«Non ridere. Neanche dieci secoli fa la gente avrebbe sbuffato proprio così all'idea di un nero a capo del pianeta. Questa ristrettezza mentale ci sembra fantastica adesso, ma i nostri pregiudizi sembreranno altrettanto comici ai nostri pro-pro-pronipoti.»

Il robot disse ancora: «Al di sopra degli spassosi sillogismi lunari volteggia il cocchio delle eclissi funerarie.»

Quinby si mise al lavoro. Dopo un minuto, ormai cominciavo ad adattarmi anch'io al suo metodo di guardare al fondo delle cose, capii cosa stava facendo e lo aiutai.

Questo robot aveva solo la necessità di sapere leggere e trascrivere i messaggi decifrati e di maneggiare carte e libri. E le sue gambe si erano atrofizzate... più o meno come gli altri casi. Ma si trattava anche di un esemplare insolito sotto un certo punto di vista: era un robot che non aveva nessun bisogno di comunicare verbalmente. Era dotato della parola, ma non gli si chiedeva mai di esercitarne la facoltà; il risultato era che si era messo a snocciolare tiritere senza senso all'unico scopo di esercitare quella facoltà per lui inutile.

Quando Quinby ebbe finito di lavorarci attorno, il robot era ridotto semplicemente a un cervello criptoanalitico, la parte più essenziale, un paio d'occhi, un braccio e un organo scrittorio. Quest'ultima parte fruiva adesso di un collegamento interno, così che adesso invece di servirsi delle mani per trascrivere il messaggio, azionava direttamente la scrivente col pensiero. Ora aveva solo ciò che gli serviva effettivamente e niente di più. Le sue ultime parole prima di interrompergli il collegamento della parola furono: «Il concepibile chiacchiericcio dei corrugati cocomeri cincischiò il curioso cicaleccio delle carismatiche cornacchie.» Le sue prime parole quando fu stabilito il contatto diretto con la scrivente furono: «Adesso sì che sto bene. Grazie, capo.»

A quel punto andai a cercare il Capo. «Voglio avvertirla,» gli spiegai, «che potrà rimanere alquanto sorpreso da quanto vedrà.»

Il Capo rimase attonito e osservò il robot in silenzio. La prese bene, però, non diede fuori da matto come Thuringer. Ma si limitò a studiare a lungo quella nuova macchina senza dire una parola. Poi prese di tasca un foglietto e lo posò sul ripiano decodificatore. Gli occhi del robot lo guardarono, il braccio si allungò a prendere un libro e l'aprì. Poi il messaggio prese a comparire sulla scrivente. Il Capo lo afferrò prima che finisse nel tubo pneumatico, lo lesse e fece un cenno d'assenso.

«Funziona,» disse lentamente. «Ma così non è più un robot. È... è solo una macchina decodificatrice.»

«Un automa,» citai, «è una qualsiasi macchina dotata di un cervello di Zwergenhaus e capace di agire indipendentemente in base a degli ordini o sotto la guida di un essere intelligente. Codice Planetario, paragrafo num...»

«Ma ha un aspetto così...»

«Però funziona,» lo interruppi. «E non avrà più paralisi alle gambe e non impazzirà più né farneticherà sugli avari. Perché, vede, questo adesso è un robot usoforme.» E a quel punto gli schizzai rapidamente il progetto di Quinby.

Il Capo mi ascoltò con aria intenta. Di tanto in tanto mi mostrava il suo sorriso abbagliante, specialmente quando gli spiegai perché non potevamo passare l'idea alla Robinc. Quando ebbi finito, rifletté un attimo, poi alla fine disse: «Questa vostra idea è grandiosa. Ottima davvero. Ma anche le difficoltà sono grandi. Non c'è bisogno che le venga proprio io a raccontare la storia dei robot,» mi disse e cominciò a fare proprio questo. «Di come la scoperta di Zwergenhaus sia rimasta in letargo per un secolo e mezzo perché nessuno osava sconvolgere il sistema economico mettendola in pratica e di come la Seconda Guerra di Conquista abbia spopolato a tal punto la Terra che l'impiego dei robot non solo divenne possibile ma addirittura necessario. E di come la nostra società oggi abbia delle salde fondamenta proprio sui robot di modo che il grado più basso di un lavoratore è caporeparto. Tutto l'impero è basato sui robot e i robot sono la Robinc. Non possiamo combattere la Robinc.»

«La Robinc sta lentamente portando all'esaurimento tutte le nostre risorse di minerali metallici e radioattivi, non è così?» chiese Quinby.

«Può darsi. Chi vuole provocare il panico può sempre trovare delle statistiche che...»

«E i nostri usoformi richiederanno solo una frazione della materia prima che richiedono gli androidi della Robinc.»

«Osservazione giusta. E anche importante. Lei mi ha convinto che i robot androidi sono un clamoroso esempio di assurdo spreco e questa epidemia mostra anche che i robot sono per di più pericolosi. Ma non posso permettermi di mettermi contro la Robinc proprio in questo momento. La mia posizione, voglio essere assolutamente franco, signori, la mia posizione è troppo precaria. Ho anch'io dei problemi.»

«Perché non prova a servirsi di Quinby?» gli dissi. «Io avevo un problema, l'ho sottoposto a lui e lui ha visto con immediata chiarezza come stavano le cose.»

«Certo, con una chiarezza che l'ha portato a un altro problema ben più vasto e difficile,» osservò il Capo. «E poi non sono neanche sicuro che il mio problema rientri nel suo campo. Infatti riguarda il modo di mescere un cocktail Triplanetario.»

L'eccitazione seguita alla nostra impresa mi aveva fatto dimenticare la mia testa. Adesso a quel ricordo, me la sentii di nuovo pulsare. «Un Triplanetario?»

Il Capo ebbe un attimo di esitazione. «Signori,» disse alla fine, «devo chiedervi la massima segretezza.»

Gliela garantimmo.

«Ma anche con la vostra promessa non posso fornirvi troppi particolari. Come voi sapete l'Impero detiene certi diritti minerari in certe zone di Marte... non oso essere più specifico in merito. I nostri diritti consistono essenzialmente nella possibilità di mantenere i nostri stock di materie prime. Ma questi diritti ci sono concessi solo su licenza, mediante un accordo che deve essere rinnovato ogni quinquennio. Prima d'oggi naturalmente è sempre stato rinnovato, ma il recente successo del Partito Planetario su Marte, partito che sostiene l'abolizione di ogni contatto interplanetario rende assai dubbio l'imminente rinnovo. Nei prossimi tre giorni dovrò conferire in questi uffici con un alto dignitario marziano che viaggia in incognito e la nostra concessione dipende dal risultato di questo incontro.»

«E il Triplanetario?» chiesi. «Il Partito Planetario vuole forse abolirlo per una questione di principio?»

«È probabile,» rispose il Capo con un sorriso. «Ma questo alto personaggio non è un membro del partito ed è un sostenitore del Triplanetario. E odia viaggiare, perché solo su Marte, afferma, sanno mescere come si deve questo cocktail. Se solo potessi rallegrargli il viaggio offrendogli un Triplanetario perfetto...»

«Guzub!» gridai. «Il barista del Sunspot. È un marziano e il Triplanetario è la sua specialità.»

«Lo so,» ammise il Capo con aria triste. «Purtroppo Dza... il personaggio in questione una volta mi ha detto che Guzub era appunto l'unico individuo su questo pianeta in grado di preparare quel cocktail, tutti gli altri non sanno dosare mai bene il vuzd, ma Guzub è un membro in esilio dei Lealisti Varjiniani e odia tutto ciò che rappresenta l'attuale regime. Non acconsentirebbe mai a preparare il suo capolavoro per il mio ospite.»

«Potrebbe ordinare un Triplanetario al Sunspot e farlo portare qui con un corriere spec...»

«Sa bene anche lei che il Triplanetario deve essere bevuto entro trenta secondi dalla sua preparazione perché il primo sorso abbia la fragranza ideale.»

«Allora...»

«D'accordo,» disse Quinby. «Lei ci faccia sapere quando arriverà il suo pregiato ospite e noi gli faremo trovare pronto uno strepitoso Triplanetario.»

Il Capo aveva un'aria dubbiosa. «Se lei è proprio sicuro... perché un pessimo Triplanetario potrebbe essere ancora più pericoloso di non farglielo trovare...»

«E se ci riusciremo,» mi intromisi in fretta, «lei riprenderà in considerazione questa faccenda dei robot usoformi?»

«Se il contratto minerario andrà in porto in modo soddisfacente, dovrei trovarmi in una posizione abbastanza forte da poter affrontare direttamente la Robinc.»

«Allora lei avrà il suo Triplanetario,» affermai con sicurezza, chiedendomi contemporaneamente quale diavolo fosse questa volta l'idea di Quinby.

 

Come d'accordo raggiungemmo Mike al Sunspot. Stava bevendo un Triplanetario. «Questo si che è buono,» annunciò. «Qui dentro si sente la propulsione spaziale e gli uragani stellari. Negli altri posti invece...»

«Lo so,» risposi, «Trovato il posto che fa per noi?»

«Al bacio. Aspettate che...»

«Alt. Prima dobbiamo sapere se ci servirà a qualcosa. Guzub! Un Triplanetario.»

Lo osservammo come ammaliati mentre mesceva il cocktail. «Vediamo cosa fa esattamente,» aveva detto Quinby. «Poi costruiamo un barista usoforme che sarà infallibile. Questo servirà a soddisfare l'inviato marziano e allo stesso tempo ricorderà al Capo il motivo per cui gli diamo una mano.»

Ma tutto quel che vedemmo fu un baluginio di tentacoli roteanti. Prima un lampo mentre ogni tentacolo prendeva qualcosa: uno lo shaker, uno il coperchio, uno il bicchiere e altri tre le bottiglie del rum, del margil e del vuzd. Poi seguì una specie di spasmo che scosse tutto il corpo rotondo di Guzub mentre componeva gli ingredienti nella quantità esatta e infine ci fu un meraviglioso effetto di girandola quando mescolò il tutto e lo travasò nel bicchiere.

Poi Guzub mi passò il cocktail e io mi ritrovai al punto di partenza.

Ora che l'ebbi finito avevo preso coraggio. «Senti, Guzub,» gli dissi. «Sai che è proprio una cannonata?»

«Cerdo,» gorgogliò Guzub. «Il mio Triplanedario è sempre una cannonada.»

«Non c'è nessun altro che sappia farlo come te, Guz. Ma dimmi. Quanto vuzd ci metti?»

Guzub fece quel suo caratteristico gesto che equivaleva a una scrollata di spalle. «Vi dirò la veridà, ragazzi. Non lo so proprio. Una volda o l'aldra cercherò di scoprirlo. Ma adesso non saprei proprio. Lo faccio isdindivamente.»

«Preparamene un altro. E vedi di controllarti così da scoprirlo.»

«Gli affari vi vanno bene eh, se bevede dandi Driplanedari? Oh, ecco che si parde!»

Ma il turbine si arrestò a metà. Guzub rimase con tutti i suoi occhi puntati tristemente sulla caratteristica bottiglia verde a forma di cavatappi del vuzd. Per due volte fece per muovere quel tentacolo, poi lo ritirò. Alla fine ne versò un poco.

«Esattamente due gocce,» sussurrò Quinby.

Alla fine Guzub mi porse il cocktail con aria infelice. «Lo provi,» mi disse.

Lo provai e fu orribile. C'era troppo poco vuzd, cosicché si sentiva sia il sapore dolciastro del rum che l'acre gusto del margil. E glielo dissi.

«Lo so, ragazzi. Il faddo è che se mi fermo per condrollarmi, vado in confusione. E non ci riesco.»

Ingollai la miscela. «Preparane un altro come al solito adesso. Chissà che non riusciamo a capirlo noi.»

Questa volta fu perfetto. Ma non eravamo riusciti a vedere niente.

La volta dopo si «controllò». E per la precisione usò quattro gocce e mezza di vuzd. L'unico gusto che si sentì fu il saporaccio acidulo del vuzd.

E la volta dopo...

Purtroppo a quel punto i ricordi si fanno assai vaghi. Come ho detto io sono un bevitore di whisky. E quattro Triplanetari uno di seguito all'altro... Poi mi hanno detto che la baldoria continuò fino alle ventitré, ora di chiusura, dopo di che Guzub accettò l'invito di Quinby a venire nel mio appartamento per continuare a mescerci Triplanetari. Però non so di preciso, perché ricordo solo di essermi trovato a un certo punto un piede piantato in faccia. Ma dopo che l'ebbi morso mi resi conto che non era mio per cui smisi di preoccuparmene. E smisi anche di preoccuparmi di tutto il resto.

 

Mi hanno detto che dormii per trantasei ore filate dopo quel party, insomma più di un giorno intero svanì completamente dalla mia esistenza. Quando mi svegliai mi sentii tutto ringalluzzito come un giovincello, ma mi ci volle un certo tempo per ricostruire quanto era successo.

Stavo giusto cominciando a mettere a fuoco le idee quando arrivò Quinby. Le sue prime parole furono: «Ti andrebbe un Triplanetario?»

Mi sentii improvvisamente bicentenario e uno straccio. Fu solo dopo che mi fui ingozzato con una colazione da superman che Quinby osò ripetermi l'offerta. Ma ormai mi sentivo coraggioso per cui disse: «D'accordo, ma con un bel whisky per mandarlo giù.»

Ne bevvi un sorso e dissi: «Dov'è Guzub? Non sapevo che c'è qui anche lui.»

«Infatti non c'è.»

«Ma questo Triplanetario... è perfetto. È il Triplanetario originale. E Guzub...»

A questo punto Quinby aprì la porta e al di là c'era il primo usoforme Quinby originale... non un rifacimento di un modello della Robinc, ma una creazione assolutamente nuova. Quinby ordinò: «Un Triplanetario» e l'usoforme scattò in azione. Era provvisto di tentacoli e le sue mosse erano esattamente simili a quelle di Guzub, solo che in questo caso era lui stesso lo shaker. Si versò i liquidi nello stomaco, li mescolò, poi versò il tutto da un sottile tentacolo cavo.

Squillò il televideo. E mentre io rispondevo, Quinby spostò rapidamente l'occhio elettronico in modo che non inquadrasse il barista usoforme. Sullo schermo comparve il Capo in persona. L'avevo già visto su quello schermo durante le riprese televisive, ma questa volta era lui personalmente in diretta.

Non perse tempo. «Stasera alle diciannove e trenta,» disse. «Non c'è bisogno che le spieghi, vero?»

«Ci saremo,» riuscii a dire con voce soffocata.

 

Uno speciale messaggero diplomatico ci portò il lasciapassare per fare entrare noi due e «un robot o macchina simile a un robot» nel palazzo del Consiglio. Ringraziai mentalmente il Capo per avere usato quella frase alternativa. Non aveva certo voglia di discutere con tutte le sentinelle che avremmo trovato sul nostro cammino sulla definizione tecnico-legale della parola robot. E ci fecero accomodare in un piccolo ufficio appena fuori della sala privata di ricevimento del Capo, un ufficio insonorizzato e privo di finestre; quindi non c'era pericolo che venissimo a scoprire qualche delicato segreto della diplomazia interplanetaria. E c'era un bar.

Un sogno di bar, una rapsodia di bar. Il vuzd, il rum e i margil erano presenti in tutte le marche che avevamo sentito nominare e che avremmo sognato per tutta la vita senza mai riuscire a vederle tutte quante. E anche il rifornimento di whisky era all'altezza.

Avevamo appena collocato il nostro usoforme di fronte al bar quando entrò un valletto. Era un androide, il quale ci disse : «Il Capo dice adesso.»

Quinby mi chiese: «Ne vuoi uno?»

Scossi la testa e scelsi una bottiglia di whisky.

«Due Triplanetari,» ordinò Quinby.

I tentacoli lampeggiarono nell'aria, il corpo-shaker dell'usoforme si agitò e il tentacolo cavo versò il cocktail. L'androide prese il vassoio dal nostro usoforme e lo guardò con un'espressione che era quasi un miscuglio di paura, odio e invidia, ammesso che le cellule elettroniche che gli facevano da occhi potessero esprimere qualcosa. Poi uscì col vassoio.

Mi voltai verso Quinby. «Da quando mi sono svegliato siamo stati così presi a prepararci per questa sera che non ho ancora capito come hai fatto a creare questo doppione di Guzub.»

