Chiamò un fattorino e gli consegnò i rapporti con l'istruzione di portarli di corsa all'astronave postale che sarebbe partita fra breve. Poi telefonò a Barr Maxon.

«Rapporto sull'affare Deem, Reggente,» disse. «Mi spiace, ma siamo ancora in alto mare. Non è stato visto nessuno allontanarsi dal negozio. Tutti i vicini sono stati interrogati. Oggi parlerò con tutti i suoi amici.»

Il Reggente Mason scosse la testa.

«Usi tutti i jet, tenente,» gli rispose. «Questo caso deve essere risolto. Un delitto in questo momento e in questa epoca è già abbastanza brutto, ma un delitto irrisolto è impensabile. Sarebbe solo un incoraggiamento al crimine.»

Il tenente Caquer annuì serio. Anche lui aveva pensato la stessa cosa. Bisogna preoccuparsi delle implicazioni sociali del delitto... E anche del suo posto di lavoro. Un tenente di polizia che lasciava impunito un delitto nel suo distretto poteva considerarsi finito per sempre.

Scomparsa l'immagine del Reggente dal visifono, Caquer prese del cassetto della scrivania la lista degli amici di Deem e cominciò a studiarla per decidere la sequenza delle visite da fare.

Accanto al nome di Perry Peters scrisse il numero «1», questo per due ragioni. La prima, che Peters abitava solo a poche porte di distanza da lui, la seconda per il fatto che conosceva Perry meglio degli altri nomi riportati sulla lista, fatta forse eccezione per il professore Jan Gordon. Questa anzi sarebbe stata l'ultima visita, perché più tardi sarebbe stato più facile trovare il professore sofferente ormai sveglio... E sarebbe stato anche più facile trovare la figlia Jane in casa.

Perry Peters fu contento di vedere Caquer e indovinò immediatamente lo scopo della visita.

«Salve, Shylock.»

«Uh?» fece Rod.

«Shylock... il grande investigatore che si trova per la prima volta nella sua carriera di poliziotto di fronte a un mistero. O l'hai già risolto, Rod?»

«Tu vuoi dire Sherlock, idiota. Sherlock Holmes. No, io non ho risolto ancora un bel niente, se proprio vuoi saperlo. Senti, Perry, dimmi tutto quello che sai su Deem. Tu lo conoscevi piuttosto bene, vero?»

Perry Peters si strofinò il mento pensoso e si sedette sul tavolo di lavoro. Era così alto e magro che poteva semplicemente sedervicisi sopra invece di saltarci su.

«Willem era uno strano nanerottolo.» rispose. «Alla maggior parte della gente non piaceva, perché era un tipo sarcastico e aveva delle idee sballate sulla politica. Io a dire il vero non so se almeno metà delle volte avesse ragione, comunque giocava molto bene a scacchi.»

«Era il suo unico hobby?»

«No. Gli piaceva costruire delle cose, dei piccoli congegni. Alcuni erano ingegnosi, anche se li faceva per divertimento e non ha mai cercato di brevettarli, o comunque di guadagnarci sopra.»

«Parli di invenzioni, Perry? Del tuo genere?»

«Be', non proprio invenzioni, congegni, piuttosto, direi, Rod. Robetta spicciola per la maggior parte, era più bravo con i lavori di fine artigianato che con le idee originali. E, come ho detto, per lui era solo un hobby.»

«Non ti ha mai aiutato con qualcuna delle tue invenzioni?» chiese Caquer.

«Certo, di tanto in tanto. Ma anche in questo caso non era tanto l'idea che ci metteva, quanto l'abilità nel costruire le parti più difficili.» Perry Peters indicò il negozio con un gesto circolare della mano. «I miei attrezzi qui servono per dei lavori relativamente grezzi. Niente sotto i millesimi. Ma Willem ha... aveva un piccolo tornio che era un gioiellino. Taglia qualsiasi cosa e ha una precisione al cinquantamillesimo.»

«Che nemici aveva, Perry?»

«Che io sappia, nessuno. Davvero, Rod. A molte persone non era simpatico, ma nulla di più di una semplice antipatia. Sai cosa voglio dire, quel tipo di antipatie che li spinge a servirsi di un altro negozio di libri e bobine, ma non tale da indurre qualcuno a uccidere.»

«E, da quanto sai tu, chi potrebbe beneficiare della sua morte?»

«Um... nessuno, direi,» rispose Peters, pensieroso. «Credo che il suo erede sia un nipote di Venere. Una volta l'ho conosciuto ed era un tipo simpatico. Ma l'eredità non sarà niente di entusiasmante. Penso che arriverà al massimo a qualche migliaio di crediti.»

«Ecco qui un elenco dei suoi amici, Perry.» Caquer passò a Peter un foglietto. «Guardalo bene, per favore, e vedi se puoi aggiungere qualcuno o se hai qualcosa da dire in merito.»

L'inventore studiò la lista, poi gliela restituì.

«Sono tutti qui, direi,» rispose a Caquer. «Ce ne sono anche un paio che non sapevo conoscesse tanto bene da meritare di essere inclusi nella lista. E hai qui anche i suoi migliori clienti, quelli che si servivano spesso e abbondantemente da lui.»

Il tenente Caquer si infilò l'elenco in tasca.

«A cosa stai lavorando adesso?» chiese a Peters.

«A qualcosa con cui mi sono impantanato, temo,» rispose l'inventore. «Io avevo bisogno dell'aiuto di Deem... o almeno avevo bisogno di utilizzare il suo tornio per andare avanti.» Dal banco prese un paio degli occhialoni più stravaganti che Rod Caquer avesse mai visto. Le lenti erano a forma di archi di cerchi invece che di cerchi completi ed erano affrancate in un nastro di plastica deformabile ovviamente studiata per aderire strettamente sul viso sopra e sotto le lenti. In alto al centro, dove l'apparecchio doveva poggiare sulla fronte di chi lo portava, c'era uno scatoline cilindrico dal diametro di quattro centimetri.

«A cosa diavolo servono?» indagò Caquer.

«Si portano nelle miniere di radite. Le emanazioni di quel minerale, allo stato grezzo, distruggono immediatamente qualsiasi sostanza trasparente finora scoperta o creata. Perfino il quarzo. Ed è anche dannosa agli occhi nudi. I minatori sono costretti a lavorare ad occhi bendati, per così dire, servendosi solo del senso del tatto.»

Rod Caquer guardò gli occhialoni, incuriosito.

«E come mai la strana forma di queste lenti impedisce che le emanazioni le danneggino, Perry?» chiese.

«Quella parte lì sopra è un minuscolo motore che aziona un paio di tergilenti appositamente trattati. Assomigliano in tutto e per tutto a un normale tergicristallo ed è per questo che le lenti hanno questa forma ad arco.»

«Oh,» fece Caquer. «Vuoi dire che i tergilenti sono assorbenti e contengono un liquido speciale che protegge il vetro?»

«Sì, solo che si tratta di quarzo invece che di vetro. E viene protetto solo per una frazione di secondo. Questi tergilenti sono velocissimi, vanno così forte che non puoi neanche vederli quando porti gli occhiali. I bracci sono lunghi la metà degli archi e chi indossa gli occhiali può vedere nebulosamente solo da una frazione di lente per volta, ma anche se male, può vederci, e questo è un miglioramento del mille per cento da quando si lavora con la radite.»

«Ottimo, Perry,» disse Caquer. «E si può rimediare alla nebulosità servendosi di luci ultrabrillanti. Li hai già provati questi occhiali?»

«Sì e funzionano. Il guasto sta nelle bacchette; l'attrito le riscalda talmente da provocarne una dilatazione con conseguente inceppamento dopo neanche un minuto di funzionamento. Bisogna che ci lavori sopra col tornio di Deem... o con un apparecchio simile. Pensi di potermi autorizzare ad usarlo? Anche solo per un giorno, magari.»

«Non vedo perché no,» rispose Caquer. «Parlerò con la persona che il Reggente nominerà esecutore testamentario e ti farò avere l'autorizzazione. Poi potrai magari comperare il tornio dall'erede. O il nipote si interessa anche lui di queste cose?»

Perry Peters scosse la testa. «No, quello non saprebbe distinguere un tornio da una pressa. Mi faresti davvero una gentilezza, Rod, se potessi farmi avere quell'autorizzazione.»

Caquer si era già voltato per andarsene, quando Perry Peters lo fermò.

«Un momento,» disse Peter, poi fece una pausa, a disagio.

«Forse ti tenevo nascosto una cosa, Rod,» disse alla fine l'inventore. «Io so una cosa che potrebbe avere un collegamento con la morte di Willem, anche se personalmente non vedo come. Non l'avrei mai rivelata, solo che adesso è morto e non gli potrà più fare del danno.»

«Di che si tratta, Perry?»

«Di libri politici illegali. Aveva un piccolo giro sottobanco. Vendeva libri che erano all'indice... sai cosa voglio dire.»

Caquer emise un fischio leggero. «Non sapevo che li stampassero ancora, dopo che il consiglio ha decretato delle pene così severe al riguardo... fiuu!»

«La gente è umana, Rod. Vuole ancora sapere le cose che non dovrebbe sapere... se non altro per scoprire perché è proibito!»

«Libri dell'Indice Grigio o Nero, Perry?»

Questa volta l'inventore apparve perplesso.

«Non capisco. Che differenza c'è?»

«I libri riportati sull'Indice ufficiale,» spiegò Caquer, «si dividono in due gruppi. Quelli veramente pericolosi sono sull'Indice Nero. Ci sono pene severe per chi ne possiede uno e c'è la pena di morte per chi lo scrive o lo stampa. Quelli meno pericolosi sono sull'Indice Grigio, lo chiamano così.»

«Non saprei proprio dirti quali sono quelli che vendeva sotto banco Willem. Be', detto tra noi ne ho letti un paio che mi aveva prestato una volta Willem e mi sono parsi piuttosto noiosi. Trattavano di teorie politiche non ortodosse.»

«Allora dovevano appartenere all'Indice Grigio.» Il tenente Caquer parve sollevato. «La roba teorica è tutta sull'Indice Grigio. I libri sull'Indice Nero sono quelli che contengono informazioni pratiche pericolose.»

«Per esempio?» L'inventore fissava attentamente Caquer.

«Istruzioni su come fare cose messe al bando dalla legge,» spiegò Caquer. «Come il Lethite, per esempio. Il Lethite è un gas velenoso tremendamente pericoloso. Ne basta qualche chilo per annientare un'intera città, così il consiglio ne ha bandito la fabbricazione e i libri che insegnano alla gente come fabbricarselo devono andare sull'Indice Nero. Ti immagini, se uh imbecille qualunque si impadronisse di un libro del genere, potrebbe distruggere tutta la città dove abita.»

«Ma perché dovrebbe farlo?»

«Potrebbe essere un tizio dalla mente distorta, avere dei rancori contro qualcuno,» spiegò Caquer. «O magari potrebbe volerlo usare su scala ridotta a scopo criminale. O... per la Terra!, potrebbe essere il capo di un governo con delle mire su degli stati vicini. Conoscenze di quel genere potrebbero sconvolgere la pace del sistema solare.»

Perry Peters annuì pensieroso. «Capisco il tuo punto di vista,» disse. «Be', continuo a non capire cosa potrebbe c'entrare questo con l'omicidio, ma ho pensato che era meglio informarti di questa attività collaterale di Willem. Probabilmente vorrai controllare nel suo magazzino adesso, prima che qualcun altro rilevi il negozio e lo riapra.»

«Lo faremo,» disse Caquer. «Grazie, Perry. Se non ti spiace mi servirò del tuo telefono per fare iniziare subito il controllo. Se ci sono dei libri dell'Indice Nero, provvederemo subito a sequestrarli.»

Quando la sua segretaria apparve sullo schermo, gli sembrò che fosse contemporaneamente spaventata e sollevata di vederlo.

«Signor Caquer,» gli disse. «Ho cercato di raggiungerla. È successo qualcosa di terribile. Un altro morto.»

«Un nuovo omicidio?» Caquer si sentì mancare il fiato.

«Nessuno sa di che si tratti,» rispose la segretaria. «Una dozzina di persone l'hanno visto buttarsi giù da una finestra a solo sette metri di altezza. E questa gravità non avrebbe neanche potuto ucciderlo, ma quando siamo arrivati noi, l'uomo era morto. E quattro di coloro che l'hanno visto lo conoscevano. Ma è...»

«Accidenti, per la Terra!, chi è?»

«Io non... tenente Caquer, tutti e quattro sostengono che si trattava di Willem Deem!»

 

IV - Regola della mano destra

 

Con una sensazione d'irrealtà e d'incubo, il tenente Rod Caquer osservò da sopra la spalla del Medico Capo il corpo che giaceva già sulla barella degli uomini del Servizio Sanitario in impaziente attesa.

«Meglio sbrigarsi, dottore,» disse uno di loro. «Non durerà ancora per molto e ci metteremo cinque minuti ad arrivare.»

Il dottor Skidder fece un cenno di impazienza con la testa senza sollevare gli occhi e continuò il suo esame. «Neanche un segno, Rod,» disse alla fine. «Nessuna traccia di veleno. Nessuna traccia di niente. È semplicemente morto.»

«La morte potrebbe essere stata causata dalla caduta?» chiese Caquer.

«Non c'è neppure un livido per la caduta. L'unico verdetto che possa dare io è collasso cardiaco. Okay, ragazzi, potete portarlo via.»

«Ha finito anche lei, tenente?»

«Sì,» rispose Caquer. «Andate pure. Skidder, quale di loro era Willem Deem?»

Gli occhi del medico seguirono il fagotto bianco che gli uomini del Servizio Sanitario portavano verso il furgone. Si strinse nelle spalle con un gesto d'impotenza.

«Tenente, questo problema è affar suo, penso,» gli rispose. «Tutto quello che posso fare io è certificare la causa della morte.»

«Ma non ha assolutamente senso,» brontolò Caquer. «La città del Settore Tre non è tanto grande da permettergli di condurre una doppia vita senza che la gente lo sappia. Ma uno dei due cadaveri doveva essere un doppione. In via non ufficiale, quale dei due a lei sembrava il Deem originale?»

Il dottor Skidder scosse la testa, truce.

«Willem Deem aveva sul naso un porro di forma del tutto particolare,» disse. «E tutti e due i cadaveri l'avevano, Rod. E nessuno dei due porri era artificiale o creato col trucco. Su questo sono disposto a giocarmi la mia reputazione professionale. Ma torni in ufficio con me e le dirò quale dei due era il vero Willem Deem.»

«Uh? E come?»

«Al dipartimento delle imposte hanno l'impronta del suo pollice, come quelle di chiunque altro. E su Callisto si prendono sempre le impronte di un cadavere, dal momento che occorre distruggerlo così rapidamente.»

«Allora avete le impronte dei pollici di entrambi i cadaveri?» indagò Caquer.

«Naturalmente. Le ho prese prima che arrivasse lei, tutte e due le volte. Ho quelle di Willem, voglio dire quelle dell'altro cadavere, nel mio ufficio. Anzi, lei vada a prendere l'impronta dall'ufficio imposte e poi incontriamoci nel mio ufficio.»

Caquer sospirò di sollievo. Se non altro si sarebbe chiarito un punto, quello sull'identità dei cadaveri.

E in quello stato quasi beato di mente rimase fino a un'ora dopo quando confrontò col dottor Skidder le tre impronte. Quella che Rod Caquer aveva preso dall'ufficio imposte e quelle dei due cadaveri.

Tutte e tre erano assolutamente identiche.

«Uhm,» disse Caquer. «Lei è sicuro di non avere fatto confusione con quelle impronte, dottor Skidder?»

«E come avrei potuto? Io ne ho rilevata solo una da ogni cadavere, Rod. E anche se le avessi mescolate adesso, il risultato sarebbe lo stesso. Le tre impronte sono identiche.»

«Ma non è possibile.»

Skidder si strinse nelle spalle.

«Penso che dovremmo riferire la faccenda direttamente al Reggente,» disse. «Gli telefonerò e gli chiederò un'udienza. D'accordo?»

Mezz'ora dopo stava riferendo l'intera storia al Reggente Barr Maxon, col dottor Skidder che confermava i punti principali. Vista l'espressione del viso del Reggente, il tenente Caquer fu ben felice che ci fosse il medico a confermare le sue dichiarazioni.

«Conviene,» chiese Maxon, «che questa è una faccenda da rimettere nelle mani del Coordinatore di Settore e che occorre fare intervenire subito un investigatore speciale?»

