Verso il sole
Sasà parcheggia il motorino di Mariano a un centinaio di metri da villa Bianca. Lo appoggia al muro di una casa. Si avvia a piedi per i campi.
In quei primi dieci giorni del mese erano successe diverse cose.
Suo fratello era andato in ferie in Grecia con Rosina, Fabiana gli aveva già scritto una lettera confermandogli che sarebbe tornata l’ultimo fine settimana di agosto e anche il primo di settembre, la creatura verde era apparsa anche ad altre persone del paese che lo avevano raccontato al bar senza che alcuno li considerasse pazzi. La cosa più importante però era stata la telefonata che Sasà aveva ricevuto da Daniele. Era avvenuta un pomeriggio tardo, quando in casa non c’era nessuno. La voce del ragazzo era stata molto risoluta. La partenza degli Abrami per l’America aveva acceso nei due una specie di tacita sintonia. Sapevano che era quello il momento propizio per agire. Daniele aveva spiegato nel dettaglio a Sasà tutti i movimenti dei frequentatori di casa sua. Gli aveva anche raccontato che negli ultimi giorni era uscito in giardino, aveva giocato a carte con il nonno sotto l’ombra del pergolato, passeggiato al tramonto. Sasà gli aveva chiesto, preoccupato, te la senti di saltare dal terrazzo?
Sasà arriva al buco, striscia per entrare dentro villa Bianca. Una volta dentro rimane un attimo fermo a fissare la casa. Le auto sono parcheggiate. Non sembra muoversi una paglia. I cani sono nelle cucce. Lui allora rovista nello zaino, prende due fette di prosciutto.
Si avvicina alla rete che delimita la loro zona. Li chiama.
Daniele gli aveva detto che la mattina per fare colazione aveva ripreso a scendere giù in cucina. Fino a dopo pranzo, con lui, una 89
volta partiti i suoi, rimaneva e sarebbe rimasto anche il nonno Vincenzo. Il ragazzo aveva suggerito che il momento ideale per mettere in pratica il loro piano sarebbe stato dalle 14.30 in poi. Un pomeriggio ogni due giorni, oltre ad Adele, in casa rimaneva solo sua nonna. Prima di uscire avrebbe messo dei vestiti nel letto, per gon-fiarlo e simulare la sua presenza sotto le coperte, poi avrebbe chiuso la stanza a chiave da dentro, dicendo che non voleva essere disturbato almeno fino alle 18. A quell’ora Adele se ne sarebbe andata, e lui poteva rientrare per le 18.30. Sasà aveva insistito: sei sicuro che te la senti di saltare?
Adesso sono le 14.45 del 13 agosto. I cani hanno mangiato. Si sono accucciati e si sono messi a fissare Sasà che gironzola per il giardino. Il ragazzo si avvicina alla tettoia del parcheggio che con-fina con il pergolato. Guarda in alto. Posa lo zaino in terra, lo nasconde dietro la Yaris. Sua madre a quell’ora doveva essere sprofon-data sul divano a guardare la telenovela. Maddalena forse a fare un pisolino. Nonno Vincenzo, come aveva riferito Daniele, doveva essere già al bar per il torneo agostano di briscola. E quello era il giorno in cui il dottore non veniva. Sasà si arrampica sul palo di legno della tettoia, con tre spinte di gambe raggiunge la cima, sale sulla tettoia. L’aria da lassù è ancora più calda. Dietro di lui, verso le montagne, si stanno addensando dei nuvoloni grigio scuri che non promettono nulla di buono.
Sì, me la sento di saltare, aveva giurato Daniele. Non prendo più le gocce, gli aveva garantito in quella telefonata, io e mia madre ci siamo accordati per fingere con la nonna e il dottore. Fino adesso non se ne sono accorti. Le forze mi sono tornate. Sasà si era sentito sollevato. Tuttavia il compito che lo aspettava non era per niente facile.
Dalla tettoia al terrazzo c’erano un paio di metri. Saltarci sopra dal terrazzo non era affatto difficile. Salire sul terrazzo dalla tettoia invece richiedeva l’abilità dell’Uomo Ragno. Cosa che Daniele in quelle condizioni fisiche non aveva. Per il ritorno non c’era proble-90
ma, aveva assicurato il ragazzo; una volta scivolato nella villa dal buco, sarebbe rientrato in casa dalla porta di servizio al piano terra, se la nonna l’avesse visto gli avrebbe detto che era sceso un attimo in giardino. Adesso, però, per uscire doveva saltare dal terrazzo alla tettoia. Sasà prende un sassolino dalla tasca e lo lancia contro il vetro della finestra. Dopo qualche istante questa si apre e compare una figura esile con maglietta bianca a maniche lunghe, pantalonci-no corto di jeans chiaro e una vistosa parrucca biondo liscio in testa.
A quella vista Sasà non può trattenersi e scoppia in una risata fra-gorosa, e pericolosa.
Daniele lo aveva avvisato. Sarebbe stato costretto a travestirsi un po’. In paese bene o male lo conoscevano, anche se c’era stato talmente poco. Se qualcuno li avesse beccati insieme in motorino mentre raggiungevano la spiaggia, seppur quella più lontana da Lenizzi, il casino sarebbe stato inimmaginabile. Siccome sua madre grazie al centro estetico, che tra l’altro per via dei turisti rimaneva aperto anche ad agosto, aveva una ampia gamma di parrucche che ogni tanto portava a casa e lasciava nel suo armadio, perché non approfittarne e inventarsi un bel camuffamento?
Daniele alza la faccia e guarda Sasà piegato in due, gli viene da ridere anche a lui ma deve resistere perché ha paura che lo sentano.
Vorrebbe scongiurarlo di smetterla ma deve subito concentrarsi sul salto che deve fare per forza se vuole finalmente evadere da quella prigione domestica. Respira a fondo. Sasà cerca di incitarlo ma siccome gli viene da ridere in pratica gorgoglia.
“Minchia dai che ci sei… ti pigghio io se cadi…”, riesce a dire.
Daniele era vistosamente spaventato.
“Dai, devi scavalcare la ringhiera, poi ti tieni al ferro con la schiena dritta e salti, non succede niente…”
Daniele non lo sentiva proprio, aveva incominciato a sudare. Sasà cerca di fissarlo per dargli direttive ma ogni tanto gli viene da ridere. Daniele si scosta nervosamente e a ripetizione i capelli che gli andavano davanti agli occhi, a un certo punto si arrabbia e decide 91
di togliersela. La lancia a Sasà.
“La metto dopo”.
Adesso cerca di concentrarsi meglio.
“Ce l’hai la forza, ce la fai?”, gli chiede Sasà con un filo di voce.
Daniele respira. Le cicale cantano. Il sole adesso è stato oscurato dall’arrivo del nuvolone. Un tuono romba in lontananza. Verso il mare invece il cielo è ancora azzurro e limpido. Daniele non risponde. Chiude gli occhi. Sembra si concentri. Per arrivare a quel mondo che voleva tanto ritoccare con mano il destino gli aveva messo di fronte un salto di un paio di metri di lunghezza e forse qualcosina in più in altezza. Se non ce l’avesse fatta sarebbe stata una farsa indegna, pensa, anzi degna dei più sfigati uccelli in gabbia che pro-vino miseramente e vanamente a volare non appena qualcuno tenti di farli uscire dalla loro cattività.
“Tu quella forza hai…”
Sasà aveva ripetuto quella frase. Piano, sempre con un filo sottile di voce. Quando gliel’aveva detta la prima volta, a Daniele era rimasta in mente per un sacco di tempo, come un grande ammonimen-to, un incentivo a non sprecare quanto di più prezioso, e per questo osteggiato dagli altri, la vita gli avesse concesso.
