Poul Anderson

La comunione della carne

Sapeva bene cosa fossero le armi da fuoco che quegli stranieri così alti portavano appese al fianco. Erano stati loro stessi che ne avevano mostrato il funzionamento alle guide indigene. Moru ignorava però a cosa servissero quegli altri aggeggi che essi maneggiavano quando parlavano nella loro lingua: erano trasmettitori audiovisivi, ma lui credeva che si trattasse di feticci.

Così, quando Moru uccise Donli Sairn, lo fece letteralmente sotto gli occhi di sua moglie.

All’ora concordata di ogni giorno, che su quel pianeta contava ventotto ore, il biologo si metteva in comunicazione con i suoi colleghi, e siccome era sposato da poco, sua moglie Evalyth approfittava della trasmissione per inserirsi e attendere che il marito terminasse di parlare per rubargli qualche minuto.

Quindi non fu un fatto eccezionale che Evalyth fosse sintonizzata proprio in quel momento. Aveva pochissimo da fare in qualità di tecnico militare della spedizione. Doveva solo sorvegliare uno degli edifici nei quali si erano insediati, e per far ciò era anche assistita dagli abitanti di Lokon, che a prima vista destavano qualche preoccupazione per via di quell’atteggiamento un po’ misterioso, ma Evalyth per esperienza e per istinto aveva capito che si trattava solo di timore reverenziale. Anzi, in più occasioni aveva compreso quanto ambissero instaurare un sentimento di amicizia.

Anche il comandante Jonafer la pensava così e quindi il compito di Evalyth era diventato assai leggero; perciò lei occupava parte del suo tempo dandosi da fare per apprendere più che poteva sul lavoro del marito, per essere in grado di diventare sua assistente quando fosse rientrato.

Inoltre le ultime analisi mediche le avevano confermato di essere incinta, ma aveva deciso di non dire niente al marito finché si trovava a centinaia di chilometri di distanza. Gli avrebbe dato la notizia quando fossero stati di nuovo insieme. Per il momento, comunque, la consapevolezza di aver originato una nuova vita le faceva considerare Donli come la luce che rischiara la via.

Quel pomeriggio Evalyth era entrata fischiettando nel laboratorio biologico. All’esterno i raggi del sole colpivano con violenza il suolo polveroso, illuminando di una luce color ottone le baracche prefabbricate raggruppate attorno alla nave con la quale erano giunti dall’orbita della Nuova Aurora, e riscaldavano le apparecchiature e le gravitoslitte, che servivano a trasportare gli uomini nell’unica regione abitabile di quel pianeta: la grande isola.

Al di là della staccionata, oltre le cime frondose degli alberi e delle costruzioni in argilla, un fitto brusio e un calpestio di piedi, uniti all’odore amarognolo di un fuoco di legna presente nell’aria, rivelavano la presenza di una cittadina di parecchie migliaia di abitanti che si estendeva fino al lago Zelo.

Più di metà dell’abitazione dei Sairn era occupata dal laboratorio biologico. In quel periodo, in cui un numero molto limitato di culture cercava disperatamente la civiltà, i Pianeti Alleati inviavano le proprie astronavi fra i resti dell’impero, e i comfort erano assai esigui.

A Evalyth però era sufficiente l’idea che quella fosse la casa sua e di Donli, tanto più che alle ristrettezze era già abituata. Quello che l’aveva maggiormente colpita nel marito, il giorno che lo aveva conosciuto su Kraken, era stato proprio lo spirito con il quale lui, pur provenendo da Atheia, si era adattato al tenore di vita di quel mondo tanto cupo e severo, tanto più che si diceva che Atheia fosse riuscita a mantenere le comodità conquistate nel momento di maggior splendore della Vecchia Terra.

Lì la gravità era di 0,77 standard, almeno due terzi inferiore a quella della sua terra d’origine e consentiva a Evalyth di scivolare con agilità fra tutte quelle apparecchiature e campioni. Era giovane, alta e forte, con un corpo attraente sebbene con i lineamenti eccessivamente marcati per i gusti degli uomini delle altre razze. Come tutti i suoi connazionali era biondissima e ricoperta di complicati tatuaggi sulle gambe e sugli avambracci; portava in vita un disintegratore che veniva tramandato di padre in figlio, ma aveva sostituito l’abbigliamento tipico di Kraken con la semplice tuta che indossavano tutti i membri della spedizione.

Era davvero piacevole quella baracca così fresca e ombrosa! Evalyth si sedette tirando un sospiro di sollievo e mise in funzione il trasmettitore. Nel momento in cui nell’aria prese forma l’immagine tridimensionale e si udì la voce di Donli, avvertì il cuore sobbalzarle leggermente nel petto.

— …Pare sceso da una specie di trifoglio.

Il ricevitore trasmetteva un quadro di alberi bassi e sparsi in mezzo alle pseudo-erbe indigene dal colore rossiccio, con foglie verdi e trilobate; quando Donli si avvicinò per permettere al calcolatore di memorizzare i più piccoli particolari, l’immagine si ingrandì. Evalyth si sforzò di ricordare, inarcando le sopracciglia… ecco! Il trifoglio era una forma vivente originaria della Vecchia Terra, ed era stata trasportata dall’uomo su un numero elevatissimo di pianeti prima dell’arrivo della Lunga Notte… cose ormai dimenticate da tutti.

Questi organismi erano in alcuni casi tanto cambiati rispetto alla forma originale da essere irriconoscibili. Migliaia di anni trascorsi li avevano modificati e adattati alle nuove condizioni ambientali, mentre i cambiamenti genetici si erano verificati quasi casualmente solo su piccoli gruppi iniziali. Nessuno su Kraken avrebbe immaginato che i rizobatteri, i pini e i gabbiani fossero forme provenienti dalla Terra, successivamente modificati, finché non furono riconosciuti dal gruppo di Donli. Nessuno di loro era ancora tornato al pianeta d’origine, ma le memorie di Atheia straboccavano di informazioni, come l’adorato capo ricciuto di Donli…

E quella che si distingueva nel campo visivo era proprio la sua mano, intenta a raccogliere campioni.

Evalyth provò l’impulso di baciarla ma si trattenne grazie al suo senso del dovere. Siamo al lavoro, si ripeté, abbiamo trovato una nuova colonia che era andata persa e che versa in condizioni disastrose, primitive al massimo. È nostro compito informare la Commissione se una spedizione civilizzatrice possa avere successo o se sia meglio utilizzare altrove le già scarse risorse dei Pianeti Alleati, abbandonando al proprio destino questa popolazione ancora per qualche centinaio di anni. Ma per poter completare il rapporto occorre approfondire la loro cultura e il loro mondo, ed è proprio per questo motivo che io sto qui su questi altipiani mentre lui si trova giù tra i barbari della giungla.

Per favore, amore, fai in fretta!

Udì la voce di Donli parlare nel linguaggio dei pianori, un genere decaduto del lokonese a sua volta lontano derivato dell’anglico. I glottologi l’avevano studiato in brevissimo tempo, lavorando intensamente; quindi, tramite il metodo ipnotico, l’avevano insegnato a tutto l’equipaggio.

Donli, in particolare, dopo alcuni giorni a contatto con gli indigeni parlava correttamente il loro dialetto, con grande ammirazione di Evalyth.

— Siamo quasi arrivati, vero Moru? Non mi avevi assicurato che si trovava di fianco all’accampamento?

— Ci siamo quasi, uomo venuto dalle nuvole!

Evalyth sentì risuonare dentro di sé un campanello di allarme. Cosa stava accadendo? Donli si era allontanato con la sola compagnia di un abitante del luogo? E sì che Rogar di Lokon li aveva avvisati della possibilità di un tradimento da parte degli indigeni! Ma solo il giorno prima Haimie Fiell, precipitato in un fiume impetuoso, era stato salvato dalle guide che avevano messo a repentaglio la propria vita…

Quando Donli fece dondolare il trasmettitore l’immagine si offuscò per un istante, suscitando in Evalyth un senso di vertigine. Solo a tratti riusciva ad avere una visione più vasta.

La foresta circondava un sentiero aperto dalle bestie selvatiche: si distinguevano i colori del fogliame, l’oscurità dei rami e dei tronchi, delle ombre e talvolta si udivano richiami invisibili. A Evalyth pareva addirittura di avvertire il caldo umido e soffocante dell’aria e di sentire odori pungenti e ben poco piacevoli.

Quella terra, che non aveva altro nome all’infuori di Mondo, dal momento che gli uomini che l’abitavano non sapevano più cosa fossero le stelle, non era risultata assolutamente adatta alla colonizzazione. Gli stessi animali che l’abitavano si erano dimostrati spesso velenosi e comunque mai sufficienti dal punto di vista nutrizionale, così che gli umani riuscivano a sopravvivere solo grazie all’aiuto delle specie che si erano portati con sé.

Sicuramente i primi colonizzatori avevano cercato di migliorare le condizioni di vita, ma in seguito si era verificata una catastrofe: era stato scoperto che l’unica città presente su quella terra era stata abbattuta dai missili, insieme alla maggior parte della popolazione. In tal modo erano venute a mancare le risorse per procedere alla ricostruzione; a dire il vero era già un miracolo che una parte della popolazione fosse sopravvissuta.