Ci fu un clic e la stanza non fu più insonorizzata. Il Capo ci permetteva di sentire come veniva accolta la nostra creazione. Per prima si udì la sua voce tranquilla e riservata, quasi dolce. «Spero che sua magnitudine apprezzerà questo insignificante cocktail. Non è stato esattamente facile far sì che fosse degno dei raffinati gusti di sua magnitudine.»

Ci fu un attimo di silenzio, poi si udì un leggerissimo suono mentre la bevanda veniva sorbita quindi una espirazione. Sentivamo quasi il Capo che tratteneva il fiato.

«Perfeddo!» esclamò una voce profonda col tipico accento marziano che non riesce assolutamente ad avere ragione delle «t».

«Sono lieto che sua magnitudine sia soddisfatta.»

«Soddisfaddo è ancora dir poco, mio caro Capo. E adesso che mi ha dado questo raffinadissimo piacere...»

Il sonoro fu di nuovo staccato.

«Gli è piaciuto, eh?» disse Guzub II. «Ne volete anche voi, ragazzi?»

«No, grazie,» disse Quinby. «Chissà, forse avrei dovuto dargli anche un accento marziano. Dopo tutto sono i migliori baristi viventi. Magari quando passeremo alla produzione in massa...»

Io ingollai un bel bicchierone di whisky. Il suo delicato calore fu un vero piacere dopo il ricordo dei Triplanetari della notte precedente. «Senti,» dissi. «Noi abbiamo appena combinato qualcosa che procurerà una modifica al Codice e ci offrirà un futuro quali grandi rivoluzionari della progettistica robotica. Mi sento... mi sento come Ley quando è atterrato sulla Luna. E tu stai lì a preoccuparti solo dell'accento del barista.»

«Perché no?» chiese Quinby. «Che c'è di meglio nella vita che scoprire cosa sai fare e cercare di farlo meglio che puoi?»

Mi aveva incastrato. E cominciai ad avere delle leggere premonizioni sui guai che mi aspettavano con un genio che aveva idee di grande successo commerciale e nello stesso tempo la coscienza di un santo d'altri mondi. Così gli dissi: «Va bene. Non ti chiederò di far fuori questa bottiglia con me e in cambio ti chiedo di non interferire col mio tentativo di scolarla. Ma ritornando a quello che sai fare tu... come hai fatto a duplicare Guzub?»

«Oh, quello... è stato semplice...»

«...dopo averci pensato a fondo,» conclusi.

«Infatti.» C'era un'altra cosa da dire su di Quinby. Non capiva mai quando lo si pigliava per i fondelli. «Sì. Ho preso una di quelle nuove macchine fotografiche elettroniche, sai quelle che ti fanno mille fotogrammi al secondo. Non è stato facile a quell'ora della notte, ma ci siamo riusciti.»

«Ci siamo?»

«Be', tu mi hai aiutato. Hai impedido a quel tizio di farmi pagare un prezzo spropositato. O forse non ti ricordi più? Così abbiamo fatto le foto di Guzub mentre preparava i Triplanetari e ho potuto costruire questo usoforme con una precisione di movimenti al millesimo di secondo. La dose giusta di vuzd, a proposito, nel caso ti interessi, è di tre gocce virgola sei-cinque-quattro-sette-otto-due-tre. E si versa con un movimento verso il basso della terza giuntura del tentacolo. Ma non mi sembrava giusto sfruttare Guzub per costruire un robot che gli avrebbe fatto concorrenza e probabilmente gli avrebbe rovinato gli affari, così gli abbiamo promesso una generosa pensione attingendo alle royalties incassate coi baristi usoformi.»

«Gliel'abbiamo promesso "noi"?» dissi ancora, con voce più flebile.

«Sei stato tu a stilare il contratto.»

Non stetti lì a discutere. In fondo era giusto. Un buon uomo d'affari si sarebbe limitato a passare cinque crediti a Guzub per aver posato per quelle foto e poi lo avrebbe mandato al diavolo. Ma io cominciavo a vedere che mandare avanti un'impresa come quella della R.U.Q. non sarebbe stata solo una faccenda di buon affarismo.

Quando alla fine ci raggiunse il Capo, non avrebbe avuto bisogno di dire una sola parola, anche se poi ne disse molte. Non avevo mai visto quel suo sorrìso smagliante lampeggiare così allegramente. Non ci voleva altro; così l'Impero ebbe le sue concessioni su Marte e la R.U.Q. divenne una realtà.

 

Quando rileggo questa storia vedo che c'è una cosa che non va. Si tratta del branchiato. Io ho conosciuto Dugg Quinby, e voi l'avete conosciuto attraverso di me, nell'atto di correre in soccorso di un venusiano che una folla di terrestri stava tormentando. Ora, secondo le buone regole della narrativa, quel verde venusiano avrebbe dovuto giurare eterna gratitudine al suo salvatore e mentre ci trovavamo in qualche guaio avrebbe dovuto farsi vivo nel bel mezzo per risolverci ogni problema.

Così avrebbe dovuto andare, insomma. Nella realtà, il branchiato afferrò il suo inalatore e sparì senza neanche dire «grazie». Se c'è qualcuno che invece ci aiutò, quello fu Mike, che nella battaglia era stato il nostro più indomito avversario.

Il che significa, penso, che il vedere a fondo delle cose, può funzionare con gli oggetti inanimati e coi robot, ma non con gli esseri viventi, perché nessun essere vivente è mai realmente retto, neanche con se stesso.

Fatta forse eccezione per Dugg Quinby.

 

Conflitto notturno

Clash by Night

di Lawrence O'Donnell (Henry Kuttner e C.L. Moore)

Astounding, marzo

 

Su chi abbia effettivamente scritto questo poderoso racconto ci sono opinioni notevolmente contrastanti; alcune fonti infatti sostengono che Kuttner l'abbia scritto da solo, mentre altre sostengono che si tratta di una collaborazione. Ciò però che conta effettivamente è che Clash by Night è un importantissimo romanzo breve, addirittura una delle opere più convincenti che siano mai state scritte nella fantascienza sull'argomento delle civiltà sottomarine. I Kuttner (ma forse il solo Henry) scrissero nel 1947 anche un memorabile seguito dal titolo Fury, apparso anch'esso su «Astounding». In complesso lo pseudonimo di O'Donnell venne usato con parsimonia dai due coniugi, un altro esempio famoso è quello offerto da Vintage Season sul numero di settembre di «Astounding», nel 1946.

 

(Tutto ciò che Marte ha perso nel 1943 sono i suoi canali e i sogni di una civiltà intelligente (o i resti di una civiltà ormai morta) esistente su di esso. Venere invece ha perso il suo oceano, il suo clima relativamente mite, la sua atmosfera relativamente sopportabile, insomma il suo status della nostra sorellina quasi gemella. Per circa quindici anni dopo la pubblicazione di Clash by Night è stato ancora possibile scrivere degli oceani di Venere e io stesso ho pubblicato il romanzo Lucky Starr and the Oceans of Venus nel 1954. Purtroppo però in seguito sono arrivati l'astronomia a microonde, e le sonde interplanetarie e Venere si è rivelato essere un mondo perfettamente asciutto, su cui regna un calore spaventevole, sepolto sotto una densa atmosfera di anidride carbonica che a sua volta si trova sotto uno strato di nubi composte di acido solforico diluito. Ma il vecchio sogno è ancora oggi ricordato e Clash by Night è una delle sue espressioni migliori. - I.A.)

 

Introduzione

 

Qualche centinaio di metri sotto la superficie del basso mare venusiano, la nera cupola d'impervium che protegge la Fortezza Montagna grava accigliata sul fondo. Dentro la fortezza è Carnevale, poiché i montaniani celebrano il quattrocentesimo anniversario dell'arrivo dei terrestri su Venere. Sotto la grande cupola che protegge la città, tutto è luce, colore, allegria. Uomini e donne mascherati, risplendenti di celoflex e seta, vagano per le ampie strade ridendo, bevendo il forte vino di Venere. Il fondo del mare, come pure i bacini idroponici, sono stati accuratamente saccheggiati alla ricerca dei cibi più rari e raffinati per allietare le tavole dei nobili.

In mezzo alla gente in festa si muovono ombre furtive, sinistre, il cui volto li contraddistingue, in modo inequivocabile, come membri della Libera Compagnia. Le loro vesti eleganti non riescono a mascherare quell'impronta, frutto di anni di battaglie. Sotto la mezza maschera la loro bocca è dura, crudele. A differenza degli abitanti del fondo marino, la loro pelle è bruna, riarsa dai raggi ultravioletti che filtrano attraverso il perenne strato di nuvole di Venere. Sono come scheletri a un convivio. Rispettati, ma visti con risentimento. Sono i Liberi Compagni...

Ci troviamo su Venere, novecento anni fa, sotto il Mare delle Secche, non molto a nord dell'equatore. Un'epoca assai lontana dalla nostra, nel tempo e nello spazio. Tutto il pianeta delle nubi è punteggiato dalle fortezze sottomarine, e la vita non cambierà ancora per molti secoli. Guardando all'indietro, come facciamo adesso, da questa nostra civiltà del Trentaquattresimo Secolo, è fino troppo facile giudicare selvaggi gli uomini delle fortezze. Brancolanti, stupidi, brutali. Le Libere Compagnie sono da tempo scomparse. Le isole e i continenti di Venere sono stati domati e non c'è più guerra.

Ma nei periodi di transizione, di esasperata rivalità, la guerra è una presenza costante. Le fortezze combattevano l'una contro l'altra, ognuna per disarmare tutte le altre dei loro denti e artigli, col privarle delle riserve di korium, la fonte d'energia del tempo. Chi si dedica allo studio di quell'epoca lontana, si diletta a filtrare le leggende per ricavarne le autentiche verità sociali e geopolitiche. È ben noto che un solo fattore impedì alle fortezze di annientarsi a vicenda: l'accordo tra i gentiluomini che lasciava la guerra ai soldati, consentendo così alle città sottomarine di sviluppare la propria scienza e la propria cultura sociale. Quel particolare compromesso fu, forse, inevitabile. E portò al formarsi delle Libere Compagnie, le bande di mercenari perfettamente addestrati al loro compito specifico, pronti a farsi assoldare da qualunque fortezza che fosse attaccata, o volesse attaccare.

Ap Towrn nella sua monumentale opera, «Il ciclo di Venere», ne rievoca l'intera storia attraverso una successione delle più significative leggende. Altri storici, invece, l'hanno fatto attenendosi alla più scrupolosa asettica verità, che quanto ad asetticità, spesso supera quella delle stesse sabbie di Marte. Ma, di solito, non ci si rende conto che ai Liberi Compagni noi dobbiamo, tutto o quasi, il nostro attuale, elevatissimo grado di civiltà. Alla guerra, per merito loro, non fu consentito di sottrarre uomini e mezzi alle attività sociali e scientifiche del tempo di pace. Guerre e battaglie erano faccende altamente specializzate, a causa del progresso tecnico, l'elemento umano aveva perso molto della sua importanza. Ogni banda di Liberi Compagni raramente superava le mille unità.

Devono aver condotto un'esistenza strana, solitaria, esclusi dalla normale vita delle fortezze. Erano, per quanto necessari, delle vestigia del passato, come il marsupio o le zanne, degli animali superiori alla fine evolutisi nell'homo sapiens. Se non fosse stato per quei guerrieri, le fortezze sarebbero state coinvolte ben presto in una guerra totale, con conseguenze fatalmente catastrofiche.

Duri, coraggiosi, indomiti, al servizio del dio delle battaglie perché anch'esso finisse distrutto, combattendo per giungere alla propria, definitiva cancellazione, i Liberi Compagni hanno tracciato un solco tumultuoso nelle pagine della storia, con lo stendardo di Marte che sventolava, alto sopra le loro teste, nell'aria nebbiosa di Venere. Erano condannati all'estinzione, come prima di loro lo era stato il tirannosauro rex, ma continuarono a combattere come lui stesso aveva fatto, servendo, nella loro strana maniera, la figura di Minerva che si ergeva dietro a Marte.

Adesso sono scomparsi. Ma possiamo imparare molto, studiando il posto che occuparono durante il Periodo Sottomarino. Giacché, per merito loro, la civiltà s'innalzò un'altra volta ai vertici che un tempo aveva raggiunto sulla Terra, e li superò.

 

«Questi signori illumineranno il mistero

della supremazia e della vittoria;

essi cavalcano ritti nella storia,

ma non torneranno mai più.»

 

I Liberi Compagni occupano il loro posto nella letteratura interplanetaria. Adesso sono una leggenda, arcaica e strana. Perché erano guerrieri, e con l'unificazione la guerra è scomparsa. Ma noi possiamo capirli un po' di più di quanto poteva la gente delle fortezze.

Questa storia, basata in parti uguali su fatti storici e leggende, ci narra di un tipico guerriero di quel periodo, il capitano Brian Scott dei Liberi Compagni di Doone. Potrebbe anche non essere mai esistito...

 

I

 

«Oh,» gridano «Soldato qua,» «Soldato là,» e «Soldato, vattene via;»

ma gridano, «Grazie, Bravo Ragazzo,» quando la banda comincia a suonare.

La banda comincia a suonare, gente, la banda comincia a suonare...

Sì, gridano «Grazie, Bravo Ragazzo,» quando la banda comincia a suonare.

R. Kipling, 1900 circa

 

Scott trangugiò il bruciante uisqueplus e lanciò un'occhiata furiosa attraverso la fumosa taverna. Era un uomo petrigno, tarchiato, i folti capelli striati di grigio, la cicatrice di un'antica ferita gli attraversava il mento. Era sulla trentina, sembrava, ed era, un veterano, e aveva abbastanza buonsenso da indossare un semplice vestito di caloflex, piuttosto che le sete sgargianti e i tessuti iridescenti che rendevano così appariscente la gente tutt'intorno a lui.

Là fuori, visibile attraverso le pareti trasparenti, una folla allegra e chiassosa veniva trasportata avanti e indietro sulle strade mobili. Ma nella taverna c'era silenzio, salvo per la canzone intonata a bassa voce da un vecchio arpista, intento a rievocare antiche ballate col suo complicato strumento. La canzone finì, vi fu qualche scarso applauso, e subito da un altoparlante eruppe la musica chiassosa di un'orchestra. Le inibizioni svanirono di colpo, ai tavoli, nei separé e al bancone, uomini e donne cominciarono a ridere e a far chiasso, le coppie cominciarono a ballare.

La ragazza accanto a Scott, una figura esile, la pelle abbronzata, i lucidi riccioli neri che le ricadevano sulle spalle, gli lanciò un'occhiata interrogativa.

«Vuoi, Brian?»

La bocca di Scott si torse in una smorfia. «Suppongo di sì, Jeana. Andiamo?» Si alzò, la donna gli scivolò graziosamente tra le braccia. Brian non ballava troppo bene, ma sopperiva alla mancanza di pratica con una perfetta coordinazione muscolare. Il viso a forma di cuore di Jeana, coi suoi alti zigomi e le labbra d'un rosso vivido, si alzò verso di lui.

«Lascia perdere Bienne. Vuole soltanto stuzzicarti.»

Scott lanciò un'occhiata verso un separé, sul lato opposto della taverna, dove due ragazze sedevano con un uomo, il comandante Frederic Bienne dei Doones. Era un uomo alto, scarno, il volto dall'espressione amara. I suoi lineamenti regolari erano contorti in un perpetuo ghigno, i suoi occhi erano cupi sotto le folte sopracciglia scure. Adesso stava proprio indicando loro due sulla pista.

«Lo so,» ribatté Scott, «ed è proprio ciò che sta facendo in questo momento. Be', che vada al diavolo. Io adesso sono capitano, e lui è sempre comandante. È dura per lui. Così, la prossima volta, obbedirà agli ordini, invece di rompere lo schieramento cercando di speronare...»

«È stato questo, allora?» chiese Jeana. «Non ne ero sicura. In giro se ne dicono tante.»

«Che le dicano, l'hanno sempre fatto. Oh, Bienne mi odia da anni. Io lo ricambio. Non siamo fatti per andare d'accordo, tutto qui. Tutte le volte che mi sono guadagnato una promozione, lui s'è mangiato le unghie dal dispetto. Era convinto che avendo prestato servizio più a lungo di me, avrebbe meritato di far carriera più in fretta. Ma è troppo individualista, e nei momenti sbagliati.»

«Sta bevendo parecchio,» commentò Jeana.

«Lascialo fare. Sono tre mesi che siamo nella Fortezza Montana. I ragazzi si stancano, a star tanto tempo senza far nulla... e ad essere trattati così.» Scott indicò con un cenno del capo la porta, dove un Libero Compagno stava discutendo col taverniere. «Già, al solito, "Ingresso vietato ai militari in divisa". Be' al diavolo.»

Era impossibile udire la conversazione con tutto quel chiasso, ma era ovvio che si svolgeva su toni concitati. Poco dopo, comunque il soldato scrollò le spalle, la sua bocca articolò un'imprecazione, e se ne andò. Un uomo grasso in un separé, avvolto in una vivace veste scarlatta, volle aggiungere il suo commento:

«...nessun sudicio Compagno qua dentro!»

Scott vide il comandante Bienne, gli occhi socchiusi, alzarsi e dirigersi verso il separè dell'uomo grasso. Mosse le spalle in un'impercettibile scrollata. Che andassero pure al diavolo, i civili! Quell'imbecille si meritava proprio che Bienne gli spaccasse quella faccia lardosa. E quella sembrava appunto la conclusione più probabile, poiché il grassone era in compagnia di una ragazza, e non poteva più tirarsi indietro. Anche se Bienne, curvo su di lui dall'alto di tutta la sua statura gli stava rovesciando addosso qualcosa di molto insultante.

L'altoparlante ausiliario sgranò fuori alcune sillabe concitate che si perdettero nel baccano. Ma le orecchie addestrate di Scott colsero le parole. Annuì a Jeana, schioccò in modo significativo con la lingua, e disse: «Ci siamo».

Anche lei aveva sentito. Si sciolse dalla stretta di Scott. Questi si diresse verso il separè del grassone giusto in tempo per assistere all'inizio della rissa. Il grassone paonazzo come un tacchino, aveva colpito all'improvviso, centrando per puro caso la guancia scarna di Bienne. Il comandante, accentuando il sogghigno, fece un passo indietro alzando una mano stretta a pugno. Scott gli afferrò il braccio.

«Fermo, comandante.»

Bienne si girò di scatto, gratificandolo di un'occhiata furiosa. «Di che cosa s'immischia? Lasci che...»

Il grassone, visto che il suo avversario era distratto, prese coraggio e si fece avanti, roteando il pugno. Scott protese il braccio oltre Bienne, piantò la mano aperta in faccia al civile e spinse con forza. Il grassone crollò sopra il tavolo.

Una pistola comparve come d'incanto nella mano di Scott. Il grassone la vide, e udì la voce del capitano che gli diceva in tono brusco: «Badi agli affari suoi, signore.»

Il grassone si leccò le labbra, esitò, si sedette. Fra i denti bofonchiò qualcosa su quei maledetti Liberi Compagni e la loro insolenza.

Bienne stava ancora cercando di svincolarsi, pronto a fare a pugni col suo capitano. Scott rinfoderò la pistola. «Ordini,» lo rimbeccò, accennando con la testa all'altoparlante. «Capito?»

«... immediata. Gli uomini di Doone a rapporto al quartier generale. Il capitano Scott all'Amministrazione. Mobilitazione immediata...»

«Oh,» fece Bienne, anche se era ancora infuriato. «D'accordo, Ora vado. Ma c'era tutto il tempo per dare una lezione a quel pidocchio.»

«Lei sa cosa significa mobilitazione immediata,» grugnì Scott. «Essere pronti a muoverci senza un solo istante di preavviso. Ordini, comandante.»

Bienne lo salutò e si allontanò a malincuore. Scott ritornò al suo tavolo. Jeana aveva già recuperato borsetta e guanti e si stava ritoccando le labbra col rossetto.

Lo fissò, calma.

«Andrò a casa, Brian. Buona fortuna.»

Scott le diede un rapido bacio! Si sentiva eccitato alla prospettiva di una nuova avventura. Jeana capì la sua emozione. Gli rivolse un fugace sorriso, gli sfiorò lievemente i capelli, e si alzò. Uscirono nell'allegro tumulto delle strade.

 

Un vento gravido di sentori soffiò in viso a Scott. Arricciò il naso, disgustato. Durante il Carnevale, le fortezze erano ancor meno piacevoli, per i Liberi Compagni; tutto ciò faceva sentir loro con ancor maggiore acutezza l'abisso che li separava dagli abitanti delle città sottomarine. Scott si aprì la strada tra la folla e guidò Jeana da una strada all'altra fino al nastro centrale, il più rapido. Trovarono posto a sedere.

A un incrocio a quadrifoglio Scott lasciò la ragazza, dirigendosi verso l'Amministrazione, l'aggregato degli edifici più alti al centro della città. Sia il quartier generale tecnico che quello politico erano concentrati lì, salvo per i laboratori, che si trovavano alla periferia della città, accanto alla base della grande cupola. C'erano anche altre piccole cupole, a un miglio circa di distanza fuori dalla città, che venivano usate per gli esperimenti più rischiosi. Alzando lo sguardo, Scott ebbe motivo di ricordarsi della catastrofe che aveva unificato la scienza in una sorte di massoneria. Alto su di lui, sospeso in assenza di gravità sopra una delle piazze centrali, spiccava il globo della Terra, semiavvolto nelle pieghe di una coltre di plastica nera. In ogni fortezza di Venere c'era un identico «memento», sempre incombente, del perduto pianeta-madre.

Lo sguardo di Scott salì sempre più in alto, fino alla cupola stessa, come se avesse potuto penetrare l'impervium, e lo strato d'acqua spesso centinaia di metri, e la coltre di nuvole lassù, nell'atmosfera, fino alla stella bianca sospesa nello spazio, la cui luminosità raggiungeva un quarto di quella del sole. Una stella... tutto ciò che restava della Terra da quando l'energia atomica era stata scatenata lassù, due secoli prima. Il flagello si era diffuso come un incendio, liquefacendo pianure e spianando montagne. Nelle biblioteche esistevano nastri con la registrazione visiva dell'olocausto. Un culto religioso, quello degli Uomini del Nuovo Giudizio, era sorto, e aveva predicato la completa distruzione della scienza; i seguaci di quel dogma sopravvivevano ancora qua e là. Ma le zanne e gli artigli di quel culto erano stati smussati e resi inoffensivi quando tecnici e scienziati si erano uniti, bandendo per sempre ogni esperimento con l'energia atomica, e proclamando la condanna a morte per chiunque si fosse servito di quella forza, e non accettando nessuno nella loro consorteria se non avesse prestato, prima, il giuramento di Minerva...

«... di operare per il bene supremo dell'umanità... prendendo ogni precauzione per non danneggiare l'umanità e la scienza... chiedendo il permesso alle autorità prima di intraprendere un qualunque esperimento che comporti un pericolo per la razza... ricordando sempre quant'è grande la fiducia a noi concessa, e avendo sempre presente la morte del pianeta-madre a causa di un cattivo uso del sapere...»

La Terra, doveva essere stato un mondo ben strano, pensò Scott. La luce del sole, tanto per cominciare, non filtrata da uno strato di nubi. Ai vecchi tempi erano rimaste ben poche le aree inesplorate sulla Terra. Ma qui su Venere, dove i continenti non erano stati ancora conquistati — e non ce n'era bisogno, naturalmente, dal momento che ogni cosa necessaria alla vita poteva essere prodotta sotto le cupole — qui su Venere esisteva ancora una frontiera. Nelle fortezze, una cultura sociale altamente specializzata. Sopra la superficie, un mondo primevo, dove soltanto i Liberi Compagni avevano le loro roccaforti e le flotte — le flotte per combattere, le roccaforti per ospitare i tecnici che costituivano il nerbo della guerra di quei giorni, la scienza invece del denaro. Le fortezze sottomarine tolleravano le visite dei Liberi Compagni, ma non erano disposte a concedere alcun posto per i loro quartieri generali, tant'erano intensi i sentimenti di ripulsa, talmente acuto lo scisma, tra la guerra e il progresso culturale.

Sotto i piedi di Scott il nastro rapido divenne una scala mobile, che lo trasportò dentro l'edificio dell'Amministrazione. Balzò su un altro nastro, che lo portò fino ad un ascensore, e un attimo più tardi, si trovò davanti alla porta-tenda che recava dipinta la faccia di Dane Crosby, il presidente della Fortezza Montana.

La voce di Crosby disse: «Entri pure, capitano.» E Scott scostò la tenda, per trovarsi in una stanza di media grandezza, con affreschi murali e grandi finestre che si aprivano sulla città. Crosby, un uomo sottile dai capelli bianchi, vestito di seta azzurra, era seduto alla scrivania. Pareva un vecchio impiegato stanco, uscito dai libri di Dickens. All'improvviso, Scott pensò che il suo aspetto era del tutto ordinario, indistinguibile nella folla. Eppure, Crosby era uno dei più grandi socio-politici di Venere.

Cinc Rhys, capo dei Liberi Compagni di Doone, sedeva in un rilassatore. Il suo aspetto era l'esatta antitesi di quello di Crosby. Mentre tutta l'umidità sembrava essere stata risucchiata dal corpo di Rhys dalla luce attinica dei raggi ultravioletti, lasciando una mummia di cuoio brunico e tendini che sembravano fruste. Non c'era alcuna morbidezza in quell'uomo. Il suo sorriso era una smorfia. I muscoli risaltavano come corde d'acciaio fin sulle sue guance incavate.

Scott salutò. Rhys gli fece cenno di prendere posto in un altro rilassatore. L'espressione bramosa negli occhi di Cinc era significativa... un'aquila pronta a ghermire, che aveva annusato il sangue. Crosby la percepì, e un sorriso forzato gli si disegnò sul pallido viso.

«Ogni uomo al suo mestiere,» osservò, con una venatura d'ironia. «Suppongo che mi annoierei a morte se facessi una vacanza troppo lunga. Ma stavolta si troverà una battaglia non certo da poco tra le mani, Rhys.»

Il corpo tarchiato di Scott si tese istintivamente. Rhys lo fissò.

«La fortezza Virginia sta per attaccarci, capitano. Hanno assoldato i Tuffatori Infernali... l'organizzazione di Flynn.»

Vi fu un attimo di silenzio. Ambedue i Liberi Compagni erano ansiosi di discutere gli aspetti della questione, ma erano poco disposti a farlo davanti a un civile, fosse anche il presidente della Fortezza Montana. Crosby si alzò.

«Allora, l'entità e il modo del pagamento la soddisfano?»

Rhys annuì: «Sì, va bene. E mi aspetto, anche, che la battaglia abbia luogo tra un paio di giorni. Nelle vicinanze della Fossa di Venere, a occhio e croce.»

«Bene. Ho un favore da chiederle, per cui, se vorrà scusarmi per qualche minuto, io...» Lasciò la frase a metà, e oltrepassò la porta-tenda. Rhys offrì una sigaretta a Scott.

«I Tuffatori Infernali, capitano... sa cosa significa?»

«Grazie... Sì, signore. Non possiamo farcela da soli.»

«Giusto. Siamo a corto di uomini e d'armi. E recentemente i Tuffatori Infernali si sono fusi con la Legione di O'Brien, dopo che O'Brien è rimasto ucciso in quella scaramuccia al polo. Sono un'organizzazione forte, molto forte. E la loro specialità è l'attacco sottomarino. Direi che dovremo far ricorso al Piano H-7.»

Scott chiuse gli occhi, richiamando alla mente la scheda. Ogni Libera Compagnia aggiornava continuamente il suo archivio, che comprendeva un gran numero di elaborati piani d'attacco, ciascuno adeguato alle caratteristiche e alla potenza di questa o di quella Compagnia, su Venere. Revisionati di frequente, man mano che si compivano nuovi progressi tecnici e tattici, o le Compagnie si fondevano, e l'equilibrio delle forze cambiava, i piani erano così minuziosi che era possibile, letteralmente, metterli in atto con pochi istanti di preavviso. Il Piano H-7, Scott ricordò, comportava la richiesta di aiuto ai Mob, una piccola ma ben organizzata banda di Liberi Compagni guidata da Cinc Tom Mendez.

«Bene,» disse Scott «può mettersi in contatto con lui?»

«Penso di sì. Non ci siamo accordati sull'onorario. L'ho chiamato all'audio su banda ristretta, ma continua a rimandare... fino all'ultimo momento, quando potrà dettare le sue condizioni.»

«Quanto chiede, signore?»

«Cinquantamila in contanti, e il cinquanta per cento del bottino.»

«Direi che un trenta per cento sarebbe più equo.»

Rhys annuì. «Gli ho offerto il trentacinque. Forse manderò lei alla sua roccaforte... con carta bianca. Potremmo contattare altre Compagnie, ma Mendez dispone di ottimi rilevatori subacquei, che potrebbero farci assai comodo contro i Tuffatori Infernali. Non dispero ancora di sistemare ogni cosa per video. In caso contrario, lei dovrà volare da Mendez e comperare i suoi servigi... e a meno del cinquanta per cento, se ci riesce.»

Scott si sfregò la vecchia ferita sul mento con l'indice calloso. «Nel frattempo, il comandante Bienne è incaricato della mobilitazione. Quando...»

«Mi sono messo in contatto con la nostra roccaforte. I trasporti aerei sono già in viaggio.»

«Sarà una simpatica scaramuccia,» scoppiò a ridere Scott, e gli occhi dei due uomini s'incontrarono, in perfetta intesa. A sua volta Rhys ridacchiò.

«E con eccellente profitto. Fortezza Virginia ha una grossa scorta di korium... non so quanto, in tutto, ma certo ne ha in abbondanza.»

«Che cosa ha iniziato il baccano, questa volta?»

«La solita faccenda, suppongo,» disse, scarsamente interessato, Rhys. «Imperialismo. Qualcuno, a Fortezza Virginia, ha elaborato un nuovo piano per annettersi tutte le altre Fortezze. Succede sempre così.»

 

Quando la porta-tenda tornò a scostarsi, si alzarono di scatto. Il presidente Crosby entrò, seguito da un altro uomo e da una ragazza. L'uomo sembrava giovane, il suo volto fanciullesco non si era ancora indurito sotto i raggi ultravioletti. La ragazza aveva un aspetto delizioso, simile a un gingillo di plastica, sembrava irradiare intorno a sé una vivida luminosità. I suoi capelli biondi erano tagliati secondo la moda del momento. I suoi occhi, notò Scott, erano di un'insolita sfumatura verde. Ma non era soltanto graziosa. Era, sì, eccitante.

Crosby fece le presentazioni: «Mia nipote, Ilene Kane... e mio nipote, Norman Kane.» Tutti si sedettero.

«E se bevessimo qualcosa?» suggerì Ilene. «Tutto ciò puzza d'ufficialità e formalismo in modo soffocante. Dopotutto la battaglia non è ancora cominciata.»

Crosby scosse la testa. «In ogni caso, tu non eri invitata qui. Non cercare di trasformare questa riunione in un party... non c'è molto tempo, vista la situazione.»

«D'accordo,» mormorò Ilene, «posso aspettare.» E guardò Scott con interesse.

Norman Kane interloquì: «Mi piacerebbe arruolarmi nei Liberi Compagni di Doone, signore. Ho già presentato domanda, ma adesso che una battaglia è imminente, odio dover aspettare che la mia domanda superi tutta la trafila. Così, ho pensato...»

Crosby fissò Cinc Rhys. «Un favore personale, ma la decisione spetta a lei. Mio nipote è un disadattato... un romantico. La vita nelle fortezze non gli è mai piaciuta. Un anno fa se n'è andato e si è unito alla compagnia di Starling.»

Rhys sollevò un sopracciglio. «Quella banda? Non è una buona raccomandazione, Kane. Non sono neppure classificati come Liberi Compagni. Sono più simili a una banda di guerriglieri, del tutto privi d'etica professionale. Sono persino corse voci che pasticciassero con l'energia atomica.»

Crosby parve sorpreso. «Questa mi giunge nuova.»

«Non è niente di più di una voce. Ma il giorno che fosse provato senz'ombra di dubbio, i Liberi Compagni... tutti, nessuno escluso... si unirebbero e toglierebbero di mezzo Starling in fretta.»

Norman Kane pareva lievemente a disagio. «Suppongo di essere stato alquanto sciocco. Ma volevo entrare nel gioco del combattere, e la Compagnia di Starling aveva un certo fascino...»

Il Cinc si schiarì la gola. «Tipico. Spacconi e romantici, senza nessuna idea di cosa significhi realmente la guerra. Non hanno più di una dozzina di tecnici. E nessuna disciplina... una banda di pirati, niente più. Kane, la guerra, oggi, non la si vince con gente che insegue vani ideali romantici. Il soldato moderno è un esperto di tattica, che sa pensare, integrarsi in un'organizzazione e obbedire. Se lei si unirà alla nostra Compagnia, dovrà dimenticare tutto quello che ha imparato con Starling.»

«Mi prenderà, signore?»

«Penso che sarebbe poco saggio. Ha bisogno di un corso di addestramento.»

«Ma ho già esperienza...»

Crosby intervenne: «Sarebbe un grande favore, Cinc Rhys, se potesse fargli saltare le lungaggini burocratiche. L'apprezzerei molto, in tutta sincerità. Dal momento che mio nipote è ben deciso a fare il soldato, allora preferisco vederlo coi Doone.»

Rhys scrollò le spalle. «Molto bene. Il capitano Scott le darà gli ordini, Kane. E ricordi che la disciplina è di vitale importanza, per noi.»

Il giovanotto cercò di dissimulare un sorriso deliziato. «Oh, grazie, signore.»

«Capitano...»

Scott si alzò e fece un cenno a Kane. Uscirono insieme. Nell'anticamera c'era un visore, e Scott chiamò la sede locale dei Doone a Fortezza Montana. Gli rispose uno dei coordinatori, il cui volto fissava lo schermo con espressione interrogativa.

«Qui il capitano Scott. Oggetto: arruolamento.»

«Si, signore. Pronto a registrare.»

Scott spinse avanti Kane. «Fotografa quest'uomo. Si presenterà subito a rapporto al quartier generale. Nome, Norman Kane. Arruolarlo senza il corso di addestramento... ordini speciali di Cinc Rhys.»

«Ricevuto, signore.»

Scott interruppe il collegamento. Anche stavolta, Kane non riuscì a nascondere del tutto il suo sorriso soddisfatto.

«Va bene,» grugnì il capitano, con un luccichio di solidarietà negli occhi, «questo sistema la cosa. Ti metteranno ai miei ordini. Qual è la tua specialità?»

«Pilota, signore.»

«Bene. Una cosa ancora. Non dimenticare mai ciò che Cinc Rhys ti ha detto, Kane. La disciplina è maledettamente importante, e tu potresti non essertene ancora reso conto. Questa non è una guerra da cappa e spada. Non ci sono gloriose cariche di cavalleria. Niente esibizioni per il grosso pubblico... tutto ciò è scomparso fin dai tempi delle crociate. Basterà che tu ubbidisca agli ordini, e non avrai fastidi. Buona fortuna.»

«Grazie, signore.» Kane salutò, e uscì con passo alquanto spavaldo. Scott sogghignò. Kane avrebbe perduto fin troppo presto quell'andatura.

Una voce al suo fianco lo fece girare di scatto. Ilene Kane era lì, accanto a lui, snella e adorabile nella sua veste di celoflex.

«Malgrado tutto, lei mi sembra una persona molto umana, capitano,» lei disse. «Ho sentito ciò che ha detto a Norman.»

Scott scrollò le spalle. «L'ho fatto per il suo bene... e il bene della Compagnia. Un uomo che non sappia stare in riga causerebbe un sacco di guai, signorina Kane.»

«Invidio Norman,» disse la giovane donna. «Dev'essere una vita affascinante la vostra. Piacerebbe anche a me... per un po'. Non a lungo. Io sono uno dei prodotti più inutili di questa civiltà, non servo praticamente a nulla. Così, ho perfezionato un solo talento.»

«E quale sarebbe?»

«L'edonismo. Suppongo che lei lo chiamerebbe così. Mi diverto. Non capita spesso che mi annoi. Ma adesso sì, sono un po' annoiata. Vorrei parlare un po' con lei, capitano.»

«Be', l'ascolto,» fece Scott.

Ilene Kane fece una graziosa smorfia: «Non ho usato la parola giusta. Vorrei entrare nella psicologia, ma in maniera indolore. Una cena un po' di ballo. Può venire?»

«Non c'è tempo,» replicò Scott. «L'ordine di partire potrebbe arrivare in qualunque momento.» Non era sicuro di voler uscire in compagnia di quella ragazza della fortezza, anche se Ilene esercitava su di lui, decisamente, un sottile fascino, un'attrazione difficile da analizzare. Quella ragazza era il tipico esemplare della parte più piacevole di un mondo che lui non conosceva. Le altre sfaccettature di quel mondo non avevano alcun effetto su di lui; la geopolitica e le scienze militari non gli interessavano affatto, gli erano troppo estranee. Ma tutti i mondi si toccano in un punto: il piacere. Scott riusciva a capire il rilassamento delle popolazioni sottomarine, ma non sarebbe mai stato capace di capire i loro lavori e i loro impulsi sociali, né a provare simpatia per tutto ciò.

Fece la sua comparsa nel vestibolo anche Cinc Rhys, gli occhi stretti in due fessure. «Devo fare quella chiamata al visore, capitano,» disse. Scott capì cos'era implicito in quelle parole: l'alleanza operativa da sottoscrivere con Cinc Mendez. Annuì: «Sì, signore. Devo presentarmi a rapporto al quartier generale?»

Il volto duro e teso di Rhys parve distendersi all'improvviso quando il suo sguardo passò da Ilene a Scott. «È libero fino all'alba. Non avrò bisogno di lei fino a quell'ora, ma si presenti a rapporto da me alle sei di domattina. Senza dubbio anche lei avrà qualche ultimo dettaglio da sistemare.»

«Molto bene, signore.» Scott seguì con lo sguardo Rhys che usciva. Il Cinc aveva alluso a Jeana, naturalmente. Ma Ilene non lo sapeva.

«Allora?» insisté la ragazza. «Rifiuta il mio invito? Potrebbe offrirmi qualcosa da bere, ad ogni modo.»

C'era tutto il tempo. Scott rispose: «Sarà un piacere.» E Ilene infilò il braccio sotto il suo. Scesero in ascensore fino al pianterreno.

Quando uscirono sulla strada, Ilene alzò il viso e colse lo sguardo di Scott. «Ho dimenticato una cosa, capitano. Lei forse ha già qualche impegno. Non mi sono resa conto che...»

«No, no,» disse Scott, «niente d'importante.»

Ed era vero. E provò un vago senso di gratitudine nei confronti di Jeana, quando se ne rese conto. La sua relazione con lei era la migliore, vista la sua carriera. Libero matrimonio, così lo si definiva; Jeana non era sua moglie, né la sua amante, ma qualcosa a metà strada. La vita sociale dei Liberi Compagni aveva basi parecchio instabili; nelle fortezze erano visitatori, e nelle loro roccaforti lungo la costa erano... be', soldati. Nessuno si sarebbe portato una donna nella roccaforte, non più di quanto se la sarebbe portata a bordo di una nave in guerra. Così, le donne dei Liberi Compagni vivevano nelle fortezze, spostandosi dall'una all'altra, seguendo i trasferimenti dei loro uomini. E a causa dell'onnipresente pericolo di morte, i legami venivano di proposito tenuti sciolti. Jeana e Scott erano liberamente sposati, adesso, da cinque anni. Nessuno dei due accampava pretese sull'altro. E nessuna libera sposa si aspettava l'assoluta fedeltà da parte di un Libero Compagno. I militari vivevano sotto una disciplina talmente ferrea che, quando andavano in libera uscita, durante i brevi periodi di pace, spesso il pendolo della disciplina oscillava al limite, in direzione opposta.

Per Scott, Ilene Kane era una chiave che avrebbe potuto aprirgli le porte della fortezza; porte le cui serrature lui non avrebbe mai saputo forzare, e la cui comprensione gli sfuggiva.

 

II

 

Io, straniero e impaurito

in un mondo che non ho mai compreso.

Housman

 

Scott scoprì delle sfumature di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. Un'edonista come Ilene dedicava l'intera sua vita a tali sfumature: erano la sua carriera. Minuzie, come far sì che il forte ma insipido cocktail Fiordiluna acquistasse aroma e sapore filtrandolo attraverso una fettina di limone inzuccherata stretta fra i denti. Scott era un uomo da uisqueplus, e aveva tutto il disprezzo tipico militare per quelle che definiva «bevande idroponiche», ma i cocktail che Ilene gli suggerì erano robusti almeno quanto l'acido, ardente, ambrato uisqueplus.

Quella notte Ilene gl'insegnò molti altri piccoli trucchi, come quello d'inserire, tra un bicchiere e l'altro, brevi inalazioni di gas euforico, e di mescolare l'eccitazione dei sensi a quella mentale, compiendo fulminee, esilaranti corse, intese a dare, a una persona, la violenta intossicante ebbrezza della velocità. Erano tutte sfumature che soltanto una ragazza con l'educazione e l'ambiente di Ilene poteva conoscere. Ella, però, non era un esempio significativo della vita delle fortezze. Come aveva detto, era un virgulto, un fiore sterile sbocciato per caso sul possente rampicante che saliva, dritto e inesorabile, al cielo, la cui forza risiedeva altrove, nei lunghi, robusti viticci... scienziati, tecnici, politici e sociologi. Alla propria maniera, quella ragazza era condannata, come Scott lo era nella sua. Il popolo sottomarino serviva Minerva; Scott serviva Marte; e Ilene serviva Afrodite, non soltanto la dea del sesso, ma la patrona delle arti e del piacere. Fra Scott e Ilene vi era la stessa differenza che tra Wagner e Strauss, la differenza tra accordi tonanti e argentini arpeggi. In entrambi c'era una inespressa, agrodolce tristezza, della quale però, raramente sia l'uno che l'altro si accorgevano. Ma quel sottofondo veniva fatto emergere dal loro contatto. Il sentimento di cupa disperazione dell'uno trovava risposta in quello dell'altro.

Era Carnevale, ma né Ilene, né Scott, avevano la maschera. I loro volti erano già, di per sé, una maschera più che sufficiente, ed entrambi erano stati addestrati alla riservatezza, anche se in modo diverso. La bocca dura di Scott conservava la sua aspra severità anche quando sorrideva. E i sorrisi di Ilene fiorivano tanto spesso da esser privi di significato.

Per suo tramite, Scott fu in grado di capire la vita sottomarina assai più di quanto avesse potuto fare prima. La ragazza era per lui un catalizzatore. Crebbe, fra loro, una tacita intesa, che non aveva bisogno di parole. Entrambi si resero conto che, con l'avanzare del progresso, si sarebbero estinti ambedue. L'umanità li tollerava perché doveva farlo, per qualche tempo ancora. Scott serviva Marte in modo attivo; e la ragazza si rivolgeva passivamente, alla sua antitesi.

L'ubriachezza era ormai penetrata in profondità dentro Scott. Anche se non lo dava a vedere: i suoi ruvidi capelli grigio-argentei non erano scarmigliati, e il suo viso, duro bruciato, era impassibile come sempre. Ma quando i suoi occhi bruni incontrarono quelli verdi di Ilene, una scintilla di... di qualcosa, scoccò fra loro. Colore e luce e suono. Ora cominciarono a formare uno schema. Non erano più completamente privi di significato per Scott. Sedevano, molto dopo mezzanotte, in un Olimpo, una sorta di cosmo privato. Le pareti della stanza parevano non esistere. Un turbinante manto di nuvole vagamente luminiscenti sembrava scorrere caotico davanti a loro; udivano, fioco, l'ululato di un vento artificiale. Erano soli, isolati come gli dei.

E la Terra era senza forma e vuota; e l'oscurità avvolgeva l'abisso. Questa era la filosofia che aveva portato alla creazione di quell'Olimpo. Niente esisteva, nessun mondo, fuori di quella stanza; ciò stravolgeva i valori e le inibizioni parevano assurde.

Scott si rilassava su un cuscino translucido come una nuvola. Accanto a lui, Ilene si portò l'inalatore del gas euforico alle narici. Scott scosse la testa.

«Non adesso, Ilene.»

La ragazza lasciò che il tubo flessibile si ritraesse, tornando ad avvolgersi su se stesso. «Neanch'io. Troppo di tutto non è soddisfacente, Brian. Dovrebbe esserci sempre qualcosa di ancora non assaporato, qualcosa da gustare profondamente... Tu l'hai. Io no.»

«Come dici?»

«I piaceri... be', c'è un limite. Un limite alla sopportazione umana. E alla fine, io oppongo una resistenza sia psichica che fisica a tutto. Per te, c'è sempre l'ultima avventura. Non sai mai quando arriverà la morte. Non puoi fare progetti. I progetti sono noiosi: è l'inaspettato che conta.»

Scott scrollò leggermente il capo. «Neppure la morte è importante. È un'automatica cancellazione dei valori. O piuttosto...» Esitò, cercando le parole. «In questa vita puoi fare progetti, elaborare dei valori, poiché sono tutti basati su certe condizioni. Sull'aritmetica, per esempio. La morte è un mutamento, il passaggio a un diverso piano di condizioni, del tutto ignoto. E le regole dell'aritmetica non si applicano alla geometria.»

«Pensi che la morte abbia le sue proprie regole?»

«Potrebbe essere piena di regole, come non averne nessuna. Noi viviamo rendendoci conto che la vita è soggetta alla morte; la civiltà si basa su questo. Ed è per questo che la civiltà si concentra sulla specie e non sull'individuo. L'autoconservazione sociale.»

La ragazza lo fissò gravemente. «Non credevo davvero che un Libero Compagno si occupasse anche di filosofia.»

Scott chiuse gli occhi, si rilassò. «Le fortezze non sanno nulla dei Liberi Compagni. Non vogliono saperlo. Noi siamo uomini. E intelligenti, anche. I nostri tecnici sono in gamba quanto gli scienziati che lavorano sotto le cupole.»

«Ma lavorano per la guerra.»

«La guerra è necessaria,» dichiarò Scott. «O, almeno, adesso lo è.»

«E tu, come hai fatto a entrarci? Posso chiederlo?»

Scott scoppiò in una breve risata, a quella domanda. «Oh, non ho alcun oscuro segreto nel mio passato. Non sono un assassino in fuga. Si finisce per... migrare. Sono nato nella Fortezza Australia. Mio padre era un tecnico, ma mio nonno era un militare. Immagino di aver ereditato soprattutto da lui. Ho tentato, prima, molti mestieri e professioni, ma senza risultato. Io volevo qualcosa che... per l'inferno, non so. Qualcosa, forse, che richiedesse a un individuo tutto ciò che questi può dare. Il combattere è una di queste cose. È come una religione. Quegli esaltati, gli Uomini del Nuovo Giudizio, sono dei fanatici, ma si vede chiaramente che la religione è l'unica cosa che conta, per loro.»

«Ma sono uomini sporchi, barbuti, la mente distorta.»

«Perché è una religione basata su false premesse. Ve ne sono altre che attirano gente di tutt'altro tipo. Ma per me, in quei giorni, la religione era qualcosa di troppo statico, passivo.»

Ilene scrutò il suo volto scabro. «Avresti preferito una chiesa militante... i Cavalieri di Malta, ad esempio, che combattevano i saraceni.»

«Suppongo di sì. Non avevo valori. Ad ogni modo, ora sono un combattente.»

«Quanto sono importanti, per te, i Liberi Compagni?»

Scott aprì gli occhi e sorrise alla ragazza. All'improvviso, parve molto giovane.

«Dannatamente poco, in verità. Solo un richiamo emotivo. Perché intellettualmente so che è un gigantesco imbroglio. Lo è sempre stato. Sono assurdi come gli Uomini del Nuovo Giudizio. Il combattere è condannato. Perciò, non abbiamo nessun vero scopo. Suppongo che la maggior parte di noi sappia che non esiste un futuro per i Liberi Compagni. Fra poche centinaia d'anni... be'!»

«Eppure continuate ancora. Perché? Non è per i soldi?»

«No. Si prova... un po' d'ebbrezza. Gli antichi scandinavi avevano la loro follia dei berseker. Noi abbiamo qualcosa di simile. Per un uomo dei Doone, il gruppo è padre, madre, figlio, e il Dio Onnipossente e combatte contro gli altri Liberi Compagni quando è pagato per farlo, ma non li odia, perché questi servono lo stesso idolo vacillante. Ed esso sta vacillando, Ilene, sempre di più. Ogni battaglia che vinciamo o perdiamo ci porta più vicini alla fine. Noi lottiamo per difendere e per far progredire la civiltà che alla fine ci spazzerà via. Le fortezze, quando infine si unificheranno, non avranno più bisogno di un braccio militare. Vedo chiaramente la tendenza. Se la guerra fosse una parte essenziale della civiltà, ogni fortezza manterrebbe un proprio esercito. Ma, invece, ci tengono fuori... un male necessario. Se le guerre finissero oggi!» Scott strinse inconsciamente i pugni. «Tanti uomini potrebbero crearsi un'esistenza più felice qui su Venere... sotto il mare. Ma fintanto che i Liberi Compagni esistono, ci saranno sempre nuove reclute.»

 

Ilene sorseggiò il suo cocktail, fissando il grigio caos di nubi che tracimava come un'onda di marea tutt'intorno a loro. In quella fioca luminosità, il volto di Scott sembrava inciso nella pietra nera, fugaci scintillii comparivano nei suoi occhi. La ragazza gli sfiorò con delicatezza la mano.

«Tu sei un soldato, Brian. Non cambieresti mai.»

La sua risata fu gravida di amarezza. «Per l'inferno, certo che non cambierei, Ilene! Credi che combattere sia soltanto schiacciare un grilletto? Io sono uno stratega. Mi ci sono voluti dieci anni di addestramento. Mi sono inculcato in testa più nozioni di quante ne impari uno dei vostri migliori tecnici delle fortezze. Devo saper tutto sulla guerra, delle traiettorie dei proiettili alla psicologia di massa. Questa è la più grande scienza che il sistema abbia mai conosciuto, e la più inutile. Perché la guerra morirà nel giro di pochi secoli. Ilene, tu non hai mai visto la roccaforte di una Libera Compagnia. È scienza, scienza meravigliosa, rivolta soltanto a fini militari. Noi abbiamo i nostri specialisti in psicologia. Abbiamo i nostri ingegneri. Tutto è progettato alla perfezione, dai moduli di servizio alle sagome aerodinamiche delle navi. Abbiamo fonderie e fabbriche. Ogni roccaforte è un'intera città concepita per la guerra, proprio come le vostre fortezze sono concepite per il progresso sociale.»

«È tutto così complicato?»

«Meravigliosamente complicato, e meravigliosamente inutile. Siamo in tanti a rendercene conto. Oh, combattiamo... è come una droga. Veneriamo la Compagnia... una sorta di veleno emotivo. Ma viviamo soltanto durante il tempo di guerra. È una vita incompleta. La gente delle fortezze vive completamente, ha il suo lavoro, i periodi di riposo adatti alle sue esigenze. Noi non ci adattiamo.»

«Questo non vale per chiunque abiti nelle città sottomarine,» replicò Ilene. «C'è sempre una frangia che non si adatta. Almeno, voi avete una ragione di esistere. Tu sei soldato. Io... io non posso far del piacere la ragione di tutta la mia vita. Ma non c'è altro per me.»

Le dita di Scott si strinsero sulle sue. «Tu, almeno, sei il prodotto della civiltà. Io ne sono escluso.»

«Con te, Brian, potrebbe essere migliore. Per un po', quanto meno. Non credo che potrebbe durare a lungo.»

«Sì che potrebbe.»

«Lo pensi adesso. È orribile sentire di essere un'ombra.»

«Lo so.»

«Io ti voglio, Brian,» disse Ilene, voltandosi verso di lui, «voglio che tu venga nella Fortezza Montana, e ci rimanga. Fino a quando il nostro esperimento non fallirà. Perché sono convinta che dovrà fallire. Ma, almeno per un poco, durerà. Ho bisogno della tua forza. Posso insegnarti come ricavare il massimo da questo tipo di vita... come fare a entrarvi, a compenetrarsi. Il vero edonismo. Tu mi puoi dare... sì, compagnia. Per me, la compagnia di edonisti non è più sufficiente.»

Scott non replicò. Ilene continuò a guardarlo.

«La guerra è così importante?» chiese la ragazza, alla fine.

«No,» disse lui, «non lo è affatto. È una bolla di sapone, vuota, lo so perfettamente. L'onore del reggimento!» Scott scoppiò a ridere. «No, non sto esitando. Sono stato tagliato fuori per troppo tempo. Una unità sociale non dovrebbe essere fondata su un inganno, e per giunta, già chiaramente condannato. Gli uomini e le donne sono importanti, non altro.»

«Gli uomini e le donne... o la specie?»

«Oh, la specie!» sbottò Scott, con improvvisa violenza. «Che cos'ha fatto la specie, per me, maledizione? Posso benissimo adattarmi a una nuova esistenza. Non necessariamente l'edonismo. Sono esperto in parecchi campi; devo esserlo per forza. Posso trovare un buon lavoro a Fortezza Montana.»

«Se così ti piace. Io non ci ho mai provato. Sono più fatalista, suppongo. Ma... che ne dici, Brian?»

I suoi occhi parvero smeraldi splendenti, in quella luce spettrale.

«Sì,» disse Scott, «tornerò per restare.»

Ilene domandò: «Tornare? Perché non rimani adesso?»

«Perché sono un completo imbecille, immagino. Sono un uomo importante, occupo una posizione-chiave, e in questo momento Cinc Rhys ha bisogno di me.»

«Si tratta di Rhys o della Libera Compagnia?»

Scott esibì un ambiguo sorriso. «No, non la Compagnia. È soltanto un lavoro che devo fare. Quando penso per quanti anni ho sgobbato, fingendo che queste assurdità fossero importanti, sapendo che obbedivo a un fantoccio... No! Voglio vivere la tua vita... il tipo di vita che non sapevo esistesse nelle fortezze. Tornerò, Ilene. È qualcosa di più importante dell'amore. Divisi, siamo soltanto due metà. Insieme, potremmo essere un intero.»

La ragazza non rispose. I suoi occhi erano fissi su Scott. E questi la baciò.

 

Rientrò a casa prima della campana del mattino. Jeana gli aveva già preparato l'indispensabile equipaggiamento leggero. Ella dormiva, i suoi capelli neri ricadevano sul cuscino come una cascata e Scott non la svegliò. Un pesante silenzio, come di attesa, sembrava impregnare la città, come una tazza colma fino all'orlo d'immobilità.

Quando Scott usci dal bagno, abbottonandosi la blusa, trovò che la tavola era stata fatta uscire dal muro ed erano stati preparati due posti. Jeana entrò: indossava un fresco abito da mattino. Mise giù le tazze sul tavolo e versò il caffè.

«Buongiorno, soldato,» disse. «Hai tempo per far colazione, vero?»

«Uh-uhm.» Scott la baciò un po' esitante. Fino a quel momento gli era parso abbastanza facile rompere con Jeana. Lei non avrebbe sollevato nessuna obiezione. Questa era la principale ragion d'essere del libero matrimonio. Comunque... Jeana sedeva lì, nel suo rilassatore, mettendo il dolcificante nel caffè e togliendo il cellophane a un pacchetto di sigarette. «Mal di testa?»

«No. Mi sono vitaminizzato. Sto abbastanza bene.» La maggior parte dei bar avevano una stanza per la vitaminizzazione, che annullava gli effetti di troppi stimolanti. Scott, in realtà, si sentiva fresco e sbrigativo. Si stava chiedendo in quale modo iniziare il discorso di Ilene con Jeana.

Lei gli evitò il problema.

«Se si tratta di una ragazza, Brian, prendila eon tutta tranquillità. Non val la pena far niente finché questa guerra non sarà finita. Quanto tempo ci vorrà?»

«Oh, non durerà molto. Una settimana al massimo. Una sola battaglia potrebbe concluderla, sai. Ora, la ragazza...»

«Non sarà una ragazza della fortezza?»

«Sì.»

Jeana alzò gli occhi a fissarlo, sorpresa. «Sei pazzo.»

«Stavo appunto per dirti,» proseguì Scott in tono impaziente, «che non si tratta soltanto di lei. Sono stufo dei Doone. Ho intenzione di andarmene.»

«Uhmmmm. Così?»

«Così.»

Jeana scosse la testa. «Le donne delle fortezze non hanno nerbo, non sanno resistere.»

«Non è necessario. I loro uomini non sono soldati.»

«Fai pure a modo tuo. Aspetterò fino al tuo ritorno. Ho una sensazione... Capisci, Brian, siamo stati insieme per cinque anni. Siamo adatti l'uno all'altro. Non per motivi filosofici, o psicologici... è qualcosa di assai più personale. Si tratta di noi due, e nient'altro. Siamo un uomo e una donna che stanno bene insieme. E c'è anche l'amore. Queste emozioni, questi sentimenti del nostro intimo sono, in realtà, più importanti delle prospettive a lunga scadenza. Potrai anche eccitarti, raffigurandoti il tuo futuro, ma non lo stai vivendo.»

Scott scrollò le spalle: «Può anche darsi che mi stia dimenticando del futuro. Che abbia cominciato a concentrarmi su Brian Scott.»

«Ancora un po' di caffè... ecco. Be', sono cinque anni ormai che ti seguo di fortezza in fortezza, aspettando, ogni volta che parti per la guerra, chiedendomi se tornerai, sapendo di essere soltanto una parte della tua vita, ma... qualche volta l'ho pensato... la parte più importante. Il mestiere del soldato è il settantacinque per cento di te. Io sono l'altro venticinque, per completarti, ma in questa esatta proporzione. Potrai anche trovare un'altra donna, ma dovrà essere disposta ad essere, di te, solo il venticinque per cento.»

Scott non rispose. Jeana esalò lentamente il fumo della sigaretta.

«Aspetterò, Brian.»

«Non è tanto la ragazza. Si dà il caso che lei entri nel nuovo schema che voglio dare alla mia vita. Tu...»

«Io non sarò mai capace di entrare in quello schema,» mormorò Jeana. «I Liberi Compagni hanno bisogno di donne che sappiano essere mogli di soldati. Libere Mogli, se così ti piace. Soprattutto, non devono essere troppo esigenti. Ma ci sono altre cose. No, Brian, anche se tu volessi, non potrei trasformarmi in un'abitante delle fortezze. Non sarei più io. Perderei il rispetto di me stessa, vivendo un'esistenza che per me sarebbe falsa. Neppure ti piacerei più. No, non potrei, e neppure dovrei, cambiare. Devo restare quella che sono. La moglie di un soldato. Fintanto che sarai un uomo di Doone, avrai bisogno di me. Ma, se cambierai...» Non ebbe bisogno di concludere.

Scott si accese a sua volta una sigaretta, accigliandosi. «È difficile esserne davvero sicuri.»

«Forse non ti capisco, ma non ti faccio domande né cerco di cambiarti. Finché vorrai questo, potrai averlo da me. Non ho altro da offrirti. Per un Libero Compagno è sufficiente. Ma non è sufficiente... o magari è troppo... per un abitante delle fortezze.»

«Sentirò la tua mancanza,» disse Scott.

«Anche questo... dipende. Certo, tu mi mancherai.» Sotto il tavolo, le dita di Jeana si strìnsero spasmodiche, ma l'espressione del suo viso non cambiò. «Si sta facendo tardi. Su, fammi regolare il tuo cronometro.» Jeana si sporse attraverso il tavolo, alzò il polso di Scott e confrontò il cronometro con l'orologio alla parete che dava l'ora universale. «È esatto. E adesso, in marcia, soldato!»

Scott si alzò in piedi, stringendosi la cintura. Si chinò a baciare Jeana e lei, anche se aveva accennato a girare il viso dall'altra parte, dopo un attimo alzò le labbra verso di lui.

Non dissero altro. Scott uscì in fretta. Jeana restò seduta, immobile, la sigaretta che si consumava lentamente tra le sue dita, senza che lei se ne accorgesse. Per qualche ragione, non era più molto importante, adesso, che Brian la lasciasse per un'altra donna e un'altra vita. Come sempre, la cosa davvero importante era che lui stava andando incontro al pericolo.

Proteggilo dal male, pensò, senza accorgersi che stava pregando. Proteggilo dal male!

E ora vi sarebbe stato silenzio, e l'attesa. Questo, almeno, non era cambiato.

Tornò a fissare l'orologio.

Già i minuti avevano preso ad allungarsi.

 

III

 

È una sorta di sconsiderato, strano ermafrodita...

soldato e marinaio insieme!

Kipling

 

Il comandante Bienne stava sovrintendendo all'imbarco degli ultimi uomini di Doone quando Scott arrivò al quartier generale. Bienne gli rivolse uno scattante saluto: non sembrava affatto stanco per l'intera notte passata ad organizzare l'imbarco.

«Tutto a posto, signore.»

Scott annuì. «Bene. Cinc Rhys è qui?»

«È appena arrivato.» Bienne indicò con un cenno del capo la porta-tenda. Scott fece per avviarsi, ma Bienne lo seguì.

«Che cosa succede, comandante?»

Bienne abbassò la voce: «Bronson è stato ricoverato all'ospedale. Si è preso la febbre.» Dimenticò di aggiungere «signore». «Doveva comandare l'ala sinistra della flotta. Mi piacerebbe avere quell'incarico.»

«Vedrò cosa si può fare.»

Bienne strinse le labbra, ma non disse altro. Tornò dai suoi uomini, e Scott prosegui, entrando nell'ufficio del Cinc. Rhys era al visore. Sollevò lo sguardo, socchiudendo gli occhi.

«Buongiorno, capitano. Ho appena parlato con Mendez.»

«Sì, signore?»

«Tiene ancora duro con il suo cinquanta per cento del bottino del Korium della Fortezza Virginia. Dovrà andare a parlargli di persona. Cerchi di farci avere i Mob per meno del cinquanta, se ci riesce. Mi chiami poi al video dalla roccaforte di Mendez.»

«Bene, signore.»

«Un'altra cosa. Bronson è all'ospedale.»

«L'ho sentito. Se posso permettermi, suggerirei Bienne come suo sostituto al comando dell'ala sinistra...»

Cinc Rhys alzò la mano di scatto. «Non questa volta. Non possiamo permetterci individualismi. Il comandante Bienne ha tentato di giocare tutta una mano da solo, durante l'ultima guerra. Non possiamo fidarci di lui, finché non si sarà rimesso in riga... finché non penserà prima ai Doone e poi a Fredric Bienne.»

«È un uomo in gamba, signore. Un abile stratega.»

«Sì, ma non lega, non si integra a sufficienza. Forse la prossima volta. Metta il comandante Geer all'ala sinistra. Tenga Bienne con lei. Gli inculchi un'altra dose di disciplina. E prenda una lancia per andare da Mendez.»

«Non un aereo?»

«Uno dei tecnici ha appena messo a punto un nuovo sistema anti-intercettazione per i nostri ricetrasmettitori, e lo stiamo installando su tutti i nostri aerei e gli alianti. Usi la lancia: non siamo lontani dalla roccaforte dei Mob... quella lunga penisola che si protende dall'Inferno meridionale.»

Perfino sulle carte geografiche il continente veniva chiamato Inferno. E per ovvie ragioni. Il calore torrido era soltanto una di queste. Anche col migliore equipaggiamento, una spedizione che avesse voluto esplorare le sue giungle, si sarebbe trovata ben presto a soffrire le torture dei dannati. Sulla terraferma venusiana, la fauna e la flora si alleavano diabolicamente per renderla inabitabile ai terrestri. Molte piante esalavano gas velenosi. Soltanto le roccaforti costiere dei Liberi Compagni, ben difese, potevano sopravvivere, perché erano, appunto, forti.

Cinc Rhys fissò Scott, corrugando la fronte. «Useremo il Piano H-7 se riusciremo ad avere i Mob con noi. Altrimenti dovremo cercarci altri alleati, e preferirei non farlo. I Tuffatori Infernali hanno troppi sottomarini, e noi troppo pochi rilevatori. Perciò, cerchi di fare il suo dannato meglio.»

Scott salutò. «Lo farò, signore.» Rhys lo congedò con un cenno della mano, e Scott uscì, trovando Bienne, solo. Il comandante gli rivolse un'occhiata interrogativa.

«Mi spiace,» disse Scott, «per questa volta, il comando dell'ala sinistra se lo prende Geer.»

Il volto cupo di Bienne avvampò d'ira. «Mi spiace non averle dato una lezione prima dell'ordine di mobilitazione,» disse. «Lei odia la concorrenza, non è vero?»

Le narici di Scott si dilatarono come campane. «Se fosse dipeso da me, lei avrebbe quel comando, Bienne.»

«Certo. Ci scommetto. D'accordo, capitano. Cosa comando, stavolta? Un motoscafo?»

«Sarà all'ala destra con me. Nave di controllo Scintilla.»

«Con lei... sotto di lei, vuol dire,» ribatté a denti stretti Bienne. Gli occhi gli fiammeggiavano. «Già.»

Anche le guance scure di Scott si erano imporporate. «Ordini, comandante,» sbottò. «Mi procuri una lancia e un pilota. Vado lassù.»

Senza replicare, Bienne si voltò verso il visore. Scott, un nodo di furore represso che gli stringeva lo stomaco, uscì con passo pesante, cercando di soffocare la collera. Bienne era un asino. Gliene importava proprio tanto dei Doone...

Scott riprese il controllo di sé, con un agro sorriso. Be', dopotutto anche a lui importava assai poco dei Doone. Ma finché si faceva parte della Compagnia, la disciplina era importante — bisognava essere perfettamente integrati con la macchina da guerra. Non c'era posto per l'individualismo. Questo avevano in comune lui e Bienne: nessuno dei due provava alcuna vera devozione verso la Compagnia.

Prese un ascensore fino alla sommità della cupola. Sotto di lui Fortezza Montana rimpicciolì, fino a diventare una città di bambole. In qualche punto, là sotto, pensò, si trovava Ilene. Sarebbe tornato. Forse quella guerra sarebbe stata breve (non che ce ne fossero mai state di più lunghe di una settimana, salvo in qualche caso insolito in cui una Compagnia metteva a punto nuove strategie).

Fu condotto attraverso una camera d'equilibrio dentro una bolla, una robusta sfera trasparente con un tubo centrale, verticale, attraverso il quale scorreva un cavo. Scott si trovò solo, dentro la bolla. Un attimo dopo, la bolla prese a salire con un lieve stridio. A poco a poco l'acqua, fuori dalle pareti ricurve, cambiò dal nero al verde scuro, poi a un grigio verdastro trasparente. Erano visibili numerose creature marine, ma non erano certo una novità per Scott, che se ne accorse appena.

La bolla emerse in superficie. Poiché la pressione dell'aria era stata costante, non c'era alcun pericolo d'embolia; Scott aprì il portello e si trovò su uno dei galleggianti che punteggiavano la superficie marina sopra Fortezza Montana. Alcuni turisti si accalcarono nella bolla che aveva appena lasciato. Questa, pochi istanti dopo, fu tirata giù, e scomparve dalla vista.

Vide, in distanza, dei Liberi Compagni che trasbordavano dal galleggiante a un traghetto aereo. Scott alzò il capo con l'occhio del meteorologo esperto. Vide che non c'erano tempeste in vista, anche se il cielo, con la sua fitta coltre di nubi, era chiuso, basso, sconvolto e ribollente per le violente raffiche di vento. Si ricordò all'improvviso che con ogni probabilità la battaglia avrebbe avuto luogo sopra la Fossa di Venere. Questo avrebbe reso le cose un po' più difficili per gli alianti — vi sarebbero state, infatti, meno correnti termiche, che abbondavano, invece, là sopra il Mar delle Secche.

Una lancia bassa, veloce, assai manovrabile, balzò verso il molo. Il pilota aprì di scatto il guscio sovrastante e salutò Scott. Era Norman Kane, e sembrava perfettamente a suo agio nella sua attillata uniforme grigia, pronto ad esibire uno dei suoi sorrisi al minimo pretesto.

Scott balzò agilmente dentro alla lancia e prese posto accanto al pilota. Kane tornò a chiudere il guscio trasparente sopra le loro teste. Fissò Scott.

«Ordini, capitano?»

«Sai dov'è la roccaforte dei Mob? Bene. Dobbiamo andar lì, e in fretta.»

Kane fece guizzar via la lancia dal galleggiante, sollevando un'alta V di spruzzi con la prua appuntita.

Con un pescaggio ridottissimo, assai manovrabili, incredibilmente rapide, quelle piccole lance erano incomparabili in una battaglia navale. Era difficilissimo colpirne una, vista l'agilità fulminea con cui si muovevano. Non avevano alcuna corazzatura che le rallentasse, sparavano pallottole ad alto potenziale esplosivo con un cannoncino di piccolo calibro, ed erano, di regola, biposto. Completavano efficacemente il naviglio di maggior stazza: cacciatorpediniere e grosse navi da battaglia.

Scott offrì a Kane una sigaretta. Il giovanotto esitò.

«Non siamo sotto il fuoco del nemico,» ridacchiò il capitano, «la disciplina diventa rigorosa durante il combattimento, ma non c'è niente di male, se adesso ti concedi una fumatina in mia compagnia. Tieni!» E gli porse il bianco cilindretto acceso.

«Grazie, signore. Credo di essere un po'... un po' preoccupato.»

«Be' la guerra ha le sue regole. Non molte, ma non devono esser violate.» Entrambi gli uomini restarono silenziosi per un po', fissando la vuota superficie grigia dell'oceano davanti a loro. Un aereo da trasporto li superò, volando a bassa quota.

«Ilene Kane è tua sorella?» chiese Scott dopo un po'.

Kane annuì. «Sì, signore.»

«L'avevo intuito. Se fosse stata un maschio, immagino che sarebbe diventata una Libero Compagno.»

Il giovane scrollò le spalle. «Oh, non so. Non ha il... non so. Lo considera uno sforzo troppo grande. Non le piace la disciplina.»

«E a te?»

«Quello che a me importa è il combattimento, signore.» Un attimo di riflessione, e poi: «Vincere, in effetti.»

«Si può perdere una battaglia anche vincendola,» replicò Scott, alquanto cupo.

«Be' io preferisco essere un Libero Compagno piuttosto che fare qualunque altra cosa, fra quante ne conosco. Non che abbia avuto grandi esperienze...»

«Ti sei fatto un'esperienza di guerra con l'organizzazione di Starling, ma probabilmente hai imparato, nello stesso tempo, alcune cose pericolose. Oggi, la guerra non è più una smargiassata piratesca. Se i Doone cercassero di vincere le battaglie coi sistemi di Starling, non ci sarebbero più Doone entro una settimana o due.»

«Ma...» Kane esitò. «Quel genere di cose non è, in realtà, necessario? Voglio dire, correre dei rischi e...»

«Ci sono, sì, situazioni disperate,» replicò Scott, «ma in una guerra, anche rischiando il tutto per tutto, non ci si getta mai allo sbaraglio... un buon soldato non lo fa. Quando ero ancora fresco di arruolamento, sono uscito dai ranghi con un incrociatore per speronare una nave nemica. Fui degradato, e per una ragione molto valida. La nave nemica che speronai non era importante, per il nemico, quanto lo era per noi l'incrociatore. Se fossi rimasto nello schieramento, avrei contribuito ad affondare tre o quattro navi, invece di metterne fuori combattimento una sola, oltre ovviamente, il mio incrociatore. Noi veneriamo un solo dio, Kane, quello dell'integrazione, ogni parte deve integrarsi in un tutto, e questo è molto più importante qui, oggi, di quanto lo sia mai stato sulla Terra, vista la stretta integrazione con cui operano i militari. L'esercito, le flotte di superficie, l'aviazione, i sottomarini, fanno oggi tutti parte di un'unica organizzazione. Credo che l'unico cambiamento importante, però, sia avvenuto nell'aviazione.»

«Vuol dire gli alianti? Sapevo che gli aerei a motore non possono essere impiegati in battaglia.»

«Non nell'atmosfera di Venere,» ammise Scott. «Quando gli aerei a motori si infilano dentro gli strati di nubi, devono lottare tanto a lungo e duramente con le correnti trasversali e i vuoti d'aria, che non hanno alcun modo di sparare con un minimo di mira. Se sono corazzati, sono troppo lenti; se sono leggeri, i rilevatori li scoprono e la contraerea li abbatte. Gli alianti senza motore sono preziosi non per bombardare, ma per guidare gli attacchi. Entrano nelle nubi, vi restano nascosti, e riprendono immagini con le telecamere a raggi infrarossi, i cui segnali vengono ritrasmessi mediante fasci ristrettissimi di raggi alle navi di controllo. Sono essi gli occhi della flotta. Possono dirci... Acqua bianca a dritta, Kane! Vira di bordo!»

Il pilota aveva già visto il minaccioso schiumeggiare davanti alla prua. Istintivamente, lanciò il piccolo scafo in una stretta virata. La manovra scagliò gli occupanti quasi fuori dai sedili.

«Una bestia marina?» chiese Scott, e subito risposte alla sua stessa domanda: «No, non con questi zampilli. È qualcosa di vulcanico. E si sta allargando in fretta.»

«Posso girarci intorno, signore,» suggerì Kane.

Scott scosse la testa. «No, è troppo pericoloso. Torna indietro.»

Obbediente, il giovane portò la lancia a tutta velocità fuori dall'area pericolosa. Scott aveva ragione circa la portata del pericolo. La ribollente agitazione si stava allargando quasi con la stessa velocità a cui procedeva la lancia per fuggire. All'improvviso, il fronte del violento schiumeggiare li raggiunse. La lancia sobbalzò come una pagliuzza, il timone fu quasi strappato dalla stretta di Kane. Scott allungò la mano e l'aiutò a stabilizzarlo. Ma anche con due uomini al timone, c'era sempre la possibilità che questo diventasse ingovernabile. Il vapore s'innalzava in fitte spirali là fuori, oltre il guscio trasparente. L'acqua si era fatta torbida e bruna sotto la schiuma.

Kane diede tutta l'energia possibile. La lancia balzò avanti come una pallottola, danzando sopra le onde ribollenti. A un certo punto precipitarono dentro un cavallone, e l'intero scafo fu un assordante stridore di metallo oltraggiato. Kane, a denti stretti, attivò subito l'ausiliario, escludendo il motore danneggiato. Poi, inaspettatamente, si ritrovarono in acque tranquille, diretti di nuovo verso Fortezza Montana.

Scott sogghignò. «Buona manovra. È davvero una fortuna che non abbia tentato di aggirarla. Non ce l'avremmo mai fatta.»

«Sì, signore.» Kane tirò un profondo sospiro. I suoi occhi luccicavano per l'eccitazione.

«Vira di nuovo, qui.» Cacciò una sigaretta accesa tra le labbra del giovanotto. «Sarai un buon Doone, Kane. Le tue reazioni sono rapide e precise.»

«Grazie, signore.»

Scott fumò in silenzio per un po'. Aguzzò gli occhi verso nord, ma, a causa della scarsa visibilità, non riuscì a distinguere la torreggiante catena di picchi vulcanici che costituiva la dorsale dell'Inferno meridionale. Venere era un pianeta relativamente giovane, i suoi fuochi interni erompevano ancora inaspettati dalla superficie. Il che era la ragione per cui nessuna roccaforte veniva mai edificata sulle isole... Queste avevano la sfortunata abitudine di sparire senza preavviso!

La lancia filava in modo assai scomodo, a quella velocità, malgrado tutto il sistema di molle e d'imbottiture antiurto. Dopo una cavalcata a bordo di quegli «sculacciatori» (il nome irriverente ma efficace con cui i soldati li chiamavano) un uomo aveva urgente bisogno della tintura d'arnica, se non addirittura d'uno specialista chiropratico. Scott spostò il suo peso sul morbido cuscino d'aria sotto di lui, che sembrava diventato di cemento.

Fra i denti, canticchiò:

 

«Non sono i grandi pesi trasportati che fan

doler gli zoccoli,

ma il martellante tump, tump, tump sul duro

selciato!»

 

La lancia proseguì circondata dall'oceano e dalla monotona distesa delle nubi, fino a quando il baluardo della costa non crebbe davanti alla prua, balzando fuori all'improvviso dall'orizzonte velato di nebbia. Scott gettò un'occhiata al suo cronometro e tirò un sospiro di sollievo. Malgrado il ritardo causato dall'eruzione vulcanica sottomarina, avevano tenuto un buon tempo.

La roccaforte dei Mob era un gigantesco castello di pietra e metallo, proprio sulla punta della penisola. La sottile striscia di terra che lo separava dal continente era stata sgombrata dalla vegetazione, e la distesa butterata dai crateri delle bombe indicava i punti in cui i cannoni avevano respinto gli attacchi della giungla... i rettili, i più feroci giganti di Venere, semi-intelligenti ma assolutamente intrattabili a causa dell'abisso che esisteva tra i loro processi mentali e quelli dell'uomo. Tentativi di approccio erano stati compiuti molto spesso; ma si era scoperto che era assai meglio lasciare il mondo dei rettili tranquillo. Non erano esseri disposti a parlamentare. Erano selvaggi ciechi e bestiali, coi quali era impossibile arrivare comunque a una tregua. Si rintanavano nella giungla, emergendone soltanto per scatenare furibondi attacchi contro le roccaforti, attacchi comunque destinati al fallimento, poiché zanne e artigli erano costretti a misurarsi contro pallottole di piombo rivestito d'acciaio ed esplosivi ad alto potenziale.

 

Mentre la lancia schizzava dentro una banchina, Scott teneva gli occhi fissi davanti a sé (non veniva considerato buon comportamento per un Libero Compagno sembrare troppo curioso quando visitava la rocca di un'altra Compagnia). Molti uomini si trovavano sul molo, in apparenza aspettando il suo arrivo. Salutarono Scott quando uscì dalla lancia.

Diede il suo nome e il grado. Un caporale si fece avanti.

«Cinc Mendez la sta aspettando, signore. Cinc Rhys ha videofonato un'ora fa, o giù di li. Se vuol venire da questa parte...»

«Sì, caporale. Il mio pilota...»

«Ce ne prenderemo cura, signore. Un massaggio, e magari anche una bevuta, dopo una cavalcata sullo "sculacciatore"...»

Scott annuì, e seguì l'altro attraverso il portale aperto nello spessore della massiccia, strapiombante muraglia. Scott attraversò rapido il cortile sulla scia del caporale, valicò una porta-tenda, fu trasportato in alto da una scala mobile, e poco dopo si trovò davanti a una seconda tenda che ostentava l'effigie di Cinc Mendez, il volto grassoccio, porcino, e calvo come un obice.

Quando entrò, Scott vide Mendez in persona seduto all'estremità di un lungo tavolo, intorno al quale vi era un'altra dozzina di ufficiali dei Mob. Mendez, visto di persona, appariva un po' meno scostante che in effigie. Sembrava più un cinghiale che un maiale — un combattente, non un ingordo. I suoi acuti occhi neri parvero penetrare dentro a Scott con la violenza di un colpo fisico.

Mendez si alzò in piedi, gli altri ufficiali seguirono il suo esempio. «Si accomodi, capitano. C'è un posto libero, lì all'altra estremità del tavolo. Niente formalità, ma preferisco essere faccia a faccia con l'uomo col quale sto trattando. Ma prima... lei è appena arrivato? Se vuole prima un rapido massaggio, saremo lieti di aspettare.»

Scott si sedette al posto indicato. «Grazie, no, Cinc Mendez. Preferisco non perder tempo.»

«Allora non ne sprecheremo neanche un po' per le presentazioni. Tuttavia, un bicchierino non le farà certo male.» Disse un paio di parole all'attendente accanto alla porta, e un attimo dopo un bicchiere pieno comparve accanto al gomito di Scott.

Il suo sguardo passò velocemente sulla fila dei volti intorno al tavolo. Bravi soldati, pensò, duri, bene addestrati. Una piccola organizzazione, quella dei Mob, ma efficiente.

Cinc Mendez sorseggiò il suo bicchiere. «Passiamo agli affari, adesso. I Doone desiderano stringere un contratto con noi, per affrontare i Tuffatori Infernali. Fortezza Virginia, infatti, si è garantita i servizi dei Tuffatori Infernali per attaccare Fortezza Montana.» Contò sulle sue tozze dita: «Voi ci offrite cinquantamila in contanti, e il trentacinque per cento del bottino in Korium. È così?»

«Esatto.»

«Noi chiediamo il cinquanta per cento.»

«È eccessivo. I Doone dispongono di uomini ed equipaggiamento in quantità molto superiore.»

«Superiore alla nostra, non a quella dei Tuffatori Infernali. Inoltre, non è detto che la percentuale ci sia senz'altro. Se dovessimo essere sconfitti, avremmo soltanto la cifra in contanti.»

Scott annui. «È esatto, ma il solo vero pericolo rappresentato dai Tuffatori Infernali è il loro corpo sottomarino, I Doone hanno abbondanza di equipaggiamento di superficie e aereo. Potremmo battere i Tuffatori Infernali anche senza di voi.»

«Non lo credo.» Mendez scosse la testa calva. «Hanno delle nuove torpedini subacquee in grado di tranciare le più pesanti piastre corazzate. Ma noi abbiamo dei nuovi rilevatori subacquei. Siamo in grado di far saltare i sottomarini dei Tuffatori prima che possano giungere a portata di torpedine.»

Scott replicò, deciso: «Sta menando il can per l'aia, Cinc Mendez. Non siamo poi così malridotti. Se non potremo avere voi, troveremo un'altra Compagnia.»

«Con rilevatori subacquei?»

«La Compagnia di Yardley è in gamba, col lavoro sottomarino.»

Un maggiore, seduto accanto all'estremità del tavolo, interloquì: «È vero, signore. Hanno sottomarini-suicidi... Non troppo affidabili, ma li hanno.»

Cinc Mendez si sfregò la testa calva, col palmo delle mani, in un lento movimento circolare. «Uhmm. Bene, capitano. Non so. La Compagnia di Yardley non è in gamba quanto la nostra, con questo tipo di lavoro.»

«Dunque,» riprese Scott, «ho carta bianca. Non sappiamo quanto Korium fortezza Virginia abbia nelle sue camere blindate. Che ne direbbe di questa proposta: i Mob si prendono il cinquanta per cento del bottino di Korium fino a un quarto di milione; il trentacinque per cento al di sopra di quella cifra?»

«Quarantacinque.»

«Quaranta, sopra un quarto di milione; quarantacinque al di sotto di quella somma.»

«Signori?» fece Cinc Mendez, guardando i suoi ufficiali tutt'intorno al tavolo. «Il vostro voto?»

Vi furono molti sì, e una manciata di no. Mendez scrollò le spalle. «Allora, il voto decisivo spetta a me. D'accordo. Noi ci prendiamo il quarantacinque per cento del bottino di Fortezza Virginia fino a un quarto di milione; il quaranta per cento di qualunque cifra al di sopra di questo limite. Bene, brindiamoci sopra.»

Due o tre attendenti servirono da bere a tutti. Quando Mendez si alzò in piedi, gli altri seguirono il suo esempio. Il Cinc annuì a Scott.

«Vuol proporre un brindisi, capitano?»

«Con piacere. Il brindisi di Nelson, allora... Un nemico in gamba, e mare a volontà!»

 

Brindarono. I Liberi Compagni lo facevano sempre, prima di una battaglia. Tornarono a sedersi, e Mendez disse: «Maggiore Matson, per favore, si metta in comunicazione tramite il visore con Cinc Rhys e perfezioni i particolari. Dobbiamo conoscere i suoi piani.»

«Sì, signore.»

Mendez tornò a fissare Scott: «C'è qualcos'altro che posso fare per lei?»

«Nient'altro. Tornerò alla nostra roccaforte. I particolari possono essere discussi col visore, su banda ristretta ad alta direzionalità.»

«Se ha intenzione di tornare con quella lancia, le consiglio vivamente, prima, un buon massaggio. C'è tutto il tempo, ora che siamo giunti a un accordo.»

Scott esitò. «Molto bene. Io... uhm... cominciavo appunto a sentirmi un po' indolenzito.» Si alzò in piedi. «A proposito, mi sono dimenticato di una cosa. Abbiamo sentito voci secondo le quali il gruppo di Starling farebbe uso dell'energia atomica.»

La bocca di Mendez si torse in una smorfia di disgusto. «Non l'avevo sentito. Voi ne sapete qualcosa, signori?»

Vi fu un generale scuotere di teste. Uno degli ufficiali interloquì: «Ho sentito qualcosa, qua e là, ma soltanto parole, finora.»

Mendez riprese: «Dopo questa guerra, indagheremo, più in profondità. Se c'è qualcosa di vero in questa storia, ci uniremo a voi, naturalmente, per spazzar via gli Starling. Non c'è bisogno di nessuna corte marziale per quel crimine!»

«Grazie. Mi metterò in contatto con le altre Compagnie, per vedere se ne sanno di più. Adesso, se vuole scusarmi...»

Salutò e uscì, dissimulando l'esultanza. Era stato un ottimo affare... giacché i Doone avevano assoluto bisogno dei Mob per affrontare i Tuffatori Infernali. Cinc Rhys sarebbe stato soddisfatto dell'accordo.

Un attendente lo guidò ai bagni, dove un massaggio spremette via il dolore dai suoi muscoli. Poco dopo, era di nuovo sul molo, pronto a salire sulla lancia. Diede un'ultima occhiata dietro di sé: la macchina bellica aveva già cominciato a girare. Non c'era molto da vedere, ma gli uomini prima sfaccendati o quasi, ora si muovevano qua e là con passo deciso, diretti alle officine, all'amministrazione, ai laboratori. Le navi da battaglia erano ancorate dentro una baia poco distante, ben dissimulata sulla costa tra la penisola e il continente, Scott lo sapeva, ma sarebbero salpate ben presto per il loro appuntamento coi Doone.

Kane, al posto di guida della lancia, annunciò: «Ci hanno riparato il motore danneggiato, signore.»

«Cortesie tra colleghi.» Scott alzò il braccio e salutò amichevolmente gli uomini sul molo mentre il piccolo scafo balzava veloce verso il mare aperto. «E adesso, alla roccaforte dei Doone. Sai da che parte?»

«Sì, signore. I... Mob combatteranno con noi, se posso chiederlo?»

«Sì. E sono dei bravissimi combattenti. Vedrai dell'autentica azione, Kane. Quando la prossima volta sentirai gridare "Ai posti di combattimento!" starà per scatenarsi una delle più formidabili battaglie che Venere abbia mai visto. Su, schiaccia l'acceleratore... abbiamo fretta!»

La lancia sfrecciò alla massima velocità in direzione sud-ovest, la sua rotta era profondamente incisa dagli alti baffi di schiuma che sollevava.

Il mio ultimo combattimento, pensò Scott. Sono contento che sia un bello scontro.

 

IV

 

Mangiamo e beviamo la nostra stessa dannazione

Il Libro della Preghiera comune

 

Il motore tornò a guastarsi quand'erano a circa otto miglia dalla roccaforte dei Doone.

Ma più che un guasto, fu un'autentica catastrofe. Il motore, sovrariscaldato e spinto al massimo della potenza, esplose. Il primo incidente, quello in mezzo all'eruzione sottomarina, aveva causato crepe e fenditure nel metallo di cui i Mob addetti alle riparazioni non si erano accorti, quando avevano sostituito le parti danneggiate. Fortunatamente, al momento dell'esplosione, la lancia si trovava sulla cresta di un'onda. Il motore scoppiò verso l'esterno e il basso, fracassando la prua. Se questa fosse stata immersa, il contraccolpo dell'esplosione avrebbe potuto uccidere Scott e il pilota... ma anche così fu un grosso guaio.

Erano a circa mezzo miglio dalla costa. Scott fu assordato dall'esplosione, e vide l'orizzonte rovesciarsi di colpo. La lancia si capovolse, e la calotta trasparente sbatté sull'acqua con uno schianto. Ma la plastica resistette. I due uomini finirono, in un groviglio, su quello che era stato il soffitto, e slittarono in avanti mentre la lancia cominciava ad affondare di prua. Il vapore ribolliva fuori dal motore distrutto.

Kane riuscì a toccare uno dei pulsanti d'emergenza. La plastica della calotta era, naturalmente, incastrata, ma alcuni settori ugualmente ruotarono facendo entrare un getto d'acqua salata. Per un attimo si dibatterono là dentro, resistendo all'impeto incrociato dei vari getti, fino a quando tutta l'aria non fu scacciata dall'abitacolo. Scott, scrutando attraverso una fosca penombra verdastra, vide l'ombra scura che era Kane contorcersi e scalciar fuori attraverso uno squarcio. Scott lo seguì.

Sotto di lui la massa nera della lancia affondò lentamente e scomparve. Infine, emerse con la testa in superficie, e cacciò un respiro rantolante, scrollandosi l'acqua dagli occhi e guardandosi attorno. Dov'era Kane?

Il giovane comparve. Non aveva più il casco, i capelli lisci erano incollati alla fronte. Scott colse il suo sguardo, rivolto verso di lui, diede uno strappo al comando del proprio salvagente, l'indumento gonfiabile che veniva sempre indossato sotto la tunica, quando si era di servizio di mare. Man mano che le sostanze chimiche reagivano, il gas leggero gonfiò sempre più il salvagente, sollevando Scott alto sull'acqua. Sentì il collare espandersi contro la nuca — una sorta di cuscino che si sagomava sul cranio e consentiva ai naufraghi di galleggiare e riposare senza pericolo di annegare se si addormentavano. Ma adesso, lui era ben sveglio.

Vide che anche Kane aveva attivato il suo salvagente. Scott fece un balzo verso l'alto, cercando segni di vita. Ma non ce n'era alcuno. Il mare si stendeva, in una desolata distesa verdastra, fino al nebbioso orizzonte. A mezzo miglio di distanza, su un lato, s'innalzava un muro chiazzato color verde-grigio, che segnava l'inizio della giungla. Più in alto, in distanza, un riflesso rosseggiante, sulfureo, illuminava le nubi.

Scott sguainò il suo coltello dalla lama seghettata, e invitò Kane con un cenno a fare altrettanto. Il giovanotto non sembrava preoccupato. Senza dubbio, per lui questa era soltanto un'avventura eccitante, pensò Scott, crucciato. Oh, be'...

Stringendo il coltello fra i denti, il capitano cominciò a nuotare verso la riva. Kane si tenne al suo fianco. A un certo punto, Scott invitò il suo giovane compagno a restare immobile, mentre lui si piegò in avanti, affondando il viso nell'acqua e scrutando in basso la grande forma indistinta che si allontanava, in lenti ondeggiamenti, per poi sparire — un serpente marino ma, per fortuna, non affamato. Gli oceani di Venere erano pericolosi per le creature carnivore che l'infestavano. E le precauzioni erano praticamente inutili. L'unica cosa da fare, per chi cadeva in acqua, era uscirne fuori il più presto possibile.

Scott allungò le dita a sfiorare un piccolo cilindro fissato alla sua cintura. Quando aveva gonfiato il salvagente, quel cilindretto di gas compresso aveva iniziato, automaticamente, a emettere un vapore fetido che impregnava l'acqua per una certa distanza tutt'intorno. Il principio era quello della puzzola, adattato all'ambiente tipico della seppia, e si presumeva che le forme di vita pericolose fossero respinte da quei «tubi di Mellison»; il principio non funzionava con i più grossi carnivori, come i serpenti di mare. Scott distolse il naso. Quei congegni erano denominati ufficialmente, «tubi di Mellison», ma gli uomini li chiamavano «Puzzoni», e il termine era più che mai appropriato.

Le maree su Venere, non sono prevedibili. Il pianeta nuvoloso non ha lune, ma è più vicino al sole di quanto lo sia la Terra. Di regola le maree venusiane sono modeste, salvo durante l'attività vulcanica, quando le onde dei maremoti spazzano selvaggiamente le coste. Scott, tenendosi sul chi vive da buon metereologo per prevenire eventuali pericoli, valicava un'onda dopo l'altra in direzione della riva, scrutando quell'oscura barriera alla ricerca di segni di vita.

Niente.

Infine, si arrampicò sulla riva, scrollandosi l'acqua di dosso come un cane, e subito cambiò il caricatore della sua automatica, inserendo quello ad alto potenziale esplosivo. L'arma, naturalmente, era a tenuta stagna... un'assoluta necessità su Venere. Mentre Kane si sedeva a terra con un grugnito, sgonfiando il suo salvagente, Scott si alzò in piedi per studiare la fitta vegetazione grigiastra che la giungla innalzava a una decina di metri di distanza. La giungla si interrompeva lì, come il taglio netto d'un coltello, poiché niente poteva crescere sulla sabbia nera.

Gli unici rumori erano quelli della risacca. La maggior parte degli alberi erano simili a liane, che vivevano un'esistenza precaria aggrappandosi gli uni agli altri, succhiandosi a vicenda la vita. Non appena uno di essi mostrava segni di debolezza, subito i parassiti giungevano da ogni parte avvolgendolo e risalendo sempre più verso l'alto, in una folle ricerca della scarsa luce di Venere filtrata attraverso il groviglio della giungla. Le foglie iniziavano soltanto a una decina di metri dal suolo, e qui formavano una copertura compatta, come le assicelle d'un tetto, e avrebbero escluso ogni luce se non fossero state d'un verde translucido. Viticci biancastri strisciavano come serpenti da un albero all'altro, simili a tentacoli di piovre vegetali. C'erano dei tipi di fauna venusiana: i giganti, che potevano attraversare la foresta schiantando tutto, e gli agili, minuscoli abitatori del suolo, per la maggior parte insetti e rettili, che disponevano di sacche velenifere come difesa. Nessuno dei due tipi di questa fauna costituiva una compagnia piacevole.

C'erano anche creature volanti, ma queste vivevano negli strati superiori della vegetazione, dove crescevano le foglie. E c'erano ambigui orrori che vivevano nelle profondità del fango, dentro le pozze stagnanti sotto la foresta, ma nessuno sapeva molto di questi esseri.

«Be',» disse Scott, «è fatta.»

Kane annuì. «Immagino che avrei dovuto controllare meglio il propulsore.»

«Non avresti trovato nulla. I difetti erano ben nascosti... ci sarebbe voluta un'intera notte per scovarli. È soltanto una delle cose che possono capitare... così. Adesso, tieni sottomano la maschera antigas. Se dovessimo avvicinarci anche solo un po' a un fiore velenoso, e il vento soffiasse verso di noi, finiremmo per perdere i sensi senza neppure accorgercene.» Scott aprì una custodia impermeabile e ne tirò fuori un cerotto sensibilizzato, che si applicò al polso. «Se diventerà azzurro, vorrà dire che c'è del gas nell'aria intorno a noi, anche se non ne sentiamo l'odore.»

«Sì, signore. E cosa facciamo adesso?»

«Dunque... la barca è affondata, a pezzi. Non possiamo videofonare per chiedere aiuto.» Scott toccò la lama del suo coltello, e tornò a infilarlo nel fodero alla cintura. «Punteremo verso la roccaforte. Otto miglia. Impiegheremo due ore, se riusciremo a mantenerci sulla spiaggia, e se non incontreremo guai. Ancora di più se la Roccia del Segnale è davanti a noi, poiché in tal caso dovremo fare un lungo giro per superarla.»

Tirò fuori un cannocchiale pieghevole e fissò lungo la linea di costa, verso sud-ovest.

«Già, dovremo appunto aggirarla.»

Una folata d'una nauseante dolcezza soffiò giù dal folto della giungla. Scott sapeva che, lassù, la foresta aveva un aspetto incredibilmente attraente. Gli ricordava sempre un antico copriletto ricamato che una volta aveva comperato a Jeana: immensi fiori d'ogni colore sparsi su uno sfondo verde pallido. Perfino tra i fiori, nella giungla di Venere, la concorrenza era acuta; le piante rivaleggiavano nell'esibire i più intensi colori e profumi, per attirare a sé i portatori alati del polline.

Ci sarebbero sempre state frontiere, pensò Scott. Ma qui, su Venere, non sarebbero state conquistate ancora per lungo tempo. Le fortezze bastavano alla gente sottomarina: erano autosufficienti; e i Liberi Compagni non avevano alcun bisogno di tagliarsi fette d'impero sui continenti. Erano combattenti, non coltivatori. La fame di terra non faceva più parte del retaggio della specie umana. Sarebbe potuta ritornare, ma non finché esistevano le fortezze sotto le cupole.

Le giungle di Venere ospitavano segreti che lui non avrebbe mai conosciuto. Gli uomini potevano conquistare le terre dall'aria, ma non erano in grado di conservarle in quel modo. Ci sarebbe voluto un lungo, lento periodo di erosione, durante il quale la foresta e tutto ciò che conteneva sarebbe stata spinta indietro, passo dopo passo, dolorosamente, ma questo apparteneva a un giorno a venire, un tempo che lui, Scott, non avrebbe conosciuto. Quel mondo selvaggio sarebbe stato domato, ma non adesso... non ancora.

Adesso era indomato e molto pericoloso. Scott sfilò la tunica e ne strizzò fuori l'acqua. I suoi indumenti, comunque, non si sarebbero asciugati in quell'aria satura di umidità, malgrado il continuo soffiare del vento. I calzoni gli aderivano al corpo, appiccicosi, un freddo viscido nelle pieghe.

«Pronto, Kane?»

«Sì, signore.»

«Allora, andiamo.»

 

Procedettero in direzione sud-ovest, lungo la spiaggia, con lento passo costante che divorava le miglia. Ritmo e attenzione erano necessari in uguale misura. Di tanto in tanto Scott scrutava il mare col suo piccolo telescopio tascabile, sperando di avvistare un vascello. Non vide nulla. Le navi si trovavano ovviamente tutte in porto, per esser preparate in vista della battaglia. E gli aerei si trovavano al suolo per l'installazione del nuovo congegno anti-intercettazione di cui Cinc Rhys gli aveva parlato.

La Roccia Segnale si parò davanti a loro, un dirupo pietroso dai fianchi erosi e impossibili da scalare, che s'innalzava per una sessantina di metri e più. La striscia di sabbia nera s'interrompeva lì. La roccia precipitava giù con uno strapiombo verticale che finiva in acque profonde, sconvolte da un turbinio di correnti. Era impossibile aggirare l'ostacolo dalla parte del mare; non restava altro che deviare nell'entroterra, un percorso pericoloso ma inevitabile. Scott ritardò quel tuffo nell'intrico della giungla il più possìbile, fino a quando la ripida scarpata della Roccia Segnale, era come ghiaietto e picchiettata qua e là da lebbrose chiazze argentee, non sbarrò loro il passo definitivamente. Fissando Kane con un sogghigno, Scott deviò ad angolo acuto sulla destra e puntò dritto verso la giungla.

«Mezzo miglio attraverso la foresta equivale a una camminata di cento miglia lungo la spiaggia,» osservò.

«Così brutto, signore? Non l'ho mai affrontata.»

«Nessuno lo fa, a meno che non ci sia tirato per i capelli. Tieni gli occhi ben aperti e la pistola pronta. Non guardare acque di nessun tipo, anche quando puoi vederne il fondo. Ci sono alcuni piccoli diavoli, qui, che sono quasi del tutto trasparenti — pesci-vampiro. Basta che un paio di essi ti si attacchino addosso, e in meno di un minuto avrai bisogno di una trasfusione. Vorrei tanto che un vulcano si mettesse a far chiasso: di solito le bestiacce se ne stanno buone, durante un'eruzione.»

Scott si fermò sotto un albero, cercando un ramo lungo e dritto. Gli ci volle un po', prima di trovarne uno adatto, in quel groviglio di liane attorcigliate, ma alla fine ci riuscì, e con la lama del suo machete ottenne un leggero bastone lungo un metro e mezzo. Con Kane alle calcagna, proseguì dentro la penombra che si andava infittendo.

«Potremmo esser seguiti,» disse al giovane. «Non dimenticarti di sorvegliare le nostre spalle.»

La sabbia aveva lasciato il posto a un fango appiccicoso e biancastro, che inzaccherò gli uomini fino ai polpacci dopo pochi istanti. Una patina viscida sembrava coprire interamente il suolo. L'erba aveva un colore talmente uguale a quello del fango da risultare praticamente invisibile. E dovette subito usare il coltello per tagliarsi un passaggio attraverso i rampicanti.

Si fermò, sollevando una mano, e il cic ciac dei piedi di Kane cessò. Nel silenzio, Scott gli indicò qualcosa. Davanti a loro, alla base del dirupo, c'era l'imboccatura di una tana.

Il capitano si chinò a frugare, trovò un sassolino e lo lanciò verso il covo. Attese, con la mano lievemente appoggiata alla pistola, pronto a veder qualcosa schizzar fuori dalla tana e balzare verso di loro. Nel profondo silenzio qualcosa divenne udibile — una sorta di debole rullio di tamburi di folletti, vago e lontano. L'acqua, che sgocciolava da una foglia all'altra, nel soffitto inzuppato sopra di loro. Tink, tink, tink-tink, tink, tink-tink...

«Bene... forse,» disse Scott in un sussurro. «Ma fai attenzione lo stesso.»

Avanzò, la pistola spianata, fino a quando non furono all'altezza dell'imboccatura della tana. «Voltati, Kane. Tieni gli occhi fissi su quel buco fino a quando non ti dirò io di smetterla.»

Afferrò il braccio del giovane e lo guidò, rinfoderando la propria arma. E si fece scivolare nella mano il bastone, che fino a quel momento aveva stretto fra il braccio e il corpo. Se ne servì per sondare la viscida superficie fangosa davanti a lui. Le sabbie mobili e le pozze erano frequenti, e così altre trappole, buchi mimetizzati scavati dai lupi del fango... i quali, naturalmente, non erano lupi e non appartenevano a nessuna specie conosciuta. Su Venere la fauna aveva molte più suddivisioni che sulla Terra, e le linee di demarcazione erano molto più sottili.

«Tutto bene, adesso.»

Kane, tirando un sospiro di sollievo, girò di nuovo il viso in avanti. «Cos'era?»

«Non si sa mai cosa può uscire da questi buchi,» replicò Scott, «ma vengono fuori veloci e di solito solo velenosi. Perciò, non si possono correre rischi con questi bastardi. Rallenta, adesso. Non mi piace l'aspetto di quella macchia lì davanti.»

Le radure erano rare in quella giungla. Qui ce n'era una, ampia cinque-sei metri, quasi a forma di cerchio. Scott allungò il bastone e la sondò. Una debole increspatura mosse il fango bianchiccio, e quasi ancora prima che fosse scomparsa, il capitano aveva sfoderato la pistola, e stava sparando un colpo dopo l'altro contro quel movimento.

«Spara, Kane!» sbottò. «Presto! Spara!»

Kane obbedì, anche se dovette cercare d'istinto il suo bersaglio. Un geyser di fango schizzò sopra la pozza, chiazzato di rosso. Scott, sempre sparando, ghermì il giovane per il braccio e lo trascinò indietro in una corsa mozzafiato.

Gli echi si spensero. Ancora una volta i lontani tambureggiamenti dei folletti rullarono attraverso la verde penombra.

«L'abbiamo preso,» fu il commento di Scott, dopo una breve sosta.

«Sì?» chiese Kane, senza capire. «Cosa...»

«Un lupo del fango, credo. L'unico modo di ammazzare uno di quelli è colpirli prima che escano dal fango. Altrimenti, sono troppo veloci, e duri a morire. Tuttavia...» Avanzò cautamente. Non c'era nulla da vedere. Il fango si era ritirato, e il suo livello si era abbassato, e anche i buchi aperti dalle pallottole ad alto potenziale si erano riempiti. Qua e là c'erano lunghe strisce rossastre.

«Mai un momento di noia,» commentò Scott. Il suo sogghigno si rilassò un poco. Kane ridacchiò e seguì l'esempio del capitano sostituendo il suo caricatore mezzo vuoto con uno pieno.

 

La stretta dorsale della Roccia del Segnale si stendeva nell'entroterra per un quarto di miglio, prima che fosse possibile scalarla. Alla fine giunsero a un punto praticabile, e aiutandosi l'un l'altro cominciarono ad arrampicarsi, e si trovarono infine sulla cima, ma ancora molto al di sotto del denso intreccio di foglie degli alberi. La nera superficie rocciosa era sgradevolmente calda, e scorticava il palmo delle mani mentre si arrampicavano, e certi spuntoni riuscivano a farsi sentire perfino attraverso le suole degli stivali.

«Siamo almeno a metà strada, capitano?»

«Sì, ma non esserne troppo felice. Le cose non miglioreranno affatto finché non avremo raggiunto nuovamente la spiaggia. È probabile che avremo bisogno di qualche iniezione febbrifuga quando arriveremo alla roccaforte, a titolo prudenziale. Oh, oh... La maschera, Kane, presto!» Scott sollevò il braccio, sul polso, il cerotto era diventato azzurro.

Con pochi essenziali movimenti s'infilarono i respiratori. Scott avvertì un debole pizzicore sulla pelle rimasta esposta, ma non c'era alcun rischio. Tuttavia, si sarebbe fatto doloroso più tardi. Fece cenno a Kane, si lasciò scivolare lungo il pendio opposto della roccia, usò il bastone per saggiare il fango sottostante, e vi balzò sopra con un agile salto. Cadde nella morchia, e rotolò rapidamente su se stesso, inzaccherandosi dalla testa ai piedi. Kane lo imitò subito dopo. Il fango non avrebbe neutralizzato gli effetti del gas velenoso, ma ne avrebbe assorbito la maggior parte prima che raggiungesse la pelle.

Scott si diresse verso la spiaggia. Era diventato una figura grottesca. Il fango gli colava sulla piastra trasparente della maschera antigas, e se lo sfregò via con una manciata di erba grigiastra. Usava costantemente il bastone per saggiare il terreno davanti a sé.

Nondimeno, il fango lo tradì. Il bastone all'improvviso sparì dentro il suolo, e quando Scott istintivamente lanciò all'indietro il peso del suo corpo, il terreno cedette sotto i suoi piedi. Ebbe appena il tempo per una folle sensazione di sollievo, poiché quelle erano sabbie mobili e non la tana di un lupo del fango, poi si ritrovò risucchiato fino al ginocchio. Si gettò ancora di più all'indietro, tenendo stretta un'estremità del bastone e protendendo l'altro, più che poté, in direzione di Kane.

Il giovane l'afferrò con entrambe le mani e si buttò al suolo, lungo e disteso. Il suo piede si agganciò a una radice affiorante. Scott, torcendo dolorosamente il collo e cercando di vedere qualcosa attraverso la lastra trasparente chiazzata di fango, mantenne la sua stretta spasmodica, come una morsa d'acciaio, sull'estremità del bastone, sperando che la sua superficie liscia non gli scivolasse tra le dita.

Fu risucchiato ancora più sotto, ma poi l'ancoraggio offertogli da Kane cominciò a essergli d'aiuto. Il giovane cercò di tirare il bastone verso di sé, un palmo dopo l'altro, ma Scott scosse la testa. Lui era assai più forte di Kane, e questi avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze per mantenere una stretta efficace sul bastone.

Qualcosa si mosse fra le ombre, alle spalle di Kane. Scott lasciò istintivamente la presa con una mano e la portò alla pistola, sfoderandola. Questa aveva il meccanismo riparato da una custodia ermetica, per cui il fango non l'aveva danneggiata. E anche la canna era dotata di un dispositivo che impediva l'ingresso di qualunque corpo estraneo dal davanti. Scott sparò contro l'indistinto movimento dietro a Kane, udì un rumore ovattato, e attese fino a quando non si fu spento. Il giovanotto, dopo una rapida occhiata sorpresa dietro di sé, non si era più mosso.

Dopo di ciò, il salvataggio fu relativamente facile. Scott, semplicemente si arrampicò lungo il bastone, distribuendo la maggior parte del peso sulla superficie delle sabbie mobili. Il punto più difficile fu quello di strappar fuori le gambe dalla morsa mortale delle sabbie. Quando, infine, fu uscito del tutto dalla trappola, Scott dovette riposarsi per cinque minuti.

Ma ne era uscito fuori. Questa era la cosa più importante.

Kane gli indicò, con una muta domanda, i fitti cespugli fra i quali era stata colpita l'imprecisabile creatura. Ma l'effettiva natura della bestia non era una questione molto importante, finché mostrava d'essere fuori combattimento. Riaggiustandosi la maschera antigas, Scott riprese la sua marcia in direzione della spiaggia, aggirando le sabbie mobili, e Kane continuò a seguirlo dappresso.

La fortuna volse infine a loro favore. Raggiunsero la riva senza ulteriori difficoltà e crollarono senza fiato sulla sabbia nera.

Poco dopo, Scott tirò fuori un altro cerotto sensibile, il quale mostrò che il gas velenoso si era dissipato. Si tolse perciò la maschera e respirò profondamente.

«Grazie, Kane,» disse. «Ora può farsi un bagno, se vuole togliersi tutto quel fango di dosso, ma si tenga vicino alla riva. No, non si spogli, non c'è tempo.»

Il fango aderiva come colla e la sabbia nera grattava come smeriglio. Tuttavia, Scott si sentì molto più pulito dopo alcuni minuti passati nell'acqua bassa, mentre Kane lo sostituiva a far la guardia. Un po' rinfrescati, ripresero la marcia.

 

Un'ora più tardi, un ricognitore aereo in volo di prova li avvistò, ne informò la roccaforte, e una lancia arrivò a tutta velocità per raccoglierli. Ciò che Scott apprezzò più di ogni altra cosa fu la robusta dose di uisqueplus che il pilota gli offrì.

Ah, che vita da cani era quella!

Passò la borraccia a Kane.

Poco dopo si profilò davanti a loro la roccaforte e, poco più lontano, il porto dei Doone. Per quanto fosse grande la baia che si addentrava ben dentro la terraferma poteva ospitare a stento l'intera flotta. Scott osservò l'attività visibile tutt'intorno con soddisfazione. La lancia aggirò la barriera che si protendeva nel mare per difendere le attrezzature portuali dalle onde di marea, e compì un ultimo balzo verso il molo. Il ronzio quasi inaudibile del motore si spense; il guscio di plastica trasparente si aprì.

Scott uscì fuori, e fece un cenno a un attendente.

«Sì, signore?»

«Vedi che questo soldato abbia tutto ciò di cui ha bisogno. Siamo stati dentro la giungla.

L'uomo non diede in un fischio di solidarietà, ma le sue labbra si piegarono come se avesse avuto l'intenzione di farlo. Salutò, e aiutò Kane a uscir fuori dalla lancia. Mentre Scott si affrettava lungo la banchina, poté udire il consueto, chiassoso scambio di amichevoli oscenità da parte degli uomini sul molo, che si stavano raccogliendo intorno a Kane.

Scott annuì con un moto quasi impercettibile. Quel ragazzo sarebbe stato un buon Libero Compagno... purché avesse resistito alla tensione in combattimento. Quella era la prova del fuoco. Allora, la disciplina s'irrigidiva fino al punto di rottura. Se si fosse rotto... be', l'elemento umano restava sempre una variabile imprevedibile, malgrado quello che gli psicologi potevano fare.

Andò direttamente al suo quartier generale, e accese un visore per chiamare Cinc Rhys. Il volto coriaceo, segnato dalle cicatrici e dalle rughe si disegnò subito sullo schermo.

«Capitano Scott a rapporto, signore.»

Rhys lo fissò, acciglialo: «Cos'è successo?»

«La lancia è andata in pezzi. Abbiamo dovuto tornare qui a piedi.»

Il Cinc ringraziò il suo dio con voce sommessa. «Lieto che ce l'abbiate fatta. Qualche altro guaio?»

«No, signore. Anche il pilota è sano e salvo. Sono pronto a prendere il comando, non appena mi sarò ripulito.»

«E si faccia anche un'iniezione tonica... probabilmente ne avrà bisogno. Tutto funziona come un cronometro. Ha fatto un buon lavoro con Mendez... un affare migliore di quanto sperassi. Ho parlato con lui al visore, e abbiamo integrato alla perfezione le nostre forze. Ma parleremo di tutto questo più tardi. Si ripulisca e poi faccia un'ispezione generale.»

«D'accordo, signore.»

Rhys spense il visore. Scott sì voltò verso il suo attendente.

«Dunque, Briggs. Aiutami a togliermi questi stracci. È probabile che dovrai tagliarli.»

«Lieto di rivederla, signore. Non credo sia necessario tagliare...» Le tozze dita di Briggs manovrarono agilmente le cerniere-lampo e le fibie. «Era nella giungla?»

Scott ebbe un sogghigno forzato. «Ho forse l'aspetto di uno che si sia appena fatto un volo in aliante?»

«Niente affatto, signore... no.»