Daniele mette una gamba oltre la ringhiera. Poi l’altra. Trema, i suoi movimenti sono deboli e tentennanti. Adesso è sul ciglio del terrazzo, la ringhiera alle spalle, sotto le scarpe una quindicina di centimetri di cornicione. Una folata di vento gli rinfresca un po’ la faccia. Un nuovo tuono brontola da chissà quale altitudine. Sasà non parla più. In quel momento, e solo in quel momento, si rende conto che se fosse successo qualcosa ci sarebbe andato di mezzo anche lui e in maniera sicuramente tragica. Chiude gli occhi, li riapre. Daniele è ancora lì, adesso il suo sguardo è vitreo. Il suo respiro secco e ravvicinato. D’un tratto salta.
Sasà se lo ritrova praticamente addosso. Il botto è stato attutito dal suo corpo. Si sente schiacciato e dolorante sul petto. Mugola, geme. Daniele si alza, si guarda intorno. Poi sgrana gli occhi e fissa l’amico. Non gli sembra vero di avercela fatta, vorrebbe esultare ma non riesce ancora a dire niente. Sasà ha dolori improvvisi ovunque.
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Ma deve resistere. Se non si spicciano possono pregiudicare quel poco di buono che hanno realizzato fin lì. Daniele si rimette la parrucca. Sasà scivola lungo il palo della tettoia del parcheggio. Daniele cerca di andargli appresso, Sasà lo sorregge da sotto, sente dolore alle costole, decide che deve farselo passare, accompagna lo scivolamento dell’amico verso il basso. Sono a terra. Daniele si sente sempre più incredulo, una specie di entusiasmo latente incomincia a salirgli. Sasà raccoglie lo zainetto da dietro l’auto e invita l’amico a seguirlo verso il retro della villa.
“Ma come l’hai scoperto questo buco…”, chiede Daniele, felice-mente sorpreso.
“Sssh… Sta zitto adesso, te lo dico dopo…”
Forse Daniele non si rendeva conto che non era ancora finita, che sua madre o la nonna potevano aver sentito il botto sulla tettoia, che i cani potevano abbaiare, che qualche zampino il diavolo, quello ve-ro, poteva ancora mettercelo. Invece in pochi secondi sono fuori, sui prati incolti dei campi che costeggiano la villa. Daniele non è per niente stanco. Sasà lo invita a correre. Non gli gira la testa. Il sole picchia forte, la sua pelle lo sente. Ma non gliene importa. Adesso vuole solo respirare, finalmente, quell’aria. E correre, sì, correre.
Appresso a Sasà che lo incita in continuazione col suo amunì amunì.
Anche quello riesce a fare Daniele, correre, con sicurezza, leggerez-za. Come se un miracolo inaspettato lo avesse liberato da una lunga sepoltura. Quando stanno a distanza di sicurezza si fermano. Si accucciano, hanno il fiatone.
“Ce la fai…?”, esclama Sasà.
Daniele per il momento non può rispondere. I capelli della parrucca gli sono andati in bocca. Quando soffia fuori i suoi ansimi di fiato corto, quelli gli si appiccicano sulla lingua.
“Minchia, non ci credo che non hai mai corso in vita tua…”
“L’ultima corsa”, balbetta, “l’ho fatta a 8 anni, inseguivo mio padre che voleva per forza che gli togliessi il pallone dai piedi”.
Camminano. Arrivano al motorino. Daniele, come fosse un turista avido di nuove immagini, si guarda in continuazione intorno.
Iniziano a cadere le prime gocce d’acqua. Il vento si è fatto più sfer-93
zante. L’atmosfera più grigiastra.
“Chi minchia… piove…”
Daniele guarda le nuvole, alza la testa come per accogliere l’acqua sul viso.
Sasà mette in moto.
“Amunì”.
Daniele, esitante, sale.
“Hai paura?”
Daniele non risponde, abbraccia Sasà in vita. Il cuore gli batteva forte. L’entusiasmo si era fatto largo e ora stava per esplodere.
“Laggiù, viri, laggiù andiamo… a mare… verso il sole”.
Man mano che il motorino seguiva la strada verso le spiagge i nuvoloni venivano lasciati alle spalle, si addensavano sopra le montagne e lì scaricavano la loro ira liquida ed elettrica. Il cielo davanti ai due ragazzi si apriva in un enorme distesa azzurra, il sole sten-deva i suoi raggi caldissimi sulle cose. L’acqua del mare, l’acqua di quell’anno, non riusciva però a rifletterne la lucentezza. Era verdi-na, salmastra. I riflessi che si depositavano sopra scivolavano quasi grigi. Daniele tuttavia era al settimo cielo. L’aria che gli sbatteva in volto lo faceva sentire sempre più vivo. Ogni tanto si teneva la parrucca, cercava di guardarsi intorno per paura che venisse visto da chissà chi. In meno di mezz’ora arrivano a destinazione. La spiaggia libera vicino Gioiosa. Sasà parcheggia depositando il motorino in terra. Piglia lo zaino, tira fuori due asciugamani. Dice, indicando il mare davanti a sé:
“Guarda!”
Daniele è impietrito. Lo sguardo fisso su quella enorme massa d’acqua. Gonfia ma senza onde. La spiaggia non era affollata. Alcuni ragazzini correvano dietro a un pallone; qualcuno giocava a racchettoni. Sasà, alla vista dell’espressione del suo amico, prova un moto d’orgoglio per ciò che ha fatto. Con voce timida chiede:
“Il sole… non ti scotti…?”
Daniele non risponde. Si avvia, lentamente, verso la riva. Sguardo fisso in avanti. L’asciugamano che gli aveva portato Sasà stretto 94
in una mano ma penzoloni. Sembra uno zombie.
“Ho la crema… l’ho presa a mia madre… io non ne ho bisogno…”, insiste Sasà.
Daniele non sa descrivere la sensazione che prova. Non riesce a spiccicare parola. Sasà nota che non si è tolto la parrucca, continua a camminare; da lontano, il suo corpo magro e bianchiccio, assomiglia a una ragazzina.
“I capelli…”, gli urla Sasà alle spalle, un po’ imbarazzato e un po’
divertito.
Daniele si tocca la parrucca, si guarda intorno. Si ferma. L’amico lo raggiunge.
“La tengo, se mi riconoscono…”
“Ma chi ti conosce qua…”
Lui non lo ascolta. Prosegue e raggiunge la riva. Si toglie le scarpe da ginnastica. Il mare inizia a bagnargli i piedi. Avverte, improvviso, un tremito, poi un altro. Allora si siede sulla sabbia. L’acqua che gli bagna i jeans, la mente che se ne va, via, lontana, all’indietro, in un passato che credeva di aver sepolto per sempre. È notte, lui si tira su di scatto sul letto, in testa immagini strane, una sala operato-ria, dottori che parlano da dietro le mascherine, sul letto c’è suo padre, ha gli occhi sbarrati e le mani adagiate sul ventre aperto. Poi c’è una donna, anzi la presenza di una donna. Cammina nella sua stanza, fa volare le cose, è una presenza che viene da lontanissimo, secoli prima, ride, gli dice che non può muoversi da quel letto finché non verrà sciolto l’incantesimo dei suoi poteri, lui sa cosa significa ma non può spiegarlo. Poi c’è un urlo, qualcosa gli ha trafitto il plesso solare, nessun dolore, solo angoscia.
“Stai bene?”
La voce di Sasà lo ridesta di botto. Ha gli occhi lucidi, trema più forte, sotto quel sole cocente.
“Stai tremando, hai freddo…?”
L’acqua è una memoria, è un cuneo spazio temporale che, carez-zandolo dolcemente, lo trascina in dimensioni rimosse della sua esistenza. Daniele scoppia a piangere. È un singhiozzare lungo e soffocato. La testa bassa. Sasà rimane a fissarlo, non riesce a fare altro.
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Spera soltanto che la gente intorno non si renda troppo conto di cosa sta accadendo.
“Non ho freddo”, singhiozza Daniele.
Sasà gli rimane seduto vicino, a lanciare sassi sulla superficie del mare. Gli viene il dubbio se ha fatto realmente bene a tirarlo fuori di casa. Poco prima era orgoglioso, adesso… Daniele si gira verso di lui, lo fissa, gli occhi rossi, gli sorride:
“È bellissimo…”, mormora.
Sasà si risente un pavone. Accenna un sorriso imbarazzato. Arriva un’onda che li investe fino alla pancia. Daniele prova ad abban-donarsi al massaggio dell’acqua. Si toglie i jeans ormai zuppi, li getta via, lontano dalla portata delle onde, rimane in costume, è piccolo, stretto, è l’unico rimastogli. Si appoggia sui gomiti. Sasà sorride, lo guarda:
“Non mi dire che non sai nuotare…?”, sfotte candidamente.
Quella prima giornata insieme passa in maniera spensierata.
Daniele pian piano si calma, si fa anche il bagno. E quando riesce dall’acqua si spalma la crema protettiva che Sasà gli ha premurosa-mente portato. Il ragazzo si abbandona completamente all’incanto del paesaggio. La sua testa si svuota. Il suo corpo si rilassa. La sua pelle, in breve tempo, sembra riadattarsi a un’atmosfera e a un calore che sembravano irrimediabilmente perduti. I due parlano. Cercano di conoscersi. Sasà gli rivela che in paese lui, per parecchi ragazzini, era una specie di leggenda, non si sapeva nemmeno se fosse reale. Si parlava della sua malattia, si prendeva ad esempio la sua famiglia per far capire come anche i ricchi possano, a volte, patire le ingiustizie divine (Daniele ascoltava con attenzione, i suoi occhi ridevano). Sasà gli confessa di non aver mai immaginato di arrivare a fare quello che ha fatto. Parla a briglia sciolta, con lui si sente legit-timato ad affrontare gli argomenti strani che non poteva tirar fuori con gli altri. Non è interessato tanto a sapere dei suoi poteri, per Sasà erano in fondo una cosa normale, perché diamine uno non poteva averne? Quello che gli interessa è invece chiedergli se sapeva che intorno al paese da un po’ di tempo si aggiravano delle stra-96
ne creature, che in molti avevano visto ma che nessuno aveva mai saputo descrivere per bene. Se credeva negli spiriti? Se credeva nelle sedute spiritiche? E, dopo aver ricevuto un messaggio sul cellulare da Fabiana che gli chiedeva come andavano le cose e lo informava che lei a Corfù si stava facendo due scatole e che non vedeva l’ora di tornare come promesso l’ultimo fine settimana di agosto, Sasà gli chiede pure se aveva la ragazza. In fondo, perché non poteva?
Le sue risposte però Sasà le ottiene nei giorni seguenti.
Quel primo giorno passa più nella tranquillità e nel silenzio. Daniele sembrava come in trance. Faticava a parlare anche se si vedeva chiaramente che stava bene. Aveva giusto accennato, con non poca ironia, ad alcune sue vicissitudini con Don Paride e alla super-stizione del demonio. Sasà aveva riso, meravigliato dalla disinvoltura con cui rivelava cose che lo riguardavano tanto nel profondo.
Non era sembrato nemmeno troppo risentito in fondo di non aver ottenuto tutto quello che, al momento, voleva sapere da lui. Quando Daniele era tornato a casa, verso le 18, nessuno si era accorto della sua assenza. Adele non c’era più. Sua nonna stava in salotto a guardare la Tv. Lui era entrato dalla porta di servizio ed era salito come un gatto silenzioso riuscendo a non far percepire affatto la sua presenza. E, una volta ritornato al suo letto, aveva provato una sensazione di fastidio; tutta l’energia che aveva riaccumulato, la carica che grazie al suo nuovo amico aveva riacquisito sembravano, lì dentro, morire di colpo, risucchiate da un vortice nero che partisse dal centro del materasso fino a giungere dentro le viscere di una Terra avida e invisibile. Era proprio come pensava, si era detto, con le mani sotto la nuca, lo sguardo al soffitto e la pelle leggermente arrossata dal sole che gli dava un piacevolissimo prurito. Si era accorto che Sasà era curioso, molto intelligente e una spanna al di sopra dei ragazzini che frequentava. Ed era riuscito anche a metterlo in difficoltà. Lui non aveva una ragazza. Non ce l’aveva mai avuta, e si vergognava un casino a confessarglielo. Così, soprattutto su quella domanda aveva glissato.
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L’indomani, tuttavia, quando lo rivà a prendere, Sasà, su quella domanda, decide che ci sarebbe ritornato, anche se non subito.
S’erano dati appuntamento alla casa dove il giorno prima aveva lasciato il motorino. Sasà aveva convenuto che Daniele sarebbe potuto uscire dalla sua stanza senza doversi ributtare dal balcone. Con un po’ di accortezza sarebbe sceso in giardino tramite la porta di servizio, avrebbe evitato Adele e la nonna e sarebbe sgattaiolato dal buco. Così infatti era avvenuto. La fuga era riuscita perfettamente.
E, non contento, Daniele s’era rimesso pure a correre per arrivare dall’amico che lo aspettava a dorso nudo sotto una striscia d’ombra della grondaia grazie alla quale tentava di ripararsi dalla calura immonda di quell’agosto siciliano.
“Ma non usiamo il casco?”, chiede Daniele non appena l’amico mette in moto.
“Il casco? Minchia, matto proprio sei… anzi no… il demonio nero sei…”
Daniele, sorpreso, ridacchia. Sasà parte a razzo. Una vampata di calore li avvolge, quell’estate era un drago schifoso che alitava in faccia alla povera gente.
Dopo qualche centinaio di metri Daniele urla:
“Fermati fermati…!”
Sasà, impaurito, fa una frenata un po’ sbilenca. Accosta.
“Che è…?”
Daniele scende, apre lo zaino e tira fuori la sua parrucca.
“No… minchia non ci posso credere…”
“Non posso rischiare… mi spiace”.
“E io come ti porto adesso dagli altri…?”, chiede Sasà, vistosamente preoccupato.
“Gli altri chi?”, chiede, nuovamente sorpreso, Daniele.
Gli altri al momento era solo Mariano. (Che in quella circostanza, siccome gli aveva prestato il motorino per il secondo giorno conse-cutivo, aveva posto una condizione netta, che a dire il vero a Sasà era risuonata più come una minaccia: me lo devi far conoscere!) Il 98
ragazzo, incuriosito al massimo, aveva sentito parlare di Daniele, come tutti del resto, per via della sua malattia, per il fatto che non usciva mai di casa, e perché era stato mitizzato dalle storie più strampalate che lo volevano incapace di parlare, nato senza cervello, paralizzato in un letto, deforme. Quelle rarissime volte che lo si vedeva in giro per il paese si stentava a credere che camminasse con le sue gambe, che avesse un aspetto umano seppur smunto e malaticcio, allora iniziavano a circolare voci su improvvise e miracolose guarigioni ad opera della misericordiosa influenza di Don Paride, o delle preghiere che i nonni chiedevano assiduamente durante le messe domenicali. O delle trovate moderne dei medici illustri che frequentavano villa Bianca.
I due arrivano in una spiaggia frequentata da molti ragazzi, in cima c’è un chioschetto bar dove qualcuno gioca a ping pong sotto un cannucciato spelacchiato, la musica delle casse pompa Who said dei Planet Funk, un gruppetto è assiepato intorno al frigo dei gela-ti e il resto se ne sta spaparanzato sotto ombrelloni rosa shocking e arancio. Daniele sembra sorpreso dalla vivacità del posto.
Da lontano Mariano li vede. Sta sdraiato vicino al bagnasciuga, le cuffiette alle orecchie. Da lì la visuale non era il massimo, gli sembra che l’amico stia con una ragazzina bionda, dentro di sé pensa che ha voluto fare il furbo, altro che u fhigghiu malato d’i signori si è portato.
“Non la conosci questa spiaggia?”, chiede Sasà.
Daniele fa spallucce ingenue. Sasà insiste.
“Non ci credo”.
Daniele sorride. Scuote la testa.
“La conoscono tutti, certe picciotte ci stanno…” Mariano si alza a sedere. Li fissa. Non capisce bene. Chi diavolo è quella, si chiede?
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Prima di inoltrarsi Sasà si ferma.
“Ti vuoi togliere quella cosa… pi cuttisia…?”
Daniele si tocca i capelli, gli viene da ridere. Qualcuno li ha già adocchiati. Sasà teme che vengano segnati per sempre. Freme.
“Va bene però me la porto appresso, non si sa mai…” Mariano sgrana gli occhi, non può essere vero. Il cuore gli comincia a battere. I suoi pensieri saettano qua e là. Quella non era una carusa. Era il ragazzino. Si era tolto una parrucca. Santa Vergine…
Che fosse ricchiuni?
I due si avvicinano, Mariano, visibilmente imbarazzato, li guarda.
“Ciao, lui è Daniele”, fa Sasà.
Daniele sorride timidamente, alza appena una mano in segno di saluto.
“Ciao”, mormora Mariano, abbassando subito lo sguardo e fin-gendo di sistemare le cuffiette. In realtà il ragazzo passa i primi dieci minuti di quell’incontro a scrutare di sottecchi ‘l’entità’; non l’avrebbe mai immaginata così. Mingherlino, silenzioso, con atteg-giamenti ‘normali’, uno sguardo sufficientemente sveglio, un corpo proporzionato, insomma molto simile agli esseri umani che conosceva e frequentava tutti i giorni che a un obbrobrio da leggenda popolare. Quasi quasi gli veniva pure da parlarci. È così curioso di sapere perché c’aveva una parrucca in testa…
“Hai fatto il bagno?”, Chiede Sasà, tanto per dire qualcosa.
“No”, lapida Mariano.
Daniele, lentamente, si toglie i bermuda di jeans. Sfoggia un paio di pantaloncini da mare a fiori rossi, glieli aveva prestati Sasà perché il costume del giorno prima non solo era bagnato ma era quello di quando aveva otto anni; non gli stava davvero più; nessuno in casa sua riteneva possibile che potesse andare ancora in spiaggia.
Sulle gambe Daniele avverte tutto il calore del sole che in quel momento picchiava forte. Vicino a loro c’era un ombrellone chiuso.
Mariano lo guarda, esclama:
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“Lo pigliamo?”
Daniele e Sasà si guardano perplessi. Mariano si alza, incurante della risposta, sradica l’ombrellone dal suo posto, lo infila ben in profondità vicino a loro, lo apre, ci stende l’asciugamano sotto, si sdraia pesantemente sulla sabbia, incrocia le gambe come un mona-co, prende coraggio:
“Ci sei mai stato qui?”, rivolto a Daniele.
L’altro scuote la testa. Gli occhi che vagano a tratti lungo l’orizzonte marino. Ogni tanto tornano indietro e indugiano sulla maglietta nera di Mariano con su scritto The Marshall Mathers.
“Ti piace Eminem?”
A quella domanda gli occhi di Mariano si illuminano. Stava pian piano superando l’imbarazzo di dover far finta che sapeva qualcosa di strano su di lui ma non ne poteva parlare. La cortina si incomincia a sciogliere naturalmente, come per magia.
“Miiiii…”, risponde Mariano, che con estrema delicatezza gli porge le cuffiette.
Daniele le prende, se le mette alle orecchie. Mariano preme play.
Parte Mosh. Daniele sorride.
“Mi piace il video di questa canzone”.
“Io mi butto”, dice Sasà, come approfittando per lasciarli soli a socializzare.
Daniele non sente, asseconda il ritmo della musica con la testa.
Mariano segue Sasà con lo sguardo fino a che non scompare fra le onde schiumose di un mare che quel giorno sembrava più turbolen-to del solito.
Dopo poco Sasà torna, si stende sull’asciugamano, Daniele si toglie le cuffiette, le restituisce a Mariano.
“Lo so chi sono le creature che si aggirano intorno al paese”, dice, improvvisamente, tono secco.
Mariano si blocca, Sasà sgrana gli occhi.
“Me l’avevi chiesto ieri, ricordi?”
Mariano guarda Sasà, che sorride. Daniele si sistema meglio sotto l’ombra, prende la crema dallo zaino e inizia a spalmarsela sulle gambe.
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“Stanno qui da molto più tempo di noi… di noi umani intendo…”
Mariano guarda esterrefatto i movimenti del ragazzo, la sua bocca piccola, i suoi capelli biondini e liscissimi tutti spettinati, i suoi occhi d’un azzurro vitreo.
“I loro creatori non sono umani, vengono dalla costellazione di Andromeda, sono i guardiani dell’energia del suolo, vivono migliaia di anni, si sono adattati all’ambiente interno del pianeta…” Mariano vorrebbe ridere a squarciagola però avverte anche una improvvisa e pungente sensazione di paura; siccome non sa che fare spalanca la bocca e la richiude.
“Scimmie all’inizio mi parìvano…”, obietta Sasà, “Poi però parì-
vano… troppo strani…”
“Sono come piccoli gnomi, hanno occhi grandissimi e luminescenti, non si nutrono come noi di cibo, si rigenerano con l’energia elettromagnetica del suolo, per questo vivono nei punti dove il pianeta ne ha di più”.
“Ma chi te le ha dette queste cose…?”, domanda Mariano con voce infastidita.
Daniele alza le spalle, rimette il tappo alla crema, la riposa nello zaino e si sdraia con la testa all’ombra e le gambe al sole.
“E qui ce n’è?”, chiede Sasà.
“Di energia? Fiuuuu, è uno dei luoghi della Terra dove è più forte”.
“Per questo vengono i terremoti?”, insiste Sasà.
Mariano si alza, sembra spazientito.
“Secondo me… ci prendi in giro!”
Daniele lo guarda dritto negli occhi. Mariano avverte un fremito.
“Lui studia, non è nu minchione comu ‘a tia”, interviene Sasà.
“Ah sì, sai che ti dico allora, che io mi vado a pigghiare nu gelato”, fa Mariano.
Daniele gli sorride, Mariano distoglie lo sguardo. Sasà dice:
“È un fifone…”
“E tu non hai paura?”, gli chiede Daniele.
Sasà lo fissa stupito per quella domanda. Tentenna a rispondere, 102
poi prende coraggio.
“Un po’… ma sono più curioso…”
All’improvviso si avvicina un ragazzo, 15 anni più o meno, sguardo torvo, moro.
“Picciotti… vuliti jucari, giusti giusti tri ci servono…” Con la mano indica un gruppetto che si passa la palla poco più in là.
“Pure le porte facciamo… amunì ci divertiamo…” Sasà guarda Daniele. Mariano torna, un enorme cono con panna gli copre metà viso.
“Vuoi giocare?”, gli chiede Sasà.
Daniele nel frattempo si alza, si stiracchia, dice:
“Io ci provo, anche se sono 5 anni, da quando ero piccolo, che non tocco un pallone…”
Sasà lo guarda sconcertato, sorride e non sa se sta scherzando o meno.
