«E mentre Vendret 2 parlava, la bocca della Caverna della Oscurità superò il margine di Beta così che fu nascosto a tutti gli occhi degli abitanti di Lagash. Allora si levarono alte grida mentre Beta spariva e grande fu la paura che li colse.
«E così fu che l'Oscurità della Caverna si abbatté su Lagash e sulla sua superficie ogni luce scomparve. Gli uomini divennero come ciechi e nessuno poteva più vedere il suo vicino e neanche sentiva in volto il suo respiro.
«E nell'Oscurità allora si mostrarono le Stelle, tanto numerose da non potersi contare e la loro bellezza era musica ineffabile, anche le foglie degli alberi divennero parole che esprimevano la loro meraviglia.
«E fu in quel momento che le anime abbandonarono gli uomini, e i corpi così reietti divennero selvaggi come animali e come primitivi. E si lanciavano per le strade buie di Lagash con grida selvagge.
«E dalle Stelle scese il fuoco Celeste e dove si posava, le città di Lagash fiammeggiavano e ardevano fino a venirne completamente distrutte, fino a che dell'uomo e delle sue opere non rimase più nulla.
«E allora...»
A questo punto, impercettibilmente, Latimer cambiò tono. I due lo guardavano. Senza una pausa alzò il tono. Le sillabe divennero più liquide.
Theremon, sorpreso, spalancò tanto d'occhi. Le parole gli sembravano familiari, ma la voce si attenuò fino a una sfumatura che rese le parole di Latimer assolutamente incomprensibili, dopo un leggero cambiamento nella pronuncia delle vocali.
Sheerin sorrise.
«È la lingua di un antico ciclo, forse il secondo. È appunto in questa lingua che è stato originariamente scritto il "Libro delle Rivelazioni"».
«Basta, ne so abbastanza, ora mi sento meglio». Theremon spinse indietro la sedia e si infilò nei capelli le mani non più tremolanti.
«Sì?» Sheerin non nascose la sorpresa.
«Sì, ho avuto una crisi. Anzi ero quasi andato fuori di senno a sentire lei che parlava di gravitazione e a vedere l'inizio dell'eclissi. Ma...» indicò con disprezzo il Cultista, «... queste sono favole. Roba che mi raccontava la balia. Ho sempre riso di esse. Non mi faranno paura proprio adesso!» Respirò a fondo e continuò allegramente: «Ma è meglio che mi allontani dalla finestra se non voglio dare i numeri».
«Ssst», mormorò Sheerin. «Aton ha sollevato la testa dalla scatola in cui l'ha ficcata e l'ha fulminata con un'occhiata omicida».
Theremon fece una smorfia.
«Me l'ero dimenticato», spostò la sedia con grande cura, lanciò dietro di sé uno sguardo disgustato e poi proseguì: «Ma ci deve essere un antidoto a questa follia stellare».
Sheerin tacque per qualche secondo. Beta aveva oltrepassato lo zenith e il rettangolo rosso sangue ritagliato dalla finestra si era sollevato fino al petto di Sheerin che fissò quella macchia colorata pensieroso per poi piegarsi a guardare il sole.
La tacca nera era diventata una macchia che inghiottiva più di un terzo del disco di Beta. Sheerin rabbrividì e quando si riprese le sue guance erano esangui.
Con un timido sorriso di scusa tirò indietro la sedia.
«A Saro ci saranno almeno due milioni di persone che in preda a una crisi di coscienza cercheranno di convertirsi al Culto». Poi in tono ironico aggiunse: «I Cultisti saranno molto orgogliosi di questa insperata pubblicità. Lei che ne dice?»
«Io mi chiedo solo come hanno fatto i Cultisti a salvare il "Libro delle Rivelazioni" in tutti i vari cicli e come e quando è stato scritto. Loro devono avere una certa immunità, altrimenti, visto che tutti impazziscono, come avrebbero potuto scrivere il "Libro"?»
Sheerin lo fissò con una espressione carica di dolore e di pietà.
«Senta, non ci sono testimoni oculari, ma abbiamo dei dati. Ci sono tre tipi di persone parzialmente immuni: i ciechi che non possono vedere l'eclisse e quelli che si ubriacano per tutta la durata del fenomeno. Ma questi non sono certo testimoni attendibili. Poi i bambini sotto i sei anni, che con la loro curiosità naturale non hanno paura delle Stelle né della Oscurità. Giusto?»
L'altro annuì: «Direi di sì!»
«Poi ci sono coloro che hanno menti così primitive da non poter venire sconvolte in modo completo. Essendo poco sensibili, potrebbero risentirne solo in modo limitato, come i nostri vecchi contadini, abbrutiti dalle fatiche. Be', i bambini non ne conserverebbero che un ricordo vago, e insieme alle chiacchiere imprecise e incoerenti di questi ultimi, costituirebbero il fondamento del "Libro delle Rivelazioni". Certo il Libro prima di tutto si basa sulla testimonianza dei bambini e di uomini di intelligenza inferiore. Probabilmente il Libro è stato più volte rielaborato attraverso i cicli».
«Crede che abbiano conservato il Libro come noi abbiamo tramandato il segreto della gravitazione?»
Sheerin scrollò le spalle.
«Forse, ma non ha molta importanza. Il Libro è solo una raccolta di teorie sbagliate, fantasiose, anche se basate su un fatto reale. Ricorda l'esperimento fallito di Faro e Yimot...?»
«Certo!»
«Vuol sapere perché è...» Aton si stava avvicinando con la costernazione sul volto. «Cos'è successo?»
Le dita del vecchio artigliarono il braccio di Sheerin.
«Piano!» sibilò Aton. «Ho appena avuto un messaggio dal Rifugio».
«Guai?» chiese Sheerin.
«Be', non lì», sottolineò Aton, «la città! È un macello! Non può immaginare...» parlava a stento.
«Be'?» scattò Sheerin, «lo sa che peggiorerà! Perché trema?» Poi incalzò: «Sta bene?»
Aton sprizzò scintille di rabbia, poi si spense di nuovo e assunse un'espressione ansiosa.
«I Cultisti stanno aizzando la gente per distruggere l'Osservatorio. Il premio è l'ingresso nella Grazia, la salvezza eterna. Che si fa?»
Sheerin fissò per terra riflettendo e poi con un gesto di nervosismo rialzò gli occhi.
«Che si fa? Niente, ecco che si fa!? Lo sanno?»
«Certo che no!»
«Meglio, quanto manca alla eclisse totale?»
«Meno di un'ora».
«Dobbiamo rischiare! I Cultisti non faranno in tempo a raccogliere una folla tanto numerosa né a trascinarsela quassù! Siamo a cinque miglia dalla città».
Guardò dalla finestra il confine tra i campi coltivati e le case bianche della periferia. La città era una macchia indistinta, una nebbia luminosa e evanescente.
«Speriamo che l'Oscurità venga presto!! Non faranno a tempo! Continui a lavorare».
Beta era diviso in due parti di cui la parte concava riluceva. Una palpebra gigantesca che si chiudeva pigramente sul mondo.
Nella stanza non si sentì più rumore, ma solo il silenzio palpabile dei campi. Anche gli insetti tacevano per la paura. Tutto diventava più buio e indistinto. Una voce ruppe l'incanto.
Theremon chiese: «Che succede?»
«Si sieda, ci siamo quasi!» tornarono tutti ai loro posti. Lo psicologo si allargò il colletto ma non riuscì a trovare sollievo.
«Difficoltà a respirare?»
Il giornalista aprì gli occhi respirando a fondo.
«No, no».
«Ho guardato troppo dalla finestra. La penombra mi ha condizionato, la difficoltà respiratoria è uno dei primi sintomi della claustrofobia».
Theremon respirò di nuovo.
«Be', per ora non ne sono ancora affetto! Ah, arriva un altro!»
Beenay interruppe la luce che illuminava i due uomini e Sheerin lo guardò ansioso.
«Salve!»
L'astronomo tentò un abbozzo di sorriso, bilanciandosi sui due piedi.
«Posso sedermi qui con voi? Non ho altro da fare fino all'eclisse completa», s'interruppe sbirciando il Cultista che si era estratto dalla manica un libriccino in pelle nella cui lettura si era sprofondato. «Quel verme ha dato altre noie?»
Sheerin fece cenno di no e nello sforzo di respirare regolarmente si accigliò.
«Beenay, ha difficoltà respiratorie?»
Beenay fiutò l'aria.
«Be', non lo trovo così soffocante».
Sheerin si scusò: «Io invece sento i sintomi di claustrofobia!»
«Io li sento diversamente, mi si infossano gli occhi. Vedo confusamente e ho freddo».
«Ma fa freddo, non è illusione», ribatté Theremon, «sono congelato come un quarto di bue nel congelatore».
«Dobbiamo fare qualcosa per distrarci», disse Sheerin. «Theremon le stavo dicendo del fallimento dell'esperimento di Faro».
Theremon si sentì in dovere di precisare: «Stava cominciando». E appoggiò il mento alle ginocchia in attesa.
«Faro e Yimot hanno fatto un errore, hanno preso alla lettera le affermazioni del Libro. Non si può attribuire alle Stelle una dimensione fisica, forse di fronte all'Oscurità totale ci sentiamo di dover creare luce e questa illusione sarebbero le Stelle».
«Se ho capito bene», interruppe Theremon, «lei pensa che le Stelle siano un effetto della follia e non la causa. Ma e... le fotografie?»
«Dimostreranno che è pura illusione o il contrario e allora...»
Beenay, in preda a improvviso entusiasmo, avvicinò la sedia.
«Bene, era ora che affrontaste l'argomento, ho pensato a lungo a queste Stelle. Ho elaborato una teoria, è abbastanza vaga ma la trovo interessante. Posso esporvela?»
Nonostante sembrasse riluttante, Sheerin si appoggiò alla sedia e lo incoraggiò:
«Su, io la ascolto!»
«Bene, mettiamo che ci siano altri soli nell'universo», e lo disse con una specie di pudore, «soli tanto lontani da essere praticamente invisibili. È un'idea fantasiosa, lo so!»
«Non direi. Comunque secondo la legge della Gravitazione dovrebbe rivelarsi per via dell'attrazione no?»
«No, se fossero abbastanza lontani», corresse Beenay, «magari quattro-cinque o più anni luce. In questo caso non rileveremmo alcuna perturbazione perché infinitesimali. Allora presupponiamo che esistano tantissimi soli lontani una o due dozzine, addirittura».
Theremon era eccitato.
«Uhm, magnifico suggerimento per il mio giornale. Tantissimi soli in un universo di otto anni luce di diametro! Significherebbe che noi ne conosciamo solo una parte insignificante. I miei lettori impazzirebbero!»
Beenay sogghignò: «È solo un'idea, ma durante l'eclisse questi soli diventerebbero visibili, ed essendo molto lontani sembrerebbero sfere piccolissime. Il Culto parla di milioni di Stelle ma questa è una esagerazione. Nell'universo non c'è posto per tanti soli... a meno che non si trovino uno ridosso all'altro».
L'interesse di Sheerin era in aumento visibile.
«Certo Beenay, è questo il punto. È l'esagerazione l'elemento determinante; la nostra mente, lo sa, non può concepire direttamente un numero superiore al cinque. Oltre al cinque ci sono solo i "molti". Facile capire che una dozzina di soli può essere diventata un milione. È molto plausibile!»
«Ho un'altra teoria, pensi se esistesse un solo pianeta con un unico sole, come sarebbe tutto più semplice. Il pianeta si muoverebbe secondo un'ellissi perfetta rendendo così indiscutibile il concetto di forza gravitazionale da farne un assioma. Il problema della gravitazione sarebbe così semplice che gli astronomi l'avrebbero risolto prima ancora di inventare il telescopio. Sarebbe l'osservazione a occhio nudo».
Sheerin resisteva coi suoi dubbi.
«Ma sarebbe stabile un sistema simile?»
«Certo. È un problema puramente matematico, ma le implicazioni filosofiche sono importantissime».
«Be', mi piace questa idea», ammise Sheerin, «è una astrazione... come il gas perfetto o lo zero assoluto».
«Certo, non ci sarebbe vita su un simile pianeta, non avrebbe sufficiente luce e calore, per metà giornata ci sarebbe l'Oscurità totale e la vita che dipende soprattutto dalla luce non potrebbe svilupparsi in queste condizioni. Inoltre...»
Sheerin lo interruppe con un balzo dalla sedia.
«Aton arriva con delle torce».
«Eh?» Beenay sostituì la sorpresa con il sollievo.
Aton stringeva tra le mani una dozzina di bacchette e abbracciò con lo sguardo gli uomini riuniti nella cupola.
«Prego, continuate, Sheerin venga ad aiutarmi».
Insieme sistemarono le bacchette ai sostegni metallici alle pareti.
Con aria ispirata Sheerin accese un fiammifero e Aton lo avvicinò alle bacchette.
Dopo una breve esitazione un bagliore giallastro illuminò il volto di Aton. Quando questi ritrasse il fiammifero un applauso fece rintronare i vetri.
Ora in cima alle bacchette brillava una fiamma alta quindici centimetri. Una dopo l'altra vennero accese tutte e sei le bacchette e un bagliore giallo si diffuse nella stanza.
La luce era fievole, più debole anche della luce ormai quasi impercettibile del sole. Le fiammelle si agitarono guizzando come vive in un gioco di ombre ubriache. Dalle torce emanava un acre odore che prendeva la gola, ma la luce gialla continuava a diffondersi.
Dopo quattro ore di luce velata emanata da Beta agonizzante, ora quella luce era qualcosa di strano. Anche Latimer alzò gli occhi dal libro con aria meravigliata.
Sheerin allungò le mani alla torcia vicino a lui, ignorando la caligine che danzava attorno alla fiamma e mormorò estaticamente:
«Meraviglioso! Non mi era mai sembrato bello il giallo, fino ad ora!»
Theremon invece guardava le torce con sospetto.
«Cos'è?» chiese con naso che accusava l'odore rancido delle torce.
Sheerin sentenziò: «Legno!»
«Oh, no non è legno. Non bruciano. La punta è carbonizzata e la fiamma sembra venire dal nulla».
«Già, è un'invenzione funzionale in effetti. Ne abbiamo fatte duecento di queste bacchette, ma per lo più sono al Rifugio». Si voltò mentre si puliva le mani con il fazzoletto. «È semplice; si tratta del midollo fibroso delle canne palustri, lo si fa seccare e lo si immerge in grasso animale. Quando gli si dà fuoco, il grasso si consuma lentamente. Bruceranno per quasi mezz'ora, non è ingegnoso? È un'idea di uno dei nostri ragazzi dell'Università di Saro».
Dopo la meraviglia, nella cupola era tornata la tranquillità. Latimer si era trascinato con la sedia sotto una torcia per continuare la lettura del libro, recitando monotonamente le invocazioni del Libro.
Beenay era tornato alle macchine fotografiche e Theremon cominciava a completare i suoi appunti per l'articolo che intendeva scrivere per il giornale. Anche se si rendeva perfettamente conto dell'inutilità del suo lavoro, nelle ultime due ore si era comportato così, con metodicità e lucidità.
Leggeva negli occhi divertiti di Sheerin che quel lavoro così preciso gli occupava la mente distogliendolo dalla visione del cielo ormai di un orribile e incolmabile color porpora. Infatti raggiungeva così lo scopo.
L'aria sembrava diventata più densa, l'oscurità del crepuscolo aveva invaso la stanza come una presenza concreta e le luci gialle delle torce si stagliavano contro il grigiore di sottofondo che aumentava man mano. Nella stanza erano vivi l'odore del fumo, gli scoppiettìi delle torce, dei passi silenziosi degli uomini attorno al tavolo da lavoro, dei respiri profondi di chi cercava di controllare i propri nervi mentre l'ombra lo inghiottiva.
Theremon fu il primo a captare il rumore dall'esterno. Non era propriamente un suono, ma solo un'impressione di esso, immateriale e sbiadita, che sarebbe passata inosservata se non fosse stato per il silenzio mortale nella stanza.
Il giornalista si raddrizzò e ripose il taccuino. Trattenendo il respiro ascoltò e poi si avvicinò alla finestra, facendosi strada tra l'elioscopio e una macchina fotografica.
Il suo grido improvviso incrinò il silenzio.
«Sheerin!»
Tutti si fermarono. Lo psicologo volò al suo fianco e anche Aton si avvicinò. Anche Yimot 70, ritto sul sedile accanto all'oculare dell'elioscopio, guardò giù.
Beta era diventato una scaglia che appariva e spariva, con uno sguardo disperato su Lagash. L'orizzonte verso la città era ormai inghiottito dall'Oscurità e la strada per l'Osservatorio era solo un confine porpora orlato da boschi di alberi ormai resi indefiniti dall'ombra che li circondava.
Sulla strada si allargava una massa confusa, ma densa di minaccia.
Aton gridò con voce rotta: «Quei pazzi della città! Stanno venendo qui!»
Sheerin si informò: «Quanto manca all'eclisse totale?»
«Quindici minuti, ma quelli arriveranno prima!»
«Pazienza. Dica agli uomini di continuare col lavoro. Chiuderemo fuori quei folli, questo Osservatorio è una fortezza. Aton, tenga d'occhio il Cultista. Theremon venga con me».
Theremon si affrettò dietro Sheerin che era già fuori. Le scale si schiudevano in una spirale attorno al pilastro centrale, affondate in un grigiore desolato.
Lo slancio iniziale li portò quindici metri in basso, senza più il conforto del chiarore fluttuante filtrato dalla porta. Tutt'attorno, sopra e sotto solo buio infinito e deprimente.
Sheerin si bloccò premendosi il petto con la mano. Sentiva gli occhi schizzargli dalle orbite e colpi di tosse gli spezzavano la voce.
«Non respiro... scenda... da solo. Chiuda tutte le porte...»
Theremon dopo aver sceso qualche scalino ancora si voltò.
«Aspetti! Resista ancora un minuto!» Anche lui ansimava espellendo e inghiottendo l'aria che sembrava diventata densa come melassa. Nella sua mente il germe del terrore si affacciava alla prospettiva di farsi strada da solo nell'Oscurità.
Theremon aveva paura del buio!
«Resti qui! Torno subito», disse.
Con il cuore in gola non solo per lo sforzo, risalì due gradini per volta verso la cupola e strappò una torcia. Il fumo lo accecava e l'odore gli mozzava il respiro, ma abbrancò la torcia con impeto. La fiamma si allungò dietro Theremon che ridiscendeva le scale.
Si piegò su Sheerin che aprì gli occhi gemendo.
«Su, si faccia forza», lo scrollò Theremon con forza, «adesso abbiamo luce!»
Alzando la torcia prese lo psicologo per un braccio e riprese a scendere protetto dalla luce.
Gli ultimi bagliori di Beta illuminavano a stento gli uffici al pianterreno e Theremon si risentì afferrare dall'orrore.
Bruscamente passò la torcia a Sheerin: «Ecco, adesso si sentono bene».
Erano grida mozze e rauche.
Ma come aveva detto Sheerin l'Osservatorio era una fortezza. Era del secolo precedente, all'apice dello stile neo-gavotiano ed era stato costruito per obbedire a criteri di solidità piuttosto che a canoni estetici.
Inferriate d'acciaio spesse un pollice e incassate nel muro proteggevano le finestre. I muri erano così solidi che nemmeno un terremoto avrebbe potuto incrinarli. La porta principale era un immenso battente in quercia rinforzato da strisce di ferro. Theremon fece scivolare i catenacci nei loro anelli.
Sheerin dall'altra estremità del corridoio imprecò contro la serratura che era stata resa inutilizzabile.
«Dev'essere stato Latimer, quando è venuto!»
Theremon spazientito lo incitò: «Non se ne stia lì, mi aiuti a barricare l'ingresso. E mi tenga lontano quella torcia. Quel fumo mi uccide».
Un tavolo fu spinto contro la porta e poco dopo aveva eretto una barricata massiccia.
Da fuori, come ovattato, giunse il rumore dei pugni che si abbattevano sulla porta. E le urla sembravano quasi irreali e remote.
I folli della Città di Saro volevano solo due cose: la salvezza eterna promessa dai Cultisti a prezzo della distruzione dell'Osservatorio e smaltire il terrore folle che li aveva sconvolti. Non potendo disporre di carri o armi o una specie di organizzazione, si erano avviati all'Osservatorio a piedi, armati solo delle loro mani nude.
Ora davanti all'Osservatorio l'ultima luce di Beta, l'ultimo bagliore sanguigno, balenava sopra una massa di uomini totalmente in preda a un ancestrale e universale terrore.
Theremon gemette: «Alla cupola!»
Nella cupola solo Yimot, sempre all'elioscopio, era al suo posto. Gli altri si erano adunati attorno alle macchine fotografiche. Beenay dava istruzioni con voce tesa.
«Mi raccomando, fate tutto come si deve. Io scatterò un'immagine di Beta immediatamente prima dell'eclisse totale e poi cambierò lastra. Ognuno di voi badi alla propria macchina. Sapete tutto...»
Gli rispose un lieve mormorio di consenso.
Beenay si passò una mano sugli occhi.
«Le torce bruciano? Le vedo, le vedo». Si rilassò contro la spalliera di una sedia. «Ricordate: non preoccupatevi di fare fotografie sensazionali. Non cercate di inquadrare le stelle due per volta. Ne basta una e... se vi sentite male... allontanatevi!»
Sheerin ordinò a Theremon: «Mi porti da Aton, non lo vedo».
Il giornalista tacque. Gli astronomi erano ombre indistinte che ondeggiavano nelle torce ormai ridotte a macchie di luce che brillavano sulle loro teste.
«È buio!»
Sheerin gli tese la mano.
«Aton!» e inciampò avanzando. «Aton!»
Theremon gli andò dietro prendendolo per il braccio.
«Aspetti, la guido io». Riuscì ad attraversare la stanza con gli occhi chiusi per non dover vedere l'Oscurità, e scacciando dalla propria mente l'idea del caos connesso al buio totale.
Nessuno gli prestò attenzione. Sheerin urtò il muro.
«Aton!»
Due mani tremanti e incerte toccarono lo psicologo poi si ritrassero e una voce mormorò: «Sheerin, è lei?»
«Aton!» cercò di controllare il respiro. «Non si preoccupi, sa l'Osservatorio è una fortezza!»
Latimer, il Cultista, si alzò col viso contorto in una smorfia disperata. Aveva dato la sua parola e non avrebbe potuto infrangerla a meno di esporre la sua anima a pericolo mortale. Nonostante la parola gli fosse stata estorta, ma presto sarebbero arrivate le Stelle e lui non poteva restare immobile e lasciare... ma aveva dato la parola.
Latimer vide Beenay chino sulla macchina fotografica, il volto dipinto di un rosso cupo. Si decise, conficcandosi le unghie nei palmi.
Barcollò e iniziò a correre, verso l'ombra che gli si apriva davanti. Anche il pavimento non era che ombra, immateriale, qualcuno gli balzò addosso e gli strinse la gola con dita contratte.
Latimer rialzò le ginocchia colpendo l'avversario invisibile.
Rantolò al buio: «Mollami o ti ammazzo!»
Theremon urlò.
«Lurida bestia schifosa!» mugolò dalla nebbia di dolore che lo accecava.
Nello stesso istante il giornalista realizzava perfettamente ciò che succedeva attorno.
Udì il grido di Beenay:
«Ho fatto la fotografia! Tutti alle vostre macchine!» Poi tutti si accorsero che l'ultimo spicchio di luce solare si era ulteriormente assottigliato ed era sparito.
Contemporaneamente udì il rantolo di Beenay, il gemito stridulo di Sheerin, una risatina isterica che si spezzò e poi il silenzio, improvviso e strano e mortale che si stendeva sulla folla fuori. Latimer si era afflosciato sotto la stretta che ora si allentava. Theremon guardò gli occhi del Cultista, aperti e vuoti verso l'alto riflettenti il barlume giallo delle torce. All'angolo della bocca aveva una bolla di saliva e dalla gola gli uscì un rantolo animale.
Affascinato si alzò puntandosi su un braccio e guardò l'orrore nero oltre le finestre.
E vide le Stelle.
Non erano le tremilaseicento stelle lontane, visibili dalla Terra a occhio nudo. Lagash era al centro di un enorme ammasso stellare. Trentamila soli brillavano in un fulgore agghiacciante e ineffabile, più spaventoso proprio per la sua totale indifferenza, del vento che rabbrividiva sulla terra fredda e buia.
Theremon si rialzò barcollando, col respiro mozzato da una stretta alla gola, i muscoli contorti nella tensione di un terrore che superava qualsiasi soglia di sopportazione.
Stava impazzendo e lo sapeva, e dalla sua mente un ultimo barlume di lucidità lottava contro il terrore irrefrenabile e disperato. Era orribile impazzire e saperlo, per qualche istante avrebbe conservata la coscienza e poi la sua identità sarebbe stata travolta e uccisa dalla follia. Questa era l'Oscurità, il Gelo e il Destino. Le mura dell'universo si erano schiacciate e le macerie nere crollavano per distruggerlo e seppellirlo.
Urtò qualcuno che strisciava verso di lui. ma continuò, con le mani strette alla gola, barcollando verso le torce che riempivano la sua visuale.
«Luce», gridò.
Aton piangeva, lamentandosi come un bambino agonizzante di paura.
«Le Stelle... tutte le Stelle. E non le conoscevamo, non ne sapevamo nulla, credevamo esistessero solo sei soli e invece ci sono le Stelle e l'Oscurità per sempre... le mura si spezzano e non sapevamo e non potevamo sapere...»
Qualcuno brandì una torcia che cadde e morì. Allora il gelido splendore delle Stelle indifferenti si avvicinò di colpo.
Al di là della finestra, all'orizzonte, verso la Città di Saro, si alzò un bagliore porpora che aumentava di intensità e di volume, ma non era un sole che si levava.
Era discesa di nuovo la lunga notte.
C'era uno gnomo
A Gnome there was
di Henry Kuttner e C.L. Moore
Unknown, ottobre
Dopo il loro matrimonio, nel 1940, fu impossibile dire chi avesse scritto questo o quello, e non importa quale nome usassero, Kuttner, Moore, «Lewis Padgett» o «Laurence O'Donnell». Non lo sapevano neppure loro, anche se vi furono alcune eccezioni e i due autori produssero alcune delle più importanti opere di science-fiction e fantasy degli anni quaranta, compresa quest'eccellente storia tratta da quel ricco, e rimpianto, giacimento di gemme che fu «Unknown» (conosciuto anche come «Unknown Worlds»).
Esiste un libro sull'argomento degli gnomi, che è sull'elenco dei bestseller nel momento in cui queste note vengono scritte, ma c'è da dubitare che qualcuno di essi sia simile alle creature di questo delizioso racconto.
(Henry Kuttner morì nel febbraio del 1958, e Cyril Kornbluth morì un anno più tardi, e questa duplice perdita scosse il mondo della science-fiction. Da quell'anno, non ci sono più state due morti di personaggi così illustri nel giro di pochi mesi, e spero che non ci saranno mai più. Kuttner era del tutto diverso da Kornbluth. Kuttner era l'esempio di un uomo la cui personalità non era come le sue storie, e Kornbluth, invece, era come le sue storie. La coincidenza che ambedue avessero cognomi che cominciavano per K era sorprendente e, considerando la superstizione secondo la quale le morti vengono a gruppi di tre, mi raccontano che Damon Knight abbia passato, a quell'epoca, alcuni mesi inquieti. - I.A.)
Tim Crockett non avrebbe mai dovuto scivolar dentro alla chetichella nella miniera della montagna di Dornsef. Ciò su cui sono pronti a chiudere un occhio in California può avere risultati disastrosi nelle miniere di carbone della Pennsylvania. Specialmente se vi sono coinvolti degli gnomi.
Non che Tim Crockett sapesse qualcosa degli gnomi. Lui stava soltanto indagando sulle condizioni di vita fra le classi basse, per usare le sue stesse parole alquanto mal scelte. Crockett apparteneva a un gruppo di californiani del sud i quali avevano deciso che i lavoratori avevano bisogno di loro. Ma si sbagliavano. Erano loro, in realtà, ad aver bisogno di lavorare... almeno otto ore al giorno.
Crockett, come i suoi colleghi, considerava il lavoratore una combinazione fra un gorilla e l'Uomo con la Zappa, probabilmente annoverando i kallikak fra i suoi antenati. Parlava appassionatamente delle minoranze calpestate, scriveva articoli infuocati per l'organo del suo gruppo, «Terra», ed era riuscito a manovrare abilmente per non entrare come impiegato nell'ufficio legale di suo padre. Perché aveva, sosteneva con forza, una missione. Sfortunatamente, raccoglieva pochissima simpatia sia dai lavoratori che dai loro oppressori.
Uno psicologo avrebbe analizzato Crockett molto facilmente. Era un giovanotto alto, magro, lo sguardo intenso, gli occhi piuttosto piccoli e luminosi, e un innato buon gusto per le cravatte. Tutto quello di cui aveva bisogno era un energico calcio nel sedere.
Ma datogli da qualcuno grande e grosso, non da uno gnomo!
Stava appunto girovagando per il paese, coi soldi di suo padre, indagando sulle condizioni di lavoro, infastidendo tutti i lavoratori che incontrava. Spinto dalla sua personale ossessione, penetrò furtivamente nella miniera di carbone di Ajax — o quanto meno in uno dei suoi pozzi — dopo essersi travestito dà minatore ed essersi sfregato il viso con della polvere nera. Scendendo con l'ascensore, appariva assai trasandato in mezzo a un gruppo di facce ben lavate. I minatori, infatti, hanno un aspetto sporco soltanto dopo un'intera giornata di lavoro.
La montagna di Dornsef è un alveare, ma non a causa dei pozzi della Ajax Company. Gli gnomi, comunque, conoscono dei modi assai efficaci per sigillare le loro gallerie quando gli umani scavano troppo vicino. La sotto, tutto parve tremendamente confuso a Crockett che si accodò agli altri fino a quando essi non cominciarono a lavorare. Un carrello pieno di minerale passò rombando sui binari. Crockett esitò, poi si avvicinò furtivamente a un grinzoso esemplare il cui volto sembrava un condensato di tutti i dolori del mondo.
«Senta», disse Crockett, «voglio parlarle».
«Inglis?» chiese l'altro, perplesso. «Viskey. Cin. Vin. Inferno».
Dopo aver dimostrato il suo in qualche modo manchevole dominio della lingua inglese, abbaiò una rauca risata e tornò al lavoro, ignorando lo sconcertato Crockett, il quale si allontanò alla ricerca di un'altra vittima. Ma quel tratto di miniera sembrava deserto. Un altro carrello stracolmo passò rombando, e Crockett decise di appurare da dove venisse. Lo scoprì, dopo aver picchiato dolorosamente la testa ed esser finito lungo disteso non meno di cinque volte.
Usciva da un buco della parete. Crockett vi entrò, e simultaneamente udì un grido rauco alle sue spalle. Lo sconosciuto intimò a Crockett di tornare indietro, «... cosicché io possa spaccarti quella brutta testa di porco!» promise, completando il tutto con una serqua di oscenità da far accapponare la pelle. «Esci di lì!» ruggì di nuovo.
Crockett gettò un'occhiata dietro di sé, vide un'ombra simile a un gorilla scagliarsi contro di lui, e prontamente si convinse che il suo stratagemma era stato scoperto. I proprietari della Ajax avevano mandato uno scagnozzo a ucciderlo... o quanto meno a ridurlo in una poltiglia priva di sensi. Il terrore diede le ali a Crockett, il quale continuò a correre freneticamente alla ricerca di una galleria laterale dentro la quale sfuggire all'inseguimento. Le urla rabbiose alle sue spalle echeggiavano contro le pareti.
Crockett riuscì a cogliere con chiarezza alcune parole:
«... prima che la dinamite esploda!»
E in quell'esatto istante la dinamite esplose.
Crockett, tuttavia, non lo seppe. Si accorse, confusamente, che stava volando, ma un attimo dopo il suo volo fu bruscamente interrotto dal soffitto della galleria. Dopo di che, ogni cosa scomparve, fino a quando lui non recuperò i sensi e si trovò a contemplare una testa che lo stava guardando con piglio risoluto.
Non era un tipo di testa consolante, non di quelle alle quali vi aggrappereste disperatamente alla ricerca di amicizia. Era una testa singolarmente strana, se non addirittura ributtante. Crockett era troppo impegnato a fissarla per rendersi conto che lui, in realtà, stava vedendo buio.
Per quanto tempo era rimasto privo di sensi? Crockett, per qualche oscuro motivo, sentì che lo era stato un bel po'. L'esplosione lo aveva... che cosa? Lui era sepolto là sotto, sotto un impenetrabile strato di roccia compatta? Crockett si sarebbe sentito un po' meglio se avesse saputo di trovarsi in una galleria esaurita e ora priva di valore, che era stata abbandonata da molto tempo. I minatori, innescando quell'esplosione per aprire una nuova galleria, sapevano che la vecchia sarebbe crollata, ma questo non aveva importanza.
Salvo per Tim Crockett.
Il quale ammiccò, e quando riaprì gli occhi la testa era scomparsa. Questo fu un sollievo, per lui. Crockett decise subito che quella cosa sgradevole era stata un'allucinazione. Invero, gli era difficile ricordare a che cosa somigliava. Aveva la vaga impressione di un profilo a cavolfiore, con due occhi grandi e luminosi e una bocca larga e sottile.
Crockett si rizzò a sedere con un gemito. Da dove proveniva quella strana luminosità argentea? Era come la luce di un pomeriggio nebbioso, che non sembrava irradiarsi da nessun punto in particolare, e non proiettava nessun'ombra.
«Radium», pensò Crockett, che ne sapeva assai poco di mineralogia.
Il condotto in cui si trovava si perdeva davanti a lui nella penombra, fino a quando non descriveva una svolta a una quindicina di metri di distanza. Alle sue spalle... alle sue spalle il soffitto era crollato. Subito, Crockett cominciò a provare difficoltà di respirazione. Si buttò sul mucchio di pietrisco, scagliando freneticamente i pezzi di roccia qua e là, producendo suoni rauchi e inarticolati.
Qualche istante dopo divenne consapevole delle sue mani. I suoi movimenti rallentarono fino a quando non s'immobilizzò del tutto, rannicchiato, fissando quegli oggetti smisurati, nodosi, stupefacenti che gli uscivano dai polsi. Era possibile che durante il suo periodo d'incoscienza, avesse trovato e si fosse infilato dei guanti di cuoio? Proprio mentre gli veniva questo pensiero, Crockett si rese conto che nessun guanto di cuoio avrebbe mai potuto assomigliare, anche minimamente, a quelle che lui aveva il diritto di credere fossero le sue mani. Esse si contorsero lievemente.
Forse erano incrostate di fango... no. Non era questo. Le sue mani si erano... modificate. Erano oggetti enormi, nodosi, bruni, contorti come radici di quercia. Ispidi peli neri, sparsi qua e là, erano spuntati sui dorsi. Le unghie avevano urgente bisogno di una manicure... magari armata di scalpello.
Crockett abbassò lo sguardo sul proprio corpo. Dalla sua bocca spalancata uscirono dei sommessi pigolii che esprimevano incredulità. Aveva due gambe tozze e arcuate, grosse e robuste, e lunghe non più di sessanta centimetri... o anche meno. Con movimenti incerti, sempre più incredulo, Crockett continuò a esplorare il proprio corpo. Era cambiato... non certo per il meglio.
Era alto poco più di un metro e venti e largo circa novanta centimetri, con un torace che pareva una botte, enormi piedi svasati, gambe tronche e spesse, ed era del tutto sprovvisto di collo. Indossava due pantofole rosse, calzoncini corti, azzurri, e una giubba rossa che gli lasciava scoperte le braccia nerborute. La sua testa...
A forma di cavolfiore. La bocca... augh! Inavvertitamente, Crockett ci aveva cacciato dentro il pugno. Ritrasse istantaneamente la mano colpevole, si guardò intorno stordito e crollò al suolo. Non poteva accadere. Era del tutto impossibile. Allucinazioni. Stava morendo per asfissia, e le allucinazioni precedevano la sua morte.
Crockett chiuse gli occhi, convinto che i suoi polmoni stessero disperatamente sforzandosi di respirare un'aria sempre più povera d'ossigeno. «Sto morendo», balbettò, «non pos... non posso respirare».
Una voce sprezzante disse: «Spero che tu non stia pensando di respirare aria!»
«Io n... non...» Crockett non finì la frase. Tornò a strabuzzare gli occhi. Anche le allucinazioni uditive, adesso?
La voce tornò a farsi udire: «Sei un esemplare di gnomo singolarmente schifoso», disse, «ma a causa della legge di Nid non possiamo scegliere. Tuttavia, non sei in grado di scavare minerali duri, a quanto vedo. Be', per te andrà bene l'antracite. Perché mi guardi in quel modo? Sei molto più brutto di me».
Crockett fece per leccarsi le labbra secche, ma con orrore vide la punta della sua lingua umida passargli mollemente sopra gli occhi. La ritrasse di colpo, con un sonoro schiocco, e riuscì a mettersi seduto. E restò immobile, gli occhi fissi nel vuoto.
La testa ricomparve. Questa volta c'era un corpo sotto di essa.
«Io sono Gru Magru», dichiarò la testa, in tono loquace. «Ti verrà dato un nome gnomico, naturalmente, a meno che il tuo non sia abbastanza gutturale. Qual è?»
«Crockett», rispose automaticamente il giovanotto, sbalordito.
«Che cosa?»
«Crockett».
«Piantala di far rumori come una rana... oh, ho capito. Crockett. Basta così. Adesso alzati e seguimi, altrimenti ti scalderò il sedere a furia di calci».
Ma Crockett non fu pronto ad alzarsi. Stava osservando Gru Magru, ovviamente uno gnomo. Corto, tozzo e mozzo, la figura di quell'essere assomigliava a un piccolo barile gonfio, coronato da un cavolfiore rovesciato. I capelli gli crescevano folti fino alla sommità, cioè la radice del cavolo. Sul volto del cavolfiore vi era l'ampia, molle fessura di una bocca, il naso era un bottone, e sopra di esso brillavano due occhi enormi.
«Alzati!» esclamò Gru Magru.
Questa volta Crockett obbedì, ma lo sforzo lo lasciò completamente esausto. Se avesse fatto anche soltanto un passo, pensò, sarebbe caduto stecchito. E sarebbe stato meglio. Gnomi...
Gru Magru gli piantò il largo piede svasato là dove avrebbe avuto il massimo effetto, e Crockett descrisse un arco che si concluse su un masso bitorzoluto caduto giù dal soffitto. «Alzati», ripeté lo gnomo, con ingiustificato malumore, «altrimenti ti prenderò di nuovo a calci. È già abbastanza brutto essere di pattuglia per cercare nuove vene di minerale in questa zona periferica, dove potrei imbattermi in qualunque momento in un uomo, senza poter... Su! Altrimenti...»
Crockett si alzò. Gru Magru l'agguantò per un braccio e lo sospinse verso le profondità della galleria.
«Be', adesso anche tu sei uno gnomo», disse, «è la legge di Nid. A volte mi chiedo se ne valga la pena. Ma suppongo di si, dal momento che gli gnomi non possono proliferare, e in qualche modo il nostro numero dev'essere mantenuto costante».
«Voglio morire», disse Crockett, sconsideratamente.
Gru Magru scoppiò a ridere: «Gli gnomi non possono morire. Sono immortali, fino al Gran Giorno. Il Giorno del Giudizio, intendo».
«Non è logico», gli fece notare Crockett, come se, smentendo anche un solo fatto, avesse potuto smentire tutta quella fantastica faccenda. «O voi siete di carne e sangue, e alla fine morirete, o non lo siete, e allora non siete reali».
«Oh, siamo di carne e sangue, su questo non c'è dubbio», dichiarò Gru Magru, «ma non siamo mortali. C'è una differenza. Non che io abbia qualcosa contro tutti i mortali», si affrettò a spiegare. «Pipistrelli e gufi... sì, quelli sono a posto, ma gli uomini!» Rabbrividì. «Nessuno gnomo può sopportare la vista di un uomo».
Crockett si aggrappò a quella pagliuzza: «Io sono un uomo».
«Lo eri, vuoi dire», sogghignò Gru, «e neppure un esemplare tanto buono per i miei gusti. Ma adesso sei uno gnomo. È la legge di Nid».
«Lei continua a citare la legge di Nid», si lamentò Crockett.
«Naturalmente tu non puoi capire», fece Gru Magru, con degnazione. «È andata così. Nei tempi antichi, fu decretato che, visto che gli esseri umani continuavano a smarrirsi nel sottosuolo, uno su dieci sarebbe stato trasformato in gnomo. Il primo imperatore degli gnomi, Podrang Terzo fece in modo che ciò avvenisse. Aveva visto che le fate potevano rapire i fanciulli umani e tenerseli, e parlò alle autorità di questo fatto. Disse che questo privilegio era ingiusto. Per cui, da quel giorno fu deciso che, quando i minatori o altra gente si smarriscono nel sottosuolo, uno ogni dieci viene trasformato in gnomo e si unisce a noi. Ed è quanto è accaduto a te. Capito?»
«No», fece Crockett, debolmente. «Senta, lei ha detto che Podrang è stato il primo imperatore degli gnomi. Allora, perché lo chiamavano Podrang Terzo?»
«Non c'è tempo per le domande», sbottò Gru Magru. «Su, muoviti!»
Adesso si era quasi messo a correre, trascinandosi dietro lo sventurato Crockett. Il nuovo gnomo non aveva ancora acquistato sufficiente padronanza dei suoi arti alquanto insoliti, e a causa dell'estrema larghezza delle sue pantofole continuava a calpestare i suoi poveri piedi. Giunse perfino a calpestarsi la mano destra, ma dopo ciò imparò a tenere le braccia ripiegate e vicine ai fianchi. Le pareti, illuminate da quella strana luminosità argentea, roteavano intorno a lui come se lui soffrisse di vertigini.
«Ch... che cos'è quella luce?» riuscì a rantolare. «Da dove viene?»
«Luce?» fece Gru Magru. «Non è luce».
«Be', non è buio...»
«Naturalmente che è buio», sbottò lo gnomo, «come potremmo vedere se non fosse buio?»
Non c'era nessuna risposta possibile a questo, pensò Crockett fuori di sé, salvo uno strillo frenetico. Ma lui aveva bisogno di tutto il suo fiato per correre. Adesso si trovavano in un labirinto, dove girando e svoltando e serpeggiando e ripercorrendo innumerevoli gallerie, Crockett comprese che non sarebbe mai riuscito a ritornare sui suoi passi. Si rammaricò di aver lasciato la scena del crollo, ma come avrebbe potuto evitare di farlo?
«Presto!» lo sollecitò Gru Magru. «Presto!»
«Perché?» ansimò Crockett.
«C'è una lotta in corso!» disse lo gnomo.
Proprio allora svoltarono un angolo e quasi andarono a sbattere nella mischia. Una folla ribollente di gnomi riempiva la galleria, combattendosi l'un l'altro con frenetico furore. Calzoncini azzurri e giubbe rosse si agitavano in un turbinante, delirante mosaico. Teste a cavolfiore s'innalzavano e si abbassavano con violenti sbalzi sussultorii. Era un trionfo del «pestate-nel-mucchio».
«Visto?» gongolò Gru Magru. «Una mischia! L'ho annusata a sei gallerie di distanza. Oh, una bellezza!» Si curvò di scatto, quando un piccolo gnomo dall'aspetto maligno schizzò fuori dal mucchio e agguantò un frammento di roccia, scagliandola con perfida accuratezza. Il proiettile mancò il bersaglio, e Gru, trascurando il prigioniero, si scagliò prontamente addosso al piccolo assalitore, lo trascinò sul pavimento della caverna e cominciò a picchiargli la testa sulla roccia. Entrambi i contendenti strillarono a pieni polmoni, ma le loro voci andarono perdute nel baccano assordante che riempiva la galleria.
«Oh... santo cielo», fu il commento di Crockett, con un filo di voce. Restò lì a guardare, il che fu un errore. Uno gnomo molto grosso emerse dalla bolgia, lo afferrò per i piedi e lo scagliò lontano. Il terrorizzato e involontario proiettile schizzò da una parete all'altra e andò a schiantarsi contro qualcosa che sbottò: «Uh... ufff!» Crockett si rialzò da un groviglio di gambe e braccia deformi, e scoprì di aver abbattuto uno gnomo dall'aria cattiva, i capelli d'un rosso fiammante e quattro grossi bottoni di diamante sulla giubba. La repellente creatura giaceva immobile, fuori combattimento. Crockett passò in rassegna le proprie ferite... ma non ne trovò. Il suo nuovo corpo si dimostrava, quanto meno, assai coriaceo.
«Mi hai salvato!» disse una nuova voce. Apparteneva a una... signora gnoma. Crockett decise che, se esisteva qualcosa di più brutto di uno gnomo, ciò era senz'altro la femmina della specie. La creatura era rannicchiata dietro di lui, e stringeva in una grossa mano un cospicuo pezzo di roccia.
Crockett istintivamente si chinò.
«Non ti farò del male», ululò l'altra, sopra il frastuono che riempiva la cavità. «Mi hai salvato! Mugza stava tentando di strapparmi le orecchie... oh, si sta risvegliando!»
Lo gnomo dai capelli rossi stava effettivamente riprendendo conoscenza. Il suo primo gesto fu quello di tirar su i piedi e, senza neppure alzarsi da terra, spedire Crockett con un calcio sul lato opposto della galleria. Lo gnomo femmina con un balzo andò a sedersi sul torace di Mugza e gli picchiò la testa col suo pezzo di roccia, finché l'altro non tornò a perdere i sensi.
Poi la gnoma si alzò. «Non sei ferito? Bene! Io sono Brockle Buhn... Oh, guarda! Fra un attimo gli avrà strappato la testa!»
Crockett si voltò e vide la sua guida di poco prima, Gru Magru, che stava gnomescamente tirando la testa di un avversario inidentificato, torcendola e mostrando, sotto ogni punto di vista, di volergliela staccare. «Che cos'è tutta questa storia?» urlò Crockett. «Uh... Brockle Buhn! Brockle Buhn!»
Lei si girò di malavoglia: «Cosa c'è?»
«Questo combattimento! Chi l'ha iniziato?»
«Io», spiegò la gnoma. «Ho detto, "Facciamo un po' a botte"».
«Oh, tutto qui?»
«E abbiamo cominciato», concluse Brockle Buhn. «Qual è il tuo nome?»
«Crockett».
«Sei nuovo di qui, non è vero? Oh... lo so. Tu eri un essere umano!» Improvvisamente una nuova luce comparve nei suoi occhi spiritati. «Crockett, forse tu puoi dirmi una cosa. Che cos'è un bacio?»
«Un... bacio?» ripeté Crockett, sconcertato.
«Sì. Una volta stavo ascoltando dentro una collinetta, e ho sentito due esseri umani che parlavano fra loro... maschio e femmina, a giudicare dalle loro voci. Non ho osato guardarli, naturalmente, ma l'uomo chiese alla donna un bacio».
«Oh», fece Crockett, piuttosto incerto, «le ha chiesto un bacio, eh?»
«Poi c'è stato uno schiocco, e la donna disse che era meraviglioso. Da allora, mi sono sempre chiesta che cosa fosse. Poiché, se qualche gnomo mi chiedesse un bacio, non saprei che cosa intende».
«Gli gnomi non baciano?» chiese Crockett, vagamente ansioso.
«Gli gnomi scavano», disse Brockle Buhn. «E mangiano. Mi piace mangiare. Un bacio è forse come la zuppa di fango».
«Be', non esattamente». In qualche modo Crockett riuscì a spiegarle la meccanica del darsi baci.
La gnoma restò silenziosa, riflettendo profondamente. Alla fine disse, con l'aria di qualcuno che offrisse una zuppa di fango a un postulante affamato: «Ti darò un bacio».
Crockett ebbe la visione degna di un incubo dell'intera sua testa ingoiata fra quelle enormi mascelle. Arretrò. «N... no», riuscì a dire. «Pre... preferirei di no».
«Allora lottiamo», disse Brockle Buhn, senza rancore, e vibrò un pugno nodoso che colpì dolorosamente di traverso l'orecchio di Crockett. «Oh, no», lei disse in tono rincresciuto, voltandosi, «il combattimento è finito. Non è durato molto a lungo, vero?»
Crockett, sfregandosi l'orecchio straziato, vide che, in ogni direzione, gli gnomi si stavano tirando su e si allontanavano in fretta per badare ai fatti loro. Sembravano essersi completamente dimenticati della recente contesa. La galleria era tornata silenziosa, salvo per il rumore dei passi ovattati degli gnomi sulla roccia. Gru Magru si avvicinò, sorridendo felice.
«Ehi, Brockle Buhn», salutò, «una buona lotta. Chi è questo?» Abbassò lo sguardo sul corpo prostrato di Mugza, lo gnomo dai capelli rossi.
«Mugza», spiegò Brockle Buhn. «È ancora svenuto. Prendiamolo a calci».
E cominciarono a farlo con grande entusiasmo, mentre Crockett osservava, e giurò a se stesso di non lasciarsi mai ridurre privo di sensi. Decisamente non era salutare. Alla fine, comunque, Gru Magru si stancò di quello sport e afferrò nuovamente Crockett per il braccio. «Vieni», gli intimò, e poi avanzò lungo la galleria, senza affrettarsi. Lasciarono Brockle Buhn intenta a saltare su e giù sullo stomaco di Mugza.
«Sembra che non vi dispiaccia colpire la gente quando è fuori combattimento», azzardò Crockett.
«È molto più divertente», esclamò Gru, entusiasta, «in questo modo si può colpirli proprio dove si vuole. Vieni. Tu devi ricevere l'investitura. Un altro giorno, un altro gnomo. Serve a mantenere stabile la popolazione», spiegò, e si mise a fischiettare una canzoncina.
«Senta», fece Crockett, «ho appena pensato una cosa. Lei ha detto che gli esseri umani vengono trasformati in gnomi per mantenere stabile la popolazione. Ma se gli gnomi non muoiono, non significa forse che adesso ci sono più gnomi che mai? La popolazione continua a crescere, non è così?»
«Stai zitto», lo rimbrottò Gru, «sto cantando».
Era una canzone singolarmente priva di melodia. Crockett, immerso in un turbine di pensieri, si chiese se gli gnomi non avessero un inno nazionale. Probabilmente era intitolato «Fammi dormire con una bella botta in testa».
«Stiamo andando a trovare l'imperatore», annunciò infine Gru. «Lui dà sempre un'occhiata ai nuovi gnomi. Sarà bene che tu faccia buona impressione, altrimenti ti metterà a scavare la lava».
«Uh...» Crockett abbassò lo sguardo sulla sua giubba sporca, «non farei meglio a darmi una pulita? Quella rissa mi ha conciato male».
«Non è stato quella», ribatté Gru, con fare insultante. «Che cos'hai che non va, ad ogni modo? Non mi pare che manchi niente».
«I miei vestiti... sono sporchi».
«Non preoccuparti per questo», disse Gru. «È del buon terriccio, no? Ecco qua», si fermò e, chinandosi, prese su una manciata di polvere, che sfregò sul viso e tra i capelli di Crockett. «Questo ti rimetterà in sesto».
«Io... pfffiu!... Grazie... pfffiu!» eruttò il recentissimo gnomo. «Spero che tutto questo sia un sogno, perché se così non fosse...» Non terminò la frase. Si sentiva molto male.
Attraversarono un labirinto di gallerie, a grande profondità sotto la montagna di Dornsef, e infine emersero in una gigantesca camera spoglia con un trono di roccia a un'estremità. Un piccolo gnomo sedeva sul trono, intento a limarsi le unghie. «Buio pesto a te», gli disse Gru. «Dov'è l'imperatore?»
«Sta facendo un bagno», rispose l'altro. «Spero che affoghi. Fango, fango, fango... mattina, mezzogiorno e sera. Prima è troppo caldo, poi è troppo freddo. Poi è troppo denso. Mi consumo le dita fino all'osso per mescolargli i bagni di fango, e tutto quello che ne ricavo sono calci», continuò, lamentandosi, il piccolo gnomo. «Si può arrivare anche ad essere troppo sporchi. Tre bagni al giorno! Questo è voler davvero esagerare. E mai un pensiero per me! Oh, no. Io sono un cucciolo del fango, ecco quello che sono. Mi ha chiamato così, oggi. Ha detto che c'erano grumi, nel fango. Be', e perché no? Quel maledetto terriccio che ci mandano basterebbe a far rivoltare lo stomaco a un lombrico. Troverai Sua Maestà là dentro», concluse, accennando col piede verso un'arcata nella parete.
Crockett fu trascinato nella stanza adiacente dove, in una vasca scavata nel pavimento e riempita di fango marrone fumante, stava seduto uno gnomo molto grasso. Soltanto i suoi occhi erano visibili attraverso lo strato limaccioso che lo rivestiva. Stava riempiendosi, una dopo l'altra, le mani di fango, facendoselo poi colare sulla testa, ridacchiando da rimbecillito senile.
«Fango», osservò in tono allegro, rivolgendosi a Gru con una voce simile al ruggito d'un leone, «non c'è niente di meglio. Buon, ricco fango. Ah!»
Gru stava battendo la testa sul pavimento, le sue grandi e robuste mani si erano strette intorno al collo di Crockett, costringendolo a seguire il suo esempio.
«Oh, alzatevi», disse l'imperatore. «Che cosa c'è? Che cosa ha combinato questo gnomo? Sentiamo».
«È nuovo», gli spiegò Gru, «l'ho trovato in alto. La legge di Nid, sai».
«Sì, naturalmente. Lascia che gli dia un'occhiata. Ugh! Io sono Podrang Secondo, imperatore degli gnomi. Che cosa hai da dire in merito?»
Tutto ciò che Crockett riuscì a spiccicare fu: «Com'è possibile che lei sia Podrang Secondo? Pensavo che il primo imperatore fosse Podrang Terzo».
«Un chiacchierone», commentò Podrang Secondo, scomparendo sotto la superficie del fango e facendo zampillare fango dalla bocca quando tornò a emergere. «Occupati di lui, Gru. All'inizio un lavoro facile. Mettilo a scavare antracite. E tu, stai attento a non mangiare mentre sei sul lavoro», si voltò ad ammonire lo stordito Crockett. «Quando sarai stato qui un secolo, ti sarà concesso un bagno di fango al giorno. Ma niente di paragonabile a questo, beninteso», concluse, tirandone su una manciata e spiaccicandosela sulla faccia.
Improvvisamente s'irrigidì. Risuonò il suo ruggito.
«Drook! Drook!»
Il piccolo gnomo che Crockett aveva visto nella sala del trono entrò di corsa, torcendosi le mani. «Vostra Maestà! Il fango non è abbastanza caldo?»
«Goccia strisciante!» tuonò Podrang Secondo. «Zotica progenie di seimila fetori oltraggiosi! Incompetente dagli occhi di mica, orecchie inzaccherate, putrida macchia sul buon nome degli gnomi! Errore geologico! Tu... tu...»
Drook approfittò della momentanea in articolazione del suo padrone: «È il fango migliore, Vostra Maestà, l'ho filtrato io stesso. Oh, Vostra Maestà, che cosa c'è che non va?»
«C'è dentro un verme!» ruggì Sua Maestà, e si lanciò in un'eruzione di oscenità così orrende, che il fango quasi ne ribollì. Tappandosi le orecchie ferite, Crockett permise che Gru lo trascinasse fuori di lì.
«Mi piacerebbe molto avere a che fare col vecchio in una rissa», commentò Gru, quando furono al sicuro nelle profondità di una galleria, «ma lui userebbe la magia, naturalmente. È fatto così. Il miglior imperatore che abbiamo mai avuto. Non c'è neppure una briciola di lealtà in quel corpo rigonfio».
«Oh», fece Crockett, con voce priva d'espressione. «Be', che cosa viene adesso?»
«Hai sentito Podrang, no? Ora ti metterai a scavare antracite. E se ti coglierò a mangiare, ti farò saltare i denti a calci».
Riflettendo sopra l'umore eternamente stizzoso degli gnomi, Crockett si lasciò guidare fino a una nuova galleria dove dozzine di gnomi, sia maschi che femmine, erano intenti a usare zappe e picconi con furibondo vigore. «Eccoci qua», disse Gru, «e adesso tu ti metti a scavare antracite. Lavorerai venti ore, poi dormirai per sei».
«E poi?»
«Poi ricomincerai a scavare», aggiunse Gru, «allo scadere di dieci ore avrai un breve periodo di riposo. Ma per tutto il resto del tempo non dovrai mai smettere di scavare, a meno che non sia per una lotta. Ora, ecco il modo per localizzare il carbone. È semplice: lo pensi».
«Eh?»
«Come credi che io ti abbia trovato?» chiese Gru, con impazienza. «Noi gnomi abbiamo certi sensi... Esiste una leggenda secondo la quale il popolo delle fate può trovar l'acqua servendosi di bacchette a forcella. Be', noi siamo attirati invece dai minerali. Pensa all'antracite», concluse, e Crockett obbedì. E istintivamente si voltò verso la più vicina parete rocciosa.
«Visto come funziona?» sogghignò Gru. «Suppongo che sia frutto di un'evoluzione naturale. Molto funzionale. Noi dobbiamo sapere dove si trovano i giacimenti, perciò le autorità ci hanno dato questo senso speciale quando siamo stati creati. Tu pensi a un giacimento d'ottimo materiale grezzo, e subito ti sentirai attratto da esso. Proprio come, invece, tutti gli gnòmi provano una naturale repulsione per la luce del giorno».
«Eh?» Crockett ebbe un lieve sussulto, «che cosa?»
«Negativo e positivo. Noi abbiamo bisogno di minerali, perciò siamo attratti da essi. La luce del giorno è dannosa per noi, perciò, se ci avviciniamo troppo alla superficie, basta che pensiamo alla luce e questa ci respinge. Fai la prova!»
Crockett obbedì. E subito sentì una pressione sulla testa che lo schiacciava in basso.
«Direttamente sopra di noi», commentò Gru, «ma è molto lontana. Ho visto la luce del giorno, una volta. E anche... un uomo», fissò Crockett. «Non te l'avevo detto. Gli gnomi non possono sopportare la vista degli esseri umani. Essi... be', c'è un limite alla bruttezza che uno gnomo può guardare. Adesso tu sei uno di noi, e proverai la stessa cosa. Tienti lontano dalla luce del sole, e non guardare mai un uomo... se ci tieni al tuo equilibrio mentale».
Nella mente di Crockett si agitava un pensiero. Visto come stavano le cose avrebbe potuto trovare la via d'uscita da quel labirinto di gallerie semplicemente impiegando il suo nuovo senso per farsi guidare fino alla luce del sole. Dopo... be', per lo meno si sarebbe trovato sopra il suolo, e non più sotto.
Gru Magru spinse Crockett in un posto libero tra due gnomi affaccendati e gli cacciò un piccone fra le mani: «Ecco. Comincia a lavorare».
«Grazie per...» cominciò a dire Crockett, quando Gru all'improvviso gli mollò un calcio e poi se ne andò, fischiettando felice tra sé. Un altro gnomo si avvicinò, vide che Crockett se ne stava immobile, e lo sollecitò a darsi da fare appioppandogli un colpo all'orecchio già indolenzito. Crockett su costretto allora a prendere in mano il piccone, e cominciò a staccare dalla parete grossi pezzi di antracite.
«Crockett!» esclamò una voce familiare. «Sei tu! Avevo pensato che ti avrebbero mandato quaggiù».
Era Brockle Buhn, lo gnomo femmina che Crockett aveva già incontrato e che ora stava vibrando il piccone insieme agli altri, ma lo mise giù per sorridere al suo compagno.
«Non rimarrai qui a lungo», lo consolò, «dieci anni o giù di lì. A meno che non ti metta nei pasticci, e allora ti metteranno a fare un lavoro davvero duro».
A Crockett facevano già male le braccia. «Lavoro duro! Le braccia mi si staccheranno tra meno di un minuto».
Si appoggiò al manico del piccone: «Questo è il tuo lavoro... normale?»
«Sì... ma sono qui molto raramente. Di solito mi puniscono. Io sono una provocatrice, ecco. Mangio antracite».
Glielo dimostrò, e Crockett rabbrividì nell'udire quel rumoroso sgranocchiare. Proprio allora arrivò il supervisore. Brockle Buhn inghiottì in fretta. «Che cosa succede?» ringhiò il supervisore. «Perché non state lavorando?»
«Stavamo giusto per metterci a lottare», gli spiegò Brockle Buhn.
«Oh... voi due soltanto? Oppure posso unirmi anch'io?»
«Libero a tutti», offrì la gnoma, fatto questo assai disdicevole per una signora, e colpì Crockett a tradimento con una picconata sulla testa. Crockett si spense come una lampadina.
Quando si risvegliò, qualche tempo dopo, si contò le costole ammaccate e decise che Brockle Buhn doveva averlo preso a calci dopo che lui aveva perso conoscenza. Che gnoma! Crockett si rizzò a sedere, e scoprì di trovarsi nella stessa galleria, insieme a dozzine di gnomi affaccendati a scavar fuori antracite.
Il supervisore venne verso di lui. «Sveglio, eh? Mettiti al lavoro!»
Ancora stordito, Crockett obbedì. Brockle Buhn lo gratificò d'uno smagliante sorriso. «Te la sei persa. Io mi sono presa un orecchio... vedi?» Glielo fece vedere. Crockett sollevò di scatto una mano e si tastò. Non era il suo.
Scava... scava... scava... Le ore passavano lente. Crockett non aveva mai lavorato tanto duramente in vita sua. Ma, constatò, nessuno degli gnomi si lamentava. Venti ore di lavoro, con un breve periodo di riposo, durante il quale aveva dormito. Scava... scava... scava...
Senza smettere di lavorare, Brockle Buhn disse: «Credo che sarai un bravo gnomo, Crockett. Ti stai già irrobustendo. Nessuno crederebbe che un tempo eri un uomo».
«Oh... no?»
«No. Che cos'eri? Un minatore?»
«Ero...» Crockett ebbe un attimo di esitazione. Una strana luce si era accesa nei suoi occhi.
«Ero un organizzatore sindacalista del lavoro», concluse.
«Che cos'è?»
«Mai sentito parlare di sindacati?» chiese Crockett, lo sguardo appassionato.
«È un minerale?» Brockle Buhn scosse la testa. «No, non ne ho mai sentito parlare. Che cos'è un sindacato?»
Crockett glielo spiegò. Nessun vero organizzatore sindacalista del lavoro avrebbe accettato quella definizione che era, a dir poco, faziosa.
Brockle Buhn parve perplessa. «Non capisco che cosa tu voglia dire esattamente, ma suppongo che vada bene».
«Prova a guardare la cosa da un altro verso», disse Crockett. «Non ti stanchi mai di lavorare venti ore al giorno?»
«Sicuro. Chi non si stancherebbe?»
«Allora perché lo fai?»
«L'abbiamo sempre fatto», spiegò Brockle Buhn. «Non possiamo fermarci».
«Supponiamo che tu ti fermi?»
«Verrei punita... picchiata con stalattiti o qualcosa del genere».
«Supponi che lo facciate tutti», insisté Crockett, «ogni dannato gnomo. Supponi che facciate uno sciopero del tipo sit-down».
«Sei matto?» esclamò Brockle Buhn. «Cose del genere non sono mai accadute. Sono... sono umane».
«Neppure i baci non ci sono mai stati nel sottosuolo», disse Crockett. «No, non ne voglio uno!... E non voglio neppure lottare! Santo cielo, fammi capire come sono organizzate le cose quaggiù. La maggior parte degli gnomi lavorano per mantenere le classi privilegiate».
«No. Semplicemente lavoriamo».
«Ma perché?»
«Lo abbiamo sempre fatto. E l'imperatore vuole che lo facciamo».
«L'imperatore ha mai lavorato?» chiese Crockett, con un'aria di trionfo. «No! Lui si limita a fare i suoi bagni di fango! Perché ogni gnomo non dovrebbe avere lo stesso privilegio? Perché...»
Crockett continuò a parlare molto a lungo, mentre lavorava. Brockle Buhn ascoltava con crescente interesse. E alla fine inghiottì l'esca... amo, lenza e piombo.
Un'ora più tardi ella annuiva vivamente interessata. «Passerò parola. Stanotte nella Caverna Ruggente. Subito dopo il lavoro».
«Un momento», obbiettò Crockett, «quanti gnomi possiamo avere dalla nostra?»
«Be', non molti... Trenta?»
«Prima dovremo organizzarci. Avremo bisogno di un piano definitivo».
Brockle Buhn partì per la tangente: «Lottiamo!»
«No! Vuoi ascoltare? Abbiamo bisogno di un... di un comitato. Chi è il peggior provocatore, qui?»
«Mugza, credo», lei disse, «lo gnomo dai capelli rossi che hai messo fuori combattimento quando mi ha colpito».
Crockett corrugò lievemente la fronte. Mugza gli avrebbe tenuto il broncio? Probabilmente no, decise. O meglio, non sarebbe stato di cattivo umore più di quanto non fossero per abitudine gli altri gnomi. Mugza avrebbe potuto tentare di strangolare Crockett non appena gli fosse comparso davanti, ma senza alcun dubbio avrebbe fatto lo stesso a qualunque altro gnomo. Inoltre, come Brockle Buhn continuò a spiegargli, Mugza era l'equivalente gnomico di un duca. Il suo appoggio sarebbe stato prezioso.
«E Gru Magru», suggerì poi, «va pazzo per le novità, specialmente se sono fonte di guai».
«Già». Quelli non erano certo i due che Crockett avrebbe scelto, ma in quel momento non riusciva a pensare a nessun altro possibile candidato. «Se potessimo avere qualcuno che sia vicino all'imperatore... Che ne dici di Drook... quel tizio che prepara a Podrang i suoi bagni di fango?»
«Perché no? Ci penserò io». Brockle Buhn perse interesse e si mise furtivamente a mangiare antracite. E poiché il sovrintendente stava giusto guardando, ciò provocò un violento alterco, dal quale Crockett uscì con un occhio nero. Masticando bestemmie fra i denti, si rimise a scavare.
Ma ebbe ugualmente il tempo di scambiare qualche altra parola con Brockle Buhn. Lei avrebbe organizzato le cose. Quella notte ci sarebbe stato un incontro segreto dei cospiratori.
Crockett aveva sempre atteso con ansia il momento in cui avrebbe potuto dare il sollievo del sonno al suo corpo esausto, ma quella possibilità era troppo buona per sprecarla. Lui non aveva alcun desiderio di continuare quel suo sgradevolissimo lavoro di scavare antracite. Il corpo gli faceva spaventosamente male. Inoltre, se lui avesse potuto indurre gli gnomi a scioperare, avrebbe potuto far pressione su Podrang. Gru Magru aveva detto che l'imperatore era un mago. Non avrebbe potuto, dunque, ritrasformare Crockett in uomo?
«Non l'ha mai fatto», dichiarò Brockle Buhn, e Crockett si rese conto di aver espresso il suo pensiero a voce alta.
«Ma potrebbe farlo, se volesse?»
Brockle Buhn si limitò a rabbrividire, ma Crockett provò un piccolo barlume di speranza. Essere di nuovo umano!
Scava... scava... scava... scava... con una monotona regolarità che finiva per rendere insensibili. Crockett sprofondò in un crescente stordimento. A meno che non fosse riuscito a far scioperare gli gnomi, si sarebbe trovato ad affrontare un'eternità di duro lavoro. A stento si accorse di aver finito di lavorare, e che la mano nodosa di Brockle Buhn si era infilata sotto il suo braccio, guidandolo attraverso numerose gallerie fino allo stretto cubicolo che era la sua nuova casa. La gnoma lo lasciò lì, lui strisciò sulla sua cuccetta di pietra e si mise a dormire.
Dopo un po' fu svegliato da un calcio sferratogli pro forma. Ammiccando, Crockett si rizzò a sedere, schivando istintivamente un secondo colpo che, per buona misura, Gru Magru gli stava vibrando alla testa. C'erano quattro ospiti: Gru, Brockle Buhn, Drook e Mugza dai capelli rossi.
«Mi spiace d'essermi svegliato troppo presto», borbottò Crockett, con amara ironia, «in caso contrario avresti potuto appiopparmi un altro calcio o due».
«Oh, c'è tutto il tempo», disse, sbrigativo, Gru. «Adesso, che cos'è tutta questa faccenda? Io volevo dormire, ma Brockle Buhn qui presente ha detto che ci sarebbe stata una rissa. Una rissa molto grossa. Dunque?»
«Prima mangiamo», esclamò Brockle Buhn con fermezza, «ora preparerò una zuppa di fango per tutti». Si allontanò, e poco dopo era indaffarata in un angolo, intenta a preparare i rinfreschi. Gli altri gnomi si erano accoccolati sulle anche, a Crockett era seduto sull'orlo della sua cuccetta, ancora stordito dal sonno.
Ma riuscì a spiegare al suo scelto uditorio la sua idea di un sindacato. Questa fu accolta con interesse... soprattutto perché comportava la possibilità di una furibonda mischia.
«Vuoi dire che ogni gnomo del Dornsef, nessuno escluso, salterà addosso all'imperatore?» chiese Gru.
«No, no! Un pacifico arbitrato. Semplicemente, ci rifiutiamo di lavorare. Tutti noi».
«Io non posso», protestò Drook. «Podrang deve avere i suo bagni di fango, quella vecchia lumaca rigonfia. Altrimenti mi manderà alle fumarole finché non sarò del tutto abbrustolito».
«E chi ti porterebbe laggiù?» disse Crockett.
«Oh... le guardie, suppongo».
«Ma anche loro saranno in sciopero. Nessuno obbedirà più a Podrang fino a quando non si arrenderà».
«Allora mi farà un incantesimo», si lamentò Drook.
«Non può incantarci tutti!» ribatté Crockett.
«Ma potrebbe incantare me», ribatté Drook, con fermezza, «e inoltre potrebbe lanciare un incantesimo contro ogni singolo gnomo in Dornsef, trasformandoci in stalattiti o qualcosa di simile».
«E allora? Non avrebbe più nessuno gnomo. Mezza pagnotta è meglio di nessuna. Semplicemente, useremo la logica con lui. Perché non dovrebbe preferire che sia fatto un po' meno di lavoro, piuttosto che nessun lavoro?»
«Non lui», intervenne Gru. «Piuttosto ci lancerà un incantesimo. Oh, è un cattivo imperatore, davvero», annuì vigorosamente.
Crockett non riusciva a crederci del tutto. Era troppo estraneo alla sua comprensione della psicologia — psicologia umana, naturalmente — e si rivolse a Mugza che lo fissava con fiero corruccio.
«Che cosa ne pensi?»
«Io voglio lottare», disse l'altro, con voce piena di rancore, «voglio prendere a calci qualcuno».
«Non preferiresti farti i bagni di fango tre volte al giorno?»
Mugza grugnì: «Sicuro, ma l'imperatore non me lo permette».
«E perché no?»
«Proprio perché voglio farli».
«Ma non puoi essere soddisfatto», esclamò Crockett, disperatamente, «c'è dell'altro, nella vita, oltre allo scavare».
«Sicuro. C'è il lottare. Podrang ci lascia lottare tutte le volte che vogliamo».
Crockett ebbe un'improvvisa ispirazione: «Ma è proprio questo! Prima o poi lui metterà fine anche a tutte le lotte! Farà una nuova legge che proibirà la lotta a tutti, salvo che a lui stesso!»
Fu un efficace colpo alla cieca. Tutti gli gnomi diedero in un sobbalzo.
«Proibire... la lotta?» Era stato Gru a parlare, irato e incredulo. «Ma perché? Noi abbiamo sempre lottato».
«Be', dovrete smettere», insisté Crockett.
«Non ci rinunceremo!»
«Proprio così! Perché dovreste? Ogni gnomo ha diritto alla vita, alla libertà e alla pratica del... del pugilato».
«Andiamo a picchiare Podrang», propose Mugza, accettando una scodella di zuppa fumante da Brockle Buhn.
«No, non è questa la maniera — no, grazie, Brockle Buhn — non è affatto la maniera. Ci vuole uno sciopero. Noi costringeremo pacificamente Podrang a darci quello che vogliamo».
Si rivolse a Drook: «Che cosa potrebbe mai fare Podrang se noi tutti ci sedessimo per terra e ci rifiutassimo di lavorare?»
Il piccolo gnomo considerò la cosa: «Imprecherebbe. E mi prenderebbe a calci».
«Già. E poi... che cos'altro?»
«Poi lancerebbe un incantesimo contro tutti, una galleria dopo l'altra».
«Uh... uhm», Crockett annuì. «Un buon argomento. La solidarietà è ciò di cui noi abbiamo bisogno. Se Podrang dovesse affrontare un gruppo di pochi gnomi, potrebbe spaventarli facilmente a morte. Ma se noi fossimo tutti uniti... ecco! Una volta proclamato lo sciopero, noi tutti ci riuniremo nella caverna più grande che c'è qua sotto».
«È la Camera del Consiglio», disse Gru. «Vicino alla sala del trono di Podrang».
«Va bene. C'incontreremo là. Quanti gnomi si uniranno a noi?»
«Tutti», grugnì Mugza, scagliando la sua scodella di zuppa contro la testa di Drook. «L'imperatore non può proibirci di lottare!»
«E che armi potrà mai usare Podrang, Drook?»
«Potrebbe usare le uova di coquatrix», rispose l'altro, dubbioso.
«E che cosa sono?»
«Non sono vere uova», interloquì Gru, «sono gioielli magici per incantesimi all'ingrosso. In ogni tipo di uovo ci sono incantesimi diversi. Credo che quelli verdi servano a trasformare la gente in vermi. Podrang ne spezza uno, e l'incantesimo si espande per sei metri o giù di lì. Quelli rossi sono per... vediamo. Per trasformare gli gnomi in esseri umani... anche se è un po' troppo dura. No... sì. Quelli azzurri...»
«In esseri umani!» Gli occhi di Crockett si spalancarono. «E dove tiene queste uova?»
«Lottiamo», propose Mugza, e si lanciò a corpo morto contro Drook, il quale squittì frenetico e colpì il suo assalitore alla testa con la scodella di pietra della zuppa, che si spaccò. Brockle Buhn aumentò l'eccitazione sparando calci imparzialmente contro tutti e due i contendenti, fino a quando non fu abbattuta da Gru Magru. Nel giro di pochi istanti, l'intera stanza risuonò delle grida eccitate della battaglia gnomica. Inevitabilmente, Crockett fu risucchiato nella...
Fra tutte le perverse e incredibili forme di vita che erano mai esistite, quella degli gnomi era senz'altro la più strana. Era impossibile capire la loro filosofia. La loro mente funzionava seguendo sentieri diversi da quelli dell'intelligenza umana. L'auto-conservazione e la sopravvivenza della razza — i due istinti più vitali — non erano posseduti dagli gnomi. Essi non morivano né prolificavano. Si limitavano a scavare e a lottare. Piccoli mostri eternamente di cattivo umore, pensò irritato Crockett... eppure esistevano, e da un mucchio d'anni. Forse fin dall'inizio del mondo. La loro organizzazione sociale era il risultato di un'evoluzione assai più antica di quella dell'uomo. E poteva senz'altro essere la più adatta per gli gnomi. Forse Crockett stava gettando sabbia inutile, anzi, nociva, in un delicato ingranaggio.
E allora? Lui non aveva certo l'intenzione di passare l'eternità a scavare antracite anche se, in retrospettiva, ricordava di aver provato un oscuro brivido di piacere mentre lavorava. Scavare poteva essere un divertimento per gli gnomi. Certamente era la loro raison d'être. Col tempo anche lui, Crockett, avrebbe potuto perdere ogni sua filiazione umana, ed essere metamorfizzato completamente in gnomo. Che cosa era accaduto degli altri umani che avevano subito una tale... una tale alterazione, com'era capitato a lui? Tutti gli gnomi sembravano uguali. Ma forse Gru Magru un tempo era stato umano... o Drook... o Brockle Buhn.
Adesso erano gnomi, a tutti gli effetti, i quali pensavano ed esistevano completamente come gnomi. Col tempo, lui stesso sarebbe stato esattamente come loro. Già aveva acquisito quello strano tropismo per cui veniva attirato dai minerali e respinto dalla luce del giorno. Ma non gli piaceva scavare!
Cercò di ricordare quel poco che sapeva degli gnomi, minatori, esperti metallurgici, che vivevano nel sottosuolo. C'era qualcosa sui pitti, strani uomini di bassa statura che si nascondevano nel sottosuolo quando gli invasori erano giunti in Inghilterra, molti secoli fa. Ciò sembrava vagamente collegarsi con la paura degli gnomi per gli esseri umani. Ma gli gnomi non erano certo i discendenti dei pitti, anche se aveva finito per esserci una certa identificazione fra queste due razze distinte, a causa del fatto che occupavano lo stesso habitat.
Be', questo non gli era di nessun aiuto. E l'imperatore? Questi non era, a quanto sembrava, uno gnomo con un alto quoziente d'intelligenza, ma era un mago. Quei gioielli — le uova di coquatrix — stavano chiaramente a indicarlo. Se fosse riuscito a impadronirsi di quelle che trasformavano gli gnomi in uomini...
Ma ovviamente non poteva farlo, al momento. Meglio aspettare, almeno fino a quando non fosse stato proclamato lo sciopero. Lo sciopero...
Crockett si addormentò.
Fu destato, dolorosamente, da Brockle Buhn, che sembrava averlo adottato, Molto probabilmente era stata la sua curiosità circa la faccenda del bacio a indurla a farlo. Di tanto in tanto si offriva di darne uno a Crockett, ma lui lo rifiutava con fermezza. Allora, al posto del bacio, lei gli preparava la prima colazione. Almeno, lui pensò per consolarsi, il suo sistema circolatorio avrebbe ricevuto ferro in abbondanza, anche se quelle schegge rugginose assomigliavano piuttosto a mais in fiocchi. Come condimento, Brockle Buhn cospargeva polvere di carbone sul tutto.
Be', non c'era dubbio che anche il suo apparato digerente fosse stato alterato. Crockett avrebbe molto desiderato farsi una radiografia delle interiora. Ma decise che sarebbe stata troppo sconvolgente. Meglio non saperlo. Ma non riusciva a fare a meno di chiederselo. Meccanismi nel suo stomaco? Piccoli macinini? Che cosa sarebbe accaduto, se lui avesse inavvertitamente inghiottito un po' di polvere di diamanti? Forse avrebbe potuto sabotare l'imperatore in quel modo.
Accorgendosi che i suoi pensieri cominciavano a divagare incontrollati, Crockett ingoiò l'ultimo boccone del suo pasto e seguì Brockle Buhn fino alla galleria dell'antracite.
«Come va con lo sciopero? Ci riusciamo?»
«Benissimo, Crockett», rispose lei, sorridendo, e Crockett trasalì a quello spettacolo. «Stanotte tutti gli gnomi s'incontreranno nella Caverna Ruggente, subito dopo il lavoro».
Non c'era tempo per continuare la conversazione. Il sovrintendente comparve e gli gnomi presero i loro picconi. Scava... scava... scava... Continuò con lo stesso ritmo. Crockett sudò e sgobbò. Non sarebbe durato ancora a lungo. La sua mente perse l'appiglio e lui piombò in un sonno da sveglio, coi muscoli che si muovevano automaticamente. Scava, scava, scava. Ogni tanto una rissa. Un periodo di riposo. Poi di nuovo a scavare.
Cinque secoli più tardi la giornata terminò. Era giunto il momento di dormire.
Ma c'era qualcosa di assai più importante. La riunione del sindacato nella Caverna Ruggente. Brockle Buhn guidò Crockett fin là. Era una caverna gigantesca, dal cui soffitto pendevano enormi stalattiti luccicanti, di color verde. Gli gnomi cominciarono ad affluirvi. Gnomi, gnomi e ancora gnomi. Le teste a forma di cavolo erano dappertutto. Scoppiarono qua e là una dozzina di risse. Gru Magru, Mugza e Drook trovarono posto vicino a Crockett. Durante una tregua, Brockle Buhn lo sollecitò a salire su una piattaforma di roccia che sporgeva dal pavimento.
«Adesso», lei bisbigliò, «sono stati tutti informati. Digli quello che vuoi».
Crockett sovrastò quella distesa ondeggiante di teste, calzoncini e giubbe azzurri e rossi, tutti illuminati dall'eterno bagliore argenteo. «Compagni gnomi», cominciò, «compagni gnomi!» Le sue parole rombarono, amplificate dall'acustica della caverna. Quel muggito da toro diede coraggio a Crockett, che si lanciò:
«Perché dovreste lavorare venti ore al giorno? Perché vi dovrebbe esser proibito di mangiare l'antracite che voi stessi scavate, mentre Podrang se ne sta accovacciato nel suo bagno e ride di voi? Compagni gnomi, l'imperatore è uno solo, voi siete molti! Lui non può costringervi a lavorare. Vi piacerebbe una zuppa di fango tre volte al giorno? L'imperatore non può combattervi tutti. Se vi rifiuterete di lavorare — tutti insieme — dovrà cedere! Dovrà farlo per forza!»
«Digli dell'editto che proibisce di lottare», gridò Gru Magru.
Crockett obbedì. Questo li convinse. La lotta era cara al cuore di ogni gnomo. E Crockett continuò a parlare.
«Podrang cercherà di tirarsi indietro, sapete. Fingerà di non aver mai avuto l'intenzione di proibire la lotta. Questo dimostrerà che ha paura di voi! Noi teniamo la frusta per il manico! Sciopereremo, e l'imperatore non potrà farci proprio nulla. Non appena gli verrà a mancare il fango per i suoi bagni, allora sarà pronto a capitolare!»
«Lancerà i suoi incantesimi su tutti noi», borbottò tristemente Drook.
«Non oserà! A che cosa gli servirebbe? Lui sa da quale parte il suo... uh... il suo fango è imburrato. Podrang è ingiusto verso gli gnomi! Questa è la nostra parola d'ordine!»
Terminò, naturalmente, in una zuffa. Ma Crockett era soddisfatto. Gli gnomi non sarebbero andati al lavoro domani. Invece si sarebbero riuniti nella Camera del Consiglio, adiacente alla sala del trono di Podrang, e si sarebbero seduti per terra.
Quella notte, Crockett dormì bene.
La mattina dopo, Crockett andò insieme a Brockle Buhn nella Camera del Consiglio, una caverna enorme, in grado di contenere le migliaia di gnomi che l'affollavano. Alla luminosità argentea, i loro indumenti rossi e azzurri avevano un aspetto curiosamente elfico. O forse, strettamente parlando, gli gnomi, rifletté Crockett, erano elfi?
Drook si avvicinò. «Non ho preparato il bagno di fango di Podrang», confidò con voce rauca. «Oh, ma è davvero furibondo, ascoltatelo».
Ed effettivamente, un lontano gracidio di bestemmie usciva da un arco sulla parete della caverna.
Mugza e Gru Magru li raggiunsero. «Verrà qui di persona», annunciò quest'ultimo. «Che lotta ci sarà!»
«Lottiamo subito», suggerì Mugza. «Voglio prendere a calci qualcuno. E con forza».
«Là c'è uno gnomo addormentato», gli indicò Crockett. «Se ti avvicini furtivamente, puoi piantargli un bel calcio proprio in faccia».
Mugza, sbavando dal piacere, partì per la sua missione, e nel medesimo istante Podrang Secondo, imperatore degli gnomi di Dornsef, entrò con passo pesante nella caverna. Era la prima volta che Crockett vedeva il sovrