volta.
«Dal punto di vista dell'uomo comune» disse don Juan «la magia è un insieme di sciocchezze, oppure uno spaventoso mistero che travalica la sua comprensione. E qui non sbaglia - non perché sia una verità assoluta, ma perché l'uomo comune non ha l'energia sufficiente per trattare con la magia.»
Fece un attimo di pausa, prima di continuare. «Gli esseri umani nascono con una quantità di energia limitata,» proseguì don Juan «un'energia spiegata sistematicamente a partire dal momento della nascita, in modo da essere usata con il maggior vantaggio dalla modalità del tempo.»
«Cosa intendi per «modalità del tempo»?» chiesi io.
«La modalità del tempo è il fascio preciso dei campi d'energia recepiti» mi rispose. «Credo che la percezione umana sia cambiata nel tempo. Il tempo reale decide il modo; il tempo decide quale fascio preciso di campi d'energia sarà usato, scegliendolo tra una quantità incalcolabile. Tutta l'energia a nostra disposizione viene assorbita dal contatto con la modalità del tempo - quei pochi, scelti campi di energia -
non lasciandoci nulla che possa esserci di aiuto a usare un qualsiasi altro campo di energia.»
Con un impercettibile inarcare delle sopracciglia mi spronava a considerare il tutto.
«Ecco cosa intendo quando dico che all'uomo comune manca l'energia necessaria per aver a che fare con la magia» continuò. «Se usa solo l'energia che ha, non può percepire i mondi creati dagli stregoni. Gli stregoni, infatti, per farlo, si servono di un insieme di campi di energia che di solito non sono usati. Naturalmente, se l'uomo comune intende percepire quei mondi e comprendere la percezione dei maestri dell'occulto, deve per forza usare lo stesso insieme usato da quelli, e ciò non è materialmente possibile, in quanto egli ha già spiegato tutta la sua energia.»
S'interruppe, quasi cercasse la parola più appropriata a esprimere il concetto.
«Mettiamola così» riprese. «Non è tanto che si apprenda la magia col tempo, quanto che si apprenda ad accumulare energia. Questa energia ti metterà in grado di maneggiare alcuni campi di energia che al momento ti sono inaccessibili. La magia è dunque l'abilità di usare campi di energia non necessari per la percezione del mondo di tutti i giorni, che noi conosciamo. La magia è uno stato di consapevolezza. E'
l'abilità di concepire qualcosa che sfugge alla percezione ordinaria.
«Quel che ti ho mostrato,» continuò don Juan «tutto ciò che ho sottoposto alla tua attenzione, non era che un accorgimento per convincerti che c'è più di quanto appaia a un primo sguardo. Non c'è bisogno che venga qualcuno a insegnarci la magia, perché in realtà non c'è nulla da imparare. Occorre solo che un maestro ci convinca dell'incalcolabile potere che abbiamo sulla punta delle dita. Che strano paradosso! Ogni guerriero sulla via della conoscenza crede, una volta o l'altra, di star acquisendo cognizioni magiche, ma tutto quello che fa è lasciarsi convincere del potere nascosto dentro di sé, che riuscirà a raggiungere.»
«E' quel che stai facendo con me, don Juan? Mi stai convincendo?»
«Proprio così. Sto cercando di convincerti che puoi raggiungerlo, quel potere. Ci sono passato anch'io. Ed ero duro da convincere, come te ora.»
«Una volta raggiunto, cosa ne facciamo esattamente, don Juan?»
«Nulla. Una volta raggiunto, esso si servirà per conto suo dei campi di energia che sono a nostra disposizione, ma inaccessibili. Questa è magia, come ho già detto.
Allora cominciamo a vedere - cioè, a percepire - qualcos'altro, non immaginario, ma reale e concreto. Così cominciamo a conoscere senza dover usare le parole. Quel che ognuno di noi fa con l'accresciuta percezione, con quella conoscenza silenziosa, dipende dal carattere individuale.»
In una diversa occasione, mi diede una spiegazione di altro genere. Stavamo discutendo di tutt'altro quando, di punto in bianco, cambiò argomento e cominciò a raccontarmi una barzelletta. Rise, e con mano leggera mi diede dei colpetti sulla schiena, fra le scapole, quasi fosse affetto da grande timidezza e ritenesse molto sfacciato da parte sua toccarmi. La mia reazione nervosa lo fece ridacchiare.
«Come sei sensibile» disse, scherzando, e mi assestò una pacca sulla schiena con maggior forza.
Mi ronzarono le orecchie. Per un istante mi mancò il fiato, quasi mi avesse colpito ai polmoni. Respiravo con grande fatica, eppure, dopo aver tossito più volte, come soffocando, le mie vie nasali si aprirono e mi ritrovai a fare dei respiri profondi, rasserenanti. Provavo una tale sensazione di benessere che non me la presi affatto con lui per il colpo che mi aveva dato, benché fosse stato forte e inaspettato.
Poi don Juan iniziò una spiegazione davvero notevole. In termini chiari e concisi mi fornì una definizione più precisa della magia.
Ero entrato in un meraviglioso stato di consapevolezza! Avevo una lucidità di mente tale che riuscii a comprendere e assimilare tutto quello che don Juan stava dicendo. Diceva che nell'universo c'era una forza indescrivibile e smisurata che gli stregoni chiamavano intento, e che in assoluto tutto quel che esiste nell'intero cosmo è unito all'intento da un anello di collegamento. Gli stregoni o guerrieri, come li chiamava lui, si dedicavano a discutere, capire e utilizzare quell'anello di collegamento. Erano particolarmente occupati a liberarlo dagli stordimenti provocati dalle ordinarie preoccupazioni della vita quotidiana. La magia a questo livello poteva definirsi come il procedimento di ripulitura del proprio anello di collegamento con l'intento. Don Juan sottolineò che era molto difficile capire e imparare a praticare questo “procedimento di ripulitura”. Per questo gli stregoni dividevano il loro insegnamento in due categorie. Una comprendeva le lezioni per lo stato di consapevolezza della vita di ogni giorno, nelle quali il procedimento si presentava sotto alterate spoglie. L'altra comprendeva le lezioni per gli stati di consapevolezza intensa, come quello che stavo sperimentando al momento, nelle quali gli stregoni raggiungevano la conoscenza direttamente dall'intento, senza fastidiosi interventi della lingua parlata.
Don Juan spiegò che, usando la consapevolezza intensa per migliaia di anni di lotte dolorose, gli stregoni avevano acquisito una comprensione specifica dell'intento, e che avevano trasmesso questi nuclei di conoscenza diretta di generazione in generazione, fino al presente. Disse che era compito della magia prendere questa conoscenza, all'apparenza incomprensibile, e renderla comprensibile ai livelli di consapevolezza della vita di ogni giorno.
Dopo mi chiarì il ruolo della guida nella vita degli stregoni. Mi spiegò che una guida era chiamata “nagual” e che il nagual era una persona, uomo o donna, con un'energia straordinaria, un maestro dotato di sobrietà, resistenza, fermezza, che i veggenti vedevano come una sfera luminosa formata da quattro comparti, simili a quattro globi luminosi pressati l'uno contro l'altro. Grazie a questa straordinaria energia, i nagual erano intermediari. La loro energia permetteva loro di incanalare pace, armonia, allegria e conoscenza direttamente dalla fonte, dall'intento, e di trasmetterle ai loro compagni. I nagual avevano la responsabilità di fornire ciò che gli stregoni chiamavano “la possibilità minima”, la consapevolezza del proprio collegamento con l' intento.
Gli dissi che la mia mente afferrava tutto quello che lui mi stava spiegando e che l'unica parte della sua spiegazione ancora poco chiara era perché mai fossero necessarie due categorie di insegnamento. Riuscivo a capire con facilità tutto ciò che diceva del suo mondo, mentre egli me l'aveva descritto come un processo irto di difficoltà.
«Ti ci vorrà tutta la vita per ricordare quanto hai appreso oggi» affermò «perché si trattava nella quasi totalità di conoscenza silenziosa. Fra qualche istante avrai dimenticato tutto. E questo uno degli insondabili misteri della percezione.»
Don Juan allora mi fece cambiare livelli di consapevolezza, dandomi un colpetto sul lato sinistro, proprio all'estremo della gabbia toracica. All'istante persi la straordinaria chiarezza di mente, e non fui in grado di ricordare di averla mai avuta...
Don Juan in persona mi assegnò il compito di scrivere sui presupposti della stregoneria. Una volta, come per caso, agli inizi del mio apprendistato, mi aveva suggerito di scrivere per utilizzare tutti gli appunti che avevo continuato a prendere.
Avevo accumulato risme su risme di annotazioni, senza mai riflettere su cosa ne avrei fatto.
Ritenni assurda la sua proposta perché non ero uno scrittore.
«Certo che non sei uno scrittore. Così dovrai ricorrere alla magia. Per prima cosa, dovrai visualizzare le tue esperienze, come se le stessi vivendo un'altra volta, e poi dovrai vedere il testo nel tuo sogno. Per te scrivere non sarà un esercizio letterario, ma una pratica di magia.»
Ho scritto così sui presupposti delle arti magiche proprio come mi aveva spiegato don Juan nel corso delle sue lezioni.
Nel suo schema di insegnamento, che era stato sviluppato dagli stregoni dei tempi antichi, c'erano due categorie. Una, chiamata “insegnamenti per il lato destro”, si svolgeva nello stato di consapevolezza normale. L'altra, chiamata "insegnamenti per il lato sinistro", era messa in pratica solo in stati di consapevolezza intensa.
Le due categorie permettevano ai maestri di avviare i loro adepti in tre campi di specializzazione: la padronanza della consapevolezza, l'arte dell' agguato, la padronanza dell' intento. Questi tre campi di specializzazione sono le tre incognite che uno stregone si trova ad affrontare nella sua ricerca della conoscenza.
La padronanza della consapevolezza è l'enigma della mente; la perplessità che gli stregoni provano di fronte al mistero e all'estensione stupefacenti della consapevolezza e della percezione.
L'arte dell' agguato è l'enigma del cuore, il dubbio che assale gli stregoni quando scoprono due cose: la prima, che il mondo ci appare inalterabilmente obiettivo e reale grazie alle peculiarità della consapevolezza e della percezione; la seconda, che se vengono in gioco diverse peculiarità di percezione, cambiano nel mondo proprio quelle cose che sembrano obiettive e reali in modo tanto inalterabile.
La padronanza dell' intento è l'enigma dello spirito, o il paradosso dell'astratto -
pensieri e azioni dello stregone proiettati al di là della nostra condizione umana.
L'insegnamento di don Juan sull'arte dell'agguato e sulla padronanza dell'intento dipendevano dai suoi insegnamenti della padronanza della consapevolezza che era la base delle sue lezioni e consisteva delle seguenti premesse fondamentali: 1. L'universo è un infinito agglomerato di campi di energia, che somigliano a fili di luminosità.
2. Questi campi di energia, chiamati emanazioni dell'Aquila, s'irradiano da una fonte di proporzioni inimmaginabili, chiamata metaforicamente l'Aquila.
3. Gli esseri umani sono composti anche loro di un incalcolabile numero degli stessi filiformi campi di energia. Queste emanazioni dell'Aquila formano un agglomerato che si manifesta come un globo di luce con braccia laterali, grande quanto una persona, simile a un gigantesco uovo luminoso.
4. Solo una parte piccolissima dei campi di energia all'interno di questo globo luminoso sono illuminati da un punto di intenso splendore situato sulla superficie dell'uovo.
5. La percezione si realizza quando i campi di energia del piccolo gruppo situato intorno al punto d'intenso splendore estendono la propria luce per illuminare identici campi di energia all'esterno dell'uovo. Poiché gli unici campi di energia percettibili sono quelli illuminati dal punto di intenso splendore, quel punto viene chiamato “il punto dove si mette insieme la percezione” o, semplicemente, “il punto di unione”
6. Il punto di unione si può spostare dalla sua posizione abituale sulla superficie del globo luminoso in un'altra, all'interno o all'esterno. Poiché la luminosità del punto di unione può far risplendere qualsiasi campo di energia con cui venga a contatto, ogni volta che si sposta in una nuova posizione illumina immediatamente nuovi campi di energia, rendendoli percettibili. Questa percezione si chiama vedere.
7. Quando il punto di unione si sposta, rende possibile la percezione di un mondo del tutto diverso, altrettanto obiettivo e reale di quello che percepiamo di solito. Gli stregoni vanno in quell'altro mondo per attingervi energia, potere, soluzioni a problemi generali e particolari, o per trovarsi di fronte all'inimmaginabile.
8. L' intento è la forza diffusa che ci mette in grado di percepire. Noi non acquistiamo consapevolezza perché percepiamo, bensì riusciamo a percepire in conseguenza dell'intrusione e del peso dell' intento.
9. Gli stregoni tendono a raggiungere lo stato di consapevolezza totale per sperimentare tutte le possibilità di percezione che ha l'uomo. Questo stato di consapevolezza implica perfino una morte alternativa.
Un livello di conoscenza pratica faceva parte dell'insegnamento per la padronanza della consapevolezza. A quel livello pratico don Juan m'insegnò i procedimenti necessari a spostare il punto di unione. I due grandi sistemi escogitati dai veggenti stregoni dei tempi antichi per ottenere lo scopo erano: il sognare, cioè il controllo e l'utilizzazione dei sogni, e l' agguato, cioè il controllo del comportamento.
Spostare il proprio punto di unione era una manovra essenziale che ogni stregone era obbligato ad apprendere. Alcuni di loro, i nagual, imparavano anche a farlo per gli altri. Riuscivano a spostare il punto di unione dalla sua collocazione abituale dandogli direttamente un colpo secco con la mano. Chi lo riceveva, lo sentiva come una pacca sulla scapola destra - benché il corpo non fosse mai neanche sfiorato - e ne risultava uno stato di consapevolezza intensa.
Osservando la tradizione, don Juan effettuò la parte più importante e più drammatica delle sue lezioni, gli insegnamenti per il lato sinistro, esclusivamente in questi stati di consapevolezza intensa. Per la loro straordinaria qualità, don Juan mi chiese di non discuterne con altri finché non avessimo concluso tutto quello che comprendeva lo schema d'insegnamento dello stregone. Non mi fu difficile accettare quella richiesta. In quegli eccezionali stati di consapevolezza le mie capacità di comprendere le istruzioni si accrescevano incredibilmente, ma nello stesso tempo le mie capacità di descrivere o ricordare s'indebolivano. In quegli stati io agivo con sicurezza e abilità ma non ricordavo nulla di quello che avevo fatto una volta tornato nella mia consapevolezza normale.
Mi ci vollero anni prima di riuscire a effettuare la cruciale trasformazione da consapevolezza intensa a semplice memoria. La ragione e il buon senso ritardarono questo momento perché si scontravano brutalmente con l'assurda, impensabile realtà della consapevolezza intensa e della conoscenza diretta. Per anni la confusione conoscitiva che ne derivava mi costrinse a evitare il problema non pensandoci.
Tutto quello che ho scritto sul mio apprendistato stregonesco finora non è stato altro che il resoconto delle lezioni di don Juan sulla padronanza della consapevolezza.
Non ho ancora descritto l'arte dell' agguato o la padronanza dell' intento.
Don Juan m'insegnò i loro princìpi e le loro applicazioni con l'aiuto di due suoi compagni: uno stregone di nome Vicente Medrano e un altro di nome Silvio Manuel, ma qualsiasi cosa io abbia appreso dalle loro lezioni è ancora avvolto in ciò che don Juan chiamava le complicazioni della consapevolezza intensa. Finora non sono riuscito a scrivere e neanche a pensare coerentemente sull'arte dell' agguato e la padronanza dell' intento. Ho sbagliato a considerarli argomenti per la memoria e per il ricordo normale. Lo sono, ma al tempo stesso non lo sono. Per porre fine a questa contraddizione non ho discusso gli argomenti in via diretta - cosa virtualmente impossibile - ma li ho trattati per via indiretta tramite il tema conclusivo dell'insegnamento di don Juan: le storie degli antichi maestri dell'occulto.
Egli mi raccontò quelle storie per evidenziare quello che definiva il nocciolo astratto delle sue lezioni, ma io non fui in grado di afferrare la natura di quei noccioli astratti nonostante le sue esaurienti spiegazioni che, ora lo so, miravano più ad aprirmi la mente che a spiegare alcunché in modo razionale. Il suo modo di parlare mi fece credere per molti anni che le sue spiegazioni dei noccioli astratti fossero come dissertazioni accademiche, e tutto quello che fui capace di fare, considerate le circostanze, fu di dare per scontate le sue spiegazioni. Divennero parte della mia tacita accettazione del suo insegnamento, ma senza una stima completa da parte mia, che era invece essenziale alla loro comprensione.
Don Juan mi presentò tre gruppi di sei noccioli astratti ciascuno, a un livello di complessità crescente. In questo volume mi sono occupato del primo gruppo che è composto dei seguenti noccioli astratti: le manifestazioni dello spirito, il tocco dello spirito, lo stratagemma dello spirito, la discesa dello spirito, le esigenze dell' intento e la manovrabilità dell' intento.
Il potere del silenzio
I
Le manifestazioni dello spirito
Il primo nocciolo astratto
Don Juan soleva raccontarmi, quando erano pertinenti, brevi aneddoti sugli stregoni della sua famiglia, specie a proposito del suo maestro, il nagual Julian. Non erano racconti veri e propri, ma descrizioni dei comportamenti di quegli stregoni e degli aspetti delle loro personalità, ognuna intesa a chiarire un argomento specifico nel mio apprendistato.
Avevo sentito gli stessi aneddoti dagli altri quindici stregoni che componevano il seguito di don Juan, ma nessuna delle loro relazioni era riuscita a darmi un'immagine chiara di coloro che descriveva. Poiché non c'era modo di persuadere don Juan a fornirmi ulteriori notizie su quegli stregoni, mi ero rassegnato all'idea di non conoscere mai a fondo nulla su di loro.
Un pomeriggio don Juan, mentre ci trovavamo sulle montagne del Messico meridionale, dopo avermi illustrato più ampiamente le complicazioni della padronanza della consapevolezza, pronunciò una frase che mi lasciò molto perplesso.
«Penso sia arrivato il momento di parlare degli stregoni del nostro passato»
disse.
Don Juan mi spiegò che dovevo cominciare a trarre conclusioni basate su un'analisi sistematica del passato, conclusioni riguardanti sia il mondo delle faccende quotidiane sia il mondo degli stregoni. «Gli stregoni mantengono legami vitali con il loro passato. Non intendo il loro passato personale. Per loro, il passato è quello che hanno fatto altri stregoni in tempi ormai trascorsi. Così quel che noi faremo adesso è esaminare quel passato.
«Anche l'uomo comune rivisita il passato, ma si tratta per lo più del suo passato personale, e lo fa per ragioni personali. Gli stregoni fanno proprio l'opposto, interrogano il passato per ottenere un punto di riferimento.»
«Ma non è quello che facciamo tutti? Guardare al passato per avere un punto di riferimento?»
«No!» rispose con enfasi. «L'uomo comune si misura sul passato, sia sul suo passato personale, sia sulla passata conoscenza del suo tempo, per trovare giustificazioni alla propria condotta presente o futura o per stabilire un modello per se stesso. Solo gli stregoni cercano davvero un punto di riferimento nel passato.»
«Forse, don Juan, le cose mi sarebbero più chiare se mi dicessi che cos'é, per uno stregone, un punto di riferimento.»
«Per gli stregoni, stabilire un punto di riferimento equivale a una possibilità di esaminare l' intento» rispose. «Che è esattamente lo scopo di questo conclusivo argomento di studio. E nulla può offrire agli stregoni uno sguardo migliore all'intento quanto l'analizzare i racconti di altri stregoni che cercano di capire quella stessa forza.»
Mi spiegò che gli stregoni della sua famiglia prestavano molta attenzione al fondamentale ordine astratto della loro conoscenza.
«Nella stregoneria ci sono ventuno noccioli astratti» proseguì don Juan. «E poi, basati su quei noccioli astratti, ci sono decine e decine di storie stregonesche sui nagual del nostro lignaggio che lottano per comprendere lo spirito. E' tempo di renderti edotto dei noccioli astratti e delle storie della stregoneria.»
Mi aspettavo che don Juan cominciasse a raccontare, ma lui cambiò argomento e tornò alle spiegazioni della consapevolezza.
«Un momento,» protestai «e le storie della stregoneria? Non dovevi raccontarmele?»
«Ma certamente» replicò. «Non si tratta però di storie che si possono narrare come favole. Devi rifletterci sopra a fondo e poi ripensarle - riviverle, diciamo.»
Ci fu un lungo silenzio. Mi feci guardingo per timore che, insistendo a chiedergli di raccontarmi quegli aneddoti, potessi andare incontro a qualcosa di cui mi sarei rammaricato più tardi. Ma la curiosità prevalse sul buon senso.
«Allora, su, cominciamo!» brontolai.
Don Juan sorrise maliziosamente, certo afferrando il succo dei miei pensieri. Si alzò e mi fece segno di seguirlo. Eravamo seduti su alcuni massi privi di vegetazione, in fondo a una gola. Si era a metà pomeriggio. Il cielo era cupo e nuvoloso. In alto, sulle cime delle montagne verso oriente, incombeva bassa una nuvolaglia plumbea e greve d' pioggia. Al confronto, le nuvole alte in direzione sud facevano sembrare terso il cielo. Poco prima era piovuto molto, ma poi la pioggia sembrava fosse andata a nascondersi lasciandosi dietro solo una minaccia.
Avrei dovuto essere gelato fino alle ossa, perché faceva molto freddo. Invece avevo caldo. Stringendo un sasso che don Juan mi aveva fatto tenere in mano, mi accorsi che questa sensazione di calore a temperature quasi polari mi era familiare, eppure mi stupiva ogni volta. Quando ero sul punto di congelare, don Juan mi faceva afferrare un ramo o mi dava un sasso da stringere o m'infilava una manciata di foglie sotto la camicia, sulla punta dello sterno: bastava questo a fare alzare la mia temperatura corporea.
Avevo cercato, senza alcun successo, di ricreare da solo gli effetti dei suoi interventi. Egli mi disse che non erano i suoi interventi ma il suo silenzio interiore a tenermi caldo e che i rami, i sassi e le foglie erano meri sotterfugi per intrappolare la mia attenzione e mantenerla a fuoco.
In fretta, salimmo lungo gli scoscesi fianchi della montagna fino a raggiungere una cornice rocciosa proprio in vetta. Ci trovavamo ai piedi di una catena più alta.
Dalla cornice rocciosa vedevo che la nebbia stava iniziando a coprire da sud il fondovalle ai nostri piedi. Ciuffi di nuvole basse incombevano su di noi, scivolando dai picchi verde-neri alti a occidente. Dopo la pioggia, sotto una cupa nuvolaglia, la valle e i monti a est e a sud sembravano avvolti in una cappa di silenzio verde-nero.
«Ecco il posto ideale per far quattro chiacchiere» disse don Juan, sedendosi sul pavimento roccioso di una caverna nascosta e poco profonda.
La caverna era grande da potercisi sedere fianco a fianco. Sfioravamo il soffitto con la testa e appoggiavamo comodamente la schiena contro la superficie curva della parete rocciosa. Pareva che fosse stata scavata su misura per noi due.
Notai un altro particolare strano: quando ero in piedi sulla cornice vedevo l'intera vallata e le catene montuose a est e a sud, ma quando mi sedevo ero chiuso fra le rocce. Eppure la cornice era piana e a livello con il pavimento della caverna.
Stavo per far notare questo effetto a don Juan, ma lui mi precedette.
«Questa caverna è opera dell'uomo. La cornice è in pendenza, ma l'occhio non registra l'inclinazione.»
«Chi ha scavato questa grotta, don Juan?»
«Gli antichi stregoni. Migliaia di anni fa, forse. Una delle peculiarità di questa caverna è che animali, insetti e anche uomini ne stanno lontano. Pare che gli antichi stregoni l'abbiano infusa di un'aura magica che fa sentire a disagio ogni essere vivente.»
Tuttavia io mi ci sentivo stranamente e irrazionalmente sicuro e felice. Un senso di appagamento fisico mi faceva fremere in tutto il corpo. Provavo una gradevolissima, deliziosa sensazione allo stomaco, come se mi titillassero le fibre nervose.
«Io non mi sento affatto a disagio» osservai.
«Neanch'io» disse lui «ma vuol solo dire che tu e io non siamo molto lontani per temperamento da quei vecchi stregoni del passato; e ciò mi preoccupa moltissimo.»
Avevo paura a spingermi oltre sull'argomento, così aspettai che parlasse lui.
«La prima storia di stregoneria che ti racconterò si chiama "Le manifestazioni dello spirito”» cominciò don Juan «ma non farti ingannare dal titolo. Si tratta solo del primo nocciolo astratto intorno a cui è strutturata la prima storia di stregoneria.
«Quel primo nocciolo astratto è una storia in sé» proseguì. «C'era una volta un uomo, dice la storia, un uomo comune senza alcun attributo speciale. Come chiunque altro, era un condotto per lo spirito. E, in virtù di quello, come ogni altro, egli era parte dello spirito, parte dell'astratto. Ma non lo sapeva. Il mondo lo teneva così occupato che gli mancava il tempo e l'inclinazione per esaminare davvero la faccenda.
«Lo spirito cercò, inutilmente, di rivelare la loro connessione. Usando una voce interiore, lo spirito svelava i suoi segreti, ma l'uomo era incapace di comprendere le rivelazioni. Naturalmente sentiva la voce dal profondo, ma credeva si trattasse dei suoi stessi sentimenti, dei suoi stessi pensieri.
«Lo spirito, per scuoterlo dal suo torpore, gli offrì tre segni, tre successive manifestazioni. Gli attraversò la strada fisicamente, nella maniera più ovvia, ma l'uomo pensava solo a se stesso, immemore di ogni altra cosa.»
Don Juan s'interruppe e mi guardò come faceva sempre quando si aspettava commenti o domande da parte mia. Io non avevo nulla da dire. Non capivo a quale conclusione volesse arrivare.
«Ti ho appena descritto il primo nocciolo astratto. continuò lui. «La sola cosa che potrei ancora aggiungere è che lo spirito, visto che l'uomo continuava a non voler capire, fu costretto a usare uno stratagemma. E l'inganno divenne l'essenza della via dello stregone. Ma questa è un'altra storia.»
Don Juan mi spiegò che gli stregoni ritenevano che questo nocciolo astratto fosse il piano degli avvenimenti, o un disegno ricorrente ogni volta che l' intento indicava qualcosa di particolarmente importante. I noccioli astratti, quindi, erano il progetto di catene complete di eventi.
Mi assicurò che con mezzi al di là di ogni comprensione, ogni particolare di ogni nocciolo astratto si ripresentava a ogni apprendista nagual. Inoltre mi assicurò di aver assistito l' intento a coinvolgermi in tutti i noccioli astratti della stregoneria, proprio come il suo benefattore, il nagual Julian, e tutti i nagual prima di lui avevano coinvolto i loro apprendisti. Il processo attraverso il quale ogni apprendista nagual incontrava i noccioli astratti creava una serie di relazioni intrecciate attorno a quei noccioli astratti, incorporando i particolari dettagli della personalità e delle circostanze di ogni apprendista.
Per esempio, mi disse che io avevo una storia personale sulle manifestazioni dello spirito, lui aveva la sua e il suo benefattore un'altra ancora, come pure il nagual che lo aveva preceduto, e così via.
«Qual è la mia storia sulle manifestazioni dello spirito?» chiesi, piuttosto sconcertato.
«Se c'è un guerriero conscio delle proprie storie, questo guerriero sei tu» mi rispose. «In fondo, te ne occupi da anni nei tuoi libri. Ma non hai notato i noccioli astratti perché sei un uomo pratico: fai tutto al solo scopo di affinare il tuo senso pratico. Benché tu conosca le tue storie fino alla nausea, non avevi la minima idea che contenessero un nocciolo astratto. Perciò, spesso, tutto quello che faccio ti appare una bizzarra attività realistica: insegnare stregoneria a un allievo riluttante e per lo più stupido. Fino a quando considererai la cosa in questi termini, ti sfuggiranno i noccioli astratti.»
«Mi devi perdonare, don Juan,» replicai «ma le tue dichiarazioni creano in me una grande confusione. Cosa stai dicendo?»
«Sto cercando di introdurre le storie di stregoneria come argomento di discussione» rispose. «Non ti ho mai parlato specificamente di questo argomento perché per tradizione lo si lascia nascosto. E' l'ultimo artifizio dello spirito. Si dice che il momento in cui l'apprendista comprende i noccioli astratti equivale alla posa della pietra che corona e suggella una piramide.»
Si stava facendo buio e sembrava che minacciasse ancora di piovere. Pensavo con preoccupazione che se il vento avesse soffiato da est verso ovest quando fosse venuto a piovere, in quella caverna ci saremmo infradiciati. Ero certo che don Juan lo sapesse, ma sembrava ignorarlo.
«Non pioverà di nuovo fino a domani mattina» disse.
Sentendo che veniva data una risposta a un mio pensiero interiore, ebbi un involontario soprassalto e sbattei la testa contro la volta della caverna. Il botto fu più forte del dolore che sentivo.
Don Juan si sbellicava dalle risa. Dopo un po' la testa cominciò a farmi male davvero e dovetti massaggiarmela.
«La tua compagnia è per me tanto divertente quanto deve essere stata la mia per il mio benefattore» osservò e riprese ancora a ridere.
Rimanemmo zitti per qualche minuto. Intorno a me c'era un silenzio minaccioso.
Mi sembrava di sentir frusciare le nuvole basse mentre scendevano verso di noi dall'alto dei monti. Poi mi accorsi che si trattava del soffio di una lieve brezza. Dalla mia posizione, sul fondo della caverna, sembrava un mormorìo di voci umane.
«Ebbi la fortuna incredibile di avere due nagual come maestri,» disse don Juan, e spezzò l'incantesimo con cui il vento mi teneva stretto in quel momento «uno naturalmente era il mio benefattore, il nagual Julian, e l'altro era il suo benefattore, il nagual Elìas. Il mio fu un caso unico.»
«Perché il tuo fu un caso unico?» chiesi io.
«Perché per generazioni intere i nagual hanno raccolto i propri adepti molti anni dopo che i loro maestri avevano lasciato questo mondo» spiegò. «Con l'eccezione del mio benefattore. Io divenni apprendista del nagual Julian otto anni prima che il suo benefattore lasciasse il mondo. Ebbi otto anni di grazia. Fu la fortuna maggiore che potesse capitarmi, poiché ebbi l'opportunità di avere due insegnanti di temperamento opposto. Fu come essere allevato da un padre potente e da un nonno ancora più potente che non la pensano allo stesso modo. In una situazione del genere, vince sempre il nonno. Così, io sono in tutto e per tutto il prodotto degli insegnamenti del nagual Elìas. Ero più vicino a lui non solo come carattere ma anche come aspetto.
Direi che gli debbo la mia messa a punto. Tuttavia, il grosso del lavoro che mi trasformò da creatura miserabile in impeccabile guerriero lo devo al mio benefattore, il nagual Julian.»
«Com'era fisicamente, il nagual Julian?»
«Sai che ancora oggi mi è difficile visualizzarlo?» rispose don Juan. «So che sembra assurdo, ma secondo le necessità o le circostanze poteva essere giovane o vecchio, piacente o brutto, debole ed effemminato oppure forte e virile, grasso o snello, di media statura o bassissimo.»
«Vuoi dire che era un attore e interpretava ruoli diversi, ricorrendo a trucchi e a materiale scenico?»
«No, non c'erano trucchi e lui non era un semplice attore. Grande attore lo era, certo, per conto suo, ma era tutta un'altra storia. Era capace di trasformarsi e diventare tutti quei tipi diametralmente opposti. Da grande attore, non aveva difficoltà a esprimere le più minute peculiarità di comportamento che rendono reale ogni singolo essere. Potremmo dire che si sentiva a suo agio in ogni cambiamento di essere come lo sei tu quando ti cambi d'abito.»
Gli chiesi avidamente di parlarmi ancora delle trasformazioni del suo benefattore. Mi disse che qualcuno gli aveva insegnato il sistema per provocare tali trasformazioni, ma per potermi dare ulteriori spiegazioni si sarebbe trovato costretto a far coincidere due storie diverse.
«Che aspetto aveva il nagual Julian quando non si trasformava?. gli domandai.
«Diciamo che prima di diventare nagual era molto asciutto e muscoloso. Aveva capelli neri folti e ondulati, naso lungo e sottile, denti candidi, grandi e forti, viso ovale, mascella pronunciata e vividi occhi marrone scuro. Era alto circa un metro e settanta. Non era indio e neanche un messicano di pelle scura, ma non aveva neppure l'incarnato degli anglosassoni. Anzi la sua carnagione non assomigliava a nessun'altra, specie negli ultimi anni, quando la sua camaleontica epidermide si trasformava in continuazione da scura a molto chiara e a scura di nuovo. Quando lo vidi per la prima volta era un vecchio di pelle appena appena scura; poi, con il passare del tempo, diventò un giovane di pelle chiara, forse solo di qualche anno maggiore di me. Io allora avevo vent'anni.
«Ma se i cambiamenti del suo aspetto esteriore erano stupefacenti,» proseguì don Juan «i cambiamenti di umore e di comportamento che accompagnavano ogni trasformazione lo erano ancora di più. Per esempio, quando era un giovanotto grassottello era allegro e sensuale. Quando era un vecchietto rinsecchito era meschino e vendicativo. Quando era un obeso decrepito era il più grande imbecille sulla faccia dell'universo.»
«Ma non era mai se stesso?» chiesi.
«Non nel modo in cui io sono me stesso» replicò lui. «Poiché non sono interessato alle trasformazioni, io sono sempre lo stesso. Ma lui non era affatto come me.»
Don Juan mi guardò come se stesse valutando la mia forza interiore. Sorrise, scosse il capo e scoppiò in una sonora risata.
«Che c'è da ridere, don Juan?» gli domandai.
«Il fatto è che tu sei ancora troppo rigido e pudibondo per apprezzare pienamente la natura delle trasformazioni del mio benefattore e il loro fine totale»
rispose. «Spero solo che, quando te ne parlerò, non divenga per te un'ossessione morbosa.»
Per qualche motivo mi sentii improvvisamente a disagio e dovetti cambiare argomento.
«Perché i nagual sono chiamati “benefattori” e non semplicemente maestri?»
chiesi con un certo nervosismo.
«Quello di chiamare il nagual benefattore è un gesto da parte degli adepti»
rispose don Juan. «Un nagual crea nei suoi discepoli un senso di riconoscenza sconvolgente. Dopo tutto, il nagual li forma e li guida in campi al di là dell'immaginazione.»
Commentai che, a mio parere, l'insegnare era l'atto più grande e più altruistico che un individuo potesse fare per un altro.
«Secondo te, insegnare equivale a parlare di modelli» disse. «Per uno stregone insegnare è quello che il nagual fa per i suoi apprendisti. Per loro egli utilizza la forza prevalente nell'universo: l' intento - la forza che muta e riordina le cose o le mantiene così come sono. Il nagual formula e poi guida le conseguenze che quella forza può avere sui suoi adepti. Senza l'intervento formatore del nagual sull'intento gli apprendisti non conoscerebbero il senso del meraviglioso, del magico. I suoi discepoli, invece di intraprendere un viaggio alla scoperta dell'occulto, imparerebbero semplicemente il mestiere del guaritore, del negromante, del ciarlatano, del rabdomante e simili.»
«Mi puoi spiegare l' intento?» chiesi.
«L'unico modo di conoscere l' intento» rispose «é conoscerlo direttamente tramite una connessione vivente che c'è tra l' intento e tutti gli esseri sensibili. Gli stregoni chiamano l' intento l'indescrivibile, lo spirito, l'astratto, il nagual. Il nome che io sceglierei è nagual, ma coinciderebbe con il nome del capo, del benefattore, che è anche detto nagual, così ho optato per spirito, intento, l'astratto.»
Don Juan s'interruppe bruscamente e mi raccomandò di starmene un po' zitto a riflettere su quanto mi aveva detto. Intanto si era fatto buio. Il silenzio era così profondo che, invece di conciliarmi il sopore, mi provocava tensione. Non riuscivo a tenere in ordine i miei pensieri. Cercavo di concentrare l'attenzione su quanto mi aveva detto, ma invece pensavo a tutt'altro, finché infine mi addormentai.
L'impeccabilità del nagual Elìas
Non avevo modo di calcolare quanto avessi dormito in quella caverna. La voce di don Juan mi scosse e mi svegliai. Mi stava dicendo che la prima storia di stregoneria sulle manifestazioni dello spirito era il resoconto del rapporto fra l' intento e il nagual, la storia di come lo spirito avesse lanciato un'esca per il nagual, possibile discepolo, e di come il nagual avesse dovuto valutare quell'esca prima di decidere se accettarla o respingerla.
Nella caverna era molto buio e il ristretto spazio era limitativo. Di norma, un posto così angusto mi avrebbe fatto venire la claustrofobia, ma la caverna continuava a esercitare su di me un'azione calmante, scacciando ogni senso di fastidio. Inoltre, la conformazione della caverna assorbiva l'eco delle parole di don Juan.
Don Juan mi spiegò che ogni gesto degli stregoni, specie dei nagual, era effettuato o per rafforzare il loro legame con l'intento o per rispondere a una provocazione del legame stesso. Gli stregoni, e i nagual in modo particolare, dovevano perciò essere sempre attivamente attenti alle manifestazioni dello spirito.
Tali manifestazioni erano chiamate gesti dello spirito o, in modo più semplice, indicazioni, presagi.
Mi ripeté una storia che mi aveva già raccontato, la storia di come aveva incontrato il suo benefattore, il nagual Julian.
Don Juan era stato indotto da due tipi poco raccomandabili, con un trucco, ad accettare un impiego in una fattoria isolata. Uno dei due, il capo fattore di quell'hacienda, si era impossessato di don Juan, riducendolo in pratica alla schiavitù.
Disperato e senza altre vie di scampo, don Juan era fuggito. Il violento capo fattore l'aveva inseguito e raggiunto in una strada di campagna dove gli aveva sparato al petto, dandolo per morto.
Don Juan era rimasto privo di sensi sulla strada, rischiando di morire dissanguato, quando era sopraggiunto il nagual Julian. Con la sua arte di guaritore, aveva fermato l'emorragia e, portato don Juan ancora svenuto a casa sua, l'aveva curato e guarito.
Le indicazioni che lo spirito aveva dato al nagual Julian a proposito di don Juan erano state due. La prima, una breve folata di vento che aveva sollevato un mulinello di polvere sulla strada a un paio di metri dal suo corpo. La seconda fu il pensiero che gli era passato per la mente un attimo prima di sentire il colpo di pistola a breve distanza: era tempo di avere un apprendista nagual. Un attimo dopo, lo spirito gli aveva dato infine un altro segnale quando, mentre lui correva a ripararsi, si era scontrato con lo sparatore mettendolo in fuga, impedendogli forse così di sparare ancora a don Juan. Scontrarsi con qualcuno era il tipo di errore che nessuno stregone, tanto più un nagual, poteva mai fare.
Il nagual Julian aveva immediatamente valutato l'opportunità che gli si presentava. Quando vide don Juan capi la ragione delle manifestazioni dello spirito: era un uomo doppio, perfetto candidato per diventare il suo apprendista nagual.
Questa storia provocò in me un acuto interesse razionale. Volevo sapere se gli stregoni potessero interpretare un presagio in modo erroneo. Don Juan mi rispose che, benché la mia domanda sembrasse perfettamente legittima, era però fuori luogo, come la maggior parte delle mie domande, perché io le formulavo partendo dalle mie esperienze nel mondo della vita quotidiana. Di conseguenza erano sempre basate su procedure sperimentate, passi da seguire e regole di precisione, ma non avevano nulla a che vedere con i presupposti della magia. Mi fece notare quello che non andava nel mio modo di ragionare: io non includevo mai le mie esperienze nel mondo degli stregoni.
Ribattei che ben poche delle mie esperienze nel mondo degli stregoni avevano una certa continuità e quindi non potevo usarle nella mia attuale vita di ogni giorno.
Pochissime volte, e solo quando ero in un profondo stato di consapevolezza intensa, avevo ricordato tutto. Al livello di consapevolezza intensa che raggiungevo di solito, l'unica esperienza che avesse continuità fra passato e presente era quella di conoscere lui.
Mi disse con voce tagliente che io ero più che capace di sostenere le discussioni con gli stregoni in quanto avevo sperimentato le premesse della magia nel mio stato di consapevolezza normale. In tono più urbano aggiunse che la consapevolezza intensa non rivelava tutto fino a quando non si fosse completata la conoscenza dell'intensa struttura della stregoneria.
Poi rispose alla mia domanda se gli stregoni potessero interpretare i presagi in modo errato. Mi spiegò che quando uno stregone interpretava un presagio ne penetrava il significato esatto senza avere la minima idea di come facesse a saperlo.
Era questo uno degli effetti stupefacenti dell'anello che collegava all' intento. Gli stregoni riuscivano a conoscere le cose direttamente. Le loro certezze dipendevano dalla forza e dalla chiarezza dell'anello di collegamento.
Quel che noi chiamiamo intuizione, non è che l'attivazione del nostro collegamento con l' intento e poiché gli stregoni continuano ad analizzare con cautela e a rafforzare quell'anello, si può ben dire che intuiscono tutto e accuratamente e senza sbagliare. Divinare i presagi è un luogo comune per i maestri dell'occulto - gli errori ci sono solo quando sentimenti personali si frappongono annebbiando l'anello di collegamento con l' intento degli stregoni. In ogni altro caso, la loro conoscenza diretta è del tutto accurata e funzionale.
Restammo per un po' in silenzio.
Di punto in bianco mi disse: «Ti voglio raccontare qualcosa sul nagual Elìas e le manifestazioni dello spirito. Lo spirito si manifesta a uno stregone, specie a un nagual, a ogni cambiamento. Tuttavia, questo non è tutta la verità. Tutta la verità è che lo spirito si rivela a ognuno con la stessa intensità e consistenza, ma solo gli stregoni, e i nagual in modo particolare, sono in sintonia con tali rivelazioni.»
Don Juan cominciò il suo racconto. Disse che il nagual Elìas un giorno stava cavalcando verso la città e percorreva una scorciatoia attraverso un campo di granturco quando d'improvviso il cavallo ebbe uno scarto, impaurito dal volo radente e rapido di un falco che, in picchiata, aveva mancato solo di pochi centimetri il cappello di paglia del nagual. Questi era sceso immediatamente da cavallo, cominciando a guardarsi intorno. Aveva scorto un giovanotto dall'aspetto strano, tra le alte stoppie secche del granturco. Indossava un abito scuro di un certo pregio e sembrava forestiero. Il nagual Elìas era abituato a vedere nei campi i contadini o i proprietari, ma non aveva mai visto uno di città, vestito con eleganza, camminare attraverso i campi con tanta evidente noncuranza per il proprio costoso abbigliamento.
Il nagual legò il cavallo e si avvicinò al giovane. Aveva riconosciuto come ovvie manifestazioni dello spirito sia il volo del falco sia la tenuta dell'uomo, e non poteva disinteressarsene. Arrivò molto vicino al giovane e vide quel che stava accadendo: egli stava inseguendo una contadinella che correva davanti a lui a qualche metro di distanza, sfuggendogli ridendo.
La contraddizione saltava all'occhio del nagual: i due che se la spassavano nel campo di granturco erano male assortiti. Secondo il nagual il giovane doveva essere figlio di qualche proprietario terriero e la ragazza una servetta della casa. Si sentiva imbarazzato di stare a osservarli ed era sul punto di girarsi e andarsene quando il falco calò di nuovo sul campo, sfiorando stavolta il capo del giovanotto. Il falco spaventò i due che si fermarono e guardarono in su, cercando di prevedere il prossimo volo. Il nagual notò che l'uomo era slanciato e di bell'aspetto, con occhi vivaci e incantatori.
Poi i due si stancarono di osservare il falco e tornarono ai loro giochi. L'uomo afferrò la donna, l'abbracciò e dolcemente la fece sdraiare a terra. Ma invece di cercare di fare l'amore con lei, come pensava il nagual, si tolse gli abiti e le si pavoneggiò davanti, tutto nudo.
Lei non chiuse pudicamente gli occhi, né gridò per il timore o imbarazzo.
Ridacchiava, affascinata dalla strana esibizione dell'uomo nudo che le ballonzolava intorno come un satiro, sghignazzando e facendo gesti osceni. Alla fine, sopraffatta da quello spettacolo, diede in grida selvagge, si alzò e si abbandonò nelle braccia del giovane.
Don Juan disse che il nagual Elìas gli aveva confessato che le indicazioni dello spirito in quella occasione erano state davvero sconcertanti. Era più che evidente che si trattava di un pazzo, altrimenti, sapendo quanto fossero protettivi i contadini nei confronti delle loro donne, non avrebbe pensato di sedurre una contadinella in pieno giorno, a pochi metri dalla strada - nudo, per giunta!
Don Juan scoppiò a ridere e mi spiegò che a quei tempi togliersi i vestiti e aver rapporti sessuali alla luce del giorno in un posto così, voleva dire essere pazzi o benedetti dallo spirito. Aggiunse che quello che l'uomo aveva fatto non è affatto straordinario oggigiorno, ma allora, quasi cent'anni fa, la gente era infinitamente più inibita.
Dal momento in cui il nagual Elìas aveva posto gli occhi su quel tipo, tutte le sue azioni lo avevano convinto che il giovanotto era nello stesso tempo pazzo e benedetto dallo spirito. Egli temeva che sopraggiungessero dei contadini e, infuriati, lo linciassero sul posto. Ma non passò nessuno. Gli pareva che il tempo fosse stato sospeso.
Dopo aver fatto l'amore, l'uomo si rivestì, prese un fazzoletto di tasca, si spolverò meticolosamente le scarpe e, sempre continuando a fare promesse mirabolanti alla ragazza, se ne andò per la sua strada. Il nagual Elìas lo seguì per parecchi giorni e scoprì che si chiamava Julian e faceva l'attore.
Il nagual lo vide abbastanza sulle scene per accorgersi che l'attore aveva un grande carisma. Il pubblico, specie quello femminile, lo idolatrava, ed egli non si faceva scrupolo di sedurre le sue ammiratrici usando quel suo fascino carismatico.
Poiché il nagual lo seguiva a ogni passo, poté vedere più di una volta la sua tecnica di seduzione, basata sull'esibirsi nudo alle sue fan adoranti non appena queste rimanessero sole con lui. Dopo, non gli restava che attendere la resa delle donne, stordite dalla sua esibizione. La tecnica pareva estremamente efficace. Il nagual doveva ammettere che l'attore aveva grande successo in tutto, con una eccezione. Era ammalato senza speranza. Il nagual aveva visto l'ombra della morte che lo seguiva dovunque.
Don Juan mi spiegò di nuovo una cosa che mi aveva detto anni prima - la nostra morte era una macchia nera proprio dietro la spalla sinistra. Disse che gli stregoni sapevano quando una persona stava per morire perché potevano vedere la macchia scura che diventava un'ombra fluttuante dell'identica forma e dimensione della persona cui apparteneva.
Poiché riconosceva la presenza imminente della morte, il nagual era profondamente perplesso. Si chiedeva come mai lo spirito stesse scegliendo una persona tanto malata. Gli avevano insegnato che, allo stato naturale, prevaleva la sostituzione, non la guarigione. E il nagual dubitava di possedere l'abilità o la forza di guarire quel giovane o di resistere all'ombra nera della morte. Dubitava persino di riuscire a scoprire perché lo spirito avesse coinvolto lui nell'ostentare uno spreco così ovvio.
Il nagual non poteva fare altro che restare con l'attore, seguirlo negli spostamenti e attendere l'opportunità di vedere a profondità maggiore. Don Juan spiegò che la prima reazione di un nagual, di fronte alle manifestazioni dello spirito, era vedere le persone interessate. Il nagual Elìas era stato molto attento a vedere le persone interessate. Il nagual Elias era stato molto attento a vedere l'uomo non appena gli aveva messo gli occhi addosso. Aveva anche visto la contadina che faceva parte della manifestazione dello spirito, ma non aveva visto nulla che, a suo giudizio, potesse garantire l'ostentazione dello spirito.
Mentre assisteva a un'altra seduzione, però, l'abilità di vedere del nagual acquistò una nuova profondità. Questa volta l'ammiratrice adorante era la figlia di un ricco proprietario terriero e fin dall'inizio aveva avuto lei il controllo della situazione.
Il nagual aveva scoperto il loro appuntamento perché aveva sentito che lei sfidava l'attore a incontrarla il giorno dopo. Il nagual si era nascosto sull'altro lato della strada quando la giovane donna, all'alba dell'indomani, era uscita da casa sua e, invece di andare alla prima messa, era andata all'appuntamento con l'attore. Questi la stava aspettando e lei lo aveva persuaso a seguirlo nei campi. Lui sembrava esitare, lei lo aveva beffeggiato con il suo sarcasmo e non gli aveva permesso di tirarsi indietro.
Mentre il nagual li osservava sgattaiolare via, ebbe l'assoluta convinzione che quel giorno sarebbe accaduto qualcosa che nessuno dei protagonisti si aspettava. Vide che l'ombra nera dell'attore era diventata il doppio della sua statura. Da una misteriosa fissità dello sguardo della giovane donna, il nagual dedusse che anche lei sentiva per intuito l'ombra nera della morte. L'attore appariva preoccupato, non rideva come di consueto in altre simili occasioni.
I due camminarono per un bel pezzo. A un certo punto si accorsero che il nagual li seguiva, ma lui finse subito di essere occupato a lavorare la terra come uno dei tanti braccianti del luogo. Così la coppia si tranquillizzò e il nagual poté avvicinarsi di più.
Poi venne il momento in cui l'attore si tolse gli abiti mostrandosi nudo alla ragazza, ma questa invece di illanguidirsi e cadergli fra le braccia come tutte le precedenti conquiste, cominciò a picchiarlo. Lo prese a calci e pugni, spietatamente, pestandogli i piedi scalzi, facendolo gridare dal dolore.
Il nagual sapeva che l'uomo non aveva minacciato in alcun modo la ragazza, né le aveva fatto alcun male. Non l'aveva sfiorata neanche con un dito: era stata lei sola ad alzare le mani, lui cercava solo di parare i colpi, insistendo pervicacemente nei suoi tentativi di seduzione, esibendole, pero senza troppo entusiasmo, i genitali.
Il nagual era pervaso in egual misura da disgusto e ammirazione. Sapeva che l'attore era un inguaribile libertino, ma con altrettanta semplicità avvertiva che c'era in lui qualcosa di eccezionale, benché rivoltante. Lo sconcertava vedere che l'anello di collegamento dell'attore con lo spirito era straordinariamente nitido.
Infine la lotta si concluse. La donna smise di picchiare l'attore e, invece di scappar via, gli si arrese e, sdraiandosi, gli disse che poteva fare di lei quel che voleva.
Il nagual osservò che l'uomo era così esausto da sembrare quasi privo di sensi.
Eppure, nonostante il suo stato, continuò, completando la sua seduzione.
Mentre rifletteva sulla grande resistenza e forza di volontà di quell'inutile individuo, il nagual sorrideva, quando gli giunse un urlo della donna e l'attore cominciò a boccheggiare. Il nagual vide l'ombra nera che colpiva l'attore: scese come una spada, penetrando con millimetrica precisione nella fessura.
A questo punto don Juan fece una digressione per approfondire qualcosa che aveva spiegato prima. Mi aveva descritto la fessura, un'apertura nel nostro uovo luminoso all'altezza dell'ombelico, dove la forza della morte colpiva senza posa.
Quello che don Juan mi spiegò adesso fu che quando la morte colpisce persone sane il colpo somiglia a un pugno, ma quando colpisce gli agonizzanti somiglia a un affondo vibrato da una spada.
Così il nagual seppe con certezza che l'attore era bell'e spacciato e che la sua morte automaticamente poneva fine al proprio interesse nei disegni dello spirito. Non ci sarebbero stati altri piani: la morte livellava tutto.
Uscì dal suo nascondiglio e si apprestava ad andarsene quando qualcosa lo fece esitare. Fu la calma della ragazza. Con grande disinvoltura stava infilandosi quei pochi indumenti che s'era tolta e fischiettava fuori tono, come se non fosse successo niente.
Allora il nagual vide che, distendendosi per accettare la presenza della morte, il corpo dell'uomo aveva liberato un velo protettivo, rivelando la sua vera natura. Era un uomo doppio dalle incredibili risorse, capace di creare uno schermo protettivo o mimetico - uno stregone naturale, il candidato perfetto per diventare apprendista di un nagual, se non ci fosse stata quell'ombra nera della morte.
Il nagual fu tutto sconcertato a quella vista. Comprese allora i disegni dello spirito ma non arrivava a capire come un uomo così inutile potesse entrare negli schemi degli stregoni.
La donna nel frattempo si era rialzata e, senza neanche uno sguardo per l'uomo, il cui corpo si contorceva negli spasimi dell'agonia, se ne era andata via.
Il nagual vide allora la sua luminosità e si accorse che la sua estrema aggressività era il risultato di un grandissimo flusso di energia superflua. Si convinse che, se non avesse posto a buon fine quell'energia, ne sarebbe stata sopraffatta, e avrebbe patito indicibili sventure.
Mentre il nagual osservava l'indifferenza con cui la ragazza se ne stava andando, si accorse che lo spirito gli aveva dato un'altra manifestazione. Doveva essere calmo, distaccato. Poi considerò che non aveva niente da perdere e decise di intervenire per puro gusto. Proprio da vero nagual decise di affrontare l'impossibile, con lo spirito come unico testimone.
Don Juan commentò che ci volevano casi come quello per provare se un nagual era autentico o no. I nagual prendono decisioni. Sprezzanti delle conseguenze, essi intraprendono o decidono di non intraprendere un'azione. Gli impostori ponderano e poi si bloccano. Il nagual Elìas, una volta presa una decisione, si accostò con calma al morente e fece la prima cosa che il corpo, non la mente, lo spinse a fare: colpì il punto di unione dell'uomo per farlo entrare in uno stato di consapevolezza intensa. Lo colpì freneticamente più volte, finché il suo punto di unione non si mosse. Con l'aiuto della stessa forza della morte, i colpi del nagual mandarono il punto di unione dove la morte non importava più, così l'uomo smise di morire.
Nel momento in cui l'attore riprese a respirare, il nagual si rese conto del grado delle sue responsabilità. Se l'uomo doveva respingere la forza della sua morte, era indispensabile che rimanesse in uno stato di consapevolezza intensa fino a quando la morte non fosse stata allontanata. Il suo notevole deterioramento fisico rendeva impossibile trasportarlo via di là, se non a rischio della vita. Il nagual fece l'unica cosa possibile in simili circostanze, gli costruì intorno una capanna e per tre mesi accudì l'attore, del tutto immobilizzato.
Invece di ascoltare semplicemente, i miei pensieri razionali ebbero la meglio e così io volli sapere come aveva potuto il nagual Elìas costruire una capanna sul terreno di qualcun altro. Conoscevo bene l'attaccamento alla proprietà della gente di campagna e le complicazioni che ne potevano derivare.
Don Juan ammise di aver posto anche lui la medesima domanda. E il nagual Elias aveva detto che lo spirito stesso l'aveva reso possibile, come per tutto quello che il nagual recepiva, purché seguisse le manifestazioni dello spirito.
La prima cosa che il nagual fece, non appena l'attore tornò a respirare normalmente, fu inseguire la giovane donna. Aveva un ruolo importante nella manifestazione dello spirito. La raggiunse non molto lontano da dove giaceva l'attore, vivo per miracolo. Invece di parlarle delle condizioni fisiche dell'uomo e cercare di convincerla ad aiutarlo, il nagual si assunse la responsabilità assoluta delle proprie azioni e balzò su di lei come un leone, colpendo il suo punto d'unione con grande forza. Sia lei sia l'attore erano in grado di sopportare colpi per la vita o per la morte. Il punto d'unione della donna si spostò, ma iniziò a muoversi in modo strano, una volta libero.
Il nagual portò la ragazza là dove giaceva l'attore, e passò l'intera giornata a cercare di impedire che lei perdesse la testa e l'uomo la vita.
Quando fu sicuro di avere un controllo sufficiente, si recò dal padre della ragazza e gli disse che sua figlia doveva essere stata colpita da un fulmine che le aveva fatto perdere temporaneamente la ragione. Condusse il padre là dove era la ragazza e affermò che il giovane, chiunque egli fosse, aveva fatto scaricare sul proprio corpo tutta la potenza del fulmine, salvando così la ragazza da morte certa, ma facendosi male al punto da non poter essere trasportato altrove.
Il padre riconoscente aiutò il nagual a costruire una capanna per l'uomo che gli aveva salvato la figlia e in tre mesi il nagual compì l'impossibile: guarì il giovane.
Quando giunse il momento della partenza del nagual, il suo senso di responsabilità e il suo dovere l'obbligarono a mettere in guardia la ragazza contro quella sua eccessiva energia e le dannose conseguenze che avrebbe potuto avere per la sua vita e il suo benessere, chiedendole di entrare nel mondo della stregoneria, unico baluardo contro la sua forza autolesionista.
La donna non rispose. E il nagual Elìas fu costretto a dirle quel che ogni nagual aveva detto nel tempo a ogni probabile adepto: che gli stregoni si riferiscono alla stregoneria come fosse un uccello magico e misterioso che ha interrotto per un attimo il suo volo per dare all'uomo una speranza, uno scopo; che gli stregoni vivono sotto le ali di quell'uccello - che loro chiamano l'uccello della saggezza, l'uccello della libertà - e che lo nutrono con la loro dedizione e impeccabilità. Le spiegò che gli stregoni sapevano che il volo dell'uccello della libertà seguiva sempre una linea retta poiché non era in grado di compiere una curva, di girare e tornare indietro; l'uccello della libertà poteva fare solo due cose, portare gli stregoni con sé o lasciarseli dietro.
Il nagual Elìas non poté parlare nello stesso modo al giovane attore, ancora mortalmente ammalato. Il giovane non aveva molta scelta. Comunque lo avvertì che, se ci teneva a guarire, doveva seguire in tutto e per tutto il nagual. L'attore accettò le condizioni all'istante.
Il giorno in cui il nagual Elìas e l'attore iniziarono il cammino per ritornarsene a casa, la ragazza aveva atteso in silenzio al limite della città. Non aveva bagagli, neanche un cesto. Sembrava venuta solo a dire addio. Il nagual continuò a camminare senza guardarla ma l'attore, che era in barella, si protese per salutarla. Lei rise e senza parlare si accodò al gruppo. Non aveva dubbi e non le creava difficoltà lasciarsi dietro tutto. Aveva capito benissimo che non le si sarebbe più presentata un'altra occasione e che l'uccello della libertà, se non prendeva con sé gli stregoni, li abbandonava alla loro sorte.
Don Juan fece notare che non c'era di che meravigliarsi. La forza della personalità del nagual era tale da renderlo in pratica irresistibile e il nagual Elias aveva scosso profondamente quei due. Ogni giorno per tre mesi, con la sua interazione, aveva reso loro familiare la sua consistenza, il suo distacco, la sua obiettività. I due erano stati incantati dalla sua sobrietà e, più di ogni altra cosa, dalla totale dedizione manifestata nei loro riguardi. Con il suo esempio e le sue azioni il nagual Elias aveva fornito loro un'ampia panoramica sul mondo della stregoneria, che offriva sostegno e nutrimento ma esigeva anche molto. Era un mondo che ammetteva pochissimi errori.
Don Juan mi rammentò qualcosa che mi aveva ripetuto spesso ma a cui ero sempre riuscito a non pensare. Mi disse che non dovevo dimenticare nemmeno per un istante che l'uccello della libertà aveva poca pazienza con gli indecisi e quando volava via non tornava più.
L'agghiacciante sonorità della sua voce trasformò l'ambiente circostante, fino a un attimo prima buio e tranquillo, rendendolo saturo d'immediatezza.
Don Juan fece tornare la serena oscurità con la medesima solerzia con cui aveva sollecitato l'immediatezza. Mi batté leggermente sul braccio.
«Quella donna era così potente da riuscire a danzare in cerchio intorno a chiunque. Il suo nome era Talìa.»
II
Il tocco dello spirito
L'astratto
Facemmo ritorno alla casa di don Juan alle prime ore del mattino. Impiegammo parecchio tempo a scendere dalla montagna, soprattutto perché io avevo paura di mettere un piede in fallo nell'oscurità e precipitare nel burrone, e don Juan doveva continuare a fermarsi per riprendere fiato dopo aver riso di me.
Ero completamente esausto ma non riuscivo ad addormentarmi. Prima di mezzogiorno cominciò a piovere. Il forte scroscio dell'acquazzone sulle tegole del tetto invece di farmi assopire rimosse ogni traccia di sonnolenza.
Mi alzai e andai a cercare don Juan. Lo trovai che dormicchiava su una seggiola.
Nel momento in cui mi avvicinai era già ben sveglio. Gli augurai il buon giorno.
«Pare che tu non abbia problemi ad addormentarti» aggiunsi.
«Quando sei impaurito o sconvolto, non cercare di dormire sdraiato» disse, evitando di guardarmi. «Dormi seduto su una sedia comoda come ho fatto io.»
Una volta mi aveva suggerito, per dare al corpo un riposo ristoratore, di dormire a lungo a pancia in giù con la testa girata a sinistra e i piedi fuori dalla sponda del letto. Per evitare di sentir freddo, mi aveva raccomandato di mettermi sulle spalle un cuscino morbido, lasciando scoperto il collo, e di portare calze pesanti o tenere addirittura le scarpe.
La prima volta che sentii la sua proposta pensai che stesse scherzando, ma in seguito dovetti ricredermi. Dormire in quella posizione mi faceva riposare molto bene. Quando gli feci notare questi straordinari risultati, mi consigliò di seguire alla lettera quanto mi proponeva senza darmi la pena di credergli o non credergli.
Accennai allora a don Juan che avrebbe potuto dirmi di dormire seduto la sera prima. Gli spiegai che la causa della mia insonnia, oltre alla grande stanchezza, era una strana apprensione per quel che mi aveva detto nella caverna dello stregone.
«Piantala!» esclamò. «Hai già visto e sentito cose molto più sconvolgenti senza perdere un minuto di sonno. C'è qualcos'altro che ti preoccupa.»
Per un istante pensai che mi accusasse di non essere sincero con lui sul motivo della mia vera preoccupazione. Cominciai a spiegargli, ma lui continuò a parlare come se non avessi neanche aperto bocca.
«Ieri sera hai affermato categoricamente che la caverna non ti metteva a disagio» disse. «Invece, a quanto pare, era vero il contrario. Ieri sera non ho approfondito l'argomento perché aspettavo di osservare le tue reazioni.»
Don Juan spiegò che la caverna era stata progettata dagli stregoni in tempi antichi con funzione di catalizzatore. La forma era stata concepita e attentamente strutturata perché ci fosse posto per due persone, per due campi di energia. Secondo la teoria degli stregoni, la natura della roccia e il modo in cui era stata tagliata permetteva ai due corpi, alle due uova luminose, di collegare strettamente la loro energia.
«Ti ho portato di proposito in quella caverna» continuò «non perché il posto mi piaccia - non mi piace, infatti - ma perché fu creata come strumento per spingere l'apprendista in uno stato di consapevolezza intensa. Ma sfortunatamente, mentre aiuta da un lato, dall'altro confonde le questioni. Gli antichi stregoni non erano portati alla riflessione. Propendevano per l'azione.»
«Dici sempre che il tuo benefattore era così» feci.
«E' una mia esagerazione,» rispose lui «come quando dico che sei stupido. Il mio benefattore era un nagual moderno - volto alla ricerca della libertà - ma prediligeva l'azione ai pensieri. Tu sei un nagual moderno - interessato alla stessa ricerca, ma tu hai una grande propensione per le devianze della ragione.»
Quel suo paragone doveva sembrargli molto buffo; le sue risate riecheggiarono nella stanza vuota.
Quando riportai la conversazione sull'argomento della caverna, finse di non sentire. Capivo che stava fingendo dallo scintillìo dei suoi occhi e dal suo modo di sorridere.
«Ieri sera ti ho di proposito descritto il primo nocciolo astratto» disse «nella speranza che, riflettendo sul mio modo di comportarmi con te in tutti questi anni, ti saresti fatto un'idea sugli altri noccioli. Sei stato con me a lungo, ormai, e mi conosci molto bene. In ogni minuto del nostro sodalizio ho cercato di impostare pensieri e azioni sui modelli dei noccioli astratti.
«La storia del nagual Elìas è un'altra faccenda. Benché sembri una storia sulla gente, è una storia sull' intento. L' intento crea degli edifici dinanzi a noi e ci invita a entrarvi. E' così che gli stregoni comprendono quanto accade loro intorno.»
Don Juan mi ricordò quanto avessi sempre insistito nel tentativo di scoprire l'ordine occulto in tutto quello che lui mi diceva. Pensai che mi stesse criticando perché cercavo di trasformare qualsiasi suo insegnamento in un problema sociologico. Cominciai a dirgli che sotto la sua influenza il mio modo di vedere era cambiato. Mi interruppe e sorrise.
«Non riesci davvero a pensare bene» sospirò. «Io voglio che tu capisca l'ordine occulto di quanto ti insegno. Ho delle obiezioni per quello che tu ritieni sia l'ordine occulto. Per te vuol dire procedure segrete o una coerenza nascosta. Per me, due cose: sia l'edificio costruito dall' intento in un lampo e posto dinanzi a noi per farci entrare, sia i segnali che ci manda perché non ci si smarrisca una volta dentro.
«Come puoi vedere, la storia del nagual Elìas non era solo un elenco di dettagli che, l'uno dopo l'altro, formavano un fatto» proseguì. «Al di sotto di tutto c'era l'edificio dell' intento. E la storia voleva darti un'idea di com'erano i nagual di una volta, in modo che tu potessi riconoscere quel che facevano per adattare pensieri e azioni agli edifici dell' intento.»
Ci fu un prolungato silenzio. Io non avevo nulla da dire, ma piuttosto che lasciar morire la conversazione, me ne uscii con la prima cosa che mi passò per la mente.
Dissi che da quanto avevo seguito sul nagual Elìas, mi ero fatto di lui un'idea molto positiva. Provavo simpatia per il nagual Elias ma, per motivi sconosciuti, tutto quello che mi aveva raccontato del nagual Julian, invece, mi dava fastidio.
La sola menzione del mio disagio deliziò don Juan oltre ogni dire. Dovette alzarsi dalla sedia per non soffocare dalle risa. Mi mise un braccio sulla spalla e mi spiegò che noi amiamo oppure odiamo chi è un riflesso di noi stessi.
Uno sciocco imbarazzo m'impedì ancora una volta di chiedergli cosa intendesse dire. Don Juan, accortosi ovviamente del mio stato d'animo, continuò a ridere. Alla fne aggiunse che il nagual Julian era come un bambino la cui sobrietà e moderazione provenivano sempre dall'esterno. Non aveva alcuna disciplina interiore, a parte il tirocinio come apprendista in stregoneria.
Provai un irrazionale impulso difensivo. Precisai a don Juan che la mia disciplina scaturiva dal profondo.
«Ma certo!» mi rispose, condiscendente. «Non puoi pretendere di essere proprio come lui.» E ricominciò a ridere.
A volte don Juan mi esasperava talmente che mi veniva voglia di urlare. Ma il mio stato d'animo non durava, scompariva cosi in fretta che subito appariva all'orizzonte un'altra preoccupazione. Chiesi a don Juan se fosse possibile che io fossi entrato in uno stato di consapevolezza intensa senza esserne conscio. O ero forse rimasto così per giorni interi?
«A questo punto tu entri in stato di consapevolezza intensa per conto tuo» disse.
«La consapevolezza intensa è un mistero solo per la nostra ragione. Nella pratica è molto semplice. Come per qualsiasi altra cosa, noi complichiamo tutto cercando di rendere razionale l'immensità che ci circonda.»
Mi fece notare che avrei dovuto pensare al nocciolo astratto che lui mi aveva dato invece di perdermi in inutili disquisizioni sulla mia persona.
Gli risposi che ero stato a rifletterci tutta la mattina ed ero giunto alla conclusione che il tema metaforico della storia era sulle manifestazioni dello spirito.
Quel che non riuscivo a discernere, tuttavia, era il nocciolo astratto di cui lui parlava.
Doveva trattarsi di qualcosa non enunciato.
«Te lo ripeto,» continuò, come fosse un insegnante che fa fare gli esercizi ai suoi scolaretti «nelle storie di stregoneria il primo nocciolo astratto si chiama “manifestazioni dello spirito". Ovvio, ciò che gli stregoni riconoscono come nocciolo astratto è qualcosa che al momento ti sfugge. Quella parte che ti sfugge, è nota agli stregoni come l'edificio dell' intento, o la voce silenziosa dello spirito, o l'ulteriore sistemazione dell'astratto.»
Dissi che, per quanto ne sapessi io, ulteriore voleva dire qualcosa non rivelata apertamente, come ad esempio “ulteriore motivo”. Egli replicò che in questo caso ulteriore voleva dire di più, voleva dire conoscenza senza parole, al di là della nostra immediata comprensione - specie della mia. Mi concesse che la comprensione cui egli si riferiva era al di là delle mie disposizioni del momento, ma non oltre le mie possibilità estreme.
«Se i noccioli astratti esulano dalla mia comprensione, a che pro ne parliamo?»
gli domandai.
«La regola insegna che i noccioli astratti e le storie della stregoneria devono essere enunciati a questo punto. E un giorno l'ulteriore sistemazione dell'astratto, cioè la conoscenza senza parole o l'edificio dell'intento inerente alle storie, ti sarà rivelato per il tramite delle storie stesse.»
Non riuscivo ancora a capire.
«L'ulteriore sistemazione dell'astratto non è meramente l'ordine in cui i noccioli astratti ti furono presentati» mi spiegò «o quello che hanno in comune, e nemmeno l'intreccio che li unisce. Piuttosto, serve a conoscere direttamente l'astratto, senza l'intervento del linguaggio.»
In silenzio mi scrutò da capo a piedi, con l'ovvio proposito di vedermi.
«Non ti è ancora chiaro» esclamò.
Ebbe un gesto d'impazienza, quasi d'ira, come fosse seccato per la mia ottusità.
Ciò mi dava da pensare, perché don Juan non era solito esprimere malcontento psicologico.
«Non ha nulla a che vedere con te o le tue azioni» mi rispose quando gli chiesi se l'avessi irritato o deluso. «Mi è passato qualcosa per la mente quando ti ho visto.
C'è un particolare nel tuo uovo luminoso per cui gli antichi stregoni avrebbero fatto follie!»
«Dimmi di che si tratta» gli domandai.
«Torneremo su questi argomenti un'altra volta. Nel frattempo, continuiamo con l'elemento che ci muove: l'astratto. L'elemento senza cui non esisterebbe una via del guerriero, né guerrieri alla ricerca della conoscenza.»
Disse che le difficoltà in cui mi dibattevo non gli erano nuove. Anche lui le aveva attraversate per capire l'ulteriore ordine dell'astratto. E, se non avesse avuto la mano amica del nagual Elìas, sarebbe finito proprio come il suo benefattore, tutto azione, e capacità d'intendere ridotta al minimo.
Per cambiare argomento gli chiesi: «Com'era il nagual Elìas?».
«Non assomigliava in nulla al suo discepolo. Era un indio. Molto scuro e massiccio. Aveva lineamenti tagliati con l'accetta, bocca grande, naso pronunciato, occhi piccoli e neri, folta chioma corvina senza neanche un filo grigio. Più basso nel nagual Julian, aveva mani e piedi grandi. Era molto umile e molto saggio, ma non era brillante. A paragone del mio benefattore, era noioso. Se ne stava sempre da solo, a ponzare. Il nagual Julian diceva scherzando che il suo maestro dispensava saggezza a tonnellate. Alle sue spalle lo chiamava nagual Tonnellaggio.
«Non ho mai capito il motivo dei suoi scherzi» proseguì don Juan. «Per me il nagual Elìas era come un soffio di aria fresca. Mi spiegava tutto con infinita pazienza, proprio come faccio io con te, ma forse con qualcosina in più. Non la chiamerei compassione, ma piuttosto empatia. I guerrieri sono incapaci di sentire compassione, in quanto non provano più alcuna pietà per se stessi.
Senza la forza propulsiva dell'autocommiserazione, la compassione non ha più senso.»
«Vuoi dire, don Juan, che un guerriero per se stesso è tutto?»
«Direi di sì. Per un guerriero, tutto comincia e finisce in se stesso.Tuttavia il suo contatto con l'astratto gli fa superare il suo senso di presunzione. Il suo io diviene astratto e impersonale.
«Il nagual Elìas senti che le nostre vite e le nostre personalità erano molto affini»» continuò don Juan. «Per questo motivo si senti obbligato ad aiutarmi. Io non provo la stessa affinità con te, cosi credo di considerarti in modo molto simile a quello in cui mi considerava il nagual Julian.»
Don Juan raccontò che il nagual Elìas lo prese sotto la sua ala protettrice dal primissimo giorno del suo arrivo alla casa del benefattore per il periodo di apprendistato. Il nagual cominciò a spiegargli quanto stava accadendo durante il suo apprendistato senza badare se don Juan fosse in grado di capire. La sua sollecitazione in aiuto di don Juan era cosi intensa da farlo considerare in pratica suo prigioniero. In questo modo lo protesse dai violenti assalti del nagual Julian.
«All'inizio solevo restare sempre in casa del nagual Elìas» aggiunse don Juan.
«E mi piaceva. In casa del mio benefattore ero sempre all'erta, vigile, timoroso di quel che avrebbe potuto capitarmi. Ma in casa del nagual Elìas mi sentivo sicuro, a mio agio.
«IL mio benefattore mi tormentava senza pietà. Io non riuscivo a capire perché mi tormentasse tanto. Credevo che fosse completamente pazzo.»
Don Juan disse che il nagual Elìas era un indio dello Stato di Oaxaca, cresciuto alla scuola di un altro nagual di nome Rosendo, nativo della stessa zona. Il nagual Elìas, secondo don Juan, era un tipo molto conservatore che teneva al proprio riserbo.
Era guaritore e stregone noto non solo a Oaxaca ma in tutto il Messico meridionale ma, nonostante la sua professione e notorietà, viveva in completo isolamento al limite opposto del paese, nel Messico settentrionale.
Don Juan smise di parlare. Inarcando le sopracciglia, mi fissò con uno sguardo interrogativo. Tutto quel che volevo era che continuasse il suo racconto.
«Ogni volta che a parer mio tu dovresti pormi delle domande, non me ne fai mai. Sono certo che tu mi hai sentito affermare che il nagual Elìas era un notissimo stregone che aveva contatti quotidiani con la gente del Messico meridionale e allo stesso tempo faceva l'eremita nel Messico settentrionale. Tutto questo non suscita la tua curiosità?»
Mi sentii un abisso di stupidità. Gli dissi che, mentre mi raccontava quelle cose, mi era passato per la mente che quel tipo doveva avere grandi difficoltà a fare il pendolare.
Don Juan rise e, visto che mi aveva fatto notare il problema, gli chiesi come se la cavasse il nagual Elìas.
«IL sogno è l'aereo a reazione degli sciamani» disse. «Il nagual Elìas era un sognatore, mentre il mio benefattore era esperto nell'arte dell' agguato. Era capace di creare e proiettare quello che gli stregoni chiamano il corpo sognante o l' altro, e poteva essere contemporaneamente in due luoghi lontani fra loro. Con il suo corpo sognante poteva continuare a fare lo stregone e con quello naturale a fare l'eremita.»»
Gli precisai che mi sorprendeva di riuscire ad accettare così facilmente il presupposto che il nagual Elìas avesse l'abilità di proiettare un'immagine solida e tridimensionale di sé eppure, nonostante ce la mettessi tutta, non riuscivo a recepire la spiegazione dei noccioli astratti.
Don Juan affermò che io riuscivo ad accettare l'idea della doppia vita del nagual Elìas perché lo spirito stava apportando ritocchi conclusivi alla mia capacità di percezione. Esplosi in un fuoco di fila di proteste per quella sua frase sibillina.
«Non è affatto sibillina» replicò. «E' l'enunciazione di un fatto. Potresti dire che al momento si tratta di un fatto incomprensibile, ma il momento cambierà.»
Prima che potessi replicare, ricominciò a parlare del nagual Elìas. Disse che aveva una mente avida di sapere e anche una grande manualità. Nei suoi viaggi da sognatore vedeva molti oggetti che poi riproduceva in legno e ferro battuto. Don Juan mi assicurò che erano di fattura squisita, bellissimi e inquietanti.
«Ma gli originali, cos'erano?» domandai.
«Non c'è modo di saperlo» rispose don Juan. «Devi tener presente che, poiché era indio, il nagual Elìas si comportava nei suoi viaggi di sogno come un animale selvatico in cerca di preda. Un animale non si fa mai vedere in giro quando ci sono segni di attività, aspetta che non ci sia nessuno per uscire. Il nagual Elìas, sognatore solitario, visitò, diciamo così, il deposito di rottami dell'infinito, quando non c'era nessuno. E copiò tutto quel che aveva visto, ma non seppe mai a cosa servissero quegli oggetti o quale origine avessero.»
Ancora una volta accettai senza difficoltà quanto mi aveva detto. La cosa non mi parve affatto inverosimile. Stavo per fare un'osservazione quando m'interruppe con un muover di sopracciglia e continuò a parlare del nagual Elìas.
«Stare da lui era per me allo stesso tempo gioia impareggiabile e fonte di uno strano senso di colpa. Mi annoiavo da morire, e non perché il nagual Elìas fosse noioso, ma perché il nagual Julian non aveva pari e rovinava tutti per sempre.»
«Ma credevo che ti sentissi a tuo agio in casa del nagual Elìas» gli dissi.
«Certo, ed era quella la causa del mio senso di colpa e del mio problema immaginario. Come te, mi piaceva arrovellarmi. Credo che all'inizio trovassi pace in compagnia del nagual Elìas ma in seguito, quando compresi meglio il nagual Julian, lo seguii per la sua strada.»
Mi spiegò che la casa del nagual Elìas aveva sul fronte una veranda aperta e protetta da una tettoia, dove egli aveva una fucina, un banco da falegname e degli attrezzi. La casa stessa era di mattoni crudi, con un tetto di tegole, e consisteva di un'unica grande stanza con il pavimento di terra battuta dov'egli abitava con cinque donne veggenti, sue mogli nella realtà. C'erano anche quattro uomini, stregoni veggenti del suo seguito, che abitavano in certe casette intorno alla sua. Erano tutti indios provenienti da diverse parti del paese, emigrati nel Messico settentrionale.
«Il nagual Elìas aveva grande rispetto per l'energia sessuale» disse don Juan.
«Riteneva che ci fosse stata data perché la usassimo nel sogno. Credeva che il sogno fosse caduto in disuso perché poteva sconvolgere il precario equilibrio mentale delle persone sensibili.
«Io ti ho insegnato a sognare come lui aveva insegnato a me» proseguì. «Mi aveva detto che mentre noi sognamo il punto d'unione si sposta lentamente e in modo molto naturale. L'equilibrio mentale sta solo nel fissare il punto di unione in un posto tradizionalmente convenuto. Se i sogni fanno spostare questo punto e si usa il sogno per controllare quel movimento naturale e per sognare è necessaria l'energia sessuale, il risultato può talvolta essere disastroso quando questa energia si esaurisce in rapporti sessuali e non nel sognare. Allora i sognatori spostano alla cieca il loro punto d'unione e perdono la testa.»
«Cosa stai cercando di dirmi, don Juan?» gli chiesi, perché sentii che l'argomento del sognare era entrato nella nostra conversazione per vie traverse.
«Tu sei un sognatore» disse. «Se non fai attenzione alla tua energia sessuale dovrai rassegnarti all'idea degli incontrollabili spostamenti del tuo punto d'unione. Un attimo fa ti meravigliavi delle tue reazioni. Sai, il tuo punto d'unione si muove piuttosto stranamente perché la tua energia sessuale non è equilibrata.»
Pronunciai alcune stupide frasi fuori luogo sulla vita sessuale del maschio adulto.
«La nostra energia sessuale governa il sognare» spiegò. «Il nagual Elìas mi insegnò - e io l'ho insegnato a te - che con l'energia sessuale o fai l'amore o sogni, non ci sono alternative. IL motivo per cui tocco questo tasto è che tu stai incontrando grandi difficoltà a muovere il tuo punto d'unione per afferrare il nostro ultimo argomento: l'astratto.
«Anche a me capitò la stessa cosa» continuò don Juan. «Solo quando la mia energia sessuale si distaccò dal mondo tutto andò a posto. E' la regola per i sognatori.
Per i maestri dell' agguato vale l'opposto. IL mio benefattore si potrebbe definire addirittura un libertino, sia come uomo comune, sia come nagual.»
Don Juan parve sul punto di rivelarmi le imprese del suo benefattore, ma naturalmente cambiò idea. Scosse il capo e affermò che io ero troppo rigido per rivelazioni del genere.
Io non insistetti. Lui disse che il nagual Elìas aveva la sobrietà che solo i sognatori acquistavano dopo inenarrabili lotte con se stessi. Egli aveva usato la propria sobrietà per tuffarsi nell'impresa di rispondere alle domande di don Juan.
«Il nagual Elìas mi spiegò che la mia difficoltà a capire lo spirito era identica a quella provata da lui» continuò don Juan. «Egli pensava che ci fossero due problematiche diverse: la prima, il bisogno di capire indirettamente cos'é lo spirito, e la seconda di capire lo spirito direttamente.
«Tu ti trovi in difficoltà con la prima. Quando avrai capito cos'è lo spirito, la seconda si risolverà automaticamente, e viceversa. Se lo spirito ti parla, con le sue parole silenti, saprai con certezza e subito cos'é.»
Disse che il nagual Elìas credeva che la difficoltà fosse costituita dalla nostra riluttanza ad accettare l'idea che la conoscenza potrebbe esistere senza parole che la spieghino.
«Non ho alcuna difficoltà ad accettare questo.»
«Accettare non è altrettanto facile come dire di accettare»» disse don Juan. «Il nagual Elìas soleva ricordarmi che tutta l'umanità si è allontanata dall'astratto, benché una volta dovessimo essergli molto vicino. Doveva essere il nostro maggior sostegno, la nostra forza propulsiva. Poi dev'essere accaduto qualcosa che ce ne ha distaccati, e ora non riusciamo a riaccostarci. Egli era solito affermare che un apprendista impiega anni interi per riuscire a tornare all'astratto, cioè a sapere che la conoscenza e il linguaggio possono esistere indipendentemente l'uno dall'altra.»
Don Juan ripeté che il punto cruciale della nostra difficoltà nel tornare all'astratto era il rifiuto di accettare il concetto di una conoscenza senza parole e perfino senza pensieri.
Stavo per accusarlo di dire delle sciocchezze quando provai la forte sensazione che mi mancava qualcosa e che quanto lui aveva detto rivestiva per me un'importanza fondamentale. Stava davvero tentando di comunicarmi qualcosa, qualcosa che forse io non ero in grado di afferrare, o che non poteva essere espresso nella sua totalità.
«La conoscenza e il linguaggio sono separati» ripeté a bassa voce.
E io stavo quasi per dire: «Lo so», come se davvero lo sapessi, ma mi trattenni.
«Ti ho detto che non esiste un modo di parlare dello spirito,» proseguì «perché lo spirito si può solo sperimentare.Gli stregoni cercano di spiegare questa condizione quando affermano che lo spirito non si può vedere o sentire, ma è sempre presente e aleggia su di noi. Talvolta si presenta a qualcuno di noi, ma per lo più sembra indifferente.»
Me ne stetti zitto e lui continuò nella spiegazione. Disse che per molti aspetti lo spirito era una sorta di animale selvaggio. Teneva le distanze fino a quando qualcosa non lo attirava allo scoperto. Allora lo spirito si manifestava.
Sollevai l'obiezione che lo spirito non era un'entità o una presenza e quindi, non essendo concreto, come si faceva ad attirarlo?
«E' il tuo problema» rispose «perché tu consideri solo la tua idea di ciò che è astratto. Per esempio, l'essenza interiore dell'uomo, o il principio fondamentale, per te sono cose astratte. O forse qualcosa un po' meno vago come il carattere, la volontà, il coraggio, la dignità, l'onore. Lo spirito, naturalmente, si può descrivere con ognuno di questi termini. Ed ecco quel che crea la confusione: lo spirito è insieme tutti questi termini e nessuno.»
Aggiunse che quelle che io consideravo astrazioni erano o gli opposti di tutte le cose pratiche di cui riuscivo a pensare, oppure cose che secondo me non avevano esistenza concreta.
«Mentre per uno stregone un astratto è qualcosa che non ha paralleli nella condizione umana.»
«Ma sono la stessa cosa!» urlai io. «Non vedi che stiamo parlando tutti e due della stessa cosa?»
«No» insisté lui. «Per uno stregone, lo spirito è un astratto semplicemente perché egli conosce senza parole e anche senza pensiero. E un astratto perché egli non riesce a concepire quello che è lo spirito. Eppure, senza la benché minima possibilità o voglia di capirlo, uno stregone manipola lo spirito. Lo riconosce, lo alletta, gli fa cenno di avvicinarsi, impara a conoscerlo, lo esprime con i propri atti.»
Scossi la testa, disperato. Non riuscivo a vedere la differenza.
«Tu hai frainteso perché io ho usato il termine “astratto” per definire lo spirito»
disse. «Per te gli astratti sono parole che descrivono stati d'intuizione. Un esempio è la parola “spirito”, che non definisce la ragione o un'esperienza pragmatica e che, naturalmente, non serve che a solleticare la tua immaginazione.»
Ero furibondo con don Juan. Gli diedi del caparbio e lui mi rise in faccia. Mi suggerì di pensare all'asserzione che la conoscenza potesse essere indipendente dal linguaggio, senza preoccuparmi di capirla, e forse avrei visto la luce.
«Considera questo» disse. «Per te non è stato importante conoscere me. Il giorno in cui ti ho conosciuto, tu hai conosciuto l'astratto. Ma poiché non potevi parlarne, non lo notasti. Gli stregoni conoscono l'astratto senza pensarci e senza vederlo, né toccarlo, né sentire la sua presenza.»
Restai zitto, perché non mi piaceva battibeccare con lui. A volte pensavo che facesse apposta a essere astruso. Ma don Juan sembrava divertirsi molto.
L'ultima seduzione del nagual Julian
Nel patio della casa di don Juan si stava tranquilli come nel chiostro di un convento. C'erano numerosi grandi alberi da frutta piantati uno a ridosso dell'altro che sembravano regolare la temperatura e assorbire ogni rumore. Quando ero venuto qui per la prima volta avevo fatto osservazioni molto critiche sul modo illogico secondo cui erano stati piantati gli alberi: io avrei concesso loro più spazio. La sua risposta era stata che quegli alberi non erano di sua proprietà, che erano alberi guerrieri liberi e indipendenti che si erano aggregati al suo seguito di guerrieri, e che i miei appunti -
che si applicavano ad alberi normali - erano quindi irrilevanti.
La sua risposta mi era sembrata metaforica. Quel che ignoravo era che don Juan voleva dire alla lettera quello che diceva. Don Juan e io eravamo seduti su due poltroncine di vimini di fronte agli alberi e gli alberi erano tutti carichi di frutta. Io feci notare che non solo era una bella vista, ma anche un fatto estremamente curioso poiché si era fuori stagione.
«C'è una storia molto interessante in proposito» ammise. «Come sai, questi alberi sono guerrieri del mio seguito. Stanno fruttificando ora perché tutti i componenti del mio seguito hanno chiacchierato, esprimendo i propri sentimenti sul nostro viaggio conclusivo, qui dinanzi a loro, e gli alberi ora sanno che quando ci imbarcheremo nel nostro ultimo viaggio verranno con noi.»
Lo guardai stupefatto.
«Non posso lasciarli qui» mi spiegò. «Anch'essi sono guerrieri. Hanno condiviso la sorte del seguito del nagual e sanno quello che provo per loro. IL punto di unione si trova molto in basso nel loro enorme guscio luminoso e ciò permette loro di conoscere i nostri sentimenti; per esempio quelli che proviamo adesso discutendo il mio ultimo viaggio.»
Rimasi in silenzio, perché non volevo indugiare su quell'argomento. Don Juan parlò e fece svanire il mio malumore.
«Il secondo nocciolo astratto delle storie di stregoneria si chiama il tocco dello spirito» disse. «Il primo nocciolo, le manifestazioni dello spirito, è l'edificio che l' intento costruisce e pone dinanzi a uno stregone, invitandolo poi a entrare. E'
l'edificio dell' intento visto dallo stregone. Il tocco dello spirito è lo stesso edificio visto da un principiante che è stato invitato - o, piuttosto, costretto - a entrare.
«Questo secondo nocciolo astratto potrebbe essere una storia a sé stante. La storia dice che lo spirito, dopo essersi manifestato a quel tipo di cui abbiamo parlato, senza aver ottenuto alcuna reazione, gli tese una trappola. Un ultimo sotterfugio, non perché fosse un uomo speciale, ma perché l'indecifrabile catena di eventi dello spirito rese disponibile proprio lui nel momento in cui lo spirito bussò alla porta.
«Non c'è bisogno di dire che tutto ciò che lo spirito rivelò a quell'uomo, secondo lui non aveva senso. Infatti, andava contro tutto quello che sapeva, tutto quello che era. L'uomo, naturalmente, rifiutò subito e senza possibili fraintendimenti di aver a che fare con lo spirito. Non dava retta a simili idiozie, lui. Non era stupido, lui. Ne risultò uno stallo totale.
«Posso dire che questa è una storia sciocca» continuò. «Posso dire di averti dato il trastullo per chi è a disagio per il silenzio dell'astratto.»
Mi osservò con attenzione un attimo e poi sorrise.
«A te piacciono le parole» fece, in tono accusatorio. «La sola idea della conoscenza silenziosa ti fa paura. Ma le storie, per stupide che siano, ti deliziano, ti danno sicurezza.»
Aveva un sorriso così malizioso che non potei fare a meno di ridere.
Allora lui mi rammentò che io avevo già ascoltato il resoconto dettagliato della prima volta che lo spirito aveva bussato alla sua porta. Sul momento non riuscii a immaginare di cosa stesse parlando.
«Mentre giacevo morente per la pistolettata» mi spiegò «non si avvicinò solo il mio benefattore. Anche lo spirito mi trovò e bussò alla mia porta, quel giorno. Il mio benefattore capì che si trovava lì per far da canale allo spirito. Senza l'intervento dello spirito, l'incontro con il mio benefattore non avrebbe significato nulla.»
Disse che un nagual può far da tramite solo dopo che lo spirito abbia manifestato la propria disponibilità - o in modo appena percettibile o con ordini precisi. Non era così possibile che un nagual si scegliesse gli apprendisti di propria iniziativa, o secondo suoi calcoli. Ma non appena la volontà dello spirito veniva rivelata attraverso i presagi, il nagual non lasciava nulla d'intentato per accontentarla.
«Dopo l'esperienza di una vita» continuò «gli stregoni e i nagual in particolare sanno se lo spirito li sta invitando a entrare nell'edificio che fa bella mostra dinanzi a loro. Hanno imparato a disciplinare i loro anelli di collegamento con l' intento. Così sono sempre preavvertiti, sanno sempre quel che lo spirito ha in serbo per loro.»
Don Juan disse che il progresso sul cammino dello stregone era in generale drastico e aveva come scopo di rendere funzionante l'anello di collegamento. Quello dell'uomo comune è praticamente inutilizzabile, e gli stregoni cominciano con un anello che è inutile perché non risponde volontariamente.
Mi fece osservare che per rivitalizzare quell'anello gli stregoni avevano bisogno di molta e rigorosa determinazione - di un particolare stato d'animo chiamato intento inflessibile. La parte più difficile dell'apprendistato di uno stregone era accettare che il nagual fosse l'unico essere capace di fornire l' intento inflessibile.
Ribattei che non riuscivo a scorgere la difficoltà.
«L'apprendista è chi si affanna a ripulire e far rivivere il proprio anello di collegamento con lo spirito» mi spiegò. «Una volta vivificato l'anello, non è più apprendista, ma fino a quel momento per andare avanti ha bisogno di una grande determinazione che, naturalmente, non ha. Così, lascia che alla fermezza pensi il nagual e, per far questo, deve cedere la propria individualità. E' quella la parte più difficile.»
Mi fece ricordare una cosa che mi aveva ripetuto spesso: che i volontari non sono ben accetti nel mondo della stregoneria in quanto hanno già una determinazione personale che rende loro difficile l'abbandono della propria individualità. Se il mondo della stregoneria esigeva idee e azioni contrarie alle intenzioni dei volontari, questi si rifiutavano semplicemente di cambiare.
«Far rivivere l'anello di un apprendista, per uno stregone, è l'impegno più stimolante e ricco di interesse» continuò don Juan «e anche una delle sue preoccupazioni maggiori. A seconda della personalità dell'apprendista, i disegni dello spirito sono di una semplicità sublime o della più labirintica complessità.»
Don Juan mi assicurò che, nonostante potessi aver pensato il contrario, il mio apprendistato non era stato così oneroso per lui come doveva essere stato il suo per il suo benefattore. Ammise che io avevo un minimo di autodisciplina che tornava molto utile, mentre lui non ne aveva avuta affatto. A sua volta, il suo benefattore ne aveva avuta forse ancora meno.
«La differenza si nota nelle manifestazioni dello spirito» continuò. «In alcuni casi si discernono appena; nel mio caso, furono ordini. Mi avevano sparato. Dalla ferita al petto stava sgorgando sangue. Il mio benefattore dovette agire con rapidità e precisione, esattamente come aveva dovuto fare con lui il suo benefattore. Gli stregoni sanno che più l'ordine è difficile, più sarà difficile il discepolo.»
Don Juan mi spiegò che uno degli aspetti più vantaggiosi del suo sodalizio con due nagual era di poter sentire le stesse storie da due punti di vista opposti. Per esempio, la storia sul nagual Elìas e le manifestazioni dello spirito, nell'ottica dell'apprendista, era la storia del difficile tocco dello spirito alla porta del suo benefattore.
«Tutto quel che riguardava il mio benefattore era molto difficile» disse, cominciando a ridere. «Quando aveva ventiquattro anni, lo spirito non si limitò a bussare alla sua porta ma quasi la buttò giù.»
Disse che, per la verità, la storia era iniziata anni prima, quando il suo benefattore era un bell'adolescente di buona famiglia a Città del Messico. Era sano, istruito, attraente e aveva una personalità carismatica. Le donne s'innamoravano di lui a prima vista. Ma era un narcisista sfrenato, che badava soltanto a ciò che gli dava immediata gratificazione.
Don Juan precisò che, con quella personalità e con il tipo di educazione ricevuta - era l'unico figlio maschio di una vedova facoltosa che, insieme a quattro adoranti sorelle, lo viziava a non finire - non avrebbe potuto comportarsi altrimenti. Si abbandonava a ogni scorrettezza che gli veniva in mente. Anche fra quelli della sua risma era considerato un amorale che viveva solo per fare tutto quello che era considerato moralmente sbagliato.
A lungo andare, i suoi eccessi lo indebolirono nel fisico e si ammalò gravemente di tubercolosi - la terribile malattia del tempo. Ma la sua infermità, invece di costituire un freno, gli provocò una scatenata sensualità. Poiché non aveva un'ombra di autocontrollo, si diede a orge e gozzoviglie e la sua salute deteriorò fino a ridurlo al lumicino.
La giustezza del vecchio adagio secondo cui le disgrazie non vengono mai sole apparve allora al benefattore di don Juan. Mentre la sua salute peggiorava, gli morì la madre, sua sola fonte di sostentamento e unico suo freno. Gli lasciò una considerevole eredità che gli avrebbe permesso di vivere più che adeguatamente ma, sconsiderato com'era, spese in pochi mesi fino all'ultimo centesimo. Non avendo una professione o un mestiere su cui contare, doveva arrangiarsi per vivere.
Senza denaro non aveva più amici e anche le donne che una volta lo avevano amato gli girarono le spalle. Per la prima volta in vita sua si trovò di fronte la dura realtà. Visto anche il suo stato di salute, quella avrebbe dovuto essere la fine, ma lui era testardo e decise di guadagnarsi da vivere lavorando.
Tuttavia non si potevano cambiare di punto in bianco le sue dissolute abitudini e si trovò così costretto a cercare lavoro nell'unico luogo dove si sentiva a suo agio, il teatro. I suoi titoli di merito erano: essere un gigione nato e aver passato la maggior parte dei suoi giorni - da adulto - in compagnia di attrici. Si unì a una troupe teatrale e se ne andò in province lontane dal suo usuale giro di amici e conoscenti e divenne un attore molto intenso, l'eroe malato di consunzione di lavori teatrali a sfondo religioso o morale.
Don Juan mi fece rilevare la strana ironia che aveva sempre distinto la vita del suo benefattore: un perfetto reprobo, morente in conseguenza della sua vita dissoluta, ed eccolo lì a interpretare ruoli di mistici e santi. In una rappresentazione della Passione durante la Settimana Santa fece persino la parte di Gesù.
La sua salute resisté per tutta una tournée negli Stati settentrionali. Poi, nella città di Durango, accaddero due cose: la sua vita giunse al termine e lo spirito bussò alla sua porta.
La morte e il tocco dello spirito vennero contemporaneamente in pieno giorno, in aperta campagna. La morte lo colse mentre seduceva una ragazza. Era già molto debole e quel giorno aveva abusato delle proprie forze. La giovane donna, forte e vivace e terribilmente infatuata di lui, lo aveva fatto camminare fino a un posto isolato, lontanissimo, promettendo di far l'amore con lui. Poi, una volta lì, aveva respinto le sue avances per ore e quando infine si era arresa lui era completamente esausto e tossiva così forte che respirava a stento.
Nell'ultimo scoppio di passione, provò una fitta dolorosa alla spalla. Gli sembrava che gli stessero dilaniando il petto e un convulso di tosse lo fece vomitare; non riusciva più a controllarsi. Ma, cercando il piacere a tutti i costi continuò a far l'amore finché la morte non sopraggiunse sotto forma di un'emorragia. Fu allora che fece il suo ingresso lo spirito, portato da un indio che veniva in suo soccorso. L'attore aveva in precedenza notato che l'indio li stava seguendo, ma non vi aveva prestato molta attenzione, concentrato com'era a sedurre la ragazza.
Vedeva la ragazza come in un sogno. Non era spaventata e non aveva perso la padronanza di sé: con calma si era rivestita dandosi poi alla fuga con la rapidità della lepre inseguita dai cani.
Vide anche l'indio che si precipitava verso di lui, lo vide darsi da fare per cercare di metterlo a sedere. Lo sentì farfugliare idiozie. Lo sentì mentre balbettando parole incomprensibili in una lingua sconosciuta si vincolava allo spirito. Poi l'indio in fretta gli si pose ritto alle spalle e gli diede un sonoro colpo sulla schiena.
Con molta razionalità, l'uomo agonizzante pensò che l'indio stava cercando di sbloccare il grumo di sangue o di ucciderlo.
Mentre l'indio continuava ad assestargli colpi sulle spalle, l'attore morente ebbe la certezza che si trattasse del marito o dell'amante della donna e che stava cercando di assassinarlo. Ma, scorgendo gli occhi insolitamente brillanti di quell'uomo, cambiò parere; si rese conto che era semplicemente pazzo e non aveva alcun legame con la donna. Con l'ultimo sprazzo di conoscenza, l'attore concentrò l'attenzione su quanto quello andava bofonchiando. L'indio diceva che il potere dell'uomo era incalcolabile, che la morte esisteva solo perché la si decideva con l' intento al momento della nascita e che l' intento della morte si poteva sospendere facendo cambiare posizione al punto d'unione.
Allora si convinse che l'indio era completamente pazzo. Il moribondo valutò quella situazione, talmente teatrale - morire per mano di un indio che borbottava parole senza sénso - che si ripromise di recitare la parte sino all'amara conclusione e di non morire per l'emorragia o per i colpi, ma di morire dal ridere. E rise fino alla morte.
Don Juan mi fece notare che il suo benefattore non poteva assolutamente aver preso sul serio quell'indio. Nessuno avrebbe potuto prendere sul serio un tipo così, specie un futuro apprendista che non si era certo offerto volontario per il difficile compito di stregone.
Dopo, don Juan disse di avermi dato diverse versioni dei compiti dello stregone.
Aggiunse che non sarebbe stato presuntuoso da parte sua svelare che, dal punto di vista dello spirito, la mansione consisteva nel ripulire il nostro anello l di collegamento con lui. L'edificio che l'intento ci esibisce dinanzi é, dunque, una stanza di compensazione in cui non troviamo tanto i procedimenti di ripulitura del nostro anello di collegamento, quanto la conoscenza silenziosa che permette lo svolgimento di tale processo. Senza quella conoscenza silenziosa non funzionerebbe alcun processo e noi proveremmo solo una indefinita sensazione di bisogno.
Spiegò che gli avvenimenti scatenati dagli stregoni come risultato della conoscenza silenziosa erano così semplici eppure così astratti che gli stregoni avevano deciso tanto tempo fa di parlarne solo in termini simbolici. Le manifestazioni e il tocco dello spirito ne erano due esempi.
Don Juan sottolineò che, per esempio, una descrizione di quanto avvenuto nel primo incontro fra un nagual e un possibile adepto, dal punto di vista dello stregone, sarebbe assolutamente incomprensibile. Sarebbe sciocco spiegare che il nagual, in virtù dell'esperienza di una vita, stava concentrando la sua seconda attenzione, cioè la consapevolezza intensa acquistata con l'esercizio della stregoneria, su qualcosa che noi non potevamo immaginare: il suo invisibile collegamento con un indefinibile astratto. Lo faceva per enfatizzare e chiarire l'invisibile collegamento di qualcun altro con quell'indefinibile astratto.
Egli fece notare che ciascuno di noi era tenuto lontano dalla conoscenza silenziosa con barriere naturali, particolari per ogni individuo, e che la più inespugnabile delle mie barriere era l'impulso a mascherare il mio autocompiacimento come indipendenza.
Lo sfidai a darmi un esempio concreto. Gli rammentai che una volta mi aveva avvisato che una diffusa tattica di discussione mirava a sollevare critiche generiche che non si potessero supportare con esempi concreti.
Don Juan mi guardò soddisfatto.
«In passato ero solito darti piante di potere» disse. «Da principio ti arrampicavi sugli specchi per convincerti che quello che stavi provando erano allucinazioni. Poi pretendevi che fossero allucinazioni speciali.Ricordo che ti prendevo in giro perché insistevi a chiamarle esperienze allucinatorie didattiche.»
Affermò che il mio bisogno di dimostrare la mia illusoria indipendenza mi costringeva in una posizione da cui non potevo accettare quello che lui mi aveva detto stava accadendo, benché fosse quello che già sapevo silenziosamente per conto mio. Sapevo che stava usando piante di potere, e quel poco aiuto che esse davano, per farmi entrare in stati di consapevolezza intensa parziali o temporanei, facendo muovere il mio punto d'unione dalla sua posizione abituale.
«Tu hai usato la tua barriera d'indipendenza per superare quell'ostruzione»
proseguì. «La stessa barriera ha continuato a funzionare fino a oggi, così tu provi ancora quel senso di vaga angoscia, forse non così accentuata. La questione ora é: come stai sistemando le tue conclusioni, in modo che le tue esperienze correnti entrino nel tuo schema di autocompiacimento?»
Confessai che l'unico modo di mantenere la mia indipendenza era di non pensare affatto alle mie esperienze.
La poderosa risata di don Juan rischiò di farlo cadere dalla poltroncina di vimini.
Si alzò e fece quattro passi lì intorno per riprendere fiato. Tornò a sedersi e si ricompose. Spinse indietro la seggiola e accavallò le gambe.
Disse che noi, come uomini comuni, non sapevamo e non avremmo mai saputo che era qualcosa di incredibilmente reale e funzionale - il nostro anello di collegamento con l'intento - a darci la nostra atavica preoccupazione per il fato.
Asserì che, durante le nostre vite attive, non avremmo mai avuto l'opportunità di andare oltre il livello della mera preoccupazione perché da un'infinità di tempo la stasi degli affari quotidiani ci aveva resi indolenti. Solo quando le nostre vite si erano quasi concluse, la nostra preoccupazione per il fato cominciava ad assumere un altro carattere. Cominciava a svegliarsi per vedere attraverso la nebbia degli affari quotidiani. Sfortunatamente, questo risveglio veniva sempre insieme alla perdita di energia causata dalla vecchiaia, quando non avevamo più la forza per tramutare la nostra preoccupazione in una scoperta pragmatica e positiva. A questo punto, non ci restava altro che un'angoscia amorfa ma penetrante, un rimpianto per qual cosa non descrivibile, una livida rabbia per l'occasione perduta.
«Mi piacciono le poesie per molti motivi» disse «uno dei quali è che comprendono lo stato d'animo dei guerrieri e spiegano quello che va oltre ogni spiegazione.»
Ammise che i poeti erano acutamente consapevoli del nostro anello di collegamento con lo spirito, ma lo erano per pura intuizione e non, come succedeva agli stregoni, in modo deliberato e pragmatico.
«I poeti non hanno nessuna conoscenza dello spirito, di prima mano» proseguì.
«Ecco perché le loro poesie non possono centrare perfettamente i veri gesti per lo spirito. Però si avvicinano abbastanza.»
Prese uno dei miei libri di poesie da una seggiola accanto a lui, era una raccolta di Juan Ramòn Jiménez. L'aprì dove aveva messo un segnalibro, me lo passò e mi fece segno di leggere.
Sono io stanotte a camminare
nella mia camera o forse il mendico
che s'aggirava furtivo nel mio giardino
all'imbrunire?
Mi guardo intorno
e trovo che tutto
è lo stesso e non è lo stesso...
Era spalancata la finestra?
Non mi ero già addormentato?
Non era verde-tenero il giardino?...
Il cielo era azzurro terso...
E ci sono nuvole
e soffia il vento
e il giardino è cupo e malinconico.
I miei capelli erano neri; credo...
ero vestito di grigio...
E sono grigi i miei capelli...
e sono vestito di nero...
E' questo il mio passo?
Questa voce, che prende suono dentro di me, ha i ritmi della mia voce di una volta?
Sono io o sono il mendico
che s'aggirava furtivo nel mio giardino
all'imbrunire?
Mi guardo intorno... Ci sono nuvole e soffia il vento...
Il giardino è cupo e malinconico...
Io vengo e vado... Non è vero
che mi ero già addormentato?
I miei capelli sono grigi... E tutto
è lo stesso e non è lo stesso...
Rilessi la poesia fra me e colsi lo stato d'animo d'impotenza e di smarrimento dell'autore. Chiesi a don Juan se provava anche lui le stesse sensazioni.
«Credo che il poeta senta il peso degli anni e l'ansia che deriva da una simile scoperta» disse don Juan. «Ma questo è solo una parte. L'altra, quella che interessa me, è che il poeta, benché non muova mai il punto d'unione, intuisce che c'è in gioco qualcosa di straordinario. Intuisce con buona certezza che c'è qualche fattore non nominato, terribile per la sua semplicità, che determina il nostro destino.»
III
Lo stratagemma dello spirito
La ripulitura dell'anello di collegamento
Il sole non si era ancora levato dietro i monti a oriente ma la giornata era già torrida. Quando fummo arrivati ai primi ripidi pendii, a un paio di miglia dal limitare della città, don Juan si fermò, spostandosi sul ciglio della strada lastricata. Si mise seduto accanto ad alcuni enormi massi che erano stati fatti saltare dal fianco della montagna con la dinamite durante la costruzione della strada e mi fece cenno di unirmi a lui. Di solito ci fermavamo lì a chiacchierare o a riposarci prima di salire sulle alture vicine. Don Juan mi annunciò che questo viaggio sarebbe stato lungo e avremmo potuto rimanere giorni e giorni sulle montagne.
«Parleremo ora del terzo nocciolo astratto» mi disse. «E' chiamato lo stratagemma dello spirito, o l'astuzia dell'astratto, o l' agguato a se stesso, o la ripulitura dell'anello.»
Mi sorprese la varietà dei nomi, ma non parlai. Aspettai che riprendesse la spiegazione.
«Anche stavolta, come per il primo e il secondo nocciolo,» continuò «potrebbe essere una storia a sé. La storia narra che, dopo aver bussato senza alcun successo alla porta dell'uomo di cui abbiamo parlato, lo spirito usò il solo mezzo a sua disposizione, l'astuzia. Dopotutto, lo spirito aveva risolto in precedenza altre situazioni di stallo con uno stratagemma. E l'apprendistato magico si rivelò per quel che in realtà é: una via di artifizi e sotterfugi.
«La storia dice che lo spirito circui quell'uomo facendolo passare in continuazione da un livello di consapevolezza all'altro per fargli vedere come risparmiare l'energia per rafforzare il suo anello di collegamento.»
Don Juan mi spiegò che se avessimo situato la sua storia in un contesto moderno avremmo avuto il caso del nagual, il tramite vivente dello spirito, che ripeteva la struttura di questo nocciolo astratto e ricorreva all'artifizio e al sotterfugio per poter insegnare.
All'improvviso balzò in piedi e si avviò verso la catena di montagne. Lo seguii e iniziammo così la nostra scalata, l'uno accanto all'altro.
Nel tardo pomeriggio raggiungemmo la vetta della montagna più alta. Anche a quell'altezza faceva ancora un gran caldo. Avevamo seguito per tutto il giorno una traccia quasi invisibile. Arrivammo infine a una piccola radura, un antico appostamento di vedetta che dominava il Nord e l'Occidente.
Ci sedemmo lì e don Juan tornò sull'argomento delle storie di stregoneria. Disse che ora conoscevo la storia dell' intento manifestatosi al nagual Elìas e quella dello spirito che aveva bussato alla porta del nagual Julian. E sapevo come lui aveva incontrato lo spirito e certo non potevo dimenticare come l'avevo incontrato io. Tutte queste storie, asseriva lui, avevano la stessa struttura, cambiavano solo i personaggi.
Ogni storia era una tragicommedia astratta con un interprete astratto, l' intento, e due attori umani, il nagual e il suo apprendista. La sceneggiatura era il nocciolo astratto.
Pensai di aver finalmente capito quel che voleva dire, ma non riuscivo a spiegare esattamente neanche a me stesso cos'era quello che capivo, né riuscivo a spiegarlo a don Juan. Quando cercai di dar parole ai miei pensieri mi ritrovai a balbettare.
A don Juan parve di riconoscere il mio stato d'animo. Mi suggerì di distendermi e ascoltare. Mi annunciò che la sua prossima storia sarebbe stata sul processo di portare un apprendista nel mondo dello spirito, un processo che gli stregoni chiamavano lo stratagemma dello spirito o la ripulitura dell'anello di collegamento con l' intento.
«Ti ho già raccontato come il nagual Julian mi portò a casa sua dopo che mi avevano sparato, curandomi la ferita finché non fui guarito» continuò don Juan. «Ma non ti ho detto come ripulì il mio anello di collegamento e mi insegnò a tendere l' agguato a me stesso.
«La prima cosa che un nagual fa al suo futuro apprendista è raggirarlo. Dare, cioè, uno scossone al suo anello di collegamento con lo spirito. Ci sono due modi per farlo. Uno per vie semi-normali, come ho fatto io con te, e l'altro con sistemi di autentica stregoneria, come fece il mio benefattore con me.»
Don Juan mi ripeté ancora come il suo benefattore avesse convinto i curiosi che si erano adunati sulla strada che il giovane ferito fosse suo figlio. Poi aveva ingaggiato alcuni fra i presenti perché trasportassero a casa sua - dietro pagamento – don Juan privo di sensi per lo shock e la perdita di sangue. Di lì a qualche giorno don Juan si era risvegliato, trovandosi accudito da un vecchietto gentile e dalla sua grassa moglie.
Il vecchio disse di chiamarsi Belisario; sua moglie era una guaritrice famosa e insieme stavano curando la sua ferita. Don Juan disse loro di non aver denaro e Belisario propose di riparlarne a guarigione avvenuta, quando avrebbero potuto concordare in qualche modo un pagamento.
Di nuovo don Juan ripeté che si era sentito molto confuso, una sensazione non nuova per lui. Era un indio di vent'anni, forte e spericolato, senza cervello, senza alcuna istruzione e con un pessimo carattere. Non sapeva cosa fosse la gratitudine.
Pensava che il vecchio fosse stato gentile ad aiutarlo, ma, una volta rimarginatasi la ferita, aveva tutte le intenzioni di svignarsela nel cuore della notte.
Quando fu quasi del tutto guarito, e stava preparandosi alla fuga, il vecchio e inerme Belisario lo portò in una stanza e, farfugliando e sospirando, gli rivelò che la casa nella quale si trovavano apparteneva a un uomo mostruoso che teneva prigionieri lui e sua moglie. Chiese a don Juan di aiutarli a riconquistare la libertà, di farli fuggire dal loro carceriere e tormentatore. Prima che don Juan potesse rispondere, si precipitò nella stanza - come se fosse stato lì a origliare dietro la porta -
un mostruoso individuo con la faccia da pesce, che pareva uscito da un racconto dell'orrore. Era di un color grigio-verdastro, aveva un solo occhio piantato al centro della fronte ed era grande quanto una casa. Avanzò verso don Juan sibilando come un serpente pronto a sbranarlo, e gli provocò un tale spavento da farlo svenire.
«Il suo modo di darmi uno scossone all'anello di collegamento con lo spirito fu grandioso» rise. «Il mio benefattore, naturalmente, mi aveva fatto entrare nello stato di consapevolezza intensa prima che arrivasse il mostro, così ciò che io in realtà vidi in forma di mostruosa creatura era quel che gli stregoni chiamano un essere inorganico, un campo di energia informe.»
Mi raccontò di conoscere innumerevoli casi in cui la diabolicità del suo benefattore aveva creato situazioni ridicolmente imbarazzanti per tutti i suoi apprendisti, in particolar modo per lui, don Juan, in quanto il suo rigore, la sua serietà lo rendevano il soggetto ideale per scherzi istruttivi. Aggiunse, ripensandoci, che naturalmente questi tiri birboni divertivano immensamente il suo benefattore.
«Tu credi che io rida di te - e lo faccio - ma è nulla se paragonato a come lui rideva di me» continuò don Juan. «Il mio diabolico benefattore aveva imparato a piangere per nascondere le risate. Non potrai mai immaginare quanto piangesse all'inizio del mio apprendistato.»
Proseguendo la storia, don Juan dichiarò che la sua vita non era più stata la stessa dopo lo shock causatogli dall'aver visto quell'essere mostruoso. Ci avrebbe pensato il suo benefattore. Don Juan mi spiegò che, quando un nagual ha assuefatto il suo futuro discepolo - specie il suo apprendista nagual - all'inganno, deve far di tutto per assicurarsene la complicità. Questa complicità poteva essere di due tipi: o il futuro adepto era tanto disciplinato e in sintonia che bastava solo la sua decisione di servire il nagual, come nel caso della giovane Talìa; oppure il futuro adepto era un individuo poco o affatto disciplinato, e in questo caso un nagual doveva dedicare tempo e grande impegno per convincerlo.
Nel caso di don Juan, poiché era un contadino giovane, sfrenato e senza un briciolo di cervello, il processo per farlo abboccare all'amo ebbe sviluppi bizzarri.
Appena dopo il primo scossone, il benefattore gliene assestò subito un altro, mostrandogli la sua abilità: un giorno assunse l'aspetto di un giovanotto. Don Juan non riusciva a concepire tale trasformazione se non come un esempio dell'arte di un attore consumato.
«Ma come riusciva a operare quei cambiamenti?» chiesi.
«Era allo stesso tempo mago e artista» rispose don Juan. «La sua magia stava nel trasformarsi spostando il suo punto d'unione in una posizione dalla quale si potevano effettuare tutti i cambiamenti desiderati. E la sua arte stava nella perfezione di tali trasformazioni.»
«Non comprendo bene quanto mi stai dicendo» feci.
Don Juan disse che la percezione è il cardine di tutto quello che l'uomo é, oppure fa, e che è regolata dal dislocamento del punto d'unione. Per questo, se quel punto cambiava posizione, la sua percezione del mondo cambiava di conseguenza. Lo stregone che conosceva esattamente dove collocare il proprio punto d'unione poteva diventare tutto quello che voleva.
«L'abilità di spostare il punto d'unione del nagual Julian era tale che egli riusciva a ottenere le trasformazioni più astruse» continuò don Juan. «Quando uno sciamano diventa un corvo, per esempio, è senz'altro una memorabile impresa che comporta un grande, e quindi pesante, spostamento del punto d'unione. Tuttavia, farlo muovere fino ad assumere l'aspetto di un grassone o di un vecchio richiede modifiche estremamente minuziose e la più approfondita conoscenza della natura umana.»
«Preferirei evitare di parlare o di pensare a quelle cose come fossero dei fatti»
commentai.
Don Juan rise come se avessi detto la più buffa facezia immaginabile.
«C'era un motivo dietro le trasformazioni del tuo benefattore?» domandai. «O lo faceva per puro divertimento?»
«Non essere sciocco. I guerrieri non fanno mai nulla per puro divertimento»
disse. «Le sue trasformazioni erano strategiche. Erano dettate dal bisogno, come la sua trasformazione da vecchio a giovane. Di tanto in tanto si verificavano conseguenze comiche, ma quella è un'altra faccenda.»
Gli rammentai che in precedenza gli avevo chiesto come aveva imparato il suo benefattore a trasformarsi. Allora mi aveva risposto che aveva un maestro, ma non mi aveva voluto confidare chi fosse.
«Uno stregone molto misterioso, nostro protetto, fu suo maestro» rispose laconico don Juan.
«Di quale misterioso stregone si tratta?» chiesi.
«Lo sfidante della morte» rispose, lanciandomi uno sguardo interrogativo.
Per tutti gli stregoni del seguito di don Juan, lo sfidante della morte era un personaggio molto vivido. Secondo loro, lo sfidante della morte era uno sciamano dei tempi antichi. Era riuscito a sopravvivere fino al giorno d'oggi, manipolando il suo punto d'unione, e facendolo spostare con movimenti particolari fino a posti particolari all'interno del campo di energia. Tali manovre avevano fatto sì che persistessero ancora la sua consapevolezza e la sua forza vitale.
Don Juan mi aveva detto dell'accordo che i veggenti del suo lignaggio avevano raggiunto, secoli prima, con lo sfidante della morte. Egli portava loro doni in cambio di energia vitale. In virtù di quest'accordo, quelli lo consideravano un loro protetto e lo chiamavano “il pigionante”.
Don Juan aveva spiegato che gli stregoni dei tempi antichi erano molto bravi a far muovere il proprio punto d'unione. Facendo questo, avevano scoperto cose straordinarie sulla percezione, ma anche quanto fosse facile perdersi nelle aberrazioni. Per donJuan la situazione dello sfidante della morte era un esempio classico di aberrazione.
Don Juan era solito ripetere che se il punto d'unione era mosso da qualcuno che non solo vedeva ma aveva energia sufficiente a fargli cambiare posizione, il punto stesso scivolava, all'interno dell'uovo luminoso, in qualsivoglia direzione fosse spinto. La sua luce bastava a illuminare i sottilissimi campi di energia che toccava. La percezione del mondo che ne risultava era altrettanto completa della nostra normale percezione della vita d'ogni giorno, ma non era la stessa; di conseguenza la moderazione era decisiva ai fini dello spostamento del punto d'unione.
Continuando la sua storia, don Juan disse che presto si era abituato a considerare il vecchio che gli aveva salvato la vita come un giovanotto travestito da vecchio. Ma un giorno il giovane diventò nuovamente il vecchio Belisario che don Juan aveva conosciuto la prima volta. Lui e la donna che don Juan riteneva fosse sua moglie fecero i bagagli e due uomini sorridenti sbucarono dal nulla con una fila di muli.
Don Juan rideva, quasi stesse assaporando la sua storia. Raccontò che, mentre i mulattieri caricavano le bestie, Belisario lo aveva tirato in disparte facendogli notare che lui e sua moglie si erano travestiti di nuovo: lui da vecchio e la sua bellissima moglie da india grassa e irascibile.
«Ero così giovane e stupido che solo l'ovvio aveva valore per me» continuò don Juan. «Appena un paio di giorni prima avevo assistito alla sua incredibile metamorfosi da debole settantenne a robusto venticinquenne e credetti che la vecchiaia fosse solo un travestimento. Anche sua moglie da grassa india bisbetica era diventata una giovane donna snella e molto attraente. La donna, naturalmente, non si era trasformata come il mio benefattore: lui aveva solo scambiato le donne. Avrei potuto vedere tutto, allora, ma la saggezza ci perviene sempre a fatica e con il contagocce.»
Don Juan disse che il vecchio gli aveva assicurato che la ferita era guarita, nonostante egli non si sentisse ancora perfettamente bene. Poi il vecchio l'aveva abbracciato e con voce sinceramente triste gli aveva mormorato che il mostro aveva trovato don Juan cosi simpatico da volerlo tenere come servitore, lasciando lui e sua moglie liberi dai vincoli.
«Gli avrei riso in faccia» fece don Juan «se non fosse stato per un profondo ringhio animale e un tremendo bailamme provenienti dalle stanze del mostro.»
Gli occhi di don Juan brillavano di allegria interiore. Avrei voluto restare serio, ma non potei fare a meno di ridere anch'io.
Belisario, accortosi della paura di don Juan, si era profuso in mille scuse per il capovolgimento del destino che aveva liberato lui e imprigionato don Juan. Aveva fatto schioccare la lingua in segno di disgusto imprecando contro il mostro. Aveva le lacrime agli occhi nell'elencare tutti i lavori ingrati che il mostro esigeva quotidianamente. E, quando don Juan aveva protestato, gli aveva confidato a bassa voce che non c'era alcun modo di sfuggire al mostro, perché la sua conoscenza della stregoneria era senza pari.
Don Juan aveva chiesto a Belisario di suggerirgli una linea d'azione e quello si era dilungato a spiegargli che i piani d'azione erano opportuni solo se si aveva a che fare con gente di ordinaria umanità. Nel contesto umano, noi pianifichiamo e macchiniamo e, a seconda della fortuna, oltre che dell'astuzia e dell'impegno da parte nostra, possiamo raggiungere il successo. Ma di fronte all'ignoto, e particolarmente nella situazione di don Juan, la sola speranza di sopravvivere stava nel sottomettersi e capire.
Belisario aveva confessato a don Juan, in un sussurro appena percettibile, che sarebbe fuggito nello Stato di Durango per apprendere la stregoneria ed essere certo che il mostro non l'avrebbe inseguito. Aveva chiesto a don Juan se non avesse mai pensato ad apprendere le arti occulte. Don Juan, inorridito al solo pensiero, aveva risposto di non voler avere niente a che fare con le streghe.
Don Juan si teneva la pancia dalle risa e riconobbe che lo divertiva il pensiero di quanto dovesse essere piaciuta al suo benefattore quella loro interazione. Specie quando, travolto da una frenesia di terrore e collera, aveva rifiutato l'invito a imparare le arti magiche dicendo: «Sono indio, io. Sono nato per odiare e temere le streghe».
Belisario aveva scambiato uno sguardo con la moglie, il corpo scosso dai singhiozzi. Don Juan si era accorto che piangeva in silenzio, chiaramente offeso per il rifiuto. Sua moglie aveva dovuto sostenerlo finché non si era ripreso.
Quando Belisario e la moglie stavano allontanandosi, lui si era girato e aveva dato a don Juan un ultimo consiglio. Gli aveva detto che il mostro odiava le donne e don Juan avrebbe dovuto stare attento, e cercare un sostituto nella speranza che potesse piacere al mostro. Ma non avrebbe dovuto farsi vane illusioni perché sarebbero passati anni prima di riuscire a muovere un passo fuori di casa. Il mostro amava assicurarsi che i suoi schiavi fossero fedeli o almeno ubbidienti.
Don Juan non aveva più resistito. Era crollato e si era messo a piangere, dicendo a Belisario che nessuno poteva ridurlo in schiavitù, piuttosto si sarebbe ucciso. Il vecchio era rimasto molto impressionato da quell'esplosione di sentimenti e aveva confessato di aver avuto la stessa idea ma, ahimé, il mostro riusciva a leggergli nel pensiero e gli aveva impedito di suicidarsi tutte le volte che lui aveva tentato.
Belisario si era anche offerto di nuovo di portare con sé don Juan a Durango per apprendere la stregoneria. A suo parere, restava l'unica soluzione possibile. Don Juan gli aveva risposto che ciò sarebbe equivalso a cadere dalla padella nella brace.
Belisario aveva cominciato a piangere forte, abbracciando don Juan. Aveva maledetto il momento in cui gli aveva salvato la vita, giurando che non avrebbe mai immaginato di scambiare posto con lui. Si era soffiato il naso é, guardando don Juan con gli occhi rossi, aveva detto: «Travestirsi è l'unico modo per sopravvivere. Se non ti comporti bene, il mostro può rubarti l'anima e tramutarti in un idiota che lo serve e basta.
Peccato che io non abbia tempo per insegnarti a recitare». E poi aveva pianto ancora più forte.
Don Juan, soffocato dalle lacrime, gli aveva chiesto di suggerirgli come avrebbe potuto camuffarsi. Belisario gli aveva risposto che il mostro aveva una vista pessima e gli aveva raccomandato di provare a indossare varie vesti, come gli consigliava la sua stessa immaginazione. Dopotutto, aveva parecchi anni davanti a sé per provare i travestimenti. Aveva abbracciato don Juan sulla soglia, sempre piangendo. Sua moglie aveva sfiorato timidamente la mano di don Juan, e poi i due se ne erano andati.
«Nella mia vita non ho mai provato, né prima né dopo, tanto terrore e tanta disperazione» disse don Juan. «Il mostro sbatacchiava cose in giro nella casa, come se mi stesse aspettando con impazienza. Io restavo seduto accanto alla porta, gemendo come un cane. Alla fine vomita. per la paura.»
Don Juan era rimasto seduto per ore incapace di muoversi. Non osava andarsene ma non osava nemmeno entrare in casa. Non sarebbe esagerato affermare che stava per morire quando vide, sull'altro lato della strada, Belisario che agitava freneticamente le braccia cercando di attirare la sua attenzione. Solo a vederlo di ritorno, don Juan provò un immediato sollievo. Belisario si era accovacciato accanto al marciapiede e osservava attentamente la casa. Fece segno a don Juan di non muoversi.
Dopo un tempo penosamente lungo, Belisario strisciò carponi per qualche metro verso don Juan e poi si acquattò di nuovo, rimanendo immobile. Sempre procedendo carponi, giunse a fianco di don Juan. Gli ci vollero ore. Molta gente era passata nei paraggi, ma sembrava che nessuno avesse notato la disperazione di don Juan e lo strano modo di comportarsi del vecchio. Quando i due furono fianco a fianco, Belisario sussurrò che non gli era parso giusto abbandonare don Juan come un cane legato al palo. La moglie aveva fatto obiezioni, ma lui era tornato per cercare di liberarlo. Dopotutto, era merito di don Juan se aveva riconquistato la libertà.
Con tono imperioso e a voce bassissima chiese a don Juan se fosse disposto a fare qualsiasi cosa pur di scappare. Don Juan rispose che era pronto a tutto. Furtivo, Belisario gli porse un fagotto di indumenti e poi gli espose per sommi capi il suo piano.
Don Juan doveva andare nella parte della casa più lontana dalle stanze del mostro e cambiarsi lentamente gli abiti, togliendosi un capo alla volta, a cominciare dal cappello per finire con le scarpe. Poi doveva infilare tutti i suoi abiti su una sagoma di legno, una specie di manichino che avrebbe messo insieme in fretta e bene non appena entrato in casa.
La seconda fase del piano prevedeva che don Juan si travestisse nell'unico modo che potesse ingannare il mostro, indossando i vestiti contenuti nel fagotto.
Don Juan corse in casa e preparò tutto. Costruì una specie di spaventapasseri con alcuni pali che trovò sul retro della casa, si spogliò e mise gli indumenti addosso al pupazzo. Ma, disfacendo il fagotto, ebbe una scioccante sorpresa: conteneva abiti da donna!
«Mi sentii stupido e sperduto» disse don Juan «e stavo già per rimettermi le mie cose quando udii gli inumani grugniti di quell'essere mostruoso. Io ero stato educato nel disprezzo delle donne, credendo che il loro unico scopo fosse servire gli uomini.
Indossare vestiti da donna, per me, equivaleva a diventare donna. Ma la mia paura del mostro era cosi intensa da farmi chiudere gli occhi e indossare quei fottuti vestiti.»
Guardai don Juan, immaginandomelo vestito da donna. Era una cosa troppo ridicola e, contro la mia stessa volontà, scoppiai in una fragorosa sghignazzata.
Don Juan disse che Belisario, in attesa sull'altro lato della strada, vedendolo scoppiò in un pianto dirotto. Piangendo, guidò don Juan verso la periferia della città dove sua moglie li stava aspettando con i due mulattieri. Uno di loro chiese a Belisario se stava conducendo quella strana ragazza per venderla a un bordello. Il vecchio singhiozzava così forte che sembrava fosse lì lì per svenire. I giovani mulattieri non sapevano cosa fare, ma la moglie, invece di rattristarsi, cominciò a sganasciarsi dalle risa. E don Juan non riusciva a capire perché.
Il gruppo cominciò a muoversi al buio. Presero a inoltrarsi per sentieri poco battuti, dirigendosi di buon passo verso nord. Belisario non parlava molto. Sembrava terrorizzato, sotto l'incubo di un pericolo incombente. Sua moglie litigava sempre con lui, rimpiangendo di aver perso l'occasione di ritornare liberi per portarsi dietro don Juan. Belisario le ordinò di non parlarne più per timore che i mulattieri potessero scoprire il travestimento di don Juan. Per precauzione consigliò a don Juan, visto che non riusciva a comportarsi da donna in modo convincente, di fare la parte della ragazza un po' tocca.
In capo a pochi giorni, i timori di don Juan si ridussero di molto. Infatti divenne così tranquillo da non ricordare nemmeno più di aver avuto paura. Se non fosse stato per le vesti che indossava, avrebbe detto che si era trattato solo di un brutto sogno.
Portare abiti femminili in quelle condizioni comportava, naturalmente, una serie di drastici cambiamenti. La moglie di Belisario, con grande impegno, insegnò a don Juan tutte le arti muliebri: don Juan l'aiutò a cucinare, a lavare i panni, a raccogliere legna da ardere. Belisario rase a zero i capelli di don Juan e gli unse il cuoio capelluto con un unguento dall'odore acre, dicendo ai mulattieri che la ragazza aveva preso i pidocchi. Don Juan disse che in fondo non era difficile per lui passare per ragazza, poiché era ancora imberbe, ma era scontento di sé e di tutta quella gente e, soprattutto, del suo destino. Finire vestito da donna a sbrigare le faccende domestiche andava al di là della sua capacità di sopportazione.
Un giorno ne ebbe abbastanza. I mulattieri furono la classica goccia che fa traboccare il vaso. I due esigevano che quella strana ragazza li accudisse in tutto e per tutto. Don Juan confessò che doveva anche stare sempre in guardia perché quelli allungavano le mani.
Mi sentii costretto a porre una domanda.
«Erano in combutta con il tuo benefattore, quei due mulattieri?» domandai.
«No» mi rispose, e scoppiò in una sonora risata. «Erano solo due simpatiche persone cadute temporaneamente in suo potere. Aveva preso a nolo i loro muli per trasportare piante medicinali e poi aveva detto ai due che li avrebbe pagati profumatamente se lo avessero aiutato a rapire una ragazza.»
Ero strabiliato dalla portata delle azioni del nagual Julian. E, immaginando don Juan che respingeva i pesanti approcci dei due, mi spanciai dalle risate.
Don Juan continuò il suo racconto. Mi riferi di aver detto in tono aspro al vecchio che la mascherata era durata anche troppo, e quei due si prendevano delle libertà. Belisario, con tono disinvolto, gli aveva consigliato di essere più comprensivo: gli uomini, lo sapeva, erano fatti cosi, e aveva ricominciato a piangere, sconcertando del tutto don Juan, che si era ritrovato a difendere strenuamente le donne.
Il proprio impegno nella causa delle donne lo spaventò. Disse a Belisario che avrebbe fatto una fine peggiore in quel modo che se fosse rimasto schiavo del mostro.
L'agitazione di don Juan crebbe vedendo che il vecchio non riusciva a frenare le lacrime e blaterava stupidaggini: la vita era bella, il prezzo che si pagava per viverla era una l bazzecola, il mostro avrebbe divorato l'anima di don Juan senza neanche permettergli di suicidarsi. «Civetta con i mulattieri» gli consigliò in tono conciliante.
«Sono zotici e primitivi. Vogliono solo scherzare, cosi, quando ti danno una gomitata, rispondi con uno spintone. E fatti toccare le gambe: che te ne importa?» E
di nuovo pianse come una fontana. Don Juan gli chiese perché piangesse cosi.
«Perché sei la persona giusta per tutto questo» gli rispose, con il corpo squassato dalla forza dei singhiozzi.
Don Juan lo ringraziò per la sua bontà e per tutto il disturbo che si era procurato occupandosi di lui. Confidò a Belisario che ora si sentiva sicuro e voleva andarsene.
«L'arte dell' agguato vuol dire imparare a conoscere tutte le particolari stranezze del proprio travestimento» disse Belisario, senza prestare attenzione a quel che don Juan gli andava dicendo. «E conoscerle cosi bene che nessuno si deve accorgere che sei travestito. Per questo devi essere spietato, astuto, paziente e gentile.»
Don Juan non aveva idea di cosa stesse parlando Belisario. Invece di cercare di scoprirlo, gli chiese dei vestiti da uomo. Belisario fu molto comprensivo, diede a don Juan abiti smessi e qualche pesos. Gli promise che il suo travestimento sarebbe sempre stato li a sua disposizione in caso ne avesse avuto bisogno, e insisté con veemenza perché andasse con lui a Durango per apprendere le arti magiche e liberarsi per sempre dal mostro. Don Juan disse di no, ringraziandolo. Così Belisario lo salutò e gli diede parecchie pacche sulle spalle, con forza considerevole.
Don Juan si cambiò gli abiti e chiese a Belisario informazioni sulla via da prendere. Quello gli rispose che se don Juan avesse seguito il sentiero a nord, prima o poi sarebbe arrivato al paese più vicino. Disse che le loro strade avrebbero anche potuto incrociarsi di nuovo, poiché tutti e due andavano nella stessa direzione: lontano dal mostro.