Alla fine Sasà si era dovuto rendere conto che l’amico non scher-zava affatto. Era venuta fuori una partita incredibile. Mai e poi mai avrebbe creduto che Daniele potesse tirar fuori, e all’improvviso, tanta caparbietà, coraggio, spregiudicatezza. Del ragazzino esile e malaticcio, che a mala pena si reggeva in piedi, che si era presentato davanti ai suoi occhi un mese prima in quella stanza chiusa e asettica che puzzava di medicine e disinfettanti, non c’era più traccia. Al suo posto aveva visto uno che entrava in scivolata, che falcia-va da dietro, che pigliava botte, subiva calcioni sugli stinchi, si roto-lava per terra e si rialzava come fosse di gomma, che non aveva un gran controllo di palla ma che si rendeva utile in fase di conteni-mento, che si sapeva improvvisare pure portiere e tuffarsi a piglia-re palloni impossibili che stavano per entrare all’angolino. L’incontro, per tutti, si era rivelato massacrante. Prima di salire in motorino per tornare a casa i due sono costretti a gettarsi sotto la doccia ghiacciata che va a 50 centesimi, con la sabbia appiccicata anche sui peli delle ascelle che non ne vuole sapere di staccarsi.
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“Ma tu nun eriti malato?”, chiede Mariano mentre li guarda fare versacci strani a causa dell’acqua gelida che gli casca sul corpo.
Daniele lo guarda, gli sorride, poi si scosta dall’acqua, prende l’asciugamano e ci si avvolge dentro. Trema, la testa bassa, i piedi che battono a ripetizione sul marmo.
“E tu che ne sai che sono malato?”, domanda, un filo di voce.
Mariano lo fissa sorpreso. Imbarazzato. Ma lo incalza.
“Iihh, tutti quanti lo sanno… sei famoso in paese”.
“Ah sì?”
Sasà lancia un’occhiataccia all’amico. Daniele guarda l’orologio al polso di Mariano, segna le 5 meno un quarto, dice:
“Abbiamo più di un’ora ancora… andiamo a cercare le creature su per i boschi?”
Mariano li segue con il motorino che aveva preso in prestito dal cugino che era il meccanico del paese. Si era lasciato convincere da quei due pazzi non si sa per quale motivo. Sono là adesso, come sono belli, pensa fra sé e sé, smarmittano abbracciati stretti stretti come fidanzatini su per la salita sopra Gioiosa, e lui che gli sta appresso con un filo di gas che se per puro caso decidesse di acce-lerare li lascerebbe al palo vista la modifica 150 che c’aveva sotto.
Che cosa gli diceva la testa a quelli? Ma soprattutto che diceva a lui che li stava seguendo? Li avevi visti, no, quei cosi? E pure altri in paese li avevano visti… esistevano davvero… e allora? Perché dovevano andare a dargli fastidio? Non credeva affatto che avessero migliaia di anni, che fossero i cacchio di guardiani di non so cosa, per lui erano degli animali strani di cui non si era ancora scoperta l’esistenza, capitava, il mondo era pieno di razze ancora sconosciu-te, lo aveva imparato una volta che aveva visto il programma di quel giornalista con gli occhiali, si chiamava… La Macchina del Tempo forse. Era impossibile fare una catalogazione di tutti gli esseri viventi che popolavano il pianeta, avevano detto, quindi qualcuno che ancora non aveva un’identità c’era sicuramente.
Sasà frena di colpo. Accosta. Mariano si riprende all’improvviso dai suoi ragionamenti, sterza, si ferma.
104
“Che vi siete fermati?”, chiede, voce preoccupata.
“Lì…”
Daniele indica un punto indefinito oltre la strada che si continuava ad arrampicare su per la collina.
“Dobbiamo inoltrarci lì dentro”.
C’è una boscaglia fitta e in parte brulla, la terra appare mezza bruciata, a destra ci sono aranceti, a sinistra alberi vari, nessuno però riusciva a vedere alcunché. Mariano ha paura, ma non gli andava di darlo a vedere, non voleva dichiarare apertamente anda-teci voi perché io me la faccio sotto, dice soltanto:
“Io non vedo niente, ma che ne sai che ci sta lì…?” Sasà era in una posizione di privilegio. Si godeva quelle scene in cui Daniele sfoggiava le sue capacità di percezione soprannaturale.
Capiva sempre più al volo i momenti e le circostanze in cui se ne serviva. Guardava incuriosito e divertito la reazione di Mariano.
“Possiamo lasciare i motorini qui?”, chiede Daniele.
Mariano e Sasà si scrutano, assentono. C’è un’ampia piazzola ai margini della strada, i motorini li legano vicini. Sasà e Daniele si avviano a passo spedito, Mariano li segue, defilato, capo chino, espressione imbronciata. Perché diavolo non si decideva a mandar-li a quel paese, riflette, sempre più nervoso.
In breve sono all’interno del bosco. C’è odore di terra secca. La calura si attenua un po’. Spira anche un venticello gradevole. Daniele marcia come se fosse attirato da una luce invisibile. Mariano si avvicina a Sasà, cerca di non rimanere troppo distaccato. Man mano che si addentrano aumenta il silenzio. Si sentono fruscii, scricchiolii, la vegetazione si fa più fitta. Camminano per un bel po’.
A un tratto Daniele si ferma. Davanti a loro il terreno forma una specie di piano rialzato ricoperto di erba incolta, gli alberi hanno rami intrecciati, spessi, non assomigliano ad alcuna tipologia rico-noscibile nella zona. I tre fissano, come ipnotizzati, un punto. È evidente che qualcosa lì si stia muovendo. Sembra frugare fra rami e foglie, si ascolta uno stropiccìo prolungato. Poi come dei piccoli passi. A guardare meglio, quella che prima appariva una parete piatta rivestita di tronchi si rivela in realtà il nero di una fessura, 105
come un’entrata per una grotta. Daniele si mette un dito davanti al naso: fate silenzio, dicono i suoi occhi. La cosa che frusciava non c’è più, sembra essersi inoltrata dentro la fessura. I ragazzi avanzano lentamente. I loro movimenti sono attentissimi. D’un tratto, dall’oscurità di quell’apertura appare nitidamente e come dal nulla un figura piccola: loro lo sanno, è lei, la creatura; è ferma, affacciata a contemplare i nuovi arrivati, è del colore del bosco, indefinito, piccola, mani e braccia minute, corpo nudo, senza sesso, una testa più grande e affilata, due occhi giganteschi, vivi, espressione gioiosa e stupita, una cosa a metà fra uno gnomo e un’iguana. Mariano e Sasà si bloccano paralizzati. La creatura rimane appena qualche secondo, come in bilico. Alza le mani in segno di saluto, se le mette sul viso, apre la bocca fina e sottile, emette una specie di suono acutis-simo, come provenisse da frequenze acustiche diverse da quelle umane. D’incanto, muovendosi impercettibilmente, riscompare in quel buio da dove era apparsa.
Daniele guarda i due. Nessuno ha il coraggio di dire alcunché.
Mariano si sfrega le mani come avesse freddo. Sasà però rompe il silenzio.
“Dove vanno?”
Daniele decide di tornare indietro, ritorna sui suoi passi, Sasà lo guarda, insiste.
“Ohi…!”
“Lasciamoli stare…”
“Eh no minchia adesso ci dici qualcosa, fino qui ci hai portato”, afferma Mariano, visibilmente scosso.
Daniele, paziente, si ferma, si siede in terra.
“Cos’è non hai più paura?”
“Io paura… chi ha paura…?”
Sasà ride.
“Chi minchia ridi…?”
“Volete sapere dove vanno?”, chiede Daniele, voce dolce e modu-lata.
Sasà gli si siede vicino. Mariano rimane in piedi, le mani ai fian-chi come aspettasse di essere sfidato a duello, la faccia paonazza per 106
una strana rabbia, gli occhi che ogni tanto cercano la creatura nel punto in cui era scomparsa.
“Vivono sotto la crosta terrestre, lì ci sono delle cose che noi non conosciamo… ma che sono molto più antiche della nostra… ci sono…”
“Minchia, chistu bestia è…”, lo interrompe Mariano.
Sasà lo guarda con velenosa aria di rimprovero.
“Non vuoi stare a sentire, vai… vai via…lasciaci in pace”.
Mariano si avvicina minaccioso a Sasà.
“Non me lo devi diri tu chiddu c’haiu a fare, capisci?” Daniele li guarda, scuote la testa. Si alza.
“Non fa niente, andiamo dai”, dice, “Evidentemente è una storia che non gli interessa, io devo tornare”.
“Mi interessa… invece… ma perché minchia mi devi prendere in giro…?”
“Io non ti sto prendendo in giro”, risponde Daniele, calmo.
“Ma tu chi sei per dire tutte queste cose, come fai a sapere dove vivono queste cose, tu non è vero che stai sempre a casa allora, a chi vuoi darla a bere… forse a lui che è stupido… io qui ci vivo da anni e non ho mai sentito storie assurde come queste che ti inventi tu…” Daniele, imperterrito, fa spallucce e si riavvia per il sentiero da dove erano venuti. Sasà lo segue. Mariano sospira, s’incammina anche lui. Per un lungo tratto tacciono. Si ascoltano solo i loro passi che calpestano foglie e arbusti. Giunti in prossimità della strada, il sole ricomincia a martoriargli i corpi. Sasà dice:
“Io lo riaccompagno a casa… vieni anche tu?”
Mariano vorrebbe dire tante cose. Si sente improvvisamente in colpa per la sua uscita. Sente che forse ha esagerato, che in fondo poteva anche starlo a sentire, in paese c’era un mucchio di gente che sparava minchiate e quando non aveva niente da fare si divertiva ad ascoltarli, che male c’era? Il fatto è che gli rimaneva difficile chiedere scusa. E poi era decisamente sconvolto per ciò che aveva visto.
“No… devo tornare”.
Subito dopo aggiunge:
“Domani è ferragosto, c’è la gara dei gavettoni, vieni anche tu?”, 107
rivolto a Daniele.
Il ragazzo sorride. Sale sul motorino.
“Può darsi”, risponde, tono squillante, sorriso ammiccante.
I due partono. Mariano li saluta con il braccio alzato. Ancora poco convinto da tutto ciò che gli sta succedendo intorno.
Quando si fermano in prossimità della casa abbandonata sono le sei passate. Sasà dice:
“Io però la voglio sentire la storia di quelle creature…” Daniele sorride.
“Te la racconto domani”.
“Però non mi fanno paura… sembrano… buoni”, prosegue Sasà.
Daniele annuisce.
“Posso chiedertelo come sai quelle cose…?”
Daniele sorride di nuovo, fa spallucce.
“Per lo stesso motivo per cui posso fare certe cose… non lo so”.
Sasà lo fissa, gli sorride. Daniele si volta, si avvia verso i campi. Il sole è ancora alto e scotta. Il cielo è azzurro. Una coltre di foschia violacea si stende all’orizzonte sopra al mare. Sasà lo richiama con un fischio da pecoraio. Daniele si volta di scatto. Sasà, ad alta voce:
“Non mi hai detto un’altra cosa… la ragazza… ce l’hai?
Daniele sorride, poi storce la bocca. Sospira.
“Pure questo te lo dico domani”.
Il giorno dopo nonna Maddalena si incomincia a preoccupare.
Daniele ha le gote rubizze. Non solo. La pelle sulle braccia è arrossata. Com’era possibile?
“Ho preso un po’ di sole ieri mattina qui sotto”, risponde il ragazzo cercando di liquidare la questione, mentre gira distrattamente il cucchiaino dentro la tazza piena di latte.
È ora di colazione. Stanno seduti intorno al grande tavolo di legno nel patio, i nonni lo guardano come avesse bestemmiato. Gli uccellini cantano, le cicale non danno tregua, l’aria è piena di pulvi-scolo solare. Maddalena ha uno scatto d’ira, lo accusa di essere un irresponsabile, che per caso vuole morire? Che non sapeva a cosa 108
andava incontro se esponeva la sua pelle sensibile ai raggi di questo sole che per giunta era così malato che non permetteva a nessuno non solo ai poveri vecchietti di farsi una passeggiata nelle ore più calde. Che cosa gli stava saltando in testa? Voleva costringerli a telefonare a suo patri e a farlo tornare due giorni prima?
Daniele addenta un pezzo di fetta biscottata, la marmellata gli cola agli angoli della bocca. Con la lingua se la va a riprendere e se la porta dentro.
Era sconcertata, continua la donna, da dove gli veniva questo animo così ribelle… in famiglia nessuno si era mai permesso di fare le cose che faceva lui… che era un ragazzino malato, gli ricorda, e doveva curarsi per bene e invece li faceva dannare tutto il santo giorno.
Daniele finisce di bere la tazza di latte. Si pulisce la bocca. Si alza.
Entra in casa, sale le scale. Fila dritto nello studio dove c’è il Pc. Si chiude dentro. Da sotto la nonna urla:
“Tanto lo dico a tuo patri e gli dico pure che passasti le giornate intere davanti a quello schermo… stai tranquillo stai…” Daniele allunga il braccio all’indietro e mostra il dito medio davanti alla porta. Sul desktop appare la connessione internet. Accedi? Certo che accedi, pensa il ragazzo, fammi navigare lontano da quella orribile realtà che c’è lì fuori, fammi sognare che un giorno tutto questo non sia solo un passatempo virtuale.
Alle 12.30 squilla il telefono. Il dottore non poteva venire. Era ferragosto, aveva un pranzo, le cose tanto gli sembrava che stessero andando un pochino meglio, o no? La nonna si irrigidisce, obietta, gli racconta degli arrossamenti, del sole che ha preso, sostiene che doveva assolutamente venire per verificare se quell’irresponsabile aveva pregiudicato qualcosa della sua condizione. Il dottore è sorpreso, ragiona con cautela, vaglia ipotesi, be’ si potrebbe fare verso le 15, dice. D’accordo, mi raccomando, la ringrazio, l’aspettiamo, gorgoglia Maddalena, più sollevata ma nemmeno troppo. Daniele è sconcertato. Figuriamoci, era la giornata dei gavettoni, Sasà gli aveva detto che lo avrebbe portato in un posto speciale; c’era il 109
mare, la sabbia bianca, una specie di salina con delle insenature fan-tastiche dove ogni anno si compiva una vera e propria guerriglia d’acqua fra bande di ragazzini. L’appuntamento era al solito posto, alle 15, appunto. Bel casino!
All’una si siedono a tavola. Il pranzo di Ferragosto. Adele è con loro. Daniele solleva distratte forchettate di zite, sono lunghe, tubo-lari, rosse di pomodoro; alcune le spezza, altre le accantona all’angolo del piatto. Poi c’è il pollo ripieno. C’è l’insalata. L’anguria.
Nonna Maddalena e nonno Vincenzo mangiano con gusto. Adele parla del caldo, della cugina di Lampedusa da cui, di lì a qualche giorno, andranno a passare due settimane, di Sasà che rimarrà qui con Ruggero, che vuole continuare a studiare mentre a loro servi-rebbe che andasse a lavorare. Maddalena ogni tanto adocchia il nipote, la sua pelle più rosata, cerca di carpirne sguardi e gesti.
Daniele mastica lentamente, fissa davanti a sé, un leggero, indiffe-rente sorriso stampato sul volto: sta pensando a come fuggire da lì prima delle 15.
La situazione era delicata. Doveva agire un bel po’ prima che arrivasse il dottore, alle 14.30 massimo doveva muoversi. Decide di non organizzare un piano. Tornato di sopra, si prepara solo lo zaino con asciugamano, maglietta, costume e parrucca. Quando scocca l’ora controlla la situazione. Apre la porta della sua stanza. Adele è in cucina, sua nonna gironzola per casa. Il nonno è sotto il pergolato, sdraiato su una bella sedia a dondolo. Sonnecchia.
Per impedire agli altri di aprire la porta della sua stanza dovrebbe chiuderla a chiave da dentro. Questo significa uscire dal terrazzo e saltare sulla tettoia del parcheggio, ma c’è suo nonno di sotto, poco più in là, dorme. Deve per forza cercare di uscire dalla porta di servizio al piano terra. Prima però esce sul balcone, fa scivolare lo zaino lentamente, questo plana con un piccolo tonfo sul selciato, suo nonno non può averlo sentito ma se qualcuno esce lo vede.
Deve sbrigarsi. Esce dalla stanza. Chiude la porta delicatamente. Ci si ferma davanti. Si concentra. Chiude gli occhi. La chiave nella toppa interna scatta e chiude. Fa un bel respiro. Inizia a scendere le 110
scale con disinvoltura. Deve dare l’aria di uno che ha voglia di farsi una passeggiata di sotto. Arrivato in fondo alla rampa incrocia Adele che sta rientrando in cucina. I due si guardano appena. La donna continua a temerlo. Non si dicono una parola. Sua nonna è indaffarata a guardare la Telenovela e non si accorge della sua presenza. Daniele esce dalla porta principale, suo nonno dorme. Il ragazzo gli svicola accanto, passo felpato. Raggiunge il punto dove ha fatto cadere lo zaino. Lo raccoglie. Gira l’angolo dietro casa e sbuca davanti alle cucce dei cani. Stanno all’ombra, mogi mogi, gli occhi semi aperti. Lui gli si avvicina, li guarda, cerca di farsi ricono-scere. Il pastore tedesco si alza, gli va incontro, gli lecca un po’ la mano, torna a poltrire.
D’un tratto sente il rumore di un’auto, si gira e percepisce che si tratta di quella del dottore; sta per entrare dal cancello. Senza pensarci due volte schizza rapidamente verso la rete, la alza, scivola sul terreno e si ritrova sull’erba. C’è un ortica che lo punge, dei rametti lo graffiano. Daniele avanza carponi, lentamente, lungo il perime-tro della villa. Guarda la macchina che è entrata e sta parcheggian-do. Il ragazzo ha il cuore a mille. Curvo come un gobbo cerca di allontanarsi da lì. Inizia ad aumentare il passo. Non aveva mai corso prima tutto ingobbito. Era anche divertente in fondo. A un certo punto non si preoccupa più di essere visto, si raddrizza e allunga decisamente la falcata, esibendosi in uno scatto da cento-metrista. Ogni tanto, l’apprensione alle stelle, si gira e cerca di capire cosa succede in villa.
Alle 14.50 arriva alla casa abbandonata. Ormai qualcosa dentro villa Bianca sta succedendo. Forse no, non sono ancora saliti in camera sua. Forse Adele ha detto che lo ha visto scendere al piano di sotto. Forse stanno prendendo il caffè e nessuno si è ancora curato di lui. Sasà non si vede. Intorno le cicale cantano una nenia insopportabile. Il sole picchia come un randello impazzito. Il ragazzo cerca uno spicchio d’ombra. Si siede su un pezzo di muro. Respira; piano, sempre più piano ma sempre più profondamente. Sasà arriva alle 15 in punto. In quei dieci minuti d’attesa Daniele non ha staccato un attimo lo sguardo dalla villa. È lontana, non si percepisce 111
cosa succede. Immagina che stiano tentando di aprire la porta della sua stanza, che lo stiano chiamando e lui non risponde. Immagina e teme che Adele possa aver capito tutto e che lo stiano già cercando. Quando il motorino si ferma Daniele all’amico non fa nemmeno aprire bocca.
“Corri, corri andiamo, dobbiamo fuggire da qua… sbrigati”.
Sasà, incredulo, dà subito gas e senza fare domande si catapulta giù per la discesa.
Daniele racconta a Sasà la sua iniziativa, Sasà stenta a credere alle sue orecchie.
Una fuga in grande stile. Con il rischio, più che concreto, che le intere forze dell’ordine di Gioiosa e paesi limitrofi si mobilitassero per cercarlo. Ci aveva pensato?
“Certo che c’ho pensato, ma i miei non ci stanno e la prima cosa che mia nonna farà è chiamarli… prenderanno tempo… la sorpresa sarà talmente grossa che non si capaciteranno… le ricerche forse inizieranno nel tardo pomeriggio… e tu nel frattempo mi avrai nascosto…”
Sasà si volta, stacca lo sguardo dalla strada, sbigottito.
“Tanto fra breve il mio destino sarà lontano da qui… per cui questi due giorni voglio vivermeli come si deve…” Sasà sorride, continua a non credere alle sue orecchie. Da un lato è sconvolto dalla paura. Se si viene a sapere che il complice delle fughe è lui sua madre lo manda dritto dritto a lavorare alla Vucciria, altro che liceo. Dall’altro però è irrefrenabilmente affascinato da ciò che ha scatenato in Daniele, dal fatto che gli ha ridato ciò che voleva chissà da quanto. Vivere; solo un pochino magari. Ma vivere.
Lo spiazzo dove arrivano è gigantesco.
È una distesa bianca di sabbia e sale, inframezzata da rivoli d’acqua che s’insinuano a formare strisce sottili più scure. Il mare è piatto, racchiuso da un’insenatura profonda, le onde non riescono a formarsi. Qua e là sono sparsi dei sassi, più in disparte si stagliano dei pezzi di roccia bianca provenienti dalla vicina cava abbandonata. In 112
lontananza si intravedono puntini che si muovono; gruppi di ragazzini che affollano la distesa. Man mano che Sasà e Daniele si avvicinano, si distinguono le loro età. Avranno dai 12 ai 16 anni. C’è anche il gruppetto di Sasà. Si riconosce subito la mole di Mariano, tiene in mano un enorme sacchetto della spazzatura, accanto ci sono Mezzanotte, Ossicino e Fachiro. Più in là, sedute su un pezzo di rena, diverse ragazze tentano di assorbire qualche raggio di un sole quel giorno velato da una patina di foschia sottile e per questo immen-samente più caldo. L’aria era tremendamente afosa. Tra le ragazze ci stanno le compagne di classe di Mariano e Sasà, Teresa e Lalla.
Daniele sembra estasiato. Si guarda intorno, osserva con estrema attenzione. La luce è abbacinante. Ogni tanto deve strabuzzare gli occhi, o addirittura chiuderli. Sulla pelle si avverte una crescente sensazione salina, ti fa appiccicare gli abiti addosso e nemmeno te ne accorgi. L’incontro con gli amici di Sasà è in parte formale in parte stentato. Ossicino e Mezzanotte lo salutano timidamente. Fachiro lo guarda come un corpo estraneo. Lalla, al contrario, non crede ai suoi occhi. Com’è carino, pensa, dando di gomito a Teresa che fa una fatica improba ad alzare la testa dall’asciugamano.
Il gioco che si apprestano a disputare consiste in una gara a squadre di gavettoni. Chi riesce a farne di più, infradiciando completamente l’altro, vince. È ammesso tutto.
Le ragazze non partecipano, ovviamente. Lalla segue con interes-se le gesta del nuovo arrivato. Non sapeva chi fosse. Lei non era di quelle parti. Dopo un rapido giro di consultazioni con le amiche era arrivata a malapena a sapere il suo nome. Sembrava sbucato fuori dal nulla.
Le prime due squadre, fra cui quella di Sasà, si affrontano, Daniele viene subito coinvolto dal gioco. I ragazzi si rincorrono, si acchiappano, si gettano in terra, oppure sfuggono rapidi, evitano gettiti d’acqua; è tutto così faticoso. Il rifornimento avviene con l’acqua di mare, i sacchetti spesso si strappano, si rischia di rimanere senza. Il sole picchia. I corpi si trasformano in cenci grondanti, urlanti, sorridenti. Stremati. La squadra di Sasà vince la prima gara.
113
Daniele alla fine si getta in terra, vicino alle ragazze. Ha subìto plac-caggi, botte, di tutto. Le ha ridate. Ha sentito dolore ed ha resistito.
È caduto ed è rimasto cinque minuti a massaggiarsi la schiena. Ma adesso si sente bene come mai in vita sua. Ha sete. Tanta. Si rivolge al gruppetto.
“Posso avere un po’ d’acqua?”
Lalla si sbriga ad aprire la borsa termica, a prendere la bottigliet-ta d’acqua.
“Tu chi sei, non ci hanno presentato?”, dice, sfrontata, mentre Daniele si scola quasi mezzo litro tutto d’un fiato.
“Daniele”, risponde, respiro affannato, occhi rossi.
“E sei nuovo di qui?”
“In un certo senso”.
“Ma tu non sei quello che abita a villa Bianca?”, chiede una voci-na piccante dal fondo del gruppo.
Lui si gira, la guarda. Avrà sedici anni, forse più, mora, sguardo elettrico. Non l’ha mai vista.
“Sì, perché?”
Lei lo fulmina con uno sguardo sprezzante, sopracciglio inarcato.
Lui si vergogna un po’. Anche lei sa. La tipa gli sorride a stento.
Lalla si intromette.
“Cos’è villa Bianca?”
La mora elettrica si è voltata dall’altra parte, per lei il discorso è chiuso. Daniele smette di colpo di vergognarsi.
“Una villa che sta sopra Gioiosa”.
“Ma allora sei di qui?”
Daniele le sorride. Arriva Sasà, gli si getta sopra.
“È mio amico, lasciatelo in pace”.
Sasà gli blocca le braccia. Lo spinge sulla sabbia. Daniele cerca di divincolarsi. Quella situazione ha creato fra i due un atteggiamento spontaneo di complicità fisica, di confidenza di lunga data. Daniele riesce a staccarsi dalla morsa dell’amico.
“Mi devo mettere la crema”.
“Fai bene. Sei così bianco, ti scotti altrimenti”, sottolinea premu-rosamente Lalla.
114
“Ohh picciriddu!”, esclama Sasà.
Intanto è iniziato un nuovo scontro fra altri due gruppi. Sasà si alza e raggiunge i suoi che adesso fanno da spettatori. Daniele rimane lì sdraiato. Si mette un cappello. Si sente stanco ma soddisfatto.
C’era qualcosa in quella ragazzina dagli occhi verdi che lo attirava.
“Tu di dove sei?”, le chiede.
“Di Catania, ma il prossimo anno mi trasferisco a Roma con la mia famiglia”.
Sasà si volta, li guarda di sottecchi. Sorride. Capisce che quella era una delle due risposte che l’amico non gli aveva ancora dato.
Dopo un’oretta buona alcuni elicotteri iniziano a sorvolare insi-stentemente la zona. Il loro rumore si espande come un ronzio fastidioso di insetti giganti in amore. Daniele non ha partecipato all’altra gara. Ha parlottato un po’ con Lalla, lasciandosi catturare dalle sue piccole improvvise confidenze, è stato benissimo, a un tratto ha pure dormicchiato rannicchiato sotto uno spicchio d’ombra. Non ha pensato a niente. Al rumore che viene dal cielo però è scattato. Sasà ha fatto altrettanto. I due si sono dati un’occhiata furtiva. La grande caccia era cominciata, sembrava. Hanno convenuto che per loro era tempo di levare le tende. Incerti, hanno accampato una scusa qualunque. Lalla ha aperto gli occhi; ma come così presto andate via, fra un po’ guardiamo il tramonto, ha affermato quasi implorante.
Ma Daniele era stato ormai ricatapultato nella realtà. La sua espressione aveva iniziato a tradire un certo fastidio. Si sentiva vio-lentato come mai in vita sua. Gli passano, invadenti, alcuni pensieri ostili. Soprattutto lo spaventa la sensazione orrenda della trascor-sa segregazione, capisce di botto ciò che non ha avuto e ciò che è destinato a riperdere. La vita in quegli anni aveva potuto soltanto intuirla. In quei due giorni aveva vissuto, sperimentato, aveva gioi-to e riso, la cosa che lo aveva inebriato di più erano stati gli odori forti del mare, della salsedine, odori di pesce, di terra; non li aveva sentiti così intensi da non si sa quanto tempo. Aveva soprattutto avuto conferma dei suoi sospetti; non era affatto malato. Gli sembrava perfino di aver perduto i suoi poteri, o quantomeno di averli 115
accuratamente messi a riposare; comunque di poterli controllare di più.
“Domani noi andiamo agli stabilimenti di Gioiosa, venite?”, chiede Lalla speranzosa.
Daniele sente una fitta nello stomaco. Sasà si rinfila i pantaloncini.
“Non lo so”, lapida Sasà, “Forse…!”
Daniele la guarda, lei ricambia. Il ragazzo alza una mano.
“Ciao, piacere di averti conosciuto”.
Lei sorride, timida. Il suo ciao è bisbigliato. Le amiche salutano distrattamente. Quasi infastidite. A un tratto arriva una batteria di gavettoni sul gruppetto di ragazze che costringe tutti a un fuggi fuggi generale. Sasà e Daniele ne approfittano a si mettono a correre. Artefici di tale affronto sono stati quattro rompiscatole, fra i quali Mariano. Il ragazzo si accorge che i due se ne vanno, li chiama.
“Ci vediamo a Gioiosa, vieni all’edicola”, gli risponde Sasà in codice.
Mentre si dirigono al motorino Sasà tenta di esporre a Daniele un’idea per la notte.
“Conosco un posto dove puoi stare!”
“Perché dici puoi… tu non vieni?”
“Io non posso rimanere fuori, mia madre potrebbe collegare, sarebbe un casino… già così sto rischiando…”
All’idea di passare la notte fuori da solo però Daniele non sembra entusiasta. Aveva creduto di poter stare con l’amico. E invece adesso… comunque di tornare a casa non gli andava proprio, figuriamoci.
“Non puoi dirgli che dormi da un amico? Io non voglio stare solo!”
In effetti poteva, riflette Sasà. D’accordo era lacerato dal senso di colpa, temeva che sua madre potesse sospettare, ma in fondo altre volte aveva già dormito da Mariano e non era successo niente, era bastato avvertirla. Sasà sospira. Ti pare che davvero sua madre poteva pensare che fosse lui l’artefice della fuga? Come poteva lascia-116
re Daniele da solo? Non poteva. I due arrivano al motorino. Sulla strada non c’è un’anima. Daniele guarda in alto, si rinfila la parrucca. Il rumore degli elicotteri va e viene. Stavolta era proprio necessario il camuffamento, pensa Sasà, che poi di botto si ritrova con un dubbio atroce: la persona che pensava avesse potuto ospitare Daniele, lo avrebbe fatto davvero? Anzi, li avrebbe ospitati entrambi?
Considerando che nemmeno gliel’aveva chiesto, che anzi ancora non sapeva nemmeno dell’ipotesi…
“Allora?”, chiede apprensivo Daniele.
Sasà lo guarda.
“Se non rimani con me, me ne torno a casa”.
Sasà sospira. Stavolta si mette il casco che giaceva dimenticato da chissà quanto nel bauletto. Se lo allaccia.
“Dai sali… che non ti lascio solo”, aggiunge.