— Eccoci arrivati, uomo venuto dalle nuvole.

Le immagini si riassestarono in un completo silenzio che si stendeva dalle baracche alla foresta.

— Non riesco a distinguere niente — commentò Donli.

— Vieni con me che te lo faccio vedere.

Donli ripose il trasmettitore nell’incavo di una pianta, e quello, così messo, inquadrò i due che procedevano in mezzo a un prato. Accanto all’esploratore, Moru pareva un bambino. Gli arrivava solo alla spalla. In realtà era già vecchio, con il corpo seminudo ricoperto da cicatrici e zoppicante dal piede destro a causa di qualche remota ferita, e il volto rugoso avvolto dalla massa nera dei capelli e della barba. In quel mondo un uomo che non poteva più mantenere la famiglia con la caccia ma solo con la pesca e le trappole diventava ancora più misero degli altri. Chissà che felicità aveva provato quando quegli stranieri erano atterrati vicino al suo villaggio e lo avevano rifornito di ogni tipo di merce per convincerlo a fare loro da guida per una o due settimane. Evalyth, grazie al trasmettitore del marito, aveva visto l’interno della capanna di paglia di Moru… scarse, povere suppellettili, la moglie distrutta dalle fatiche, i figli sopravvissuti che a soli sette o otto anni, dodici-tredici anni standard, parevano già dei nani rattrappiti.

Rogar aveva asserito — o almeno si era capito così, dal momento che non si conosceva ancora perfettamente la lingua di Lokon — che le popolazioni dei pianori avrebbero potuto essere più ricche se fossero state meno aggressive e se avessero smesso di farsi continuamente guerra tra loro. Ma a Evalyth non sembrava che costituissero poi un gran pericolo.

Moru indossava soltanto un perizoma, una corda avvolta intorno al corpo per le trappole, un coltello di ossidiana e una bisaccia di tessuto ingrassato così da contenere dei liquidi. I suoi compagni che andavano a caccia e, combattendo in battaglia, potevano impadronirsi di una parte del bottino, vivevano evidentemente meglio di lui, ma non ne differivano molto per quanto riguardava l’aspetto. Non avendo ulteriore spazio a disposizione, quella gente era endogamica per necessità.

Moru si inginocchiò dividendo in due un cespuglio con le mani.

— Ecco — disse rialzandosi.

Evalyth immaginava perfettamente quale ansia dominasse Donli in quel momento, tuttavia lo vide girarsi e sorridere al trasmettitore dicendo in atheiano: — Immagino che tu mi stia guardando, amore, e mi piacerebbe molto renderti partecipe di questa scoperta. Credo si tratti di un nido di uccello.

A Evalyth non era venuto in mente quale sarebbe stata l’importanza ecologica della presenza degli uccelli in quell’ambiente. Stava pensando solo a quello che aveva appena sentito. — Oh, sì, sì! — le venne spontaneo rispondergli, anche se sapeva che in quel momento non poteva essere udita.

Lo vide accucciarsi tra le erbe alte e malsane, tendendo le mani all’interno del cespuglio con gesti delicati che lei ben conosceva, per dividerne i rami.

All’improvviso scorse Moru assalirlo alle spalle, stringendogli il busto con le gambe; con una mano gli tirò indietro la testa, afferrandolo per i capelli, mentre nell’altra lampeggiò il coltello. Dalla gola squarciata di Donli iniziò a sgorgare il sangue e, mentre l’altro gli allargava la ferita, gli rimase solo la forza di gorgogliare qualcosa. Provò disperatamente ad afferrare la pistola, ma Moru gettò via il coltello per bloccargli le braccia. Rotolarono a terra avvinghiati; Donli cercò di liberarsi ma si afflosciò, dissanguato. Moru mantenne la presa e i due scomparvero alla vista di Evalyth dietro il cespuglio, finché la guida si sollevò, paonazza, piena di sangue e ansimante.

Evalyth si mise a urlare nel trasmettitore, con il mondo intero, e continuò a farlo, opponendosi quando provarono ad allontanarla dall’immagine del prato nel quale Moru stava per terminare la sua bell’impresa, finché si sentì pungere da qualcosa di freddo che la fece precipitare in un baratro privo di qualsiasi stella.

Haimie Fiell si morse le labbra bianche.

— Certo che non ne sapevamo niente finché non ce l’avete riferito. Donli e queir… quell’essere erano molto distanti dall’accampamento. Per quale motivo ci ha impedito di andare immediatamente a cercarlo?

— Perché stavamo seguendo il trasmettitore — gli rispose il comandante Jonafer. — Donli era già morto e voi avreste solo potuto peggiorare la situazione cadendo in un’imboscata o facendovi colpire dalle frecce o qualcos’altro del genere mentre percorrevate quei sentieri tanto angusti. Era più opportuno lasciarvi dove vi trovavate perché vi potevate difendere a vicenda nell’attesa che vi inviassimo su un veicolo.

Fiell oltrepassò con lo sguardo l’omone brizzolato che aveva davanti, fissando la staccionata esterna e lo spietato cielo del meriggio.

— Ma l’azione che stava compiendo quel piccolo mostro… — Si interruppe di scatto.

Altrettanto rapidamente Jonafer riprese: — Ho saputo che le altre guide se la sono data a gambe levate per paura di una rappresaglia. Me lo ha riferito Kallaman che, con il suo gruppo, si è recato immediatamente al villaggio. Non ha trovato nessuno, sono fuggiti tutti. Del resto non ci vuole molto a trasferirsi quando si indossa tutto ciò che si possiede e si può costruire un’altra capanna nel giro di una giornata.

Evalyth si sporse in avanti.

— E smettetela di essere così evasivi — li rimbeccò. — Cosa è successo a Donli che avreste potuto evitare raggiungendolo in tempo?

Fiell non aveva il coraggio di guardarla negli occhi e intanto si sentiva la fronte imperlata di sudore.

— A essere sinceri niente — bisbigliò. — Niente che lo avrebbe potuto salvare… quando il misfatto era già stato compiuto.

— Desidererei sapere che tipo di cerimonia funebre vuole per suo marito, tenente Sairn — chiese Jonafer. — Preferisce che le sue ceneri rimangano qui o che siano sparse nello spazio al momento della partenza, o che tornino in patria?

Evalyth si voltò verso di lui.

— E chi mai ha autorizzato la cremazione, comandante? — replicò adagio.

— Nessuno, ma… cerchi di vedere la situazione da un punto di vista più realistico. Mentre noi ci davamo da fare per recuperare il corpo di suo marito, lei era sotto l’effetto dell anestetico e dei sedativi, e qui non abbiamo avuto la possibilità di attendere e neppure c’era spazio vuoto nei refrigeratori; con il caldo che fa…

Quando era uscita dall’infermeria, Evalyth si sentiva stordita e non riusciva a realizzare che Donli fosse morto davvero. Aveva la sensazione che potesse entrare dalla porta da un momento all’altro, illuminato alle spalle dal sole; l’avrebbe liberata ridendo da quell’incubo. Ma sapeva perfettamente che era solo l’effetto dei farmaci che il medico le aveva somministrato, e ne era scocciata.

Provò quasi un senso di sollievo quando sentì la collera crescerle dentro, segno che stava cessando l’effetto dei sedativi, e capì che prima della fine della giornata sarebbe riuscita a piangere.

— Comandante — disse — l’ho visto morire e non è stato il primo. Anzi, ho assistito a scene ben più atroci. Su Kraken non si nasconde mai niente. Lei mi ha tolto il diritto di dare l’estremo saluto a mio marito, ma non potrà impedirmi di fare giustizia, perciò pretendo che mi dica come sono andate veramente le cose.

Jonafer strinse i pugni sul tavolo.

— Non ho il coraggio di dirglielo.

— E invece lo avrà, comandante.

— Va bene, va bene! — esclamò. Quindi iniziò a parlare di getto. — Abbiamo assistito al delitto attraverso il trasmettitore. La guida ha denudato Donli e lo ha fatto penzolare da una pianta a testa in giù, raccogliendo il suo sangue nella bisaccia; poi gli ha tagliato i genitali riponendoli con il sangue, infine lo ha squartato prendendogli cuore, polmoni, fegato, reni, e poi, infilando anche questi nella bisaccia, se n’è andato. Si stupisce ancora del fatto che non le sia stato concesso di dare l’estremo saluto a suo marito?

— Gli abitanti di Lokon ci avevano detto di stare attenti con le genti della foresta — commentò Fiell, impassibile. — Avremmo dovuto dar loro retta, ma quegli gnomi ci facevano così pena! E poi mi avevano anche aiutato a uscire dal fiume. Alle domande di Donli sulla presenza degli uccelli in queste zone, Moru aveva risposto che ce n’erano solo alcuni, ma che erano molto paurosi; se però qualcuno fosse andato con lui, gli avrebbe fatto vedere un nido.

“In realtà la guida aveva parlato di ‘casa’, ma Donli aveva dedotto che si riferisse proprio a un nido, o almeno così ci ha detto dal momento che la conversazione si era svolta a una certa distanza da noi: erano in vista, questo sì, ma non capivamo le loro parole. Probabilmente già questo fatto avrebbe dovuto metterci in allarme e spingerci a chiedere chiarimenti ad altri uomini della tribù, ma non ci sembrava il caso… cioè, Donli era sicuramente superiore fisicamente, e in più era armato di un disintegratore. Chi avrebbe potuto aggredirlo? Inoltre si erano fatti vedere addirittura servili dopo l’iniziale terrore e ci era parso che tenessero moltissimo a instaurare un buon rapporto, come i lokonesi e…” le parole si esaurirono.

— Ha rubato qualcosa? — domandò Evalyth.

— Niente — le rispose Jonafer. — Tutto quanto apparteneva a suo marito è qui con me; glielo darò.

— Secondo me non è stato spinto dall’odio — commentò Fiell. — Credo piuttosto che c’entri la superstizione.

Il comandante si disse d’accordo.

— Non dovremmo giudicare la faccenda dal nostro punto di vista.

— E da quale, allora? — lo rimbeccò Evalyth che nonostante le droghe non riusciva a capacitarsi di quel tono imparziale. — Io sono di Kraken e non ho nessuna intenzione di lasciar nascere il figlio di Donli senza che sia fatta giustizia sull’assassino di suo padre.

— Ma non può pretendere di fare giustizia con un’intera popolazione! — sottolineò Jonafer.

— Certo che no. Ma, come lei sa, comandante, ciascuno di noi viene da un pianeta diverso, con la sua particolare civiltà, e secondo quanto stabilito all’inizio, le tradizioni di ognuno devono essere rispettate. Perciò chiedo di essere esonerata dal mio incarico finché non avrò catturato l’assassino di Donli e non avrò ottenuto giustizia.

Jonafer abbassò la testa.

— Sono costretto a lasciarla fare — ammise sottovoce.

Evalyth si alzò.

— La ringrazio — si congedò. — Vogliate scusarmi, ma desidero iniziare le indagini il più presto possibile.

…Mentre si sentiva ancora un automa, mentre era sotto l’effetto dei farmaci.

Sugli altipiani, grazie al clima più mite e secco, la coltivazione dei campi era andata avanti anche quando la civiltà si era degradata; i prodotti agricoli, ottenuti a fatica con attrezzature primitive, mantenevano la popolazione dei villaggi sparsi un po’ ovunque e della capitale Lokon.

La popolazione degli altipiani aveva molto in comune con i selvaggi della giungla; infatti solo un numero assai esiguo dei primi coloni era vissuto tanto da avere una progenie. Però si distingueva per l’altezza e la forza, dovute alla migliore alimentazione; inoltre portava tuniche e calzari dai colori vivaci e i più ricchi si permettevano anche monili d’oro e d’argento. Tenevano i capelli intrecciati e il viso perfettamente rasato; procedevano sicuri, senza il timore di essere aggrediti, ed erano molto loquaci.

Logicamente il tutto valeva solo per gli uomini liberi. Gli studiosi della Nuova Aurora avevano appena iniziato a comprendere la società di Lokon, ma avevano subito capito quanto fosse esteso il fenomeno della schiavitù.

In alcuni casi si trattava di abili domestici, ma la maggior parte delle volte si erano trovati di fronte a uomini nudi e sottomessi, costretti al lavoro nei campi, nelle cave e nelle miniere, controllati da soldati che erano armati di spade e di lance fatte con l’antico metallo dell’Impero.

In realtà nessuno degli studiosi ne era rimasto meravigliato: in altri luoghi avevano assistito a cose peggiori e le memorie della Vecchia Terra citavano grandi potenze del passato quali Atene, l’India e l’America.

Evalyth procedeva sicura lungo le strade strette e piene di polvere, passando in mezzo a case colorate dalla forma cubica e senza finestre. I passanti la salutavano educatamente. Ormai non sospettavano più degli stranieri, ma quella donna che vedevano passare superava in altezza anche il loro connazionale più alto, aveva i capelli di un colore metallico e occhi azzurri come il cielo; portava con sé la folgore, e chissà quali poteri soprannaturali.

Al suo apparire si inginocchiavano anche i soldati e i nobili; gli schiavi, invece, si gettavano a terra. Quando arrivava Evalyth spariva ogni rumore: al mercato cessavano le contrattazioni e i bambini scappavano tralasciando i loro giochi, cosicché intorno a lei si creava sempre un silenzio che eguagliava quello della sua anima. Nell’aria e sotto la cima bianca del Monte Burus era tangibile il terrore, in quanto tutti ormai sapevano che un selvaggio delle pianure aveva ucciso uno straniero e si chiedevano cosa sarebbe successo.

Anche Rogar doveva esserne al corrente, perché era in attesa nella sua abitazione in riva al Lago Zelo, di fianco al Luogo Sacro. Rogar non era il re, né il capo del consiglio e neppure un sommo sacerdote, ma era come se fosse tutte queste cose insieme ed era lui a tenere i rapporti con i nuovi venuti.

La sua casa era simile a tutte le altre, anche se più estesa, con le opprimenti mura perimetrali che circondavano un complesso di costruzioni vietate agli stranieri, Le porte d’accesso erano custodite da guardie con divise scarlatte ed elmi di legno scolpiti in modo alquanto bizzarro. Per quella occasione un numero ancora maggiore di sentinelle era stato collocato ai fianchi della porta d’ingresso di Rogar. Dietro, il lago riluceva come uno specchio e lungo le sue rive le piante apparivano irrigidite.

Quando Evalyth arrivò, il pingue e anziano maggiordomo di Rogar l’accolse all’entrata con un inchino.

— Se la Venuta dal cielo accetta di seguire un essere indegno come me, il Klev Rogar l’aspetta. — Le sentinelle piegarono le lance in segno di saluto con il terrore negli occhi.

Anche la casa di Rogar, come tutte le altre, dava su un cortile interno. Il padrone era seduto su una predella in una camera che si apriva sul giardino; il riverbero esterno la faceva sembrare ancora più fresca.

Evalyth osservò solo con la coda dell’occhio le decorazioni dei muri e del tappeto, che le parvero comunque molto primitive; il suo interesse era tutto rivolto a Rogar. L’uomo, però, seguendo le usanze locali non si mosse, limitandosi ad abbassare il capo brizzolato.

Il maggiordomo dispose una panca e la prima moglie del padrone di casa, dopo averle servito una tazza di tè d’erba, si dileguò prontamente.

Rimasti soli nel fresco della stanza, Evalyth gli rivolse un saluto ufficiale: — Salve, Klev.

— Salve, Venuta dal cielo. — Rimasero in silenzio per qualche istante.

— Sono veramente dispiaciuto per quel che è successo — riprese Rogar — e te lo dimostrano i miei piedi nudi e il mio abito bianco, segno del lutto che si porta per la morte dei consanguinei.

— È un grande onore e lo terremo presente — ringraziò Evalyth.

L’uomo perse parte della sua sicurezza: — Tu capisci, vero, che noi non abbiamo colpa di quello che è successo? Questi selvaggi, bestie immonde, non sono certo nostri amici. I nostri avi ne trassero alcuni in schiavitù, ma non si dimostrarono capaci di fare nulla. Avevo avvertito i tuoi amici che era pericoloso avventurarsi tra di loro.

— I miei colleghi hanno fatto quello che volevano — rispose la donna. — Quello che voglio io invece è vendicare mio marito. — Non le importava neppure di sapere se nella lingua di Rogar ci fosse un corrispettivo per “giustizia”. I farmaci le attutivano i sentimenti ma le accentuavano le capacità mentali, perciò era in grado di parlare in modo abbastanza comprensibile il lokonese.

— Ti posso dare dei soldati, così potrai uccidere a tuo piacimento, le propose Rogar.

— Ti ringrazio, ma non è il caso; l’arma che porto al fianco è in grado di uccidere da sola più persone di tutto il tuo esercito messo insieme. Sono venuta da te solo per sapere come fare a trovare l’assassino di mio marito.

L’uomo inarcò le sopracciglia: — Quei barbari sono capaci di sparire nella foresta dove non ci sono sentieri, Venuta dal cielo.

— Lo so, ma riescono a nascondersi anche dagli altri barbari?

— Che idea geniale, Venuta dal cielo! I selvaggi sono sempre in lotta tra loro e se riusciamo a contattare una tribù nemica di quella dell’assassino, i suoi esploratori lo troveranno in un batter d’occhio. — Rogar aggrottò la fronte. — Ma sicuramente lui si è allontanato dai suoi e resterà nascosto fino a quando non ve ne sarete andati e scoprire un uomo solo è oltremodo difficile per chiunque, oltretutto quei primitivi sono abilissimi nel nascondersi, quando è il caso.

— Cosa vuol dire “quando è il caso”?

Rogar si stupì di quella domanda; era ovvio a cosa si riferisse.

— Rifletti un attimo — le disse. — Quando si va a caccia nella foresta non si può andare in gruppo, perché si farebbe scappare la preda con i rumori e gli odori; bisogna agire da soli, ma questo comporta il pericolo di essere attaccati da qualcuno di un’altra tribù, per cui bisogna sempre stare all’erta.

— Ma che senso ha questa lotta continua?

Rogar non riusciva a capacitarsi dell’ingenuità di quelle domande: — Come potrebbero procurarsi carne umana, altrimenti?

— Ma non si nutrono di carne umana!

— No, è vero, tranne quando è strettamente necessario, e questo capita spesso. Si servono delle guerre per catturare gli uomini, che costituiscono la parte principale del bottino. Il corpo del nemico è di chi lo uccide e viene diviso solo con i congiunti. Non tutti però sono fortunati in guerra, e se non riescono ad ammazzare in combattimento si rivolgono alla caccia, da soli o a gruppetti di due o tre persone, sperando di imbattersi in un uomo appartenente a un altro clan. Ecco da dove deriva la loro abilità nel nascondersi.

Evalyth rimase immobile.

Rogar, dopo aver preso fiato, continuò: — Quando ho saputo dell’accaduto mi sono intrattenuto a lungo con i tuoi compagni e sono venuto a conoscenza di quello che loro erano riusciti a vedere da lontano, tramite quegli ingegnosi oggetti che possedete. Posso facilmente immaginare come siano andate le cose. La guida… Moru si chiama, vero?, è un invalido e in quanto tale non aveva nessuna speranza di ammazzare un uomo in un leale combattimento, perciò ha colto al volo quell’opportunità e ha ucciso tuo marito a tradimento. — Abbozzò un sorriso: — Qui da noi una cosa del genere non sarebbe mai successa. Entriamo in guerra solo se aggrediti e non pratichiamo mai la caccia all’uomo. Siamo un popolo civilizzato. — Mise in mostra denti incredibilmente bianchi. — Purtroppo, però, Venuta dal cielo, tuo marito è stato ucciso e la mia proposta è di vendicarsi non solo sull’assassino, sempre che riusciamo a scovarlo, ma anche sulla sua gente, che certamente potremo individuare come tu hai suggerito. Così facendo insegneremo a quei primitivi come comportarsi con chi è superiore a loro. Ci potremo poi dividere la carne metà per uno.

Evalyth, sotto l’effetto delle droghe, non riusciva a provare che uno stupore razionale, eppure ebbe la sensazione di essere caduta in un pozzo senza fondo. Si sforzò di guardare il volto del suo interlocutore attraverso la penombra, e dopo quella che le parve un’eternità si provò a bisbigliare: — Mangiate… gli… uomini… anche… voi…

— Solo gli schiavi — puntualizzò Rogar. — Il minimo indispensabile; con uno di essi si nutrono ben quattro ragazzi.

Evalyth afferrò di scatto la pistola. L’altro, accortosene, si alzò agitato. — Te l’ho già detto che siamo un popolo civile, Venuta dal cielo. Devi stare tranquilla, perché non ti faremo mai alcun male. Noi… noi…

Si era alzata anche Evalyth che lo dominava con la sua altezza. Chissà se Rogar aveva capito i suoi pensieri; forse adesso temeva per il suo popolo. Stava arretrando, sudato e tremante.

— Te lo assicuro, Venuta dal cielo, non devi preoccuparti qui a Lokon, assolutamente… Lascia che ti porti al Luogo Sacro, anche se non hai ricevuto l’iniziazione; gli dèi non se la prenderanno, perché tu sei simile a loro. Ti prego, permettimi di mostrarteli e di convincerti che noi non vogliamo né dobbiamo esserti nemici.

Evalyth vide Rogar aprirle una porta nella parete massiccia, osservò l’espressione allibita delle sentinelle e udì le solenni promesse fatte per placare gli dèi. Avvertì il calore del pavimento di pietra che faceva riecheggiare i suoi passi, il sogghignare degli idoli raccolti intorno al tempio principale, l’arretrare dei fedeli al suo ingresso insieme a Rogar e infine distinse i quartieri degli schiavi.

— Vedi, Venuta dal cielo, come li trattiamo bene? Siamo solo costretti a rompere loro le ossa delle mani e dei piedi, perché capisci bene anche tu cosa vorrebbe dire altrimenti la presenza di centinaia di giovani insieme. Comunque, se si comportano bene non facciamo loro alcun male. Guarda come sono ben nutriti! Il cibo che mangiano è costituito solo da uomini morti nel fiore dell’età. È un Cibo Sacro. Gli spieghiamo che la loro vita continuerà nel corpo di coloro ai quali saranno destinati e per la maggior parte sono contenti di sacrificarsi. Chiediglielo tu stessa, se vuoi… tieni solo presente che a furia di restare inattivi si sono istupiditi. Vengono uccisi in maniera rapida e indolore all’inizio dell’estate… solo quelli necessari ai ragazzi che in quell’occasione entrano a far parte del mondo degli adulti: si calcola uno schiavo ogni quattro giovani, non si fanno sprechi. È una cerimonia fantastica, che viene accompagnata da parecchie giornate di festa. Hai capito, adesso? Non devi aver paura di noi; noi non ci serviamo delle guerre e delle rappresaglie, come i selvaggi, per avere la carne dell’uomo, siamo civilizzati… anche se non siamo vicini agli dèi come voi… siamo comunque degni della vostra stima. Vero?

Chena Darnard, capo della squadra di antropologia culturale, chiese al calcolatore portatile di esaminare le memorie della Nuova Aurora. Al momento l’astronave si trovava oltre l’emisfero, per cui i raggi delle unità di collegamento sfrecciarono avanti e indietro per un po’ di tempo.

Nel frattempo Chena osservò Evalyth seduta di fronte a lei. Era immobile come una statua, ancora in parte drogata. Sicuramente proveniva da una famiglia aristocratica di guerrieri. Inoltre era risaputo che le differenze fra le genti dei vari pianeti non erano solo fisiche ma anche psicologiche, sebbene non si sapesse ancora molto al riguardo tranne casi particolari… Però sarebbe stato meglio se Evalyth si fosse lasciata andare al suo dolore.

— Sei proprio sicura? — chiese Chena nel modo più dolce possibile. È vero che questa è l’unica isola abitabile, ma è comunque molto estesa e accidentata, con primitive vie di comunicazione e sono già state individuate dozzine di culture diverse.

— Ho tartassato Rogar per più di un’ora e sono riuscita a farlo parlare — rispose impassibile. — I lokonesi sono più avanzati della loro tecnologia. La costante minaccia dei selvaggi ai confini li ha costretti a formare un’efficiente rete di spionaggio che li tiene sempre ben informati su tutto quello che succede. Inoltre il cannibalismo è esteso a tutte le tribù. I lokonesi non hanno mai pensato di parlarcene, dando per scontato che anche noi avessimo i nostri metodi per recuperare carne umana.

— Perché, ci sono diversi sistemi?

— Certo. I lokonesi riservano degli schiavi solo per questo, invece i selvaggi dei pianori, troppo poveri per fare altrettanto, devono ricorrere alla guerra e all’assassinio. Alcune tribù risolvono la questione con un combattimento annuale, altre… insomma, in ogni popolazione di questo mondo i ragazzi entrano nel mondo degli adulti mangiando carne umana.

Chena si mordicchiò le labbra. — Ma da dove mai può essere giunto questo rito? Calcolatore, hai i dati richiesti?

— Sì — rispose l’apparecchio posato sulla scrivania. — Le informazioni sul cannibalismo sono esigue, dato che il fenomeno è molto raro. È proibito su tutti gli altri pianeti di nostra conoscenza, e lo è sempre stato tranne che in casi di assoluta necessità. In maniera simbolica è presente nel giuramento di fratellanza praticato dai falken di Lochlanna, che sono soliti bere l’uno qualche goccia di sangue dell’altro…

— Questa è un’altra cosa — lo interruppe Chena che si sentiva un nodo alla gola. — Allora è solo qui che sono tanto degenerati… ma non è forse un ritorno al passato? Cosa sai dirmi della Vecchia Terra?

— Si sa ben poco. Molte informazioni sono andate perdute nella Lunga Notte, inoltre c’è il fatto che i popoli primitivi erano già scomparsi da tempo quando sono iniziati i voli interstellari. Abbiamo solo dati tramandati da studiosi dell’epoca.

“Sembra che il cannibalismo fosse presente in alcuni rituali. Di solito le vittime non venivano mangiate, ma in alcune religioni costituivano il cibo di classi privilegiate o anche di tutta la comunità dei fedeli. Era un modo simbolico per nutrirsi della divinità. Gli Aztechi, ad esempio, sacrificavano migliaia di vittime ai loro dèi, ma così facendo provocavano guerre e ribellioni, e di queste lotte si avvantaggiarono gli europei nella loro conquista.

“In Africa e in Polinesia, invece, il cannibalismo era considerato una forma di magia. Mangiare una persona voleva dire acquistare le sue doti. Gli antichi riferiscono che questo atto era molto apprezzato, come è facile capire, dove mancavano le proteine.

“L’unico caso di cannibalismo fine a se stesso si riscontra tra le popolazioni caraibiche che preferivano la carne umana alle altre. In particolare gradivano quella dei bambini e usavano catturare delle donne da destinare alla riproduzione. I maschi così generati venivano evirati, affinché rimanessero docili e teneri. Fu proprio a causa di queste abitudini che gli europei sterminarono gli indiani dei Caraibi.”

La relazione era finita.

Chena storse la bocca. — Posso capire gli europei.

Evalyth era rimasta impassibile. — In qualità di scienziata dovresti essere più imparziale!

— Sicuro. Ma bisogna guardare anche certi valori, e Donli è stato ucciso.

— L’assassino è uno solo e io lo scoverò.

— Ma è uguale a tutti gli altri, fa parte della stessa cultura. — Respirò profondamente nel tentativo di mantenere la calma. — È una specie di malattia che ha influenzato il loro comportamento. Credo che si sia sviluppata a Lokon. Di solito infatti le usanze si diffondono dal popolo più progredito a quelli più arretrati e logicamente tutte le tribù dell’isola ne sono state influenzate. Successivamente i lokonesi hanno cercato di dare un fondamento razionale a questa pratica inveterata, mentre i selvaggi delle pianure l’hanno mantenuta immutata. In sostanza, comunque, si tratta di un’unica forma di sacrificio umano.

— Potrebbero cambiare? — chiese Evalyth distrattamente.

— In teoria, sì. Ma… si sa bene cosa è successo sulla Vecchia Terra quando i popoli evoluti hanno cercato di modificare tali usanze: si sono distrutte intere culture.

“Immagina cosa accadrebbe se impedissimo a queste popolazioni di praticare il rito della pubertà. Non potrebbero ascoltarci perché per loro è necessario cibarsi di carne umana per diventare adulti. Per convincerli dovremmo imprigionarli, ucciderli. E poi? La successiva generazione, maturata senza il cibo magico, si sentirebbe inferiore, privata di quell’identità personale data dalle tradizioni. Sarebbe forse meglio bombardarli fino a renderli sterili. — Scosse il capo, poi riprese bruscamente. — L’unica soluzione sarebbe un cambiamento graduale. Forse dei predicatori riuscirebbero a convincerli nel giro di due o tre generazioni… Ma noi non possiamo permettercelo. Ci sono troppi mondi più meritevoli di aiuto. Ho deciso di consigliare che questa gente venga lasciata a se stessa.”

Evalyth la osservò attentamente. — La tua decisione non è per caso influenzata da quello che provi?

— È vero, non riesco a non sentirmi disgustata, anche se il mio lavoro dovrebbe avermi preparato a qualsiasi evenienza. È proprio per come ho reagito io che credo non si troverebbero dei predicatori. Anche tu, Evalyth…

— I miei sentimenti non hanno importanza — rispose Evalyth alzandosi. — Ciò che conta è il mio dovere. Comunque grazie per l’aiuto. — Si voltò e se ne andò con passo militaresco.

Le batterie chimiche andavano in pezzi. Si fermò un istante di fronte a quella che era stata la casa sua e di Donli: aveva paura di entrare. Il sole stava tramontando e le ombre invadevano l’edificio. Una bestia dalle ali coriacee attraversò silenziosamente il cielo. Passi, voci sconosciute e il suono di un flauto di legno giungevano da oltre la palizzata. Iniziava a scendere il freddo ed Evalyth rabbrividì. La casa le sarebbe parsa troppo vuota.

Stava arrivando qualcuno. Era Alsabeta Mondain di Nuevamerica, la riconobbe subito. L’idea di ascoltare condoglianze benevole quanto inutili la spinse a entrare. Fece gli ultimi gradini e chiuse la porta.

Donli non entrerà più qui. Mai più.

La casa però non le parve affatto vuota. Al contrario, era troppo affollata di ricordi. La sedia che lui usava quando leggeva quel suo libro ormai consunto di poesie che a lei riuscivano incomprensibili; il tavolo intorno al quale avevano brindato e le aveva mandato dei baci; l’armadio che conteneva i suoi vestiti; le pantofole logorate; il letto… tutto glielo riportava alla mente. Corse nel laboratorio e tirò la tenda che faceva da divisorio. Il tintinnio degli anelli le parve un suono terribile.

Chiuse gli occhi e rimase in piedi con i pugni serrati, faticando a respirare. Sarò forte, promise, perché tu dicevi di amarmi soprattutto per il mio coraggio… Me lo ricordo bene e non voglio cambiare niente di quello che tu apprezzavi.

Poi si rivolse al figlio. Devo agire subito perché il comando seguirà il consiglio di Chena e deciderà di partire al più presto. Non ho molto tempo per vendicare l’uccisione di tuo padre.

Spalancò gli occhi sconvolta. Cosa sto facendo? Sto parlando a un morto e a un embrione!

Si avvicinò al calcolatore. Era uguale a tutti gli altri, ma era stato di Donli, e lei non riusciva a staccare gli occhi da quei graffi e da quelle ammaccature che lo rendevano unico, come il microscopio, i chemioanalizzatori, il rintracciatore di cromosomi, i campioni biologici… Si sedette. Le venne voglia di bere qualcosa, ma doveva restare lucida.

— Attivazione!

Si accese la spia gialla. Evalyth cercò le parole adatte accarezzandosi il mento.

— Bisogna trovare un abitante dei pianori, scomparso nella foresta, che ha mangiato grande quantità di carne e sangue di un membro della spedizione. Il fatto è accaduto circa sessanta ore fa. Come posso rintracciarlo?

Si udì un leggero ronzio. Evalyth seguì mentalmente i vari passaggi: il maser del traghetto, le varie unità di collegamento sparse sotto il sole e le stelle inumane fino all’astronave; poi la mente che incanalava i dati nel settore appropriato; i visori che identificavano i numerosissimi frammenti di informazione composti da notizie raccolte su migliaia di mondi, preservati nelle epoche oscure seguite allo sfacelo dell’Impero o addirittura risalenti alla Vecchia Terra, che forse non c’era più. Scacciò quei pensieri e provò una grande nostalgia del suo caro e austero Kraken. Ci torneremo, promise al figlio, e tu crescerai lontano da queste macchine, come vogliono gli dèi.

— Si richiede un chiarimento — informò la voce artificiale. — Da dove proveniva la vittima?

Evalyth dovette inumidirsi le labbra per rispondere.

— Da Atheia. Era il tuo padrone, Donli Sairn.

— Allora c’è una possibilità di trovare la persona in questione. Verrà fatto un calcolo delle probabilità. Le interessa saperne i fondamenti?

— Sì.

— La biochimica di Atheia si è sviluppata in modo analogo a quella della Vecchia Terra. In tal modo i primi coloni non ebbero difficoltà di insediamento e ben presto aumentarono di numero tanto da stornare il rischio di mutazioni e deviazioni genetiche. Così i moderni atheiani sono ben poco differenti dagli antenati della Vecchia Terra e la loro fisiologia è nota fin nei particolari.

“Si tratta di un fenomeno verificatosi su quasi tutti i pianeti colonizzati dei quali abbiamo notizie. Cambiamenti particolari della razza umana si sono avuti solo là dove erano stati inviati dei gruppi già selezionati. Ad esempio gli abitanti di Kraken sono robusti a causa della gravità relativamente alta, la loro costituzione li difende dal freddo e la carnagione chiara corrisponde alla mancanza dei raggi ultravioletti. I primi coloni di questo pianeta erano già stati scelti in base a tali caratteristiche. Comunque queste genti potrebbero tranquillamente vivere su pianeti più simili alla terra e accoppiarsi con i loro abitanti.

“In taluni casi, invece, si sono avuti cambiamenti più rilevanti, dovuti all’influenza di popolazioni indigene o di condizioni ambientali particolari. Ci si è trovati di fronte a gruppi rimasti poco numerosi a causa delle limitate possibilità del pianeta o a causa di azioni ostili, all’epoca della caduta dell’Impero. Nel primo caso gli incidenti genetici acquisivano molta importanza; nel secondo i cambiamenti sono stati introdotti dalle radiazioni. Le mutazioni così avvenute hanno colpito soprattutto singoli processi endocrini ed enzimatici, come ad esempio la reazione dei gwydoniani alla nicotina e a determinati alcaloidi o la necessità degli ifriani di assorbire tracce di piombo. Sono proprio tali differenze a determinare la sterilità negli accoppiamenti tra abitanti di pianeti diversi.

“Nonostante l’esame di questo mondo sia stato finora superficiale… — Evalyth smise di fantasticare — …alcune cose sono chiare. Ben poche specie terrestri sono riuscite a svilupparsi. Sicuramente all’inizio ne erano state introdotte diverse, ma scomparvero quando venne meno la tecnologia necessaria alla sopravvivenza. L’uomo fu quindi costretto a cibarsi delle forme di vita indigene, per lo più prive dei principali valori nutritivi. La vitamina C, ad esempio, si trova solo nelle piante importate. Sairn aveva notato l’abitudine della gente del posto di ingoiare una notevole quantità di erba e foglie e tramite le immagini fluoroscopiche abbiamo appreso come questo tipo di alimentazione abbia modificato l’apparato digerente. Non siamo riusciti a convincerli a prelevare dei campioni di pelle, sangue o altro neppure dai morti. — Temono la magia, rifletté Evalyth, si sono ridotti a questo punto! — Abbiamo dovuto limitare i nostri studi agli animali carnivori. Comunque è risultata la quasi totale mancanza di tre aminoacidi essenziali; sicuramente questo fatto ha determinato dei cambiamenti nell’uomo a livello cellulare e subcellulare e noi siamo in grado di quantificarli.»

— Ecco i dati completi — riprese il computer. Evalyth tormentò i braccioli della sedia. — Vi sono notevoli possibilità di successo. La carne atheiana è aliena e darà un odore particolare alla pelle e all’alito, oltre che all’urina e alle feci di chi l’ha ingerita. Questo odore può essere individuato con il metodo neo-Freeholder anche a parecchi chilometri di distanza e dopo due o tre giorni. Si consiglia comunque di agire rapidamente perché le molecole in questione vengono costantemente degradate.

Scoverò l’assassino di Donli. Le tenebre l’aggredivano.

— Devo iniziare il programma di ricerca? — chiese la voce. — Lo posso fare in tre ore.

— Sì — balbettò Evalyth. — Ti prego, dammi ancora qualche suggerimento.

— Non uccidere quell’uomo. Portalo qui così la scienza se ne avvantaggerà.

È solo una macchina, cercava di convincersi Evalyth. È stata creata solo per la ricerca scientifica. Ma era stata sua e aveva dato una risposta così tipica di Donli che non riuscì più a trattenere le lacrime.

La luna sorse poco dopo il tramonto. Era quasi piena ed era enorme. Molte stelle annegarono nella sua luce mentre la foresta divenne un manto maculato nero e argento; la cima innevata del Monte Burus galleggiava irreale all’orizzonte.

Evalyth era rannicchiata sulla gravitoslitta avvolta da un vento saturo di odori e meno freddo di quanto sembrasse.

Si udiva qualcosa stridere e qualcos’altro gracchiare in risposta.

Infastidita, Evalyth fissò gli indicatori di posizione. Accidenti, Moru doveva essere lì! Non poteva essere riuscito a fuggire dalla valle mentre lei stava compiendo la sua minuziosa ricerca. Gli insetti avrebbero dovuto rintracciarlo anche da morto… a meno che non fosse sepolto a grande profondità. Ecco. Si fermò e aprì una nuova fiala.

Gli insetti fuoriuscirono tutti, come una nuvola di fumo al chiaro di luna.

Ancora niente? No! Ecco! Danzavano insieme e si dirigevano verso il basso. Regolò l’indicatore con il cuore che batteva all’impazzata. L’antenna del neurodetector puntava verso Ovest-Nord-Ovest, trentadue gradi sotto il piano orizzontale. Solo quel particolare miscuglio di molecole al quale gli insetti erano stati presensibilizzati poteva provocare tale reazione.

— Ya-a-ah — non riuscì a trattenersi. Poi però si morse le labbra fino a farne uscire il sangue. In silenzio riprese il percorso.

Si fermò a pochi chilometri di distanza in una vasta radura. Fra la vegetazione luccicavano delle pozzanghere piene di schiuma, mentre gli alberi formavano una parete massiccia. Mise i visori notturni e notò un riparo. Era un riparo di fortuna, fatto in fretta con tralci e vimini e nascosto sotto due piante enormi. Gli insetti vi erano diretti.

Portò la slitta a un metro dal suolo e si alzò. Afferrò un paralizzatore e un disintegratore.

I due figli di Moru uscirono a tentoni all’aperto, circondati dagli insetti che li rendevano quasi invisibili.

Evalyth ne rimase scossa, ma non per questo il suo odio diminuì. Dovevo immaginarlo che erano stati loro a mangiarlo. Erano degli gnomi fatti e finiti… magrissimi, con la testa grossa e il ventre gonfio, il simbolo della denutrizione. Su Kraken i ragazzi di quell’età erano alti perlomeno il doppio, ormai uomini. I piccoli corpi che aveva di fronte erano invece grotteschi.

Ben presto uscirono i genitori, ignorati dagli insetti. Evalyth riuscì a distinguere qualche parola della madre: — Che succede… cosa sono tutti quei… aiuto! — ma non distolse gli occhi da Moru.

Nel vederlo uscire zoppicante e ricurvo dal riparo le parve un enorme scarafaggio in un mucchio di rifiuti. Lo avrebbe riconosciuto in qualsiasi caso. Aveva in mano un coltello di pietra, certo quello che aveva ucciso Donli. Glielo prenderò e gli taglierò anche la mano, pianse Evalyth. Voglio che rimanga vivo il più a lungo possibile mentre lo ammazzerò e spellerò quei suoi repellenti bambini.

La moglie di Moru urlò. Aveva visto la gravitoslitta e la donna altissima ritta sulla piattaforma, scintillante alla luce della luna.

— Sono venuta a cercare te che hai ucciso il mio uomo.

La moglie di Moru si gettò davanti ai figli. Lui cercò di proteggerli tutti ma correndo inciampò con il piede malato e cadde in una pozzanghera. Mentre cercava di rialzarsi, Evalyth sparò alla donna che in silenzio si accasciò a terra.

— Fuggite — urlò Moru cercando di attaccare la slitta. Evalyth però azionò una leva e il veicolo partì all’improvviso colpendo i ragazzi dall’alto.

Moru si accostò a uno dei figli e lo strinse tra le braccia sollevando il capo. La luce della luna, impassibile, lo illuminò.

— Cosa vuoi ancora? — gridò.

Evalyth lo stordì, poi scese e li legò tutti e quattro come maiali. Mentre li trasportava a bordo li trovò più leggeri del previsto.

Cominciò a sudare, finché anche la tuta le si appiccicò addosso, poi a tremare come se avesse la febbre. Sentiva anche le orecchie ronzare. — Volevo distruggerti — disse a Moru con una voce che le parve remota e sconosciuta. Si chiese perché mai stesse parlando a quell’uomo privo di sensi e per di più nella propria lingua. — Non dovevi comportarti così. Adesso mi sono venute in mente le parole del calcolatore. I compagni di Donli hanno bisogno di te per studiarti.

“Tu rappresenti un’occasione unica. Quello che hai fatto ci permette di farvi prigionieri e nessuno di noi avrà paura di offendervi.

“Non saremo tanto crudeli. Solo qualche prelievo di cellule, dei test, all’occorrenza sarete addormentati. Non sarà doloroso, un semplice esame clinico approfondito il più possibile.

“Sarete sicuramente ben nutriti e vi guariremo le malattie che vi verranno diagnosticate. Alla fine tua moglie e i tuoi figli saranno liberati.”

Fissò quel volto orribile.

— Godo all’idea che tu, non comprendendo quello che accadrà, vivrai un’esperienza terribile. Quando tutto sarà finito insisterò per riaverti. Non possono negarmelo. Oltretutto sei stato allontanato dalla tua stessa tribù. Avrò solo il permesso di ucciderti, ma almeno questo l’otterrò.

In fretta si diresse verso Lokon per arrivare prima di non riuscire più ad accontentarsi solo di quello.

I giorni trascorsero. Senza di lui.

Solo la notte le recava sollievo: se non era stanca morta poteva sempre prendere un sonnifero. In tal modo lo sognava solo di rado, ma di giorno si deve vivere, e senza le droghe.

Fortunatamente il lavoro non mancava perché dovevano prepararsi alla partenza imminente e il personale era poco. C’erano da smantellare le apparecchiature, imballarle, trasportarle sulla nave e ordinarle nelle stive. Occorreva preparare anche la Nuova Aurora, riprogrammare e collaudare parecchi sistemi. Evalyth fungeva da meccanico, pilota di scialuppa e caposquadra di carico. In più continuava il suo compito di custodia.

Il comandante Jonafer tentò di farle osservazione: — Perché fa tutto questo, tenente? Gli indigeni sono agitati nel vedere questo via vai di robot, macchinari pesanti, riflettori che illuminano a giorno… È diventato quasi impossibile persuaderli a restare in città!

— E allora? Cosa ce ne importa? — rispose bruscamente.

— Non dobbiamo distruggerli, tenente.

— È vero, ma potrebbero essere loro a distruggere noi alla prossima occasione. Pensi a quali particolari virtù può possedere il suo corpo!

Jonafer lasciò perdere. Ma quando Evalyth rifiutò di incontrare Rogar la prima volta che tornò a terra, la costrinse a riceverlo e a essere gentile.

Il Klev entrò nel laboratorio biologico tenendo tra le mani un dono: una spada forgiata con il metallo imperiale. La accettò con una scrollata di spalle. Un museo l’avrebbe sicuramente gradita.

— Mettila a terra.

L’unica sedia era occupata da Evalyth, perciò Rogar rimase in piedi. Pareva piccolo e vecchio.

— Sono venuto per dirti che noi lokonesi gioiamo della tua vendetta.

— Non l’ho ancora ottenuta del tutto — lo corresse Evalyth.

Lo fissò con aria truce e Rogar non riuscì a sostenere quello sguardo.

— Visto che la Venuta dal cielo è riuscita a scovare coloro che cercava… saprà bene che gli abitanti di Lokon non hanno mai avuto intenzioni malvage.

Non era necessario rispondere.

Rogar giocherellò con le dita.

— Perché ve ne andate? All’inizio ci avevate garantito che sareste rimasti per molte lune e poi sarebbero sopraggiunti degli altri a insegnare e a commerciare. Noi ne eravamo felici. Non solo per i prodotti che avremmo potuto acquistare o per la promessa di porre fine alla fame, alla malattia, al pericolo e all’angoscia. Niente affatto. La nostra felicità era dovuta principalmente alle cose meravigliose che ci stavate rivelando. Il nostro piccolo mondo di colpo era diventato immenso. E invece ve ne state andando. Alle mie domande alcuni dei tuoi hanno risposto che non tornerete più. Vi abbiamo offeso, Venuta dal cielo? Come possiamo riparare?

— Non dovete più trattare i vostri simili come animali — replicò subito Evalyth.

— Ho capito… voi reputate ingiusto quello che succede nel Luogo Sacro. Ma avviene una sola volta nella vita di ogni uomo, Venuta dal cielo, ed è un dovere!

— Non è necessario.

Rogar si gettò carponi davanti a lei.

— Forse per voi è diverso — implorò. — Ma noi siamo semplicemente uomini. Se i nostri figli non conseguono la virilità, non possono procreare e l’ultimo che rimarrà in vita non avrà nessuno che gli liberi l’anima dopo la morte… — Alzò gli occhi su di lei. Indietreggiò, strisciando e gemendo, fino a essere illuminato dal sole.

Chena Darnard andò da Evalyth. Dopo aver bevuto qualcosa e aver chiacchierato un po’, l’antropologa affrontò l’argomento che le stava a cuore.

— Ho sentito che sei stata dura con il Grande Capo.

— Ma come… Oh! — si ricordò che il colloquio era stato registrato, come sempre. — Come avrei dovuto comportarmi? Baciando quel cannibale sulla bocca?

— Certo che no! — rabbrividì Chena.

— Sei stata tu la prima a firmare la richiesta della partenza!

— È vero. Però… Ero nauseata e lo sono ancora, ma… Hai già esaminato i prigionieri?

— No.

— Avresti dovuto. Avresti visto come urlano e come si spaventano quando vengono legati in laboratorio e come si abbracciano nelle loro celle.

— Non vengono mutilati o torturati, vero?

— No davvero. Ma loro ne sono convinti anche quando li assicuriamo che non faremo loro del male. Non possiamo neppure somministrare loro dei tranquillanti per non invalidare i risultati delle analisi. Ma hanno così paura di quello che non conoscono… non sono più riuscita a seguire gli esperimenti. — Lanciò un lungo sguardo a Evalyth. — Tu invece ce la faresti.

Evalyth scosse il capo.

— Non è che io ci goda. Ammazzerò l’assassino di mio marito come esige l’onore della famiglia. Gli altri vengano pure liberati, anche i suoi figli… nonostante quello che hanno mangiato. — Si servì abbondantemente il liquore e lo bevve in un sorso solo. Bruciava.

— Ti prego, non farlo — disse Chena. — Donli non avrebbe voluto. Ricordo che citava sempre un antico proverbio. Venivamo dalla stessa città, lo sai, perciò lo conosco… lo conoscevo da molto tempo. Gliel’ho sentito ripetere più volte: «Non sconfiggo forse i miei nemici se me li faccio amici?»

— Ma quando si tratta di un insetto velenoso te lo fai amico o lo schiacci?

— Ricordati che un uomo agisce sempre secondo le regole della società in cui vive. — Chena si infervorò. Afferrò la mano di Evalyth, che restò impassibile. — Che cosa significa un uomo solo se paragonato all’insieme di coloro che gli stanno intorno e di coloro che sono già morti? Il cannibalismo non sopravviverebbe in tutte queste genti così diverse fra di loro se non fosse un elemento fondamentale della cultura dell’intera razza.

Evalyth sentì la collera divampare.

— Ma che specie di razza è, allora? Non ho il diritto di agire anch’io come esige la mia cultura? Tornerò nel mio paese e crescerò il figlio di Donli lontano da voi, codardi. Non dovrà vergognarsi per aver avuto una madre troppo debole per fare giustizia. E ora scusami ma domani mi devo alzare presto per caricare l’astronave.

Evalyth rimase occupata tutto il giorno seguente. Si avviò a casa solo al tramonto, stanca ma un pochino più serena. Si ritrovò a pensare: Sono giovane e un giorno troverò un altro uomo. Comunque ti amerò sempre, caro.

Camminando sollevava la polvere. Metà del complesso era già stato smontato per cui parte del personale dormiva a bordo della Nuova Aurora.

La sera era tranquilla, il cielo giallo. Le baracche erano quasi deserte e Lokon taceva come ormai accadeva da tempo. Il rumore dei suoi passi sui gradini che portavano all’ufficio di Jonafer la rianimò.

La stava aspettando, seduto alla scrivania.

— Compito eseguito senza incidenti — riferì Evalyth.

— Si accomodi — la invitò.

Evalyth obbedì in silenzio. Infine il comandante disse: — Gli scienziati hanno terminato gli esami ai prigionieri.

Incredibilmente lei ci rimase male.

— Di già?… Cioè… Non è che abbiamo molte apparecchiature qui, e poi manca il personale specializzato, soprattutto adesso che Donli… Un esame accurato, utile… non richiederebbe più tempo?

— Certo — ammise Jonafer. — Non abbiamo trovato niente di rilevante. Se il gruppo di Uden avesse avuto idee precise, forse avremmo scoperto qualcosa di più. Si sarebbero potute formulare delle ipotesi e così arrivare a conoscere meglio questi organismi. È vero. Solo Donli Sairn avrebbe potuto farlo. Ma senza di lui e senza la collaborazione degli stessi prigionieri, ignoranti e terrorizzati, abbiamo dovuto procedere quasi alla cieca. Abbiamo individuato delle particolarità nei processi digestivi… niente a che vedere con l’ecologia dell’ambiente.

— Ma allora perché vi siete fermati? Ci resta ancora una settimana.

— L’ho deciso io dopo aver visto quello che succedeva. Uden mi ha detto che si sarebbe interrotto comunque.

— Cosa?… — irata Evalyth sollevò il capo. — Si riferisce al dolore psicologico?

— Sì. Ho visto quella donna legata a un tavolo, ricoperta di fili collegati a macchinari che ronzavano e lampeggiavano. Lei non vedeva niente, resa cieca dalla paura. Forse credeva che le levassimo l’anima, oppure anche peggio. Non capiva. I suoi figli, in una cella, si tenevano per mano non avendo altro a cui rivolgersi. Sono nel bel mezzo dello sviluppo: cosa ne sarà di loro? Moru giaceva a terra lì accanto, drogato. Aveva cercato di suicidarsi catapultandosi con la testa contro il muro. Uden mi ha detto che non sono riusciti a farli collaborare. Naturale. Quei prigionieri sanno che li odiamo a morte.

Si interruppe un istante, poi riprese: — Tutto ha un limite, tenente, anche la scienza e le punizioni soprattutto quando non si prospettano grandi risultati. Ho dato ordine di smettere gli esperimenti. Domani libereremo i ragazzi e la madre.

— E perché non oggi? — chiese Evalyth pur sapendo già la risposta.

— Perché speravo che lei mi permettesse di liberare anche l’uomo.

— No.

— In nome di Dio…

— Del suo Dio — guardò altrove. — Non mi faccia piangere. Vorrei tanto non doverlo uccidere, ma Donli è stato maciullato come un maiale. Ecco ciò che più mi ripugna del cannibalismo, che rende un uomo simile a un maiale. So perfettamente che Donli non tornerà a vivere per questo, ma è come pareggiare i conti rendendo anche il cannibale simile a un maiale.

— Capisco. — Jonafer si mise a guardare fuori dalla finestra. Il suo viso, illuminato dalla luce del tramonto, era come una maschera d’ottone. — Bene — concluse con freddezza. — La Carta dell’Alleanza e lo Statuto non mi danno scelta. Però non vogliamo cerimonie macabre, né inutili vanaglorie. Avverrà tutto nel silenzio, di notte, nel suo alloggio. Farà in fretta e assisterà alla cremazione.

Le mani di Evalyth erano umide di sudore. Era la prima volta che uccideva un uomo indifeso. Ma lui…

— Va bene, comandante — disse.

— Allora, tenente, può raggiungere gli altri in mensa. Non lo dica a nessuno. Avverrà alle ore… — Jonafer consultò l’orologio — …ventisei.

Evalyth sentì un groppo in gola.

— Ma non è un po’ tardi?

— L’ho fatto apposta — confermò Jonafer — in modo che tutti gli altri dormano… e così magari lei avrà tempo di riflettere.

— No! — Evalyth si alzò di scatto e si diresse verso la porta.

La raggiunse la voce del comandante: — Anche Donli gliel’avrebbe chiesto.

La notte invase la stanza ma Evalyth non si alzò per accendere la luce. La sedia preferita di Donli pareva non volesse lasciarla andare.

Ricordò di avere ancora dei tranquillanti. Una sola compressa le avrebbe facilitato il tutto. Probabilmente anche Moru sarebbe stato stordito dai farmaci prima di essere condotto da lei.

In ogni caso non sarebbe stato giusto. — Perché?

Non aveva più le idee chiare.

Solo Moru poteva spiegare per quale motivo aveva ucciso Donli che si fidava di lui. Evalyth si trovò a sorridere nel buio. La superstizione lo aveva spinto a commettere quell’atto orribile e ora aveva visto i figli mostrare le prime avvisaglie della virilità. Doveva essere soddisfatto.

Le pareva strano che lo sviluppo fosse iniziato proprio in quelle circostanze di grande tensione. Le sarebbe parso più logico un ritardo, anche se bisognava ammettere che solo lì in prigionia quei ragazzi avevano avuto un’alimentazione adeguata e appropriate cure mediche. Però era proprio strano. Neanche giovani normali avrebbero iniziato lo sviluppo in un così breve lasso di tempo. Donli si sarebbe appassionato a quel caso: se lo vedeva davanti, sorridente, mentre si passava una mano sulla fronte, dicendo: — Dev’esserci qualcosa di strano; mi piacerebbe scoprirlo. — Evalyth se lo immaginò di fronte a Uden con una birra e una sigaretta.

— Ma come? tu sei solo un biologo e la fisiologia umana non fa parte della tua specializzazione — avrebbe risposto Uden.

— Uhm… in parte. Il mio incarico consiste nello studiare l’adattamento delle specie terrestri ai nuovi pianeti. E certamente tra queste specie è compreso anche l’uomo.

Ma Donli era morto e nessuno era in grado di sostituirlo… Si distolse da quell’idea e dal pensiero di quello che l’aspettava.

Cercò di convincersi che almeno un membro del gruppo di Uden aveva certamente cercato di usare il metodo di Donli. Era fuori discussione che lui, se fosse stato ancora vivo, avrebbe trovato la strada per scoprire importanti risposte… ammesso che ce ne fossero. Lo aveva detto anche Jonafer. Uden e gli altri erano meno intuitivi, banali. A loro non era neppure venuto in mente di controllare il calcolatore di Donli alla ricerca di notizie pertinenti. Avevano affrontato la questione solo dal punto di vista medico e in più il terrore dei prigionieri li aveva dissuasi dal continuare le ricerche. Donli si sarebbe comportato in modo del tutto diverso.

Improvvisamente l’oscurità aumentò. Evalyth faceva fatica a respirare, oppressa dal caldo e dal silenzio. L’attesa si protraeva troppo. Se non faceva qualcosa non sarebbe più stata in grado di premere il grilletto.

Barcollando si recò nel laboratorio. Il fluoropannello la accecò per un istante mentre si avvicinava al calcolatore di Donli: — Attivazione.

L’unico segno di vita era la luce della spia gialla. Le finestre erano completamente buie e la luna e le stelle erano state cancellate dalle nuvole.

— Quali… — gracchiò. Fu invasa da un’ondata di amarezza: Controllati, stupida, o non sarai degna di tuo figlio! Riformulò la domanda: — C’è una spiegazione biologica per il comportamento degli indigeni di questa terra?

— Questi argomenti sono trattati meglio dall’antropologia e psicologia culturale — rispose la voce.

— Può essere, o forse no. — Cercò di fissare alcune fra le migliaia di idee che le affollavano la mente. — Può darsi che gli abitanti siano regrediti, che non siano del tutto umani? — Voglio che Moru non sia umano. — Analizza tutti i dati a disposizione, comprese le osservazioni cliniche eseguite su quattro soggetti nei giorni scorsi. Confrontali con tutte le informazioni terrestri che possediamo e riporta tutte le teorie razionali… — esitò — …volevo dire possibili, che non siano in contraddizione con l’accaduto. Le ipotesi ragionevoli ormai sono esaurite.

Il calcolatore ronzò. A occhi chiusi Evalyth si aggrappò al bordo della scrivania. Donli aiutami, ti prego.

Dal fondo dell’eternità le arrivò la risposta: — L’unico elemento difficile da spiegare è il rito cannibalico della pubertà. Il calcolatore antropologico ritiene che potrebbe essersi originato come sacrificio umano, ma evidenzia alcuni elementi illogici.

“Sulla Vecchia Terra i sacrifici umani erano presenti nelle società agricole, strettamente dipendenti dalla fertilità e dalle condizioni atmosferiche. Col tempo, però, questi riti si rivelarono sfavorevoli, come dimostrano gli Aztechi. Lokon ha cercato di ridurre tali conseguenze negative razionalizzando questa consuetudine e inserendola nel suo sistema schiavistico. Per gli abitanti dei pianori, invece, è una costante fonte di pericolo e dirotta continuamente risorse necessarie alla sopravvivenza. Non è razionale che questa consuetudine permanga in tutte le tribù, eppure è così, perciò deve esserci dell’altro, che non si riesce a scoprire.

“Mentre i sistemi per procacciarsi le vittime sono molteplici, le esigenze di fondo sono sempre le stesse. I lokonesi ci hanno detto che il corpo di un adulto serve per la maturazione di quattro giovani. Chi ha ucciso Donli Sairn non era in grado di portarsi via il cadavere e ciò che ne ha estratto è significativo.

“A questo punto si può presumere la presenza nell’uomo di questo pianeta di un fenomeno ditteroide sconosciuto altrove ma possibile. Esso sarebbe dovuto alla modificazione del cromosoma Y. È facile verificare tale ipotesi.”

Evalyth si sentì ribollire il sangue nelle vene.

— Di cosa stai parlando?

— Il suddetto fenomeno è già stato riscontrato fra gli animali inferiori di diversi mondi. Non è molto conosciuto perché assai limitato. Prende il nome da una mosca del letame della Vecchia Terra.

Un lampo squarciò le tenebre.

— Ah! Sì! La mosca del letame!

Il calcolatore continuò la sua spiegazione.

Jonafer sopraggiunse con Moru, che aveva le mani legate dietro la schiena. Nonostante questo e nonostante le ferite che si era procurato da solo, Moru procedeva sicuro. La luna, squarciate le nubi, splendeva come il ghiaccio.

Evalyth attendeva davanti alla porta e intanto osservava gli edifici che si allargavano fino alla palizzata. Li sovrastava una gru che pareva una forca. L’aria, ormai autunnale, stava diventando fredda e si era levato un venticello che uggiolava dietro i mulinelli di polvere generati dal suolo. I passi di Jonafer echeggiavano nel silenzio.

Si fermò di fronte a lei e Moru fece altrettanto.

— Allora, cos’hanno trovato? — chiese Evalyth.

— Uden si è messo al lavoro dopo che vi siete parlati. L’analisi si è rivelata più complessa del previsto e… sarebbe stato compito di Donli, non di Uden, che da solo non ci sarebbe mai arrivato. Insomma, è vero.

— Cosa?

Moru aspettava, mentre gli altri due parlavano in un linguaggio a lui sconosciuto.

— Non sono un medico — disse Jonafer con tono volutamente incolore — ma da quanto ho capito, questa modificazione del cromosoma Y fa sì che le gonadi non riescano a maturare da sole. Affinché ciò avvenga, è necessaria una dose extra di ormoni… Uden ha citato il testosterone e l’androsterone. Non ricordo altro. Questo per loro è l’unico modo di evitare l’eunuchismo. Secondo Uden i coloni sopravvissuti ai bombardamenti, prima della Lunga Notte, furono assai pochi e così poveri da dover ricorrere al cannibalismo per andare avanti, almeno per due generazioni. In tali circostanze quella che avrebbe potuto essere solo una mutazione temporanea si perpetuò e si diffuse in tutti i discendenti.

Evalyth annuì.

— Comprendo.

— Penso che lei capisca cosa voglia dire tutto questo. Non sarà difficile porre fine a questa usanza. Basterà offrire agli indigeni un nuovo Cibo Sacro, assai migliore, sotto forma di qualche pillola. Si potranno poi reinserire gli animali in grado di fornire gli elementi necessari e così, col tempo, i nostri genetisti rimedieranno all’anomalia del cromosoma Y.

Jonafer non riuscì più a mantenere l’indifferenza che si era imposto. Aprì la bocca, appena visibile nell’oscurità, e disse con voce roca: — Dovrei ringraziarla per aver salvato un’intera stirpe, ma non riesco. Faccia in fretta ciò che deve, per favore.

Evalyth si mise davanti a Moru. Il selvaggio tremava ma non distolse lo sguardo.

— Non è drogato — esclamò allibita.

— No — rispose Jonafer — non ce n’era motivo. — Sputò.

— Bene, sono d’accordo. — Poi si rivolse a Moru nella sua lingua. — Hai ucciso il mio uomo. È giusto che ora io ammazzi te?

— Sì — rispose con calma. — Ti sono grato per aver concesso la libertà alla mia famiglia. — Esitò. — So che potete conservare il cibo per anni. Mi piacerebbe se tu tenessi in serbo il mio corpo per i tuoi figli.

— A mio figlio non servirà. E neppure ai tuoi.

Moru si eccitò.

— Vuoi sapere perché ho ucciso il tuo uomo? È vero, era buono con me ed era simile a un dio. Ma io sono zoppo e non potevo procurarmi altrimenti il Cibo Sacro per i miei figli. Non potevo neanche attendere ancora, perché sarebbe stato troppo tardi e non sarebbero più diventati uomini.

— Donli mi aveva spiegato cosa vuol dire essere uomo.

Si rivolse a Jonafer nella lingua del marito: — Ho già avuto la mia vendetta.

— Come? — chiese il comandante senza capire.

— Sì, quando ho scoperto il fenomeno ditteroide. Avrei potuto tenerlo per me. Moru, i suoi figli e tutta la sua gente sarebbero rimasti selvaggina da preda forse per sempre. Ho assaporato la mia vendetta per più di mezz’ora.

— E poi?

— A quel punto ero soddisfatta e ho potuto pensare alla giustizia.

Sfoderò un coltello. Moru si raddrizzò. Evalyth gli passò dietro e tagliò le corde che lo imprigionavano.

— Torna a casa — gli disse. — E non dimenticarti di lui.