Nero su bianco
Il giorno dopo ci siamo svegliati tardissimo. Eravamo andati a dormire quando il sole stava praticamente già sorgendo.
E proprio quel giorno abbiamo dovuto darci molto da fare all’agriturismo, perché quel sabato erano arrivati davvero tanti ospiti, e mia madre e Vera ci chiedevano continuamente di occuparci di qualcosa.
Verso sera, mi sono seduto su una panchina in terrazza e ho iniziato ad attaccare un amo a un filo di nailon che avevo legato in precedenza a un bastoncino. Stavo costruendo una canna da pesca per i bambini di un ospite che l’indomani volevano provare a pescare nel fiume.
Elisa mi si è avvicinata, si è seduta su una sedia di vimini lì accanto e ha commentato:
«Sono tutti indaffarati, non credo che mia nonna riuscirà a raccontarci la storia, oggi».
Ho guardato la mia amica con aria stupita. Con tutto quello che era successo, voleva farsi raccontare una storia dalla nonna?
«La storia di Iaiá. Ce l’aveva promessa, non ti ricordi?» si è spiegata.
Ma certo, come avevo fatto a dimenticare una cosa del genere? È che non avevo mai smesso di pensare, da mattina a sera, a tutto quello che ci aveva raccontato Rosario. La faccenda della storia mi era proprio uscita di mente.
Comunque, Elisa aveva ragione. Quel giorno sarebbe stato impossibile. Più tardi, quando è andata dalla signora Carlotta a ricordarle la promessa, questa è stata la risposta:
«Domani, tesoro, domani… Oggi è impossibile. Ma domani è domenica, gran parte degli ospiti non resterà a dormire. Dopo lo spuntino pomeridiano, e prima che andiate a letto, ci sediamo in terrazza a parlare. Stai tranquilla, non me lo dimentico, anzi ho molta voglia di raccontarvi quella storia. Tu e Leo dovete sapere».
Non ci siamo rimasti male. Per quella sera avevamo ben altri programmi: un nuovo incontro con Rosario. Cioè, sempre che fosse venuta. Ma stavolta sapevamo come chiamarla.
E lei non si è fatta aspettare.
Diventava di volta in volta più facile. Avevamo imparato. E siccome anche lei ci teneva a venire, quando scendeva la notte si aggirava sempre lì intorno. Adesso non aveva più bisogno di piangere e lamentarsi: ormai conoscevamo il potere del candelabro di Iaiá, usato tante volte anche da Rosario, tanto tempo fa, in quello stesso luogo.
Quando tutti sono andati a dormire e l’agriturismo è diventato finalmente silenzioso, ci siamo riuniti nella camera della Venditrice di foglie di banano, abbiamo spento la luce e acceso una candela. Siamo rimasti in silenzio, concentratissimi, pensando tutti con molta intensità a quanto desideravamo rivedere Rosario. E non era più per semplice curiosità. Ora eravamo solidali. Volevamo poter collaborare, anche se non sapevamo ancora in che modo. Ma sapevamo che un modo c’era, e lo avremmo trovato. Ce lo aveva detto Rosario stessa, accennando al fatto di doverci raccontare tutto perché la potessimo aiutare. Però mancava ancora qualcosa. Il finale della storia.
«La parte più brutta in assoluto. Un vero inferno» ci aveva anticipato la sera prima.
E se te lo dice un fantasma, puoi crederci…
Quella sera abbiamo scoperto il finale. E abbiamo dovuto concordare con Rosario. Un vero inferno.
«Oggi vi racconterò la storia della fine…» ha cominciato a dire.
«La fine della schiavitù?» ha chiesto Leo.
Prima di rispondere, Rosario ha lasciato correre lo sguardo su di noi, un po’ come la sera in cui l’avevamo conosciuta, quando ancora non si era decisa a parlarci. Come se volesse esaminarci per capire se poteva raccontarci certe cose. Per vedere se meritavamo la sua fiducia. O se avremmo retto la verità.
Poi ha detto:
«La storia della mia fine. Di come sono morta».
Mai avrei pensato di sentir pronunciare questo verbo a quel modo, al passato e in prima persona, e non in senso figurato, come quando diciamo “sono morto dal ridere”, “sono morto di paura”, “di vergogna”, “per la sorpresa”. In bocca a Rosario, quel verbo manteneva il suo significato letterale, quello che un giorno avrà per ciascuno di noi, se ci sarà dato di vivere la sua stessa esperienza di poterne parlare dopo, al passato.
Oddio, non so che dico, sono confuso. Ma non è facile, soprattutto per chi non ha mai letto né scritto granché. Però, davvero, sentire quella ragazza dire “sono morta” così, come fosse la cosa più naturale del mondo, mi ha fatto venire i brividi. Forse all’improvviso ho capito la forza dell’esperienza che stavamo vivendo, il fatto di poter parlare con una persona morta. Forse ho sentito che la morte non è altro che questo, l’altra faccia della vita, perché tutti gli esseri viventi un giorno dovranno morire. Ma non è bello pensare alla morte, ammettere che arriverà anche per noi e per tutti quelli che amiamo…
Insomma, non lo so spiegare, ma ecco, mi ha lasciato sconvolto. Perciò d’ora in avanti non mi azzarderò a scrivere le parole esatte di Rosario, come ho fatto finora. Insomma, almeno ci ho provato, cercando di essere il più fedele possibile. Però d’ora in poi non credo di farcela. Almeno verso la fine della storia probabilmente non ci riuscirò, scriverò soltanto un riassunto del suo racconto. Molte cose le lascerò per dopo, per quando Elisa mi aiuterà. Quello che stai (o state) leggendo adesso, sarà già passato per le sue mani. Ma davvero non so dire se saremo capaci di raccontarlo, anche tutti e due insieme. So solo che l’ultima parte del racconto cominciava più o meno così:
«Avremmo dovuto aspettarcelo. Quel giorno è stato diverso, fin dall’inizio. Non che fosse successo qualcosa, ma c’era nell’aria un nervosismo tremendo…».
Per cercare di nascondere il nervosismo che sentivo io, o il mio malessere, le ho chiesto:
«In che senso?».
«Come quando deve scoppiare un temporale, ma prima che si alzi il vento e cominci a piovere. Però senza il temporale. Capito?»
Avevamo capito.
«Insomma, appena svegli, io e Amaro sapevamo già quanto quella giornata fosse rischiosa, ma non per quello che ho appena detto. Il pericolo riguardava Doroteu, uno schiavo che lavorava alla raccolta del caffè e che era stato picchiato a sangue, perciò aveva deciso che non ce la faceva più e preferiva rischiare il tutto per tutto. Cioè, aveva scelto di scappare e si era preparato per quella notte, perché non ci sarebbe stata la luna. Era già tutto organizzato. Il fattore, però, doveva sospettare qualcosa: la sera prima lo avevamo visto controllare con molta attenzione le rive del Rio Pardo, proprio vicinissimo a dove Bento e Joana ci avevano detto di voler nascondere la vecchia barca. Amaro ne aveva parlato con Doroteu e insieme avevano deciso che mio fratello avrebbe cercato di avvertire i figli del barcaiolo, perché scegliessero un altro posto dove lasciare la barca. Ma non sapevamo se ci sarebbe riuscito. Insomma eravamo molto nervosi per questa cosa».
Già solo nel raccontarlo, Rosario sembrava un po’ spaventata: saltava su a ogni colpo di vento, qualsiasi occhiata tra noi la metteva a disagio. Quell’atmosfera ci ha contagiati e siamo diventati tutti un po’ tesi.
«Amaro è andato a infilarsi nella Foresta Libera, come gli piaceva chiamare la boscaglia tra la senzala e il fiume, e poco dopo ecco arrivare Iaiá. Non veniva mai dalle nostre parti. Se voleva qualcosa, ce lo mandava a dire e noi eseguivamo gli ordini. Ma non quel giorno. Quel giorno si è presentata di persona. È apparsa all’improvviso, bellissima nel suo vestitino di pizzo. Sembrava una bambola, con tanto di ombrellino chiaro per proteggersi dal sole…»
Rosario ha fatto una pausa e ha alzato gli occhi su di noi, come se non ci vedesse proprio. Ha sospirato. Forse voleva ricordarsi bene, o cercava le parole adatte per condividere i ricordi… so quanto può essere difficile, lo so da quando ho cominciato a scrivere.
In seguito Leo mi ha detto di aver avuto la sensazione che fossimo noi a essere diventati trasparenti: Rosario guardava proprio il muro alle nostre spalle, ma non ci vedeva. Secondo Elisa, invece, guardava dentro di sé, ricordava, contemplava qualcosa che le era rimasto nel profondo. Tere, al contrario, è convinta che esaminasse la stampa di Debret appesa sopra di noi, come se cercasse un ombrellino disegnato, in modo da spiegarci meglio la moda del tempo.
Non lo so, l’ho già detto. Ma è stata una pausa stranissima, diversa da quando uno riprende semplicemente fiato nel mezzo di un discorso. Poi ha ricominciato.
«Tutti erano al lavoro. Gli uomini nel piazzale del caffè, che era già stato raccolto ed essiccato e adesso doveva essere portato a tostare. Le donne nella casa padronale o a lavare in riva al fiume, oppure a dare da mangiare agli animali, ciascuna intenta nelle sue faccende. Io avrei dovuto essere con loro, ma avevo fatto finta di essermi dimenticata una cosa, come pretesto per restare indietro ancora un po’, lì alla senzala. Ero preoccupata per Amaro… Ah, povero il mio fratellino! Aveva soltanto nove anni e si era infilato da solo nella Foresta Libera, correndo un rischio terribile…»
Ecco, forse era questo. Forse il silenzio di Rosario era una pausa di tristezza dovuta alla nolstalgia per il fratello.
«E Iaiá?» ha chiesto Elisa con voce abbastanza dolce, credo per distrarre Rosario dai ricordi tristi.
«Ecco, questa è stata la cosa più incredibile» ha risposto lei con un sospiro. «Iaiá era venuta apposta per parlare con me, vi rendete conto? Era buona, ogni tanto giocavamo insieme, mi faceva dei regali, e quando suo padre strillava ci difendeva tutte le volte che poteva. Ma non veniva quasi mai alla senzala. E invece, quel giorno, era venuta apposta per raccontarmi una grande novità. Una cosa incredibile! Cioè, avevamo già sentito alcune voci in proposito. Ma mai avrei creduto di venirlo a sapere con tanta certezza, e prima di chiunque altro. Gli schiavi che lavoravano nella casa padronale, per esempio, quando servivano a tavola perché c’erano ospiti, a volte riuscivano a origliare brandelli di conversazione, sapete com’è… E avevano raccontato al resto della senzala che si faceva un gran parlare di abolizionismo, di fine della schiavitù, sembrava fosse una cosa reale… E Iaiá era venuta proprio a dirmi che un viandante, fermatosi a dormire da loro la sera prima, aveva raccontato che nella capitale, circa due mesi prima, una certa principessa aveva firmato una legge per cui nessuno aveva più il diritto di possedere schiavi. Padron Coranha si era alterato. Secondo lui una legge del genere non poteva assolutamente essere valida, era l’imperatore a governare, nessuna donna poteva venire a dare ordini in casa sua, e roba del genere… Iaiá mi ha raccontato che l’altro era scoppiato a ridere. Secondo lui, se suo padre non avesse rispettato la legge sarebbe rimasto senza niente, non solo senza schiavi. Gli schiavi già non li aveva più, lui credeva di averli, ma in realtà erano liberi da un pezzo. E in più avrebbe perso le terre, la piantagione, le case, e soprattutto rischiava di finire in prigione se non ubbidiva subito e non liberava tutti quanti, perché l’imperatore era d’accordo con la principessa».
«Ma certo, la principessa Isabel, figlia dell’imperatore Pedro II, che nel 1888 ha firmato in nome e per conto del padre la cosiddetta Legge aurea, abolendo la schiavitù in tutto il Brasile…» abbiamo subito detto noi, che lo avevamo studiato a storia. «È andata proprio così».
«Ma qui, in questo posto dimenticato da Dio, non sapevamo se fosse vero o no» ha proseguito Rosario. «Perciò, mi ha detto Iaiá, Padron Coranha aveva ordinato al fattore di partire a cavallo, quella notte stessa, e di andare fino alla cittadina più vicina per informarsi su cosa fosse successo esattamente, su cosa significassero tutti quei discorsi. Appena me l’ha raccontato, scema che non sono altro, lì per lì non ci ho creduto, sarebbe stato troppo bello. E subito dopo mi è venuta in mente un’altra cosa: se il fattore era partito, Amaro rischiava di meno. Il cuore mi si è messo a battere così forte che ho avuto paura di vedermelo uscire di bocca. Un misto di paura e della felicità più enorme provata in vita mia. Non essere più schiavi di nessuno, riuscite a immaginarlo?»
Io continuo a provarci, ma temo che non ci riuscirò mai. Per dare alla libertà tutto il suo valore, bisognerebbe sapere bene cosa significa vivere senza. La schiavitù è un orrore tale che non si può nemmeno immaginarlo. A meno di non esserci passati.
Ma intanto Rosario aveva ripreso a raccontare.
Sempre a detta di Iaiá, il fattore era appena tornato, confermando la notizia data dal viandante la sera prima, e dicendo che la gente della cittadina era scoppiata a ridere quando aveva saputo che Padron Coranha credeva di possedere ancora degli schiavi.
La casa padronale era sottosopra. Il padre di Iaiá strillava, sbatteva le porte, spaccava tutto, prendeva i mobili a frustate, minacciava… Poi aveva ordinato di radunare tutti gli schiavi nella senzala, per dare loro la notizia. Iaiá, quando lo aveva sentito, approfittando della confusione in casa era uscita di corsa per comunicare alla sua amica la bella notizia… Ma già si vedeva che anche gli altri avevano cominciato a venirlo a sapere, la novità si andava diffondendo in fretta.
Gli schiavi arrivavano di corsa, da ogni parte, mollavano gli attrezzi, cantavano, ridevano, ballavano, battevano le mani. Le donne si asciugavano le mani sul grembiule, gli uomini lanciavano il cappello in aria. Tutti si abbracciavano… Una festa! In un attimo ci siamo radunati nel cortile di fronte alla senzala, parlavamo uno sull’altro, non la smettevamo di ridere. Quando è arrivato anche il fattore ormai non mancava nessuno, tranne Amaro. Ma il fattore nemmeno se n’è accorto: in mezzo a tanta confusione non si era certo messo a contare chi c’era e chi no.
«Allora ci ha detto» ha proseguito Rosario «che la schiavitù era terminata e che Padron Coranha aveva qualcosa da comunicarci, doveva spiegarci come sarebbero andate le cose da quel momento in poi, bisognava parlare di indennizzo e roba del genere. Il padrone voleva che entrassimo tutti nella senzala, in modo da non doversi mettere a gridare là fuori per via del vento, dentro sarebbe stato più facile farsi sentire. Allora abbiamo cominciato a entrare, sempre felicissimi. Quando l’ultimo di noi ha varcato il portone, il fattore lo ha sbarrato da fuori con una stanga gigantesca, una trave di legno massiccio. Impossibile uscire. Dentro era buio pesto, e tutti ci siamo improvvisamente zittiti. C’era un silenzio strano…».
Qui viene la parte più difficile da raccontare, perciò sorvolerò un poco sui dettagli, perché è davvero troppo per me. La fine del racconto di Rosario cominciava con questo silenzio nel buio totale e continuava con una voce. La voce rabbiosa di Padron Coranha, che gridava e sbraitava fuori dalla senzala. Urlava che non potevano fargli una cosa simile, il governo non aveva il diritto, non potevano distruggergli il “capitale” così da un momento all’altro, ci aveva messo anni a costruirlo, aveva contribuito ad aumentare la ricchezza del paese, gli era costato tutto carissimo e adesso doveva perderlo senza nessun indennizzo, roba del genere… Se fosse vissuto oggi, probabilmente sarebbe stato addirittura capace di parlare di “diritti acquisiti”, come si legge sempre sui giornali quando un gruppo cerca di difendere i suoi privilegi.
Ma questa è un’interpretazione mia. Scusa, non mi dovevo intromettere. In realtà sto solo cercando di svicolare, tento di ritardare quello che viene dopo. Cioè quello che non voglio dire, quello che ho promesso di dire, quello che non si può dire.
Perché a quel punto gli schiavi, chiusi nella senzala, al buio, hanno sentito l’ordine:
«Spargete il petrolio!».
Subito dopo hanno sentito l’odore. E poi hanno provato il calore, hanno visto il chiarore del fuoco, hanno sentito il crepitio delle fiamme che crescevano, che si propagavano in fretta, salivano fino al tetto di paglia, gli ricadevano addosso. Se non poteva continuare a possedere schiavi, Padron Coranha preferiva dar loro fuoco. Bruciarli vivi. Così, almeno, la liberazione non sarebbe stata una festa e lui non avrebbe dovuto guardare negli occhi degli uomini neri liberi.
Ma Rosario non ci ha dato questo tipo di spiegazioni: il suo racconto non aveva nulla di un discorso, di un articolo di giornale o di una lezione di storia. Con lo sguardo perso nel vuoto e le lacrime che scorrevano tra i singhiozzi, il fantasma della ragazzina raccontava soltanto le sue sensazioni. Il calore atroce, la gente che correva, si calpestava, le grida, il dolore.
In realtà, nemmeno io so bene cosa ci ha raccontato, e cosa ho immaginato io. Anzi, più che altro non so che cosa, di tutto quello che ci ha raccontato, non sono nemmeno riuscito a immaginare.
La scena dev’essere stata più o meno questa: prima l’oscurità, con l’odore di petrolio, molto intenso. Poi, quasi contemporaneamente, un calore fortissimo sempre più vicino e lo sfrigolio del fuoco che attecchiva su qualsiasi oggetto.
Ma altre cose non le so, non le ricordo, forse Rosario nemmeno ce le ha raccontate.
A dirla tutta, non so se abbia davvero parlato di fiamme sempre più alte, gialle, rosse e arancioni, sempre più grandi, lingue di fuoco che divorano tutto, o se questo l’ho soltanto immaginato io, dai tanti incendi visti nei film.
Di una cosa sono sicuro, però. Rosario ci ha parlato del fumo, del bruciore agli occhi, della mancanza d’aria, di tutti che gridavano e tossivano tantissimo all’interno della senzala, correvano di qua e di là, si gettavano contro la porta. Alcuni cadevano a terra e finivano calpestati, ma lei è rimasta rannicchiata in un angolo, abbracciata a sua madre. Se provo a ricordare cosa ha detto esattamente, mi vengono dubbi sulle fiamme, ma nessuno sul fumo. Forse è morta soffocata, prima di bruciare, prima di sentire il fuoco consumarle la carne. O forse no, forse ce lo ha raccontato ma io non ricordo le parole, sono rimasto troppo inorridito.
Comunque sia, è stato l’inferno.
«Sembrava non dover finire mai. Ma poi, all’improvviso, è finita» ha concluso. «Sono morta».
Siamo rimasti in silenzio.
Nessuno riusciva a muoversi, né a dire qualcosa. Così dev’essere stata la senzala alla fine di tutto: solo il fumo e una montagna di corpi carbonizzati, irriconoscibili.
La prima a rompere il silenzio è stata di nuovo lei, Rosario.
«Sono morta pensando ad Amaro, volevo avvertirlo di non ritornare. Se a noi avevano fatto questo, non so cosa possa essere successo a mio fratello quando lo hanno preso… Un bambino che aiuta uno schiavo fuggiasco… Da solo, senza nessuno a proteggerlo o ad aiutarlo».
Noi restavamo in silenzio, incapaci di aprire bocca, come se un peso immenso ci gravasse addosso. Come se anche una parte di noi fosse morta lì.
Ecco perché siamo rimasti piuttosto sorpresi quando, dopo aver concluso la sua storia, ci siamo accorti che Rosario aveva qualcosa da chiederci.
«Perciò sono dovuta tornare. Perché mi aiutiate».
Elisa è stata la prima a riprendersi e a domandare:
«Aiutarti? Ma certo! Come, però? Cosa possiamo fare?».
«Scoprite dove si trova Amaro. E se è vivo, abbiate cura di lui, non lasciate che lo catturino».
Ci siamo guardati tutti e quattro.
Sembrava che Rosario non avesse la minima idea di quanto tempo fosse passato e dell’assurdità della sua richiesta. La schiavitù in Brasile è stata abolita nel 1888. Se anche il suo fratellino fosse riuscito a scappare e avesse vissuto moltissimi anni, ormai era sicuramente morto.
Dio mio, cosa potevamo fare? Però adesso bisognava tranquillizzarla, aiutarla a… vivere? Morire? Be’, diciamo aiutarla a trovare pace. Ma non potevamo mica promettere il falso…
Che situazione!
Per fortuna in questi momenti c’è Tere, che lascia sempre parlare il cuore. Così, mentre eravamo tutti lì a pensare a cosa potevamo e non potevamo fare, lei ha cominciato a tirare fuori tutta la sua tenerezza.
Si è avvicinata a Rosario e le ha posato di nuovo un braccio intorno alle spalle.
«Calma, tesoro, adesso calmati… Non ti succederà più niente…»
«Ma non si tratta solo di me. Ci sono anche tutti gli altri…»
«Ci pensiamo noi. Troveremo un modo. Tranquilla, adesso basta… È passata. D’ora in poi nessuno ti farà più niente».
Questo era ovvio. Ma noi, cosa potevamo fare?
«Giusto» ha detto Elisa. «Scopriremo cosa è successo a tuo fratello. Ma di sicuro non gli hanno fatto niente. Altrimenti lo avresti saputo, non credi?»
Era un argomento sensato… Rosario si è calmata un po’.
«E appena riusciamo a scoprire qualcosa, te lo veniamo subito a raccontare…»
«No» ha risposto lei, risoluta. «Questo non è possibile. Io non potrò più ritornare. Ormai ho raccontato la mia storia. Adesso tocca a voi».
Si è alzata e ha cominciato a camminare per la stanza. A modo suo, con i piedi che scivolavano come se non toccassero il pavimento. All’inizio, piano piano, poi ha accelerato, sempre più veloce. Di lì a poco ha preso a roteare su se stessa. Solo a guardarla venivano le vertigini. Rosario girava e girava, sembrava una trottola, veloce, più veloce, ancora più veloce.
Elisa, nel tentativo di fermarla, l’ha chiamata:
«Rosario!».
E poi le ha chiesto: «Rosario, ma come possiamo aiutarti?».
Rosario si è fermata di botto, ha steso un braccio, mi ha indicato e mi ha chiamato per nome:
«Mariano… Prometti di aiutarmi? Lo giuri?».
Aveva il dito puntato proprio verso di me. Non avevo altra scelta, ho dovuto giurare.
«Prometto».
Leo deve essersi ingelosito un po’, perché ha subito protestato:
«Perché non hai scelto me?».
«Perché su di te questo dovere grava già» ha risposto.
Poi ci ha spiegato cosa voleva. E alla fine ha detto:
«Non dimenticartelo. Adesso sei schiavo della tua promessa. Nero su bianco».
E chi se lo dimenticava?