Sia pure con riluttanza, Caquer annuì. «Mi secca dover ammettere di non essere all'altezza, Reggente, o almeno di non sembrarlo,» disse Caquer. «Ma questo non è un delitto normale. Qualunque cosa succeda, è una faccenda ben più grande di me. E forse dietro tutto c'è qualcosa di ben più sinistro di un semplice delitto.»

«Ha ragione, tenente. Farò in modo che dal quartier generale parta oggi stesso un esperto qualificato che si metterà in contatto con lei.»

«Reggente,» chiese Caquer, «è mai stata inventata una macchina o un processo che possa, uh, duplicare un corpo umano con o senza il trasporto della mente?»

Maxon sembrò perplesso di fronte a quella domanda.

«Lei pensa che Deem possa aver giocato con qualcosa che alla fine gli si è rivoltata contro. No, per quanto ne sappia io, una scoperta del genere non è mai stata fatta. Nessuno ha mai duplicato neanche gli oggetti inanimati, fatta eccezione per le imitazioni fabbricate normalmente. Lei ha mai sentito una cosa del genere, Skidder?»

«No,» rispose il Medico Capo. «Non credo che neanche il suo amico Perry Peters potrebbe riuscirci, Rod.»

Dall'ufficio del Reggente Maxon, Caquer andò al negozio di Deem, dove trovò Brager, il quale lo aiutò a perquisire accuratamente il posto. Fu un lavoro lungo e laborioso perché fu necessario esaminare minuziosamente ogni libro e ogni bobina.

Caquer sapeva bene che gli stampatori di libri proibiti erano molto bravi a camuffare i loro prodotti. Di solito questi libri illegali avevano la copertina e il frontespizio, spesso addirittura i capitoli iniziali, di qualche popolare opera di narrativa e anche le bobine di proiezione erano camuffate allo stesso modo.

Quando ebbero finito erano già cadute le tenebre, rotte solo dal bagliore di Giove, ma Rod Caquer, sapeva che avevano fatto un lavoro accurato. In tutto il negozio, però, non era saltato fuori neanche un libro all'Indice e anche tutte le bobine erano state passate al proiettore.

Altri uomini, agli ordini di Rod Caquer, avevano perquisito l'appartamento di Deem con altrettanta pignoleria. Ma quando telefonò là, ricevette un altro rapporto assolutamente negativo.

«Neanche un libello venusiano,» disse l'uomo a capo della squadra nell'appartamento, con un tono quasi spiaciuto nella voce.

«Per caso, avete trovato un tornio, un tornio piccolo per lavori di precisione?» chiese Rod.

«Um... no. Non abbiamo visto nulla del genere. Una delle stanze era un laboratorio, ma non c'era nessun tornio. È importante?»

Caquer emise un grugnito, senza sbilanciarsi. Cos'era un mistero in più, e per di più di scarsa rilevanza, in un caso simile?»

«Bene, tenente,» disse Brager, quando lo schermo si spense. «Che facciamo adesso?»

Caquer sospirò.

«Lei può smontare, Brager,» disse. «Ma prima stabilisca dei turni di sorveglianza qui e nell'appartamento. Io rimarrò qui finché arriverà chi mi invia lei.»

Quando Brager se ne fu andato, Caquer si sprofondò stancamente nella sedia più vicina. Si sentiva fisicamente distrutto e gli pareva di avere la mente inceppata. I suoi occhi fecero il giro delle scansie bene ordinate del negozio e tutto quell'ordine parve opprimerlo.

Se solo ci fosse stato qualche indizio. Wilder Williams non si era mai trovato di fronte a un caso come questo in cui gli unici indizi erano due cadaveri identici, uno dei quali era stato ucciso in cinque modi diversi e l'altro non aveva neppure un segno di violenza. Che pasticcio, e adesso cosa poteva fare?

Be', lui aveva ancora l'elenco delle persone da interrogare e stasera aveva ancora tempo di vederne una.

Doveva tornare da Perry Peters e vedere se l'inventore sapeva spiegargli la scomparsa del tornio. Forse lui sarebbe riuscito a formulare qualche ipotesi. Ma, del resto, cosa poteva c'entrare un tornio con un pasticcio simile? Non si poteva duplicare un cadavere con un tornio.

O doveva andare dal Professor Gordon? Decise di far questo.

Chiamò l'appartamento di Gordon al visifono e sullo schermo comparve Jane.

«Come sta papà?» chiese Caquer a Jane. «È in grado di ricevermi e parlare per un po' con me stasera?»

«Oh, sì,» rispose la ragazza. «Si sente molto meglio adesso e pensa che domani tornerà a fare lezione. Ma se devi venire qui, non fare tardi, Rod. Hai un'aria distrutta; che ti succede?»

«Niente eccetto che mi sento impazzire. Ma penso di star bene.»

«Hai l'aria tirata e sembri affamato. Quando hai mangiato l'ultima volta?»

Caquer spalancò tanto d'occhi. «Per la Terra! Mi sono completamente dimenticato del mangiare. Ho dormito fino a tardi e ho perfino saltato la colazione!»

Jane Gordon scoppiò in una risata.

«Scioccone! Be', corri qui. Quando arriverai troverai qualcosa di pronto.»

«Ma...»

«Niente ma. Quando puoi venire?»

Un minuto dopo aver spento il visifono, il tenente Caquer andò a rispondere alla porta quando sentì battervi sopra.

L'aprì. «Oh, salve Reese,» disse. «L'ha mandata Brager?»

Il poliziotto annuì.

«Ha detto che dovevo rimanere qui nel caso succedesse qualcosa. Che cosa, per esempio?»

«Oh, si tratta solo di un normale servizio di guardia,» gli spiegò Caquer. «Ehi, io sono rimasto bloccato qui tutto il giorno. È successo qualcosa di nuovo?»

«Oh, un po' di movimento. È tutto il giorno che mettiamo dentro e fuori oratori volanti. Degli svitati. Sembra ce ne sia un'epidemia.»

«Accidenti! E cos'hanno da scaldarsi tanto?»

«Oh, riguarda il Settore Due, ma non sono riuscito a capire bene le ragioni. Cercano di aizzare la gente contro il Settore Due perché faccia qualcosa. Ma gli argomenti che usano sono assolutamente folli.»

Qualcosa si agitò a disagio nella mente di Rod Caquer, ma non riuscì a ricordarsi bene di che si trattasse. Il Settore Due? Chi gli aveva parlato recentemente del Settore Due... usura, slealtà, sangue, pazzie. Anche se c'era un sacco di gente di là che aveva sangue marziano nelle vene...

«Quanti oratori sono stati arrestati?» chiese.

«Ne abbiamo presi sette. Altri due ci sono sfuggiti, ma li prenderemo quando ricominceranno con le loro concioni.»

Il tenente Gordon raggiunse l'appartamento dei Gordon camminando lentamente, immerso nei suoi pensieri, e cercando di fare del suo meglio per ricordare dove recentemente aveva sentito della propaganda contro il Settore Due. Ci doveva essere qualcosa dietro la simultanea comparsa di nove oratori radicali che predicavano tutti la stessa dottrina.

Un'organizzazione politica segreta? Ma ormai era quasi un secolo che non ne esistevano più. Sotto un governo perfettamente democratico, facente parte di una stabile organizzazione di pianeti del sistema planetario, non c'era bisogno di attività segrete. Naturalmente poteva sempre esserci qualche svitato che non fosse soddisfatto, ma un intero gruppo in quello stato mentale, no, era troppo fantastico.

Tutto sembrava una follia... come il caso di Willem Deem. Neanche quello aveva senso. Le cose che succedevano non avevano significato, come in un sogno. Un sogno? Cosa stava cercando di ricordare con quella parola? Non aveva fatto un sogno stranissimo ieri sera... ma quale?

Ma, come succede di solito coi sogni, la sua mente non riuscì a riallacciarsi al sogno.

Domani comunque avrebbe interrogato, o aiutato a interrogare, quei radicali che erano sotto arresto. Avrebbe incaricato degli uomini di fare delle indagini sul loro conto e indubbiamente così avrebbero trovato uno sfondo comune, dei legami.

Non potevano essere saltati fuori tutti contemporaneamente nello stesso giorno per caso. Era una follia, una follia come i due inesplicabili cadaveri del negoziante di libri e bobine. Forse perché quei casi erano tutti e due assurdi, la sua mente tendeva ad accomunarli. Ma anche presi assieme non erano più digeribili che presi separatamente. Anzi, avevano ancora meno senso.

Maledizione, perché non aveva preso quel posto su Ganimede, quando gliel'avevano offerto? Ganimede era una luna bene ordinata. Là le persone non venivano assassinate due volte in due giorni di seguito. Ma Jane Gordon non viveva su Ganimede, Jane viveva lì nel Settore Tre e adesso lui stava andando a casa sua.

E tutto era meraviglioso, solo che si sentiva stanchissimo e non riusciva a pensare chiaramente e Jane Gordon insisteva a considerarlo più un fratello che un pretendente e lui avrebbe probabilmente finito col perdere il posto. Sarebbe diventato lo zimbello di Callisto se l'investigatore speciale avesse trovato una spiegazione semplicissima delle cose che lui aveva trascurato.

 

V - Il nono uomo

 

Jane Gordon, più bella che mai, gli andò incontro sulla porta. Sorrideva, ma il suo sorriso divenne preoccupato quando lui entrò in casa e fu illuminato dalla luce.

«Rod!» esclamò la ragazza. «Ma tu stai male, davvero. Cos'altro hai fatto, oltre a saltare i pasti?»

Rod Caquer si sforzò di sorriderle.

«Mi sono messo a correre in tondo nei vicoli ciechi, Ghiacciolo. Posso usare il tuo visifono?»

«Naturalmente. Ti ho preparato qualcosa da mangiare. Te lo metto in tavola intanto che telefoni. Papà sta facendo un sonnellino. Ha detto di svegliarlo quando saresti arrivato, ma aspetterò che prima hai mangiato.»

La ragazza corse in cucina. Caquer si lasciò quasi cadere sulla sedia davanti al visischermo e chiamò la stazione di polizia. Sull'apparecchio comparve il viso sanguigno di Borgesen, il tenente del servizio notturno.

«Salve, Borg,» disse Caquer. «Senti, per quei sette mattoidi...»

«Nove,» lo interruppe Borgesen. «Abbiamo preso gli altri due e vorrei non averlo fatto. Qui stiamo dando i numeri adesso.»

«Vuole dire che gli altri due ci hanno riprovato?»

«No, per mille asteroidi. Sono venuti qui e si sono consegnati. Noi non abbiamo potuto sbatterli fuori perché ci sono delle accuse contro di loro, ma adesso stanno confessando a tutto spiano. E sa cosa stanno confessando?»

«Ascolto,» fece Caquer.

«Che li ha pagati lei, offrendo loro cento crediti a testa.»

«Uh?»

Borgesen scoppiò in una risata nevrotica. «Lo sostengono i due che si sono presentati volontariamente e anche gli altri sette... accidenti, ma perché ho voluto fare il poliziotto? Avevo la possibilità di fare il pompiere e lo spaziale e sono finito a fare questo mestieraccio!»

«Senta... forse è meglio che venga lì per vedere se osano sostenere l'accusa anche con un confronto diretto.»

«Probabilmente lo farebbero, ma non significa niente, Rod. Dicono che lei li ha incaricati oggi pomeriggio e lei è stato tutto il pomeriggio con Brager da Deem. Rod, questa luna sta impazzendo. E io pure. Walter Johnson è scomparso. È da stamane che non lo si è più visto.»

«Cosa? Il segretario particolare del Reggente? Ma mi vuole prendere in giro, Borg?»

«Vorrei che fosse così. Lei dovrebbe essere contento di non essere di servizio. Maxon ha sollevato un caos d'inferno perché gli rintracciamo il suo segretario. E non gli piace neppure il caso Deem. Sembra che ce ne faccia una colpa. Dice che il dipartimento ci fa già una figuraccia se si permette che un uomo venga ucciso una volta. Ma quale dei due era Deem, Rod? Ha qualche idea?»

Caquer sorrise debolmente.

«Finché non lo avremo scoperto, chiamiamoli Deem e Redeem,» suggerì. «Io penso che entrambi fossero Deem.»

«Ma com'è possibile che un uomo sia due persone?»

«E come può un uomo venire ucciso in cinque modi diversi?» ribatté Caquer. «Me lo dica e io risponderò alla sua domanda.»

«Bah!» fece Borgesen e poi se ne uscì con una frase decisamente originale. «Questo caso ha proprio qualcosa di strano.»

Caquer rideva così forte che aveva le lacrime agli occhi quando Jane venne ad avvertirlo che era pronto da mangiare. La ragazza corrugò la fronte, ma si vedeva che era preoccupata.

Caquer la seguì docilmente e scoprì di avere una fame da lupo. Dopo aver ingurgitato l'equivalente di tre pasti normali, si sentì nuovamente un essere quasi umano. Aveva ancora il mal di testa, ma era qualcosa che pulsava vagamente in lontanaza.

Quando ebbero finito in cucina, i due giovani entrarono nel soggiorno dove li aspettava il fragile professor Gordon. «Rod, mi sembri un topo con cui ha appena finito di giocare il gatto,» disse. «Siediti prima di cadere.»

Caquer sorrise. «Ho mangiato troppo. Jane, come cuoca, è impareggiabile.»

Si sedette nella poltrona di fronte a Gordon. Jane si sedette sul bracciolo della poltrona del padre e gli occhi di Caquer non l'abbandonarono un attimo. Come faceva una ragazza dalle labbra dolci e desiderabili come le sue a insistere a considerare il matrimonio solo un argomento di accademica conversazione? Com'era possibile che...

«Così di primo acchito non vedo come potrebbe essere una causa della morte, Rod, ma William Deem noleggiava libri politici,» disse Gordon. «Ormai non gli farà male se lo dico, dal momento che il poveraccio è morto.»

Quasi le stesse parole, ricordò Caquer, che aveva usato Perry Peters per dirgli la stessa cosa.

Caquer annuì.

«Abbiamo frugato il suo negozio e l'appartamento e non ne abbiamo trovati, professore,» rispose il tenente. «Lei naturalmente non saprebbe di che genere...»

Il professor Gordon sorrise. «Temo di sì, invece, Rod. Anzi ti dirò in via non ufficiale, e spero che tu non stia registrando questa conversazione che ne ho letto qualcuno anch'io.»

«Lei!» La voce di Caquer aveva un tono di franca sorpresa.

«Non sottovalutare mai la curiosità di un educatore, ragazzo mio. Temo che la lettura dei libri dell'Indice Grigio sia il vizio più diffuso tra gli insegnanti universitari che tra le altre classi. Oh, so che è male incoraggiare questo commercio, ma la lettura di libri del genere non può davvero far del male a una mente equilibrata e giudiziosa.»

«E papà ha decisamente una mente equilibrata e giudiziosa, Rod,» affermò Jane in tono di sfida. «Solo che, accidenti a lui, non mi ha mai permesso di leggerli.»

Caquer le sorrise. Il fatto che il professore avesse parlato di Indice Grigio lo aveva rassicurato.

Dopo tutto prendere in lettura dei libri dell'Indice Grigio era solo un reato di lieve entità.

«Hai mai letto libri dell'Indice Grigio, Rod?» chiese il professore. Caquer scosse la testa.

«Allora probabilmente non avrai mai sentito parlare di ipnotismo. Per quanto riguarda certi particolari del caso Deem... be', mi sono chiesto se per caso non sia stato impiegato l'ipnotismo.»

«Temo di non sapere neppure di che si tratti, professore.»

Il fragile professore, sospirò.

«Questo succede perché non hai mai letto libri proibiti, Rod,» gli disse Gordon. «L'ipnotismo significa il controllo della mente da parte di un'altra persona e prima di essere messo al bando aveva raggiunto un alto grado di sviluppo. Non hai mai sentito parlare dell'Ordine Kapreliano o della Ruota di Vargas?»

Caquer scosse la testa.

«La storia di questo argomento si trova su diversi libri dell'Indice Grigio,» disse il professore. «I metodi effettivi e i particolari di costruzione della Ruota di Vargas si troverebbero però nell'Indice Nero, nella massima categoria dei libri illegali. Naturalmente non li ho letti, ma ho letto la loro storia.»

«Uno dei primi praticanti dell'ipnotismo, anche se non il suo scopritore, fu un certo Mesmer del lontano diciottesimo secolo. Ad ogni modo, questi inquadrò la faccenda in maniera più o meno scientifica e ora del ventesimo secolo si era già appreso parecchio sull'argomento tanto che l'ipnotismo veniva impiegato diffusamente in medicina.»

«Cento anni dopo, i medici curavano ormai con l'ipnotismo la stessa quantità di pazienti che curavano con medicina e operazioni chirurgiche. Naturalmente c'erano anche dei casi di cattivo impiego, ma erano relativamente pochi.

«Passò un altro secolo e ci furono grandi cambiamenti. Il mesmerismo si era sviluppato troppo ormai per offrire sicurezza alla gente. Ormai qualsiasi criminale o uomo politico di pochi scrupoli che aveva un'infarinatura di quest'arte poteva servirsene impunemente. Poteva ingannare con essa tutte le persone che voleva e farla franca.»

«Vuol dire che avrebbe potuto spingere la gente a pensare tutto ciò che voleva lui?» chiese Caquer.

«Non solo, poteva addirittura spingerla a fare tutto ciò che voleva lui. E ormai la televisione era così diffusa ovunque che una sola persona poteva apparire di fronte a milioni di persone e parlare a tutte contemporaneamente.»

«Ma il governo non avrebbe potuto regolarne l'uso?»

Il professor Gordon sorrise debolmente. «E come, quando anche i legislatori erano umani e soggetti ad essere ipnotizzati come le persone sotto di loro? Poi, per complicare ancora le cose irrimediabilmente, ci fu l'invenzione della ruota di Vargas.

«Si sapeva fin dal diciannovesimo secolo ormai che una combinazione di specchi mobili era in grado di mettere in stato ipnotico chiunque li osservasse e i primi esperimenti con la trasmissione del pensiero risalivano al ventunesimo secolo, ma fu solo nel secolo seguente che Vargas combinò e perfezionò i due sistemi nella Ruota di Vargas. Una specie di casco, in effetti, con in cima una ruota girevole composta di specchi appositamente costruiti per creare l'effetto desiderato.»

«E come funzionava, professore?» chiese Caquer.

«Chi indossava il casco con la Ruota di Vargas otteneva l'immediato e automatico controllo su chi gli stava di fronte... di persona o su uno schermo televisivo,» disse Gordon. «Gli specchi inseriti nella piccola ruota roteante producevano l'ipnosi istantanea e il casco, per qualche ragione, trasmetteva i pensieri di chi portava il casco attraverso la ruota in modo da imprimere sui soggetti i pensieri che desiderava comunicare.

«In effetti, il casco stesso... o la ruota... poteva essere regolato in modo da produrre certe illusioni prestabilite senza che l'operatore dovesse parlare o concentrarsi su quei punti. Oppure il controllo poteva avvenire direttamente dalla mente.»

«Ahi,» esclamò Caquer. «Un'affare del genere dovrebbe... adesso capisco come mai le istruzioni per costruire una Ruota di Vargas sono finite sull'Indice Nero. Per mille Asteroidi! Un uomo con un apparecchio del genere potrebbe...»

«Potrebbe fare pressoché qualsiasi cosa. Compreso uccidere un uomo e fare apparire la sua morte sotto cinque aspetti diversi a cinque diversi osservatori.»

Caquer emise un leggero sibilo. «Oppure spingere nove radicali a concionare sopra una cassa in mezzo alla strada... e non è neanche necessario che siano dei radicali. Potrebbero essere semplicemente gente comune ligia alla legge.»

«Nove radicali?» chiese Jane Gordon. «Cos'è questa faccenda dei nove radicali, Rod? Non ne avevo sentito parlare.»

Ma Rod si stava già alzando in piedi.

«Adesso non ho tempo di spiegarti, Ghiacciolo,» le disse. «Ti dirò tutto domani, ma adesso devo scappare... un momento. Professore, è tutto qui quanto sa sulla Ruota di Vargas?»

«Assolutamente tutto, ragazzo mio. Ho solo pensato che fosse una possibilità. Ne furono costruite solo cinque o sei e alla fine il governo ci mise sopra le mani e le distrusse tutte, ad una ad una. È costato milioni di vite farlo, però.»

«Quando alla fine ebbero risolto completamente il problema, stava iniziando la colonizzazione dei pianeti ed era stato formato un consiglio internazionale col controllo di tutti i governi. Tutti quanti furono concordi nel ritenere che il campo dell'ipnotismo era troppo pericoloso e ne fecero un argomento proibito. Ci vollero alcuni secoli per cancellare ogni conoscenza, ma alla fine ci riuscirono. E la prova è che tu non ne hai mai sentito parlare.»

«E per quanto riguarda gli aspetti benefici,» chiese Jane Gordon. «Sono andati perduti?»

«Naturalmente,» rispose suo padre. «Ma nel frattempo la medicina era progredita a tal punto che non fu poi una gran perdita. Oggi i medici possono curare direttamente qualsiasi disfunzione che prima veniva curata con l'ipnotismo.»

Caquer che si era fermato davanti alla porta, si volse un attimo.

«Professore, crede possibile che qualcuno abbia potuto farsi prestare un libro nero da Deem e abbia appreso tutti quei segreti?» chiese.

Il professor Gordon si strinse nelle spalle. «È possibile,» ammise. «Può darsi che Deem abbia trattato di tanto in tanto anche dei libri dell'Indice Nero, ma sapeva bene che non era il caso di cercare di venderli o noleggiarli a me. Perciò anche se l'ha fatto non ho modo di saperlo.»

Alia stazione di polizia, il tenente Caquer trovò il tenente Borgesen sull'orlo di un colpo apoplettico.

Borgesen fissò Caquer.

«Lei!» esclamò. Poi aggiunse in tono piagnucoloso: «Il mondo è tutto quanto impazzito. Senta, è stato Brager a scoprire William Deem, no? Alle dieci di ieri mattina? Ed è rimasto di guardia mentre lei, Skidder e quelli del Servizio Sanitario eravate là, non è così?»

«Sì, e allora?» chiese Caquer.

L'espressione di Bergesen mostrò quanto fosse turbato da quegli avvenimenti.

«Niente, assolutamente niente, solo che Brager era da ieri mattina in ospedale, dalle nove alle undici, per farsi curare una caviglia slogata. Quindi non poteva essere nel negozio di Deem. Ci sono sette tra medici, infermieri e personale vario pronti a giurare che a quell'ora Brager era in ospedale.»

Caquer corrugò la fronte.

«Oggi quando mi ha aiutato a perquisire il negozio di Deem, zoppicava, infatti,» disse. «Che dice Brager?»

«Dice che era là, voglio dire nel negozio di Deem, e che ha scoperto il corpo del libraio. Noi però abbiamo scoperto il contrario del tutto accidentalmente... sempre che sia il contrario. Rod, mi sento impazzire. E pensare che avevo la possibilità di fare il pompiere o lo spaziale e mi sono scelto questo divino mestiere. Ha scoperto qualcosa di nuovo?»

«Può darsi. Ma prima voglio chiederle una cosa, Borg. Riguardo quei nove imbecilli che sono stati arrestati. Qualcuno ha cercato di identificarli...»

«Quelli,» lo interruppe Borgesen. «Li ho lasciati andare.»

Caquer fissò assolutamente sbalordito il viso sanguigno del tenente di notturna.

«Li ha lasciati andare?» ripeté. «Ma non poteva farlo legalmente. Erano state elevate delle cause contro di loro. Senza un processo non poteva metterli in libertà.»

«Balle. L'ho fatto e me ne assumerò la responsabilità. Senta, Rod, loro avevano ragione, non è vero?»

«Cosa?»

«Certo. La gente ha il diritto di venire messa al corrente di quanto succede nel Settore Due. Bisogna farli scendere di qualche pianerottolo quei palloni gonfiati e noi siamo gli unici che possono farlo. Il quartier generale di Callisto dovrebbe essere qui. Ascolti, Rod, un Callisto unito potrebbe impadronirsi anche di Ganimede.»

«Borg, hanno trasmesso qualcosa per televisione stasera? Qualcuno ha fatto qualche discorso che lei ha ascoltato?»

«Certo, non l'ha sentito? Il nostro amico Skidder. Deve averlo fatto mentre lei veniva qui perché tutti gli apparecchi televisivi si sono accesi automaticamente... era una trasmissione generale.»

«Ed è stato suggerito qualcosa in particolare, Borg? Qualcosa riguardo il Settore Due e Ganimede, roba del genere?»

«Certo, c'è una riunione generale domattina alle dieci. In piazza. Dovremmo andarci tutti; ci sarà anche lei, vero?»

«Sì,» rispose il tenente Caquer. «Temo di sì. Adesso devo scappare, Borg.»

 

VI - Un viso troppo familiare

 

Rod Caquer sapeva cosa era successo adesso. E l'ultima cosa che voleva fare era di rimanere alla stazione di polizia ad ascoltare Borgesen che parlava sotto l'influenza di quella che sembrava appunto una Ruota di Vargas. Nient'altro, assolutamente nient'altro avrebbe potuto indurre il tenente Borgesen a parlare così come aveva parlato. Sì, il professor Gordon aveva proprio fatto centro. Nient'altro avrebbe potuto provocare quei risultati.

Caquer camminò alla cieca in quella notte rischiarata solo dalla massa di Giove, passando davanti all'edificio in cui si trovava il suo appartamento. Non voleva andarci.

Le strade della Città Settore Tre sembravano affollate per essere un'ora così tarda. Tarda? Gettò un'occhiata all'orologio e fischiò leggermente. Non era più sera ormai. Erano le due del mattino e di norma le strade avrebbero dovuto essere assolutamente deserte.

Ma stasera non lo erano. La gente vagava per le vie, da sola o a gruppi, e tutti camminavano in un silenzio soprannaturale. Si sentiva uno scalpiccio di piedi, ma neanche un mormorio di voce. Neppure...

Sussurri! Qualcosa in quelle strade e in quella gente fece ricordare a Rod Caquer il suo sogno della notte prima. Solo adesso capì che non era un sogno. Né lui aveva camminato da sonnambulo, almeno come si intende normalmente.

Si era vestito. Era scivolato fuori di casa. Anche le luci dei lampioni erano spente e questo significava che gli addetti avevano disertato i loro posti. Come gli altri, anche loro vagavano tra la folla.

«Uccidi... Uccidi... uccidi... tu li odi...» . Un brivido scese giù per la spina dorsale di Caquer quando si rese conto cosa significasse il fatto che il sogno della notte precedente fosse stato realtà. Questo era un fatto al cui confronto perdeva perfino di significato l'assassinio di un piccolo proprietario di un negozio di libri e bobine.

Questo era qualcosa che stava afferrando tutta una città, qualcosa che poteva sconvolgere un mondo, qualcosa che poteva condurre a un incredibile terrore e a un carnaio su una scala quale mai si era conosciuta da dopo il ventiquattresimo secolo. E tutto aveva avuto inizio con un semplice caso di omicidio!

In fondo alla strada, Rod Caquer udì la voce di un uomo che arringava la folla. Una voce frenetica, stridula per il fanatismo; allora corse fino all'angolo e giratolo si trovò ai bordi di una massa di gente che premeva attorno a un uomo che parlava dall'alto di una fuga di gradini.

«...e io vi dico che domani è il giorno. Adesso abbiamo perfino il Reggente dalla nostra parte e non sarà necessario deporlo. Ci sono uomini che stasera lavoreranno tutta notte per preparare le cose e dopo la riunione in piazza di domattina, noi...»

«Ehi!» gridò Rod Cauquer. L'uomo smise di parlare e si volse per guardare in direzione di Rod, e anche la folla si voltò lentamente, quasi all'unisono, per fissarlo.

«Lei è in...»

Poi Caquer si accorse che il suo era solo un futile gesto.

Non fu il fatto che l'uomo si avventasse verso di lui che che lo convinse di questo. Non temeva la violenza. Anzi l'avrebbe accolta anche con sollievo come una liberazione da quel terrore soprannaturale, avrebbe accolto con piacere l'occasione di distribuire piattonate attorno a sé con la daga.

Ma dietro l'oratore c'era un uomo in uniforme... Brager. E Caquer ricordò in quel momento che anche Borgesen, ora a capo della stazione di polizia, stava dall'altra parte. Come avrebbe potuto arrestare l'oratore quando poi Borgesen, forte della sua autorità, si sarebbe rifiutato di convalidare l'arresto? E a che sarebbe servito dare il via a dei disordini che potevano costare cari a persone innocenti che non agivano di volontà propria, ma sotto l'insidiosa influenza che gli aveva descritto il professor Gordon?

Con la mano sulla spada, rinculò. Nessuno lo seguì. Come automi si voltarono tutti verso l'oratore che riprese l'arringa, come se non fosse mai stato interrotto. L'agente Brager non si era mosso, non aveva neppure guardato nella direzione del suo collega superiore in grado. Lui solo tra tutti non si era voltato sentendo il grido di sfida di Caquer.

Il tenente Caquer si affrettò ad avviarsi nella direzione in cui stava andando quando aveva sentito l'oratore. Così sarebbe arrivato in centro. Avrebbe trovato un locale aperto dove usare un visifono e avrebbe chiamato il Coordinatore di Settore. Questo era un caso di emergenza.

Certo chi aveva la Ruota di Vargas non aveva ancora esteso la propria attività al di là dei confini del Settore Tre.

Il tenente trovò un ristorante notturno, aperto ma deserto. La luce era accesa, ma non c'erano in giro camerieri, né c'era il cassiere dietro il registratore. Allora entrò nella cabina del visifono e premette il pulsante per avere il centralino delle chiamate interurbane. Quasi immediatamente sullo schermo comparve l'operatrice.

«Il Coordinatore di Settore, Città di Callisto,» disse Caquer.

«Mi spiace, signore, ma il servizio interurbano è sospeso per tutta la durata per ordine del controllore dei Servizi Pubblici.»

«Per tutta la durata di cosa?»

«Non ci è permesso dare questa informazione.»

Caquer digrignò i denti. Be', c'era almeno una persona che avrebbe potuto aiutarlo. Costrinse la sua voce a rimanere calma.

«Mi passi il professor Gordon, Residenze Universitarie,» disse alla centralinista.

«Sissignore.»

Ma lo schermo rimase buio sebbene per qualche minuto continuasse a lampeggiare la spia rossa che indicava che il cicalino era in funzione.

«Non risponde nessuno, signore.»

Probabilmente Gordon e sua figlia dormivano troppo profondamente per sentire il cicalino. Per un istante, Caquer prese in considerazione l'idea di precipitarsi là. Ma era dall'altra parte della città e poi che aiuto avrebbero potuto offrirgli? Nessuno. E il professor Gordon era un vecchietto fragile e malato.

No, avrebbe dovuto... premette di nuovo il pulsante del visifono e un istante dopo parlava col custode dell'hangar delle astronavi.

«Mi tiri subito fuori l'apparecchio veloce del Dipartimento di Polizia,» scattò Caquer. «Lo prepari perché sarò lì a minuti.»

«Mi spiace, tenente,» fu la secca risposta. «Tutti i raggi d'energia diretti verso l'esterno sono stati interrotti per ordine speciale. Tutte le unità dovranno rimanere a terra per tutta la durata dell'emergenza.»

Avrebbe dovuto immaginarselo, pensò Caquer. Ma che ne sarebbe stato dell'investigatore speciale inviato dall'ufficio del Coordinatore?» Le astronavi in arrivo hanno ancora il permesso di atterrare?» domandò.

«Hanno il permesso di atterrare, ma non di ripartire senza un ordine speciale,» rispose la voce.

«Grazie,» disse Caquer. Spense lo schermo e usci dal locale, alla luce dell'alba. C'era ancora una speranza. Forse l'investigatore speciale avrebbe potuto aiutarlo.

Ma lui, Rod Caquer, avrebbe dovuto intercettarlo, raccontargli tutta la storia e le sue implicazioni, prima che potesse cadere, come gli altri, sotto l'influenza della Ruota di Vargas. Caquer si avviò rapidamente verso il terminal. Forse era troppo tardi. Forse l'astronave dell'investigatore era già atterrata e il danno era stato fatto.

Di nuovo passò davanti a una folla di gente raccolta attorno a un oratore isterico. Ormai dovevano essere quasi tutti sotto influenza ipnotica. Ma come mai lui era stato risparmiato? Come mai non c'era anche lui sotto quella malvagia influenza?

È vero che nel momento in cui Skidder andava in onda, lui doveva essere per strada, diretto alla stazione di polizia, ma questo non spiegava tutto. Non era possibile che tutta quella gente avesse visto e sentito la trasmissione. A quell'ora doveva pure esserci stato qualcuno che dormiva.

E poi anche lui, Caquer, aveva subito l'influenza ipnotica la sera prima, la sera dei sussurri. E doveva essere stato sempre sotto l'influenza della ruota quando aveva compiuto la sua indagine sul delitto... anzi, i delitti.

Come mai, allora, adesso lui era libero? Era lui l'unico o ce ne erano altri che erano sfuggiti all'effetto Vargas ed erano assolutamente normali?

Ma se era lui l'unico, come mai allora era libero?

Ma lo era davvero?

Non poteva magari darsi che quanto faceva adesso, lo facesse sotto costrizione in base a un piano preordinato?

Ma non c'era senso a pensarci adesso per impazzire. L'unica cosa che poteva fare era agire per il meglio e sperare che la realtà fosse, nel suo caso, proprio quella che gli sembrava.

Poi si mise a correre perché davanti a lui c'era l'area aperta del terminal e una piccola astronave argentea stava atterrando in quel momento. Un piccolo apparecchio veloce ufficiale... doveva appunto essere l'investigatore speciale. Caquer girò attorno all'edificio del check-in, attraversò il cancello nella rete di filo metallico e corse verso l'astronave che aveva già toccato terra. La porta si stava aprendo.

Un ometto segaligno scese dall'astronave e chiuse il portello dietro di sé. Quando vide Caquer sorrise.

«Lei è Caquer?» chiese con simpatia. «L'ufficio del Coordinatore mi ha inviato qui per indagare su un caso che vi ha messo in difficoltà. Il mio nome è...»

Il tenente Rod Caquer fissava affascinato e inorridito il viso ben noto dell'ometto, il porro che aveva a lato del naso, e aspettava il seguito che stava per aggiungere quell'uomo...

«...è Willem Deem. Possiamo andare nel suo ufficio?»

 

VII - Ruote dentro ruote

 

Questo era davvero troppo per chiunque!

Il tenente Rod Caquer, appartenente alle forze di polizia del Settore Tre, aveva ormai superato ogni limite. Come si può indagare sull'omicidio di un uomo che è stato ucciso due volte? E come dovrebbe comportarsi un poliziotto quando la vittima ricompare viva e vegeta per aiutarvi a risolvere il caso?

Neanche quando sai che in realtà non è il... o se lo è, non è quello che i tuoi occhi ti dicono che sia e non dice ciò che i tuoi orecchi sentono.

C'è un punto al di là del quale la mente umana non può più funzionare come si deve e quando si passa oltre quel punto ogni persona reagisce in modo diverso.

La reazione di Rod Caquer fu di un'improvvisa e cieca collera. Diretta, per mancanza di un miglior obiettivo, contro l'investigatore speciale, ammesso che lo fosse e non si trattasse solo di un fantasma ipnotico che nella realtà non esisteva.

Il pugno di Rod Coquer si avventò fulmineo e si scontrò col mento dell'uomo. Il che non dimostrò niente, eccetto che se l'ometto appena sceso dall'astronave era un'illusione, era un'illusione tangibile. Il pugno di Rod esplose contro quel mento come una bomba e l'ometto barcollò e cadde in avanti. Sempre sorridente, perché non aveva neppure avuto il tempo di mutare espressione.

Cadde a faccia in giù e poi rotolò per terra, con gli occhi chiusi, sorridendo amabilmente al cielo che andava rischiarandosi.

Caquer si chinò tremando sull'uomo e gli posò una mano sul davanti della camicia. Si, il cuore batteva regolarmente. Per un momento, Caquer aveva temuto di avere ucciso quell'uomo con quel pugno.

Poi Caquer chiuse deliberatamente gli occhi e tastò con la mano il volto dell'uomo e il volto rispose al tatto confermandogli che era proprio il viso di Willem Deem. Sotto le dita senti il rilievo del porro sul naso, così come gli era apparso alla vista.

Due uomini erano usciti di corsa dall'ufficio del check-in e attraversavano il campo nella loro direzione. Rod colse l'espressione dei loro visi e poi pensò al piccolo apparecchio a pochi passi da lui. Doveva uscire dalla Città del Settore Tre per avvertire qualcuno di quanto stava succedendo prima che fosse troppo tardi.

Se solo avessero mentito riguardo il raggio d'energia che era stato interrotto nell'emissione verso l'esterno. Con un salto scavalcò il corpo dell'uomo che aveva colpito, salì di corsa a bordo dell'astronave e manovrò i comandi. Ma l'astronave non rispose. No... decisamente non avevano mentito riguardo quel raggio.

Non aveva senso rimanere lì per combattere una lotta che non poteva decidere niente. Allora uscì dalla porta dell'astronave, dalla parte opposta a quella da cui arrivavano i due uomini e corse verso la rete metallica.

Quella rete era elettrificata. Non abbastanza da uccidere un uomo, ma abbastanza da tenerlo attaccato finché non fossero arrivati gli uomini con i guanti di gomma a tagliare il filo e portarlo via. Ma se il raggio d'energia era interrotto, allora probabilmente era stata interrotta anche la corrente della rete.

L'ostacolo era troppo alto per superarlo con un balzo, per cui dovette rischiare. Fortunatamente la corrente era stata tolta. Caquer scavalcò la rete senza intoppi, mentre i suoi inseguitori si fermavano e tornavano indietro per occuparsi dell'uomo caduto accanto all'astronave.

Caquer smise di correre e si mise a camminare, ma continuò senza fermarsi. Non sapeva dove andare, ma sapeva che doveva continuare a muoversi. Dopo un po' si accorse che i suoi passi lo stavano conducendo verso il limitare della città, sul lato nord, verso Callisto City.

Ma era una follia. Non poteva assolutamente raggiungere Callisto City a piedi in meno di tre giorni. Ammesso sempre che riuscisse anche ad attraversare quel deserto privo di strade. E poi in tre giorni sarebbe stato troppo tardi.

Si trovava in un piccolo parco vicino al confine nord quando si rese conto di quanto fosse futile proseguire in quella direzione. E nello stesso tempo scoprì di avere i muscoli duri e stanchi, oltre a un terribile mal di testa, per cui non gli sarebbe stato possibile proseguire a meno di avere davanti a sé una meta possibile e valida.

Si lasciò cadere su una panchina del parco e per un po' rimase con la testa stretta tra le mani. Non trovò nessuna risposta.

Dopo un certo tempo sollevò lo sguardo e vide qualcosa che lo affascinò. C'era una girandola in cima a un bastone piantato nell'erba del parco, che girava vorticosamente al vento. Ora forte, ora adagio, a seconda di come tirava il vento.

La girandola ruotava in tondo, come la sua mente. E non poteva andare altrimenti la mente di un uomo quando questi non era più in grado di distinguere la realtà dall'illusione? In tondo come la Ruota di Vargas.

In tondo.

Ma doveva esserci una via d'uscita. Un uomo con la Ruota di Vargas non era completamente invincibile, altrimenti come poteva il consiglio essere riuscito alla fine a distruggere le poche ruote che erano state costruite? È vero che poteva darsi che i possessori delle ruote potevano essersi distrutti a vicenda, almeno fino a un certo punto, ma doveva pure esserci stata un'ultima ruota in mano a qualcuno. In possesso di qualcuno che voleva controllare il destino del sistema solare.

Ma le ruote erano state eliminate.

Quindi voleva dire che si poteva farlo. Ma come? Come si poteva, se non si vedevano? E soprattutto come si poteva farlo, quando bastava che un uomo le vedesse per finire totalmente sotto controllo, a tal punto da non poterla più vedere dopo il primo barlume perché ormai la sua mente era stata completamente catturata?

Doveva eliminare la ruota. Quella era l'unica risposta. Ma come?

Per quanto ne sapesse lui, poteva anche darsi che quella girandola fosse la Ruota di Vargas, messa lì per creare l'illusione che fosse il giocattolo di un bambino. O forse il suo possessore, col casco in testa, stava in quel momento sul sentiero proprio davanti a lui e lo osservava, invisibile, perché alla mente di Caquer era stato ordinato di non vedere.

Ma se l'uomo era lì, lo era veramente, e se Rod si fosse messo a vibrare fendenti con la daga, il pericolo sarebbe scomparso, no? Ma certo.

Ma come trovare una ruota che non poteva vedere? Che non si poteva vedere perché...

E poi, mentre fissava la girandola, Caquer intravide una possibilità, remota, ma che forse poteva funzionare.

Gettò una rapida occhiata all'orologio e vide che erano le nove e trenta, mezz'ora prima della dimostrazione in piazza. E la ruota e il suo possessore sarebbero certo stati lì.

Dimenticando i dolori ai muscoli, il tenente Rod Caquer, prese a correre per tornare verso il centro della città. Le strade erano deserte. Erano tutti andati in piazza, naturalmente. Così era stato loro ordinato di fare.

Dopo qualche isolato si trovò senza fiato e dovette rallentare l'andatura, riducendola a una rapida camminata, ma avrebbe avuto il tempo di arrivare là prima che fosse tutto finito, anche se gli fosse sfuggito l'inizio.

Sì, poteva andare là. E se l'idea funzionava...

Erano quasi le dieci quando passò davanti all'edificio che ospitava il suo ufficio e continuò per la sua strada. Qualche porta più avanti svoltò e entrò in un palazzo. L'uomo dell'ascensore era scomparso ma Caquer azionò lui stesso l'ascensore e un minuto dopo aveva forzato una porta con dei ferri che aveva sempre con sé ed era entrato nel laboratorio di Perry Peters.

Anche Peter non c'era, naturalmente, ma gli occhialoni erano lì, gli occhialoni speciali coi tergilenti da usarsi nelle miniere di radite.

Rod Caquer se li infilò sugli occhi, si infilò in tasca la batteria motrice e toccò il pulsante sul lato dell'apparecchio. Gli occhialoni funzionavano. Riusciva a vedere qualcosa mentre i tergilenti oscillavano avanti e indietro. Ma un minuto dopo si fermarono.

Naturale. Peter l'aveva avvertito che gli alberini di trasmissione si surriscaldavano e si dilatavano dopo un minuto di funzionamento. Be', forse non avrebbe avuto importanza. Un minuto poteva essere più che sufficiente e ora che avrebbe raggiunto la piazza, il metallo si sarebbe raffreddato.

Ma doveva riuscire a variare la velocità. Fortunatamente tra le varie cose che ingombravano il banco di lavoro riuscì a trovare un piccolo reostato che collegò con del nastro adesivo a uno dei fili che andava dalla batteria agli occhiali.

Era il meglio che potesse fare. Non c'era tempo per provare l'apparecchio adesso. Rialzò gli occhialoni sulla fronte e corse fuori in corridoio, dove prese l'ascensore per scendere al livello stradale. Un momento dopo correva verso la piazza pubblica a due isolati di distanza.

Quando vi arrivò, si trovò ai bordi della folla raccolta davanti al palazzo della Reggenza che guardava in alto verso i due balconi dell'edificio. Su quello più in basso c'erano parecchie persone che riconobbe subito: il dottor Skidder, Walter Johnson. Non mancava neppure il tenente Borgesen.

Sul balcone superiore il Reggente Barr Maxon era solo e parlava alla folla in basso. La sua voce sonora elaborava eleganti frasi che inneggiavano alla potenza dell'impero. A poca distanza da sé, in mezzo alla folla, Caquer scorse i capelli grigi del professor Gordon e la bella testa bionda di Jane accanto a lui. Si chiese se anche loro erano sotto l'effetto ipnotico. Ma certo dovevano essere anche loro sotto controllo, altrimenti non sarebbero stati lì. Si rese conto, allora, che non sarebbe servito niente parlar loro per informarli di quanto stava per fare.

Il tenente Caquer si fece scivolare gli occhialoni sugli occhi e rimase momentaneamente accecato perché i bracci del tergilenti erano nella posizione sbagliata. Ma le sue dita trovarono il reostato, lo regolarono sullo zero, poi cominciarono a spostarlo lentamente sul massimo.

Infine quando i tergilenti iniziarono la loro frenetica danza e accelerarono riuscì a vedere nebulosamente. Si guardò attorno attraverso le lenti ad arco. Sul balcone inferiore non vide nulla di insolito, ma su quello superiore la figura del Reggente Barr divenne improvvisamente indistinta.

C'era un uomo in piedi sul balcone superiore e in testa aveva uno strano casco con dei fili e, in cima, una ruota di dieci centimetri con specchi e prismi.

Una ruota che appariva ferma per via dell'effetto stroboscopico degli occhialoni meccanici. Per un istante la velocità dei tergilenti sì sincronizzò con la rotazione della ruota, cosicché ogni volta che la ruota compariva era sempre nella stessa posizione e all'occhio di Caquer era immobile, e quindi poteva vederla.

Poi gli occhiali si bloccarono.

Ma ormai non ne aveva più bisogno.

Ormai sapeva che Barr Maxon, o chiunque si trovasse là sul balcone, era colui che portava la ruota.

Silenziosamente e cercando di attrarre la minore attenzione possibile, Caquer fece il giro della folla e raggiunse la porta secondaria del palazzo della Reggenza.

C'era una guardia lì.

«Mi spiace, signore, ma nessuno...»

Poi cercò di scansarsi, ma era, troppo tardi. Il piatto della daga del tenente di polizia Rod Caquer lo colpì alla testa.

L'interno dell'edificio sembrava deserto. Caquer salì di corsa le tre rampe di scale che l'avrebbero portato al piano del balcone superiore e si infilò nel corridoio in direzione del balcone.

Quando vi irruppe di corsa, il Reggente Maxon si voltò. Maxon adesso non aveva più il casco in testa. Caquer aveva perso gli occhialoni, ma sia che li vedesse o no, Caquer sapeva che casco e ruota erano ancora là e funzionavano perfettamente. Non aveva altra scelta.

Maxon si girò e vide il viso del tenente Caquer e la daga sguainata.

Poi, bruscamente la figura di Maxon svanì. A Caquer sembrò che la figura davanti a lui fosse quella di Jane Gordon, ma sapeva bene che non era così. Jane lo guardava supplicante e gli parlava in tono straziante.

«Rod, non...» cominciò a dire.

Ma sapeva che non era Jane. Il manipolatore della Ruota di Vargas aveva semplicemente diretto contro di lui un pensiero per difendersi.

Caquer sollevò la daga e l'abbassò con violenza.

Ci fu uno spicinio di vétri e il tintinnio di metallo contro metallo, mentre la sua spada spaccava in due il casco.

E naturalmente adesso non c'era più Jane... solo un uomo morto steso a terra, col sangue che filtrava dalla fenditura di uno strano e complicato casco ora del tutto a pezzi. Un casco che ora tutti potevano vedere come lo vedeva il tenente Caquer.

Così come tutti, compreso Caquer, ora riconobbero l'uomo che l'aveva indossato.

Un ometto segaligno, con un antiestetico porro a lato del naso.

Sì, era proprio Willem Deem. E questa volta, Rod Caquer sapeva che era veramente Willem Deem...

 

* * *

 

«Credevo,» disse Jane, «che saresti partito per Callisto City senza neanche salutarci.»

Rod Caquer gettò il cappello verso il gancio.

«Oh, per quello,» disse, «non sono neppure sicuro che riuscirò ad avere la promozione a coordinatore di polizia laggiù. Ho una settimana per decidere e per tutto questo tempo rimarrò in città. Tu come va, Ghiacciolo?»

«Benissimo, Rod. Siediti. Papà rientrerà a casa presto e so che ha un sacco di cose da chiederti. Sai, è dal giorno di quella manifestazione di massa che non ci siamo più visti.»

Strano come a volte può essere ottuso anche un uomo intelligente.

Ma del resto le aveva fatto tanto spesso la sua proposta ed era sempre stato respinto che non era poi tutta colpa sua.

Si limitò a guardarla.

«Rod, nei notiziari non hanno mai fornito una versione completa dei fatti,» disse Jane. «Lo so che dovrai ripeterla ancora tutta per mio padre, ma intanto che lo aspettiamo, perché non mi anticipi qualcosa?»

Rod sorrise.

«Non c'è sotto niente di particolare, Ghiacciolo,» le disse. «Willem Deen aveva messo le mani su un libro dell'Indice Nero e aveva scoperto come costruire una Ruota di Vergas. Così se ne è costruita una e questa gli ha messo in testa delle idee.

«La prima è stata quella di uccidere Barr Maxon e prendereil suo posto di Reggente, regolando il casco in modo da apparire lui come Maxon. Poi ha messo il corpo di Maxon nel suo negozio e si è divertito con la messa in scena del suo omicidio. Aveva un distorto senso dell'umorismo e si è divertito un mondo a farci correre in tondo.»

«Ma come ha fatto a fare tutto il resto?» chiese la ragazza.

«Be', era là come Brager e ha finto di scoprire il proprio corpo. Poi ha fornito una descrizione delle cause della morte e ha indotto Skidder, me e quelli del Servizio Sanitario a vedere ognuno il corpo di Maxon in modo diverso. Niente di strano che per poco non siamo ammattiti tutti quanti.»

«Ma Brager ricordava anche lui di essere stato là,» obbiettò la ragazza.

«Brager in quel momento era all'ospedale, ma Deem l'ha visto più tardi e gli ha impresso nella mente il ricordo di avere scoperto il corpo di Deem,» le spiegò Caquer. «Così naturalmente Brager era convinto di essere stato là.»

«Quindi ha ucciso il segretario particolare di Maxon, perché questi, essendo così vicino al Reggente, doveva aver sospettato che c'era qualcosa di storto anche se non riusciva a capire cosa. E questo è stato il secondo cadavare di Willem Deem, il quale cominciava davvero a divertirsi sul serio quando ci ha tirato quello scherzo.

«E naturalmente non aveva mai inviato alcun messaggio a Callisto City con la richiesta di un investigatore speciale. Aveva solo voluto divertirsi alle mie spalle, facendomi credere di incontrarlo e facendo poi saltare fuori che il tizio era ancora una volta Willem Deem. Credo che in quel momento ci sia mancato poco che diventassi davvero pazzo.»

«Ma, Rod, come mai non eri anche tu sotto la completa influenza della ruota, come gli altri... mi riferisco alla faccenda di conquistare Callisto e tutto il resto?» chiese Jane. «Tu eri libero da quella parte di ipnosi.»

Caquer si strinse nelle spalle.

«Forse perché ho perso il comizio televisivo di Skidder,» suggerì. «Naturalmente non si trattava di Skidder, ma di Deem col suo dannato casco. E forse mi ha lasciato deliberatamente fuori, perché da buon psicopatico si stava divertendo troppo vedendo che mi accanivo a cercare di indagare sugli omicidi di due Willem Deem. È difficile dirlo. Forse la tensione mi aveva alterato psicologicamente e per quella ragione ero parzialmente refrattario all'ipnosi di gruppo.»

«Credi che volesse davvero cercare di governare su tutta Callisto, Rod?» chiese la ragazza.

«Purtroppo non sapremo mai con certezza fin dove volesse o si aspettasse di arrivare. Dapprima voleva solo compiere degli esperimenti con i poteri dell'ipnosi per mezzo della ruota. Quella prima notte ha fatto uscire la gente di casa, mandandola per le strade, e poi l'ha rimandata indietro, facendole dimenticare tutto quanto era successo. Indubbiamente si trattava solo di un test.»

Caquer fece una pausa e aggrottò la fronte pensieroso.

«Era chiaro che si trattava di uno psicopatico, però, e non osiamo neppure immaginare quali fossero i suoi piani,» continuò. «Tu sai come funzionavano gli occhiali che hanno neutralizzato la ruota, vero Ghiacciolo?»

«Credo di sì. Quella è stata un'idea davvero brillante, Rod. È come quando riprendi su film una ruota che gira, vero? Se la cinepresa si sincronizza con la velocità di rotazione della ruota, così che ogni successiva immagine la mostra dopo una rivoluzione completa, allora sembra che nel film la ruota sia immobile.»

Caquer annuì.

«Proprio così,» disse. «È stato davvero un colpo di fortuna avere avuto la possibilità di mettere le mani su quegli occhiali. Solo per un secondo ho potuto vedere sul balcone un uomo con in testa un casco... ma è quanto mi bastava sapere.»

«Ma Rod, quando sei corso sul balcone non avevi più gli occhiali. Perché Deem non ti ha fermato con l'ipnosi?»

«Be', non c'è riuscito. Penso che non abbia avuto il tempo di mettermi sotto controllo. Così mi ha proiettato solo un'immagine. Non è stato né Barr Maxon né Willem Deem quello che mi sono trovato davanti all'ultimo momento. Sei stata tu, Jane.»

«Io?»

«Sì, tu. Penso che sapesse che sono innamorato di te e quella è stata la prima cosa che gli è balenata nella mente, che non avrei mai osato adoperare la spada se pensavo di avere te di fronte. Ma io sapevo che, nonostante ciò che mi dicevano gli occhi, quella non eri tu e ho colpito.»

Caquer rabbrividì leggermente ricordando lo sforzo di volontà che aveva dovuto fare per abbassare la daga.

«La cosa peggiore è stata che ti ho visto lì davanti a me come ho sempre desiderato vederti... con le braccia protese verso di me e negli occhi un'espressione innamorata.»

«Così, Rod?»

E questa volta il tenente Rod Caquer non fu troppo ottuso per non capire al volo.

 

La porta del tempo

Doorway into Time

di C.L. Moore

Famous Fantastic Mysteries, settembre

 

Questo racconto potrebbe essere opera delta sola Catherine Moore, sebbene gli elementi di science-fantasy fossero comuni anche nell'opera di Kuttner. La storia apparve su «Famous Fantastic Mysteries», il che è già una cosa in se stessa insolita dal momento che FFM era soprattutto una rivista di ristampe che riprendeva i lavori di autori diversissimi tra di loro come Frank Kafka, Ray Cummings e H.G. Wells. Questa pubblicazione durò sorprendentemente a lungo, dal 1929 al 1953, un'impresa davvero ragguardevole che la vide sopravvivere anche alla carenza di carta durante la II Guerra Mondiale, motivo che condusse alla tomba tante altre riviste pulp.

 

(Molto tempo prima che la rivolta femminista portasse alla ribalta fantascientifiche decine di autrici, C.L. Moore fu una delle poche che invase quello che era un regno esclusivamente maschile. Quel che più importa, inoltre, le sue storie sembravano anche «mascoline» perché non indulgevano nelle frivolezze che i lettori si aspettavano dalle donne scrittrici e che queste erano di conseguenza tenute a fornire loro se volevano vendere. Chissà quanti dei suoi primi ammiratori hanno pensato che le iniziali C.L. significassero Charles Ludwig o qualcos'altra cosa del genere. Un paio d'anni fa mi trovavo tra il pubblico di una convention cui partecipò anche Catherine e la trovai sempre in gamba, risposata dopo la morte di Hank Kuttner e molto felice e soddisfatta della vita. - I.A.)

 

Lui avanzò lentamente con lunghi e poderosi passi silenziosi nel corridoio della sua casa dei tesori. Attorno a lui si trovavano oggetti di molti mondi; perché aveva messo a sacco lo spazio e il tempo per raccogliere i tesori che riempivano quella casa. Le vesti che ricadevano in ricche pieghe sulle sue membra agili erano senza prezzo, esattamente come tutte le altre cose raccolte tra quelle mura, un tessuto impalpabile dai disegni a rilievo che non avevano alcun significato, almeno così lontano dal mondo in cui erano stati creati, che nella loro bellezza erano universali. Ma lui stesso era più bello di tutti gli oggetti della sua sterminata collezione. E lo sapeva e se ne compiaceva e sentiva un soddisfatto tepore nel profondo del suo cervello e in esso si crogiolava beato.

I suoi movimenti erano aggraziati, mentre camminava la forza sembrava fluire scioltamente nelle sue membra, la sua grande massa era poderosa e elegante. Le vesti preziose che indossava si aprivano svolazzando su un corpo magnifico. Quando si passò quasi sensualmente la palma della mano su un fianco, sentì con piacere la trama di quegli strani e delicati disegni in rilievo su un tessuto che era più impalpabile della garza. I suoi occhi erano fieri e semichiusi e lampeggiavano multicolori sotto le pesanti palpebre. I suoi occhi non erano mai due volte dello stesso colore, ma tutti i colori erano belli.

Ora l'irrequietudine stava tornando. Conosceva bene quella sensazione, il familiare brivido di scontento che dilagava sempre più forte nella sua mente. Era giunta l'ora di rimettersi in caccia di qualcosa di pericoloso. In passato, quando aveva cominciato a rifornire la sua casa dei tesori, la sola bellezza gli bastava. Ma adesso non più. Adesso cercava anche il pericolo. I suoi gusti si facevano difficili e forse erano anche un poco decadenti perché aveva vissuto ormai per tanto tempo. Sì, per la cattura del suo prossimo tesoro voleva che ci fosse anche del rischio. Doveva andare alla ricerca di una grande bellezza e di un grande pericolo, conquistare la prima e vincere il secondo, e al solo pensarlo i suoi occhi mutarono di colore e il sangue prese a battergli più velocemente nelle vene con possenti ritmi. Si passò di nuovo la palma della mano sui disegni in rilievo della veste che gli modellava il corpo. I suoi grandi passi ritmici lo portarono senza far rumore sui disegni affilati del pavimento.

Nulla nella vita aveva ormai significato per lui, tranne queste bellissime cose che la sua passione per la bellezza aveva raccolto nel tempo. E anche con queste cominciava a diventare difficile. Sollevò lo sguardo verso una profonda nicchia nel muro proprio dove il corridoio svoltava, dove i suoi occhi soddisfatti non potevano mancare di vedere gli oggetti ivi racchiusi sotto la giusta inclinazione. Qui c'era un gruppo di tre organismi disposti in una maniera particolare che un tempo gli aveva provocato un intenso piacere. Sul loro mondo quegli organismi erano stati forse degli esseri viventi, forse perfino intelligenti. Ma non lo sapeva né gli importava. Non ricordava neppure se su quel mondo c'erano stati degli occhi per vedere e delle menti per riconoscere la bellezza. Gli importava solo che quegli esseri gli avevano procurato un acuto piacere ogni volta che svoltava in quel punto del corridoio e li vedeva cristallizzati in quella nicchia nella loro eterna perfezione.

Ma ora, mentre li osservava, si accorse che quel piacere si era appannato. I suoi occhi semichiusi mutarono di colore, mentre percorrevano lo spettro dal verde giallastro alla purezza più fredda del verde autentico. Questo particolare tesoro se lo era procurato senza il minimo pericolo e, ricordandolo, il valore ai suoi occhi ne diminuiva. La fitta di insoddisfazione si fece sempre più forte nella sua mente. Sì, era giunto di nuovo il momento di andare in caccia...

Ed ecco lì su una base di velluto, una grande pietra ovale la cui superficie esalava una luce morbida come un filo di fumo, una luce che si levava a volute e i cui colori mutavano con languorosa lentezza. Una volta il suo effetto aveva su di lui un effetto quasi ipnotico. L'aveva strappata dalla pavimentazione centrale di una immensa piazza di una città su un mondo di cui aveva ormai da tanto tempo perfino dimenticato la posizione. Non sapeva se per la gente di quella città quella pietra avesse un valore o per lo meno fosse un simbolo di bellezza. Ma se l'era conquistato con poca fatica e adesso, nel suo stato d'animo amaro e disincantato, anch'essa era priva di valore ai suoi occhi.

Affrettò il passo e l'intera struttura del palazzo tremò leggermente sotto i suoi piedi mentre percorreva con poderosa maestà il corridoio. La sua mano accarezzava ancora con aria assente la veste che gli copriva i fianchi poderosi, ma la sua mente non pensava a quei tesori che già aveva in quel momento. Perché luì stava ormai guardando al futuro e il colore dei suoi occhi aveva tremolato in un'alterazione dietro l'altra fino ad arrivare all'arancio, un colore caldo che denotava il suo spasmodico desiderio di pericoli. Le sue narici palpitarono leggermente e gli angoli della sua bocca si abbassarono in una smorfia. I rilievi affilati del pavimento emisero una dolce melodia sotto i suoi passi e i loro intricati disegni tremolarono sotto il peso.

Poi lui superò una fontana di fuoco colorato per possedere il quale aveva distrutto un'intera città. Spinse da una parte una faretra di giunco appesa al muro che conteneva dure lance di cristallo che solo la sua gran forza avrebbe potuto scagliare e quando la toccò le lance emisero una cascata di corrusche scintille, ma la loro bellezza non lo fermò.

La sua mente correva già avanti, verso quella stanza al centro del palazzo, una stanza rotonda e scura, in cui frugava l'universo alla ricerca di un luogo da saccheggiare e di cui apriva le porte verso l'avventura. Vi si avviò a grandi passi poderosi, passando oltre a tanti tesori a cui non prestò la minima attenzione, e la sua veste diafana svolazzava attorno a lui come volute di una nube.

Sul muro davanti a lui, nella penombra della stanza, c'era un grande schermo opaco e circolale che aspettava il suo tocco per illuminarsi. Una porta sul tempo e sullo spazio. Una porta sulla bellezza e sul pericolo e su tutte quelle cose che gli rendevano la vita piacevole, una vita che forse era già andata fin troppo oltre. Ci volevano delle forti emozioni ora per scuotere quei suoi sensi appannati che un tempo rispondevano così prontamente a tanti di quegli stimoli che ora non ricordava neanche più. Sospirò e il suo grande petto si gonfiò. Al di là di quello schermo, in qualche imprecisato punto del cosmo, c'era un mondo su cui lui non aveva mai posato il piede e su di esso lo aspettava un tesoro che avrebbe messo in tentazione la sua noia e i cui pericoli l'avrebbero scacciata almeno per un poco.

Quando si avvicinò al muro lo schermo si illuminò e su di esso comparvero delle ombre indistinte mentre nella stanza si spandevano dei suoni vaghi. I suoi sensi meravigliosi colsero i rumori e le forme e li estraniarono nello stesso momento in cui si formavano; i suoi occhi erano rotondi e luminosi adesso e i fuochi arancioni che vi brillavano si fecero più cupi man mano che osservava la scena. Adesso le ombre sullo schermo si spostavano più in fretta. Qualcosa stava prendendo forma. Poi le ombre balzarono indietro e si concretizzarono vividamente in forme tridimensionali che tremolarono un istante per concretizzarsi nell'immagine di un paesaggio desertico sotto un vivido cielo cremisi. Dal suolo spuntava un cespuglio di alti fiori ondeggianti, di forma squisita, coi colori che mutavano in continuazione sotto quella strana luce. Lui li guardò annoiato e fece una smorfia. Lo schermo sbiadì.

Poi si mise a frugare di nuovo nel cosmo, scovando una scena più curiosa dell'altra e escludendola ogni volta. C'era una muraglia di pannelli traslucidi e intagliati attorno a una città che non si curò di identificare. Vide un grande uccello lucente dal piumaggio luminescente e una tappezzeria meravigliosamente arabescata con scene che non appartenevano a nessuna leggenda conosciuta, ma lasciò svanire tutte queste scene senza neppure riguardarle una seconda volta e il bagliore arancio dei suoi occhi cominciò ad appannarsi per la noia.

Ad un certo punto si arrestò un attimo di fronte all'immagine di un alto idolo scuro intagliato in una forma che non riconobbe, le sue grandi membra adorne di gioielli che sprizzavano fuoco e per un istante il suo cuore accelerò i battiti. Era piacevole pensare a quei gioielli sul suo corpo e vederli sprizzare gocce di fuoco mentre lui passava nei corridoi. Ma quando riguardò nuovamente la scena vide che l'idolo se ne stava isolato su un mondo deserto e che non avrebbe dovuto fare nessuna fatica per impadronirsi di quel tesoro. No, un bottino così facile gli avrebbe tolto ogni piacere. Sospirò di nuovo, dal profondo del suo potente petto, e lasciò che lo schermo ripresentasse nuove immagini.

La prima cosa che colpì il suo sguardo fu un lontano bagliore di un lampo dorato nel vuoto, poi seguì il lontano urlo proveniente da un mondo senza nome. Senza fretta lasciò che le ombre sullo schermo si concretizzassero in un'immagine. Per prima cosa fu il lampo, un lampo sibilante e sinuoso proveniente da un meccanismo cui dedicò solo un'occhiata disinteressata. Perché accanto ad esso c'erano due figure che stavano prendendo forma e mentre le osservava la sua irrequietezza si calmò e la veste svolazzante ricadde attorno a lui. I suoi occhi tornarono a risplendere arancioni. E in silenzio, osservò la scena con grande attenzione.

Quelle figure avevano una forma che non aveva mai visto prima d'allora. Assomigliavano vagamente alla sua, ma erano flessuose e molto slanciate e in proporzione grottescamente diverse dalla sua. Ma una di esse, nonostante la differenza, era... la osservò pensieroso. Sì, era bella. Dentro di lui sentì montare l'eccitazione. E più a lungo fissava quella forma, più distinta si faceva la sottile bellezza di quell'organismo. Non c'era l'ovvia travolgente bellezza dei gioielli che sprizzavano fiamme né quella del meraviglioso uccello piumato, ma una delicata bellezza di curve lunghe e lisce e di linee affusolate e un'armonica fusione di colori albicocca, bianco crema e caldo arancione. Le pieghe verdi azzurrine che l'avvolgevano costituivano probabilmente delle vesti. Si chiese se fosse un essere tanto intelligente da difendersi e se l'essere accanto al primo, che faceva sprizzare lampi dal meccanismo su cui era piegato, si sarebbe accorto e avrebbe reagito al rapimento del compagno.

Lui si chinò ancora di più sullo schermo, col respiro che cominciava a farsi accelerato e gli occhi da cui cominciava a trasparire una prima sfumatura rossa che significava eccitazione. Sì, era una cosa bellissima. Un meraviglioso trofeo per le sue sale. Se la vide per un attimo in una cornice i cui ornamenti avrebbero fatto risaltare le dolci e sottili curve della creatura stessa, colorati per mettere in risalto la delicatezza del colore dell'esemplare. Certo un bottino per cui valeva la pena di darsi da fare... sempre che ci fosse del pericolo tale da rendere degna la conquista...

Posò le mani ai lati dello schermo e si chinò ancora di più verso di esso, fissandolo con occhi che ora erano pericolosamente scarlatti. Quel lampo sembrava una specie di arma. E se quegli esseri erano dotati di intelligenza, sarebbe stato divertente cercare di scoprire qual era il limite della loro mente e la potenza dell'arma che usavano...

Li osservò ancora per un momento, col respiro sempre più accelerato, le possenti spalle piegate in avanti. Poi con una mossa aggraziata si liberò della diafana veste e lanciata una rauca risata si lanciò agilmente nel varco aperto generato dallo schermo. Si gettò così, nudo e senz'armi, con gli occhi scarlatti e fiammeggianti. Ecco cos'è che rendeva la vita veramente degna di essere vissuta. Il pericolo e la bellezza al di là del pericolo...

Le tenebre lo avvolsero in un vortice e lui sfrecciò attraverso l'infinito senza dimensioni lungo un corridoio che lui stesso aveva creato.

 

La ragazza si rilassò sulla panca di metallo e accavallò una bella gamba slanciata sull'altra, facendo scintillare i lustrini che costellavano le pieghe della gonna.

«Quanto ti ci vorrà ancora, Paul?» chiese.

L'uomo le lanciò un'occhiata da dietro la spalla e sorrise.

«Cinque minuti. Adesso non guardare... sto per riprovare.» Paul sollevò la mano per tirare giù la visiera trasparente e ricurva della maschera e riparare così il bel viso abbronzato dal bagliore. La ragazza sospirò e si spostò sulla panca, voltando via gli occhi.

Le pareti e il soffitto del laboratorio erano di un metallo opaco e riflettente, cosicché quando lei cambiò posizione il lampo verde azzurrino della sua gonna parve riflesso da mille specchi. Poi sollevò un braccio nudo per toccarsi i capelli e vide riflesso anche quel gesto. La massa chiara e indistinta dei suoi capelli ben curati e elegantemente tagliati sprizzava lampi d'argento.

Il mormorio di metallo ben oliato che si muoveva contro dell'altro metallo le disse che era stata spostata una leva e quasi istantaneamente nella stanza esplose un bagliore dorato il cui effetto era simile a quello provocato da una folgore che si frammenta sibilando in pieno giorno. Per un lungo momento le pareti stesse vibrarono per la luce e il rumore. Poi il sibilo morì e il bagliore scomparve. Nell'aria aleggiava un odore di metallo caldo.

L'uomo sospirò soddisfatto e sollevò entrambe le mani per togliersi la maschera. Da dietro il vetro lei lo sentì dire con voce indistinta:

«Bene, è fatta. Adesso si può...»

Ma non finì mai quella frase e il casco gli rimase sulle spalle mentre fissava il muro di fronte a loro. Lentamente, quasi distrattamente, l'uomo spinse di lato il vetro che gli riparava il viso, come se lo reputasse responsabile di ciò che entrambi vedevano. Perché al di sopra del pannello di comando dei macchinari che aveva appena usato, si era proiettata un'ombra sul muro. Una grande ombra circolare...

Adesso era un cerchio di tenebre, come se mentre loro lo osservavano, il tramonto si fosse trasformato istantaneamente nella mezzanotte, una mezzanotte più tenebrosa di tutte quelle che la terra avesse mai conosciuto. La mezzanotte dell'etere, degli spazi senza fine tra i mondi. Ed ora l'ombra non era più tale, ma era una finestra che si apriva su quella mezzanotte e le tenebre della mezzanotte vi si riversavano attraverso...

Le tenebre fluirono su di loro come volute di fumo, togliendo tutta la luminosità alle macchine e ai capelli chiari della ragazza e alla pelle chiara delle sue spalle e ai lustrini della sua gonna finché l'uomo la guardò e la vide come prigioniera di volute di nebbia.

Allora lui si spostò sorpreso, facendo l'inutile gesto di scostare quelle tenebre dal viso con entrambe le mani.

«Alanna...» disse incerto. «Che è successo? Non ci vedo più molto bene...»

Poi lui la sentì esclamare qualcosa stupefatta e impaurita e la vide portarsi le mani agli occhi come se fosse diventata improvvisamente cieca. E provò delle improvvise vertigini che gli impedirono di muoversi e parlare. Questa, si disse smarrito, deve essere la cecità che precede uno svenimento e, ubbidiente, la sua mente gli trasmise la sensazione che il pavimento si inclinasse come se quel senso di debolezza e di cecità fosse dipendente da lui e non il risultato di una forza esterna.

Ma prima che uno di loro potesse fare qualcosa di più che emettere un leggero balbettio, mentre le loro menti cercavano disperatamente di razionalizzare ciò che succedeva ai loro sensi, le tenebre furono complete. La stanza parve traboccarne e la vista cessò di esistere.

Quando l'uomo sentì il pavimento tremare, pensò per un istante che si trattasse semplicemente della sua debolezza e della sua cecità che gli ingannavano i sensi. Perché il pavimento non poteva tremare così come sotto un passo pesantissimo. Perché lì dentro non c'era altri all'infuori di loro... non potevano esserci altri passi poderosi che si spostavano nel buio, e in silenzio, facendo tremare così le pareti...

Nel silenzio fu evidente che Alanna tratteneva il fiato. Non si trattò di terrore, dapprima, solo di sorpresa. E disse: «Paul... Paul... non...»

Poi lui udì l'inizio del grido di lei. Ne udì l'inizio, ma, cosa incredibile non ne udì la fine. Per un istante la pienezza del grido di lei riempì tutta la stanza, scaturito da una gola dilatata dal terrore; subito però il suono diminuì e svanì in lontananza, sfrecciando lontano da lui è sempre più debole e indistinto mentre l'eco del primo urlo aleggiava ancora nella stanza. L'impossibilità di una tale velocità diede l'ultimo tocco d'incubo a tutto l'episodio. Paul non riusciva a crederci.

Le tenebre si stavano smorzando adesso. Lui si strofinò gli occhi, non ancora ben certo se quella per caso non fosse stata solo una breve aberrazione dei suoi sensi ed esclamò: «Alanna... mi è sembrato...»

Ma quando riuscì a scorgere la forma indistinta della stanza, si accorse che essa era vuota.

 

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato tra quel momento e il momento in cui si era finalmente rizzato in piedi di fronte al muro su cui era proiettata ancora l'ombra. In quell'intervallo doveva esserci stato un periodo di frenetica ricerca, di semisterismo, di dubbio e di incredulità. Ma adesso, mentre osservava il muro su cui appariva ancora l'ombra nera, che attirava dentro di sé le ultime vestigia del tramonto dagli angoli della stanza, cessò di ragionare in modo razionale e di rifiutarsi di credere alla realtà.

Alanna era scomparsa. Chissà come, per quanto impossibile fosse, nelle tenebre che li aveva ingolfati era giunto un Qualcosa dal passo silenzioso e pesante, a tal punto da far tremare le pareti, che l'aveva afferrato nel momento in cui lei esclamava «Paul...» pensando che si trattasse di lui stesso. E mentre lei gridava, la cosa era svanita lontanissima dalla stanza portando la ragazza con sé.

Che fosse impossibile non ebbe il tempo di pensarlo. Ebbe solo il tempo di rendersi conto che niente gli era passato accanto diretto alla porta e che il grande cerchio sul muro davanti a lui era... un'entrata?... da cui Qualcosa era venuto e in cui Qualcosa si era poi ritirato... e non più solo...

E l'entrata si stava chiudendo.

Fece un passo in quella direzione, senza pensarci, ma spinto da un impulso, e incespicò sopra lo strumento che stava provando appena un attimo prima che quella follia entrasse nella stanza. La vista di quell'oggetto lo fece rinsavire un poco. Quella era un'arma: gli offriva il modo di afferrare una realtà sfuggente e di sapere che non era del tutto inerme. Per un attimo si chiese se dopo tutto un'arma avrebbe potuto servire contro Ciò che era arrivato con quelle tenebre impossibili, su piedi che non facevano rumore, anche se facevano tremare le fondamenta stesse dell'edificio...

Ma l'arma era pesante. E lontana dalla macchina principale avrebbe funzionato? Con le dita che gli tremavano afferrò la maniglia per trasportarla. Barcollò un poco nel sollevarla, ma si volse verso l'estremità della stanza dove il grande cerchio prosciugava le ultime tracce del tramonto e cominciava a sbiadire impercettibilmente sul muro. Se lui doveva seguire la cosa che li aveva assaliti di sorpresa, doveva agire rapidamente...

Uno sguardo alla leva della macchina principale, per assicurarsi che fosse in posizione, perché l'arma stessa attingeva energia solo da quella fonte... ammesso che riuscisse ancora a farlo a quella incommensurabile distanza che lui stava per affrontare... un ultimo sguardo incredulo alla stanza, proprio per essere sicuro che Alanna fosse veramente scomparsa...

La parte inferiore del cerchio era una soglia che si apriva sulle tenebre. Non riusciva a credere che sarebbe riuscito a passare attraverso quella piatta ombra su un muro altrettanto piatto e solido, ma stese davanti una mano con fare incerto e mosse un passo in quella direzione e poi un altro, piegato in due sotto il peso dell'apparecchio che trasportava...

Ma non c'era più peso. Non c'erano luci o suoni... solo un turbine selvaggio che lo fece roteare all'infinito nelle tenebre della sua cecità. Un turbinio senza fine... che durò interminabili eoni e che trascorse in un batter d'occhio. E poi...

«Paul! Oh, Paul!»

In preda alle vertigini, Paul si trovò in una sala circolare e semibuia con strani disegni che non riusciva a mettere a fuoco. Tutti i suoi sensi erano intollerabilmente alterati; neanche sulla vista poteva contare. In quella penombra gli parve di vedere Alanna, coi suoi capelli chiari che le ricadevano sulle spalle chiare e lucènti, il viso distorto dallo stupore e dal terrore...

«Paul! Paul, rispondimi! Cos'è stato? Cos'è successo?»

Ma lui non poteva ancora parlare. Poteva solo scuotere la testa e avvinghiarsi istintivamente al peso che gli tirava giù il braccio. Alanna parve rannicchiarsi sotto la protezione dei propri capelli ora disciolti e si abbracciò le spalle in preda alla paura, con le braccia nivee che mostravano cerchi più pallidi là dove premeva forte con le punte delle dita. I suoi denti sbattevano, ma non per il freddo.

«Come siamo finiti qui?» diceva. «Come ci siamo finiti, Paul? Dovremo tornare indietro, adesso, no? Chissà cosa ci è successo.» Parole quasi senza scopo, come se il loro suono fosse in quel momento più importante del loro significato. «Guarda dietro di te, Paul... lo vedi? Noi siamo usciti di lì.»

Paul si voltò. C'era un grande specchio circolare dietro di lui appeso al muro in penombra, ma uno specchio alla rovescia che non rifletteva la loro immagine, ma quella della stanza che avevano appena lasciato.

Un'immagine che era più chiara di una fotografia, in cui vedeva il suo laboratorio con le pareti dai riflessi opachi, le batterie, i quadranti e la leva sollevata davanti a loro che stava a indicare come forse il pesante apparecchio che portava sarebbe stato mortale. Chissà. Un'arma in un sogno? Ma erano sicuri che il Qualcosa che li aveva portati fin lì era un nemico?

Ma tutto questo era ridicolo. Era ancora troppo presto per accettare addirittura il fatto di trovarsi in quel luogo. La realtà era che si trovavano entrambi ancora nel laboratorio e che entrambi sognavano quell'avventura stranissima. E Paul ebbe anche l'impressione che se avessero trattato quella faccenda come realtà sarebbe stato pericoloso. Perché se avesse accettato anche solo l'idea che una cosa del genere potesse essere vera, allora forse... possibile che il fatto di accettare qualcosa, potesse renderla per questo stesso motivo vera?

Mise giù la sua arma e si strofinò il braccio stordito mentre si guardava attorno. Le parole gli venivano ancora con difficoltà ma doveva assolutamente chiedere qualcosa.

«Quella... quella cosa, Alanna. Cos'era? Come hai fatto a...»

Alanna si strinse ancora di più tra le proprie braccia e fu scossa da un altro brivido. I lustrini verde azzurrini brillarono freddamente come tante stelle quando si mosse. Anche la sua voce tremava e anche la sua mente sembrava incerta dietro la vacuità degli occhi. Ma quando rispose, le sue parole avevano senso. E riecheggiarono anche i pensieri di lui.

«Io sto sognando tutto questo, lo sai.» La sua voce sembrava lontanissima. «Questa non è la realtà. Ma... qualcosa mi ha preso tra le sue braccia e mi ha portata qui.» Col capo accennò al laboratorio riflesso nello specchio. «E c'è stato come un turbine e poi...» di nuovo rabbrividì.

«Non so...»

«L'hai visto?»

La ragazza scosse la testa. «Può darsi. Non ne sono sicura. Mi girava talmente la testa... credo sia uscito da quella porta. Ma tu la chiameresti porta?» La sua risata rasentava l'isteria. «Mi è parso di sentire che i suoi piedi si allontanavano.»

«Ma cos'era? Che aspetto aveva?»

«Non so, Paul.»

Paul serrò le labbra sulle domande che gli venivano da fare. Qui, nel sogno, molte cose erano aliene. Quei disegni sulle pareti, per esempio. Gli parve di comprendere come si poteva guardare qualcosa e non essere affatto sicuro di cosa si trattasse. E i brividi spasmodici di Alanna dimostravano che lo shock doveva avere inalzato come una barriera protettiva attorno alla sua mente nei confronti di gran parte di quanto era successo. La ragazza disse:

«Non torniamo indietro adesso, Paul?» E gli occhi di lei si spostarono verso l'immagine del laboratorio. Era una domanda infantile; la sua mente si rifiutava di accettare qualsiasi cosa che fosse appena fuori dall'essenziale della loro situazione. Ma lui non riuscì a risponderle. Il suo primo impulso fu di dire: «Aspetta... ci risveglieremo tra un momento.» Ma se poi non fosse stato così? E se fossero rimasti intrappolati in quel luogo? E se la Cosa fosse tornata... con voce pesante, disse:

«Naturale che è un sogno, Alanna. Ma finché dura penso che dovremo comportarci come se fosse reale. Non voglio...» La verità era, pensò, che aveva paura. «Ma dobbiamo farlo. E anche tornare indietro non servirebbe fintanto che continuassimo a sognare. Perché quella Cosa tornerebbe semplicemente a riprenderci.»

Sì, quella cosa sarebbe tornata a grandi passi nel sogno per ritrascinarli indietro e infatti accade che la gente muoia nel sonno... muoia mentre è prigioniera dei propri sogni, pensò.

Con la punta del piede toccò l'arma ingombrante, pensando contemporaneamente in silenzio: «Questa forse potrà aiutarci. Se c'è qualcosa che può farlo, questa è proprio lei. E se non funzionerà, be', allora non servirà neanche scappare.» E lanciò un'occhiata verso l'alta e distorta apertura che doveva essere una porta che dava su un'altra parte di quell'inimmaginabile edificio creato dal sogno. Forse la Cosa era andata da quella parte. Forse loro avrebbero dovuto seguirla. Forse la loro più grande speranza di uscire sani e salvi da quell'incubo stava nel reagire sconsideratamente, seguendo la Cosa con l'arma prima che la Cosa si aspettasse di essere seguita. Poteva darsi che non si fosse neanche accorta della sua presenza in quel luogo. Forse aveva lasciato Alanna da sola in quella stanza in penombra, con l'intenzione di ritornare, senza sospettare di trovarla insieme a un difensore o pensando magari di trovare un difensore che era disarmato...

Ma poi, lo era armato? Sorrise storto.

Forse avrebbe fatto meglio a provare quell'arma. Eppure, per quanto ne sapeva, forse la Cosa lo stava osservando col suo sguardo alieno. Si rendeva conto di provare una forte riluttanza a farle sapere di avere un'arma di difesa. Perché ciò che contava era la sorpresa. Sarebbe stato meglio mantenere segreta quell'arma finché non ne avesse avuto bisogno, ammesso che sorgesse mai quel bisogno. Adagio premette il grilletto della lente che aveva liberato quel fascio di luce nel suo laboratorio ora lontano. Avrebbe funzionato in... un sogno? Per un lungo istante non successe nulla. Poi, avvertì lenta e delicata una pulsazione del tubo nella sua mano. Era il massimo della risposta che osava cercare in quel momento. Sì, c'era dell'energia. Ma sarebbe stata sufficiente? Non lo sapeva. Era impensabile, in realtà, che dovesse presentarglisi il bisogno di saperlo. Eppure...

«Alanna,» le disse. «Credo che faremmo meglio a dare un'occhiata qui intorno. Non ha senso starcene qui impalati ad attendere il suo ritorno. Potrebbe anche darsi che quella cosa ci sia perfettamente amichevole. Spesso gli esseri dei nostri sogni lo sono. Ma mi piacerebbe vedere come è fatto questo posto fuori di qui.

«Ci risveglieremo tra un minuto.» l'assicurò lei tra i denti. «Mi sento benissimo, almeno penso. Sono solo... un po' nervosa.» A Paul sembrò che la ragazza stesse riprendendosi dallo choc. Forse la prospettiva dell'azione, di qualsiasi azione, perfino di un colpo di testa come quello, era meglio dell'inattività per loro. Adesso, mentre sollevava l'arma, si sentiva più sicuro di se stesso.

«Ma Paul, non possiamo!» La ragazza si voltò a metà verso la porta, guardandolo in viso. «Non te l'ho detto ancora? Io ci ho già provato prima del tuo arrivo. C'è un corridoio all'esterno e il pavimento è tutto coperto da lame taglienti. Formano degli strani disegni, delie spirali affilate e delle forme insolite. Guarda.» La ragazza sollevò un lembo della gonna scintillante e sporse in fuori il piede. Paul vide delle lacerazioni nette nella suola di cuoio. Le sue spalle si afflosciarono un poco, poi disse:

«Be', diamogli lo stesso un'occhiata. Vieni.»

 

Il corridoio si stendeva davanti a loro, immenso, in un mare di luce purpurea, una serie infinita di nicchie gotiche e di arcate. Come per i disegni della stanza dietro di loro, su molte era difficile mettere bene a fuoco lo sguardo, troppo diverse dall'esperienza umana per trasmettere un qualche significato al cervello. L'occhio le percepiva confusamente, senza giungere ad alcuna conclusione. Paul pensò vagamente che quel corridoio sembrava un museo, con quelle grandi cornici sulle pareti.

Accanto alla porta c'era appoggiata un'altra cornice, alta e vuota. Misurava circa un metro e ottanta d'altezza ed era abbastanza profonda da ospitare un uomo lungo e disteso e tutt'attorno ai bordi c'era una decorazione sinuosa delicata e elegante che rispecchiava esattamente i colori della gonna verde azzurrina di Alanna, intrecciata da fili d'argento, il colore dei suoi capelli chiari e lucenti.

«Sembra una bara,» disse Alanna, così, senza un preciso scopo. Nella mente di Paul si agitò un orrendo pensiero che non volle accettare e respinse in fondo alla mente, ma adesso era contento di avere portato con sé la sua arma, il proiettore di luce.

Il corridoio riluceva di cose strane attorno a loro. C'erano moltissime cose che non riusciva a vedere bene, ma le decorazioni affilate del pavimento erano ben visibili. Girava la testa a pensare alla concezione totalmente aliena che stava dietro quel tipo di ornamento per un pavimento su cui si doveva camminare sia pure in sogno. Per un istante pensò ai grandi piedi che avevano fatto tremare il suolo nelle tenebre del suo laboratorio. In quel sogno invece camminavano su quel pavimento di lame taglienti. Doveva essere così.

Ma come?

Le spirali del disegno formavano anelli e rosoni. Dopo averli esaminati per un momento, disse: «Credo che potremmo farcela, Alanna. Bisogna camminare tra le lame... vedi, se si sta attenti c'è lo spazio sufficiente.» E se non avessero potuto prestare attenzione, se avessero dovuto scappare in fretta... «Dobbiamo rischiare,» disse ancora Paul ad alta voce e con queste parole ammise con se stesso, forse per la prima volta con se stesso che quel sogno poteva essere rischioso e presentare dei pericoli...

Impugnò più saldamente la sua arma e posò cori cura il piede in un punto della spirale d'acciaio privo di lame. Alanna, un po' indecisa, si afferrò al suo braccio per tenersi salda e lo seguì.

Attorno a loro il silenzio... vaste nicchie in cui regnava il silenzio. I due avanzarono molto lentamente osservando con tanto d'occhi per vedere di cogliere un segno di vita in lontananza, i loro sensi acutizzati al massimo, quasi in modo doloroso, per cercare di cogliere il minimo fremito del pavimento che li avrebbe avvisati quasi inconsciamente dell'avvicinarsi di passi poderosi. Ma ciò che aveva aperto loro la porta si era ormai allontanato, per un poco almeno, e li aveva lasciati in balia di se stessi.

Paul teneva pronta nella mano libera la lente dell'arma, e esercitava una leggerissima pressione sul grilletto di modo che il tubo pulsava leggermente contro il palmo della mano. Quel rassicurante contatto che esisteva ancora tra il suo lontano laboratorio e quel corridoio incredibilmente era proprio ciò che lo spingeva a procedere oltre su quel mosaico affilato.

Andarono avanti lentamente, ma passarono davanti a molte cose strane. Una enorme tenda trasparente pendeva dal soffitto a volte in pieghe che sembravano inamovibili come il ferro e loro due si infilarono in una piccola apertura triangolare dove le pieghe ricadevano in modo irregolare e quando ne sfiorarono i lembi si levò una cascatella di scintille di fuoco che li avvolsero senza far loro danno. Poi passarono davanti a una fontana che dal bacile al centro del corridoio faceva scaturire sprizzi di silenziosa fiamma e sulle pareti videro in nicchie e cornici cose che erano troppo aliene per ricordarne bene le forme. La loro alienità preoccupava l'uomo. Nei sogni generalmente si rivivono gli stimoli del passato, le paure, le speranze e i ricordi. Ma come si potevano sognare cose simili? Dove si potevano ritrovare cose come quelle nel passato dell'umanità?

Girarono attorno a una pietra ovale incastonata nel pavimento, dove le lame metalliche si piegavano attorno ad essa. Quando la guardarono bene provarono delle vertigini. Vertigini pericolose dal momento che una caduta in quel punto li avrebbe portati proprio sopra le lame taglienti come rasoi. E a un certo punto passarono davanti a qualcosa di indescrivibile appeso a un pannello nero sul muro, qualcosa che fece venire loro le lacrime agli occhi per la sua bellezza travolgente, una cosa di bellezza insopportabile, troppo totalmente fuori dall'esperienza umana per poter lasciare un chiaro ricordo nella loro mente una volta passati oltre. Rimaneva solo l'impatto emotivo che ricordava una bellezza troppo squisita perché la mente potesse afferrarla e conservarla. E l'uomo capì infine a quel punto che quella cosa non faceva minimamente parte del passato umano e non poteva certo essere un sogno.

Videro tutto questo con la strana chiarezza dei sensi resi acuti dall'incertezza e dalla paura, ma lo videro anche come attraverso una nebbiolina di sogno che svanì un poco man mano che andavano avanti. Per Paul stava presentandosi un dubbio meraviglioso e terribile. Possibile che dopo tutto quello non fosse un sogno e che loro fossero capitati in mezzo a una realtà aliena? E cosa voleva dire quella cornice là fuori dalla porta, quella cornice che assomigliava tanto a una bara ornata coi colori della gonna di Alanna e dei suoi capelli? Perché in fondo alla mente sapeva che quella cornice era per lei. Sapeva di camminare attraverso un museo di cose meravigliose e cominciava a sospettare che Alanna fosse stata trasportata anche lei lì per quello. Il pensiero sembrava assurdo, perfino in un sogno così folle, eppure...

«Guarda, Paul.» Lui scoccò un'occhiata a fianco. Alanna aveva alzato la mano per toccare una cornice azzurro acciaio sul muro, i cui bordi racchiudevano solo un leggero bagliore rosato. Adesso la mano della ragazza vi stava frugando dentro e lei aveva il viso animato. Evidentemente non le era venuto ancora da pensare all'altra cornice. Non le era venuto da pensare che da quel sogno forse nessuno di loro si sarebbe mai svegliato...

«Guarda,» gli disse ancora lei. «Sembra vuota, ma io sento qualcosa, qualcosa che sembra un ammasso di piume. Cosa pensi che sia?»

«Non sforzarti di cercare di immaginare,» rispose lui quasi bruscamente. «Tutte queste cose non hanno senso.»

«Ma alcune di esse sono così graziose, Paul. Guarda quella tempesta di neve, là avanti, tra i pilastri.» .,

Paul guardò. A poca distanza da loro, il corridoio era velato da una pioggia di fiocchi arabescati che sembravano immobili nell'aria. Forse erano solo un ricamo su qualche tenda troppo diafano per essere visto. Ma mentre li guardava, li vide tremolare leggermente. Tremolare e poi cadere in silenzio e poi tremolare di nuovo come... come se...

«Paul!»

Tutto si fermò un momento. Non aveva bisogno del grido di Alanna per far cessare i battiti del suo cuore, mentre si sforzava in modo addirittura intollerabile di sentire, vedere, provare... Sì, quella tenda di neve tremolava. E anche il pavimento tremava con essa in sintonia col ritmo di un tremito lontano...

«Ci siamo,» pensò lui. «Questo è tutto reale.»

Da qualche minuto ormai sapeva che non stava camminando attraverso un sogno. Si trovava proprio in mezzo a una realtà impossibile, e il Nemico ad ogni gran passo silenzioso, si faceva sempre più vicino e non c'era altro da fare che aspettare. Nient'altro. Il nemico voleva Alanna e Paul sapeva perché. Lui non l'avrebbe voluto e lo avrebbe scostato come un gigante scosta una pulce, per impadronirsi poi di Alanna... a meno che la sua arma non riuscisse a fermarlo. Il suo cuore prese a battere con colpi sordi che riecheggiavano quei passi lontani.

«Alanna,» disse Paul, con un leggero tremito nella voce. «Alanna, riparati dietro qualcosa... quel pilastro laggiù. Non fare il minimo rumore. E se te lo dico... scappa!»

Anche lui si infilò dietro un pilastro vicino, col braccio che gli doleva per il peso che portava, la lente che pulsava lentamente contro la sua mano come per promettergli di scatenare un uragano di energia. Chissà, forse avrebbe funzionato...

Non si udiva rumore di passi mentre il ritmo si faceva più forte. Ora solo la forza di quei tremiti che scuotevano il pavimento gli permettevano di giudicare come la Cosa si stesse avvicinando. Perfino il pilastro ora tremava e la tempesta di neve sussultava ogni volta che un piede possente poggiava senza far rumore sul pavimento. Paul pensò ai disegni delle lame di metallo che quei piedi dovevano calpestare con passi così fermi e sicuri.

Per un istante fu in preda al panico e si pentì di essere andato alla ricerca della Cosa. Si rammaricò di non essere rimasto con Alanna nella sala dello specchio e di non essere fuggiti di nuovo da quel passaggio turbinoso e nero da cui erano venuti. Ma non si può sfuggire a un incubo. Nella mano teneva stretta la lente della sua arma che pulsava come una gola viva in attesa di scatenare la sua luce contro... che cosa?

Ora la Cosa era molto vicina. Era appena oltre la tempesta di neve tra i pilastri. E poteva vedere un incerto movimento al di là di quel velo...

Poi la neve turbinò sulle spalle possenti della Cosa e si raccolse a nuvola attorno alla sua grande testa cosicché Paul non riuscì a vedere molto chiaramente cos'è che c'era in quel punto, qualcosa di alto e grottesco e terribile, con gli occhi che risplendevano scarlatti attraverso quel velo di neve. Paul si rese conto solo di quegli occhi e della maestosa bellezza di quell'essere, prima che la mano gli si chiudesse automaticamente attorno alla lente.

Per un istante senza tempo non accadde nulla. Era troppo stordito dalla grandezza stessa di quella Cosa per provare paura di fronte al fallimento dell'arma; la paura, mista a venerazione, escludeva ogni altro pensiero. Rimase perfino un poco meravigliato quando il bagliore dorato della lente gli scaturì dalla mano illuminando a giorno lo spazio che li separava.

Poi venne il sollievo, una debolezza che gli sciolse i muscoli mentre rivolgeva la sua arma mortale contro il Nemico e sentiva l'aria che sfrigolava d'energia e vedeva i pilastri di pietra che si annerivano sotto quelle scariche di luce. Era accecato dal loro splendore e poteva solo continuare a riversare quelle folgori luminescenti, strizzando bene gli occhi per ripararsi dal bagliore. Nell'aria si sentiva forte il puzzo del metallo e della pietra bruciati e da qualche parte sentì il fragore di una colonna che crollava, distrutta dalla folgore della fiamma. Certo anche la Cosa doveva essersi consunta e cadere... la speranza cominciò a fare capolino dentro di lui.

Fu il gemito di Alanna che gli disse che qualcosa non andava. Tardivamente alzò la mano per chiudere il visore trasparente della maschera che aveva ancora in testa e come per magia quel bagliore cessò di accecarlo. Attraverso i lunghi tentacoli di luce della sua arma vide i pilastri che cadevano e i disegni delle lame d'acciaio sul pavimento che diventavano azzurri e si fondevano. Ma in mezzo a quei pilastri che ora crollavano poté anche vedere...

Lo vide nel pieno splendore delle fiamme, vide quelle lingue di fuoco riversarsi a cascata sul suo petto possente e scivolargli via dalle spalle poderose come una cascatella d'acqua. E guardò tutta questa scena senza poter far nulla, impotente.

Gli occhi della Cosa erano passati dal cremisi a un irato color violetto, mentre si lanciava avanti con un solo passo possente e pesante, allontanandosi dal viso le scintille e allungando un braccio terribile...

«Alanna...» disse l'uomo con voce tranquilla, più bassa dello stridore della fiamma. «Alanna... faresti meglio a tornare indietro. Io cercherò di resistere il più possibile. Ma tu faresti meglio a scappare via, Alanna...»

Non poteva sapere se però lei aveva ubbidito. Non poteva distogliere maggiormente la propria attenzione dalla disperata resistenza che opponeva alla Cosa, doveva ritardarla, tenerla indietro ancora sessanta secondi, trenta secondi, anche solo per un istante ancora di vita indipendente. Ciò che sarebbe successo poi non poteva neppure indursi a pensarlo. Forse non ci sarebbe stata la morte... forse sarebbe stato qualcosa di più alieno e insolito della morte... Sapeva che quella lotta era senza speranza, ma sapeva che doveva continuare a lottare mentre ancora gli rimaneva un alito di vita.

C'era una stretta nicchia nel corridoio tra se stesso e la Cosa. Le scariche di luce avevano già indebolito una parete. Paul allontanò la lama di luce dal colosso che avanzava e puntò quel fuoco vivo sulle pietre annerite cercando di sgretolare la malta che le teneva insieme, mentre le travi di sostegno si piegavano sotto quel calore terribile.

Le pareti gemettero, e i blocchi che le componevano stridettero l'uno contro l'altro. Poi, lentissimamente cedettero, caddero. La polvere si levò in ampie nubi che nascosero il crollo finale del corridoio, ma attraverso di esso risuonò l'urlo dei lampi e lo stridore del metallo contro le pietre che cadevano. Poi, in lontananza, arrivò il gemito più profondo di una nuova pressione.

L'uomo rimase per un istante paralizzato, con la testa che gli girava per l'irragionevole speranza di aver fermato finalmente il Nemico, senza osare guardare troppo attentamente per paura di assistere al proprio fallimento. Ma la speranza e la disperazione raggiunsero quasi simultaneamente la sua mente mentre osservava la massa delle pareti che tremavano e per un attimo opponevano resistenza... ma solo per un attimo, non di più.

La Cosa si fece avanti tra le rovine mentre la polvere e i blocchi di pietra e le travi d'acciaio gli piovevano sulle spalle. Lampi dorati e frastagliati giocarono sul suo volto sibilando e stridendo nella loro futilità. La Cosa li ignorò. Scuotendosi di dosso le macerie del muro, continuò ad avanzare a grandi passi, con gli occhi violetti per la collera e le grandi mani protese in avanti.

E così l'arma aveva fallito. Paul lasciò andare il grilletto e sentì lo stridore della luce morire nell'aria mentre i lunghi nastri luminosi svanivano. Fu l'istinto, quell'istinto che attinse all'esperienza millenaria dei primi antenati dell'umanità che lottavano duramente per la propria vita, che gli fece roteare la pesante macchina al di sopra della testa per poi scagliarla in faccia al Nemico. E quando la pulsazione del tubo perse finalmente il contatto con la sua mano, gli parve quasi di aver perso un amico.

Scagliò l'arma lontano da sé, alla cieca, e nello stesso tempo roteò su se stesso e fuggì via. Il pavimento costellato di lame taglienti gli fuggì sotto i piedi. Se fosse riuscito ad assumere nella corsa un ritmo che lo portasse da un punto privo di lame all'altro, avrebbe perfino potuto raggiungere la stanza in fondo al passaggio... non c'era nessun punto sicuro, da nessuna parte, ma l'istinto irragionevole lo spinse a cercare il posto da cui era arrivato fin lì...

Davanti a lui compariva di tanto in tanto un luccichio verde azzurrino e questo gli disse che anche Alanna correva per il corridoio tenendosi miracolosamente in equilibrio su quel pavimento mortale. Non poteva alzare però gli occhi per guardarla. I suoi occhi erano fissi sulle spirali e sugli anelli tra i quali posava precariamente i piedi. Dietro di lui, grandi piedi facevano tremare tutto il pavimento senza il minimo rumore.

Le cose che successero a quel punto, successero troppo rapidamente perché il suo cervello potesse incasellarle in una sequenza. Si accorse che il silenzio che era calato quando i sibili delle lame di luce erano cessati, era stato di nuovo rotto da un nuovo fragore. E ricordò di aver visto i disegni metallici del pavimento assumere delle nuove forme taglienti per via della luce dietro di lui... e a quel punto capì che il Nemico aveva trovato il grilletto dell'arma che lui aveva gettato e che adesso questa era tornata a pulsare in mano aliena.

Ma nello stesso istante avvenne che davanti a lui comparisse la porta d'entrata alla stanza e lui si gettò disperatamente in quella penombra, rendendosi conto di avere i piedi tagliuzzati e sanguinanti mentre vedeva le scure macchie che anche lei lasciava dove posava i piedi. Lo specchio era davanti a loro e mostrava l'insopportabile immagine di quella stanza a loro familiare e ora perduta nella quale non avevano più speranza di rientrare in vita.

E tutto questo avvenne simultaneamente a un terrificante tuono di grandi passi silenziosi che ormai lo incalzavano da vicino, segno di una presenza possente che improvvisamente fu nella stanza con loro, come un turbine di vento che sottraeva loro la stessa aria che respiravano boccheggiando. Sentì la collera che vorticava turbinosamente attorno a lui senza emettere né parole né suoni. Sentì delle mani mostruose che lo afferravano con la violenza di un tornado. Ricordò gli occhi violetti che avevano brillato nella penombra in quel breve istante di percezione prima che le mani lo scagliassero lontano.

Paul roteò nell'aria, poi un vortice ululante lo afferrò e lui prese a cadere accecato, stordito, paralizzato attraverso quello strano passaggio che l'aveva portato fin lì. In lontananza sentì Alanna gridare.

 

C'era il silenzio nella stanza in penombra al centro della casa dei tesori, un silenzio rotto solo da un attutito ululare proveniente dallo schermo. E lui, che lì era il padrone, gli stava davanti con gli occhi semichiusi, e il cui spettro stava passando dal violetto al rosso, segno che la collera stava scemando, e poi, rapidamente, dal rosso all'arancio, al chiaro, pallido, tranquillo giallo. Il suo petto si alzava e abbassava ancora un poco per l'eccitazione di quella piccola sconfitta che aveva subito, ma anche quell'eccitazione sparve presto e nell'insieme fu deludente.

Rimase anche un po' vergognoso della sua collera momentanea. Non avrebbe dovuto usare le ridicole luci di quei piccoli esseri contro di loro mentre precipitavano nel pozzo delle tenebre. Dopo tutto aveva mal giudicato le loro capacità. In realtà non erano davvero all'altezza di procurargli una lotta che potesse gradire veramente.

Era interessante, però, vedere come uno aveva seguito l'altro, con quella piccola arma che sprizzava scintille e pungeva il corpo ed era interessante notare che un solo fragile essere aveva avuto il coraggio di opporsi a lui.

Ma conobbe un momentaneo rimpianto per la bellezza della creatura bianco e azzurra che aveva proiettato lontano. Quelle lunghe linee lisce, il colorito delicato... Peccato che non valesse niente, perché era così incapace di reagire.

Incapace di reagire contro di lui, pensò, e contro l'impulso delle sue misteriose motivazioni. Sospirò.

Ripensò ancora una volta, quasi con rimpianto, alla bella cosa che aveva bramato e che era precipitata nel vortice con i lampi di luce che la investivano nelle tenebre.

L'aveva forse distrutta? Non lo sapeva. Adesso gli spiaceva che la collera provata davanti alla distruzione dei suoi tesori gli avesse fatto perdere la calma mentre loro fuggivano. Piccoli esseri inutili e tremebondi... lo avevano privato della bellezza con l'inganno proprio perché non erano in grado di affrontarlo direttamente, ma adesso non era nemmeno più furioso per questo. Gli rimaneva solo una sensazione di dispiacere, una sensazione vaga e confusa che non si dette la pena di chiarire logicamente. Rimpianto per la perdita di una cosa bella, rimpianto per essersi aspettato del pericolo da parte loro ed essere rimasto invece deluso, rimpianto forse per la propria noia che non gli concedeva più di indagare sulle motivazioni degli esseri viventi. Sì, decisamente stava invecchiando.

Il vortice ruggiva ancora nello schermo buio. Lui fece un passo indietro e la superficie del portale divenne opaca, escludendo così ogni suono. I suoi occhi erano di un giallo tranquillo, ora. Domani sarebbe ritornato in caccia e domani magari, chissà...

Poi uscì lentamente dalla stanza con lunghi passi silenziosi che fecero cantare debolmente sotto i suoi piedi i mosaici d'acciaio.

 

L'uragano galattico

The Storm

di A.E. Van Vogt

Astounding, ottobre

 

L'allora prolifico A.E. van Vogt continuò la sua produzione di storie ad altissimo livello anche nel 1943 (vedere il IV volume dedicato al 1942 e quelli precedenti per avere un'idea più approfondita). Nel 1943, oltre al racconto qui incluso, ha pubblicato, tra gli altri, The Search («Astounding», gennaio); M 33 in Andromeda («Astounding», agosto); The Beast («Astounding», novembre); il romanzo The Book of Ptath («Unknown, october); The Great Engine («Astounding», luglio); The Witch («Unknown», febbraio); Concealment («Astounding, settembre) e The Weapon Makers, un serial in tre parti che ebbe inìzio sul numero di febbraio di «Astounding» e che diventò una delle sue opere più famose.

The Storm è il seguito di Concealment, ma la sua qualità è di parecchio superiore. Insieme a un'altra storia dei Robot Delliani avrebbe poi costituito il romanzo The Mixed Men (1952).

 

(Nessuno seppe catturare bene l'atmosfera di Campbell quanto van Vogt. No, neanch'io. Io penso di essere riuscito a seguirne i suoi intendimenti di fondo, capivo la sua visione generale in materia di ragione, logica e pragmatismo, ma interpretavo a modo mio questi elementi. Non riuscivo assolutamente a imitare le sgargianti scenografie che riempivano gli scritti di Campbell. Van Vogt invece ci riuscì e specialmente in questa storia mi sembra proprio di riascoltare Campbell. A parte il fatto che van Vogt, quando faceva sul serio, lo faceva molto meglio. - I.A.)

 

Nell'immensità del cosmo, su immense distese spaziotemporali, i gas andavano alla deriva: le scorie di diecimila soli, un diffuso miasma di esplosioni ormai soffocate, di fuochi infernali ormai morti e le furie di centinaia di milioni di formidabili macchie solari... informi, senza scopo.

Ma era solo l'inizio.

Nelle grandi tenebre dello spazio, i gas fluivano. C'era del calcio in essi, e sodio e idrogeno e la velocità di deriva variava fino a trenta chilometri al secondo.

Ci fu un periodo senza tempo in cui la gravitazione intervenne a esercitare la sua funzione. La massa incoerente si suddivise in altre masse. Grandi ammassi di gas assunsero forme più precise in zone lontanissime una dall'altra e poi ripresero la loro corsa.

Alla fine giunsero nel punto in cui mille fiammeggianti soli di antimateria avevano tanto tempo prima «attraversato la strada» al flusso principale dei soli composti di materia. L'avevano attraversata e avevano lasciato i loro escrementi di gas.

Il primo scontro accelerò il moto di quella vasta massa di gas. La nebbiolina elettronica della materia si tuffò in avanti come un cavallo spronato a sangue e si incuneò nel cuore della nebbiolina positronica dell'antimateria che esercitò una reazione altrettanto violenta. E istantaneamente i positroni e gli elettroni orbitali più leggeri si levarono come un gigantesco fuoco cosmico di radiazioni dure.

L'Uragano galattico era nato.

I nuclei di antimateria privati ora delle cariche positive erano ora saturi di terribili e sbilanciate cariche negative e respingevano gli elettroni, ma tendevano ad attrarre i nuclei atomici della materia. A loro volta i nuclei di materia privati degli elettroni attiravano l'antimateria.

La risultante fu un violento annullamento di cariche al di là di ogni concezione.

Le due masse opposte si gonfiarono e si intrecciarono in un parziale e cataclismico equilibrio. Prima andavano in direzione diverse, ma man mano che passava il tempo si concentrarono sempre più in un unico ribollente vertice di energia.

La nuova rotta, dapprima incerta, si fece più precisa e divenne una geodetica attraverso l'universo tenebroso. Disteso su un fronte di nove anni luce, l'uragano procedeva ruggendo verso il suo destino a una velocità che era solo di poco inferiore a quella della luce.

I soli furono sommersi per una cinquantina di anni e quando riapparvero dietro l'uragano c'era solo una pioggia di raggi cosmici a dimostrare che essi erano stati i centri convulsi di una devastazione atomica per il resto invisibile e impalpabile.

Poi nel suo quattrocentonovesimo anno siderale di vita, l'uragano tagliò l'orbita di una Nova proprio nel momento della massima esplosione. E cominciò a muoversi!

 

Sulla mappa tridimensionale del quartier generale meteorologico del pianeta Kaider III, l'uragano era colorato di arancione. Questo significava che esso era il più grande dei circa quattrocento uragani che infuriavano nella regione dei Cinquanta Soli della Piccola Nube di Magellano.

L'uragano, che aveva la forma di un ammasso irregolare, era situato a 473° di latitudine, 228° di longitudine, con centro a 190 parsec, ma questo era uno speciale sistema di riferimento dei Cinquanta Soli che non aveva alcuna relazione con centro magnetico della Nube di Magellano nel suo complesso.

Il rapporto riguardante la Nova non era stato ancora registrato sulla mappa. Quando lo fosse stato, l'uragano avrebbe assunto un colore rosso, segno di pericolo.

Adesso avevano finito di osservare la mappa. Maltby stava coi consiglieri presso la grande finestra da cui si poteva vedere l'incrociatore siderale della Terra.

Quell'astronave al momento era poco di più di una scheggia scura visibile in lontananza nel cielo, ma la sua vista sembrava racchiudere un fascino sinistro per gli uomini più anziani.

Maltby si sentiva freddo e deciso, ma anche sardonico. Era divertente, pensò, vedere che quegli uomini... gli uomini dei Cinquanta Soli si volgevano proprio a lui nell'ora del pericolo.

A un certo punto distolse gli occhi dall'astronave e fissò il suo sguardo d'acciaio sul presidente grassoccio e sudaticcio del governo di Kaider III... e, sforzando la propria mente, costrinse l'uomo a guardarlo. Il consigliere, che non si era reso conto di quell'impulso coercitivo, e conscio solo di essersi voltato, chiese: «Le sue istruzioni sono chiare, Capitano Maltby?»

Maltby fece un cenno d'assenso. «Sì.»

Quella semplice affermazione doveva avere evocato un quadro ben vivido perché il viso del grassone sembrò tremolare come gelatina molliccia e emise un nuovo rivolo di sudore.

«Il peggio è,» gemette l'uomo, «che la gente di quell'astronave ci ha trovati assolutamente per caso. Infatti si sono imbattuti in una delle nostre stazioni meteorologiche e ne hanno catturato il guardiano. Questi però ha fatto in tempo ha inviare un allarme generale e poi li ha costretti a ucciderlo prima che potessero scoprire su quale dei cinquanta milioni di soli della Piccola Nube di Magellano ci trovavamo.

«Sfortunatamente i terrestri hanno poi scoperto che il guardiano, e così tutti noi, eravamo i discendenti di quei robot che erano sfuggiti al gran massacro dei robot della galassia principale quindicimila anni fa.

«Ma erano rimasti sconcertati, privi del minimo indizio. Così hanno ripreso la strada di casa, fermandosi di tanto in tanto sui pianeti che incontravano in una ricerca assolutamente casuale. E alla settima fermata ci hanno trovati. Capitano Maltby...»

L'uomo sembrava con la mente chissà dove. Si riscosse. Il suo viso era incolore, simile a un bianco sudario. Continuò con voce rauca:

«Capitano Maltby, lei non deve fallire. L'astronave ha chiesto un meteorologo che li guidi fino a Cassidor VII, dove risiede il governo centrale. Ma non deve arrivarci. Lei li deve guidare proprio contro il grande uragano situato a 473° di latitudine.

«Abbiamo incaricato lei di questa missione perché lei è dotato della doppia mente degli Uomini Misti. Ci rincresce di non avere sempre apprezzato a dovere i suoi servizi in passato, ma deve ammettere che, dopo le guerre degli Uomini Misti, era naturale che ci dimostrassimo prudenti nei...»

Maltby interruppe seccamente quelle scuse zoppicanti: «Lasci perdere,» disse. «Anche gli Uomini Misti sono dei robot e quindi la faccenda li riguarda esattamente, a mio modo di vedere quanto i Delliani e i non-Delliani. Ciò che pensino i membri della Resistenza della mia specie non lo so, né mi interessa saperlo. Le posso solo assicurare che farò del mio meglio per distruggere quell'astronave.»

«Sia prudente!» replicò il presidente con voce ansiosa. «Quest'astronave potrebbe distruggere tutti noi, il nostro pianeta, il nostro sole in meno di un minuto. Non ci aspettavamo davvero che la Terra fosse ormai così avanti rispetto a noi e avesse costruito delle macchine così distruttive. Dopo tutto, i robot non-Delliani e naturalmente gli Uomini Misti che ci sono tra noi sono perfettamente in grado di compiere lavori di ricerca; e i primi sono migliaia d'anni che si impegnano in studi febbrili.

«Ma per ultima cosa, ricordi che non le si chiede di commettere suicidio. Quell'astronave è assolutamente invincibile. Come possa sopravvivere a un vero uragano galattico non ce l'hanno detto quando ci hanno fatto fare il giro a bordo, ma siamo sicuri che sopravviverà. Ciò che succederà, però, sarà che a bordo tutti perderanno i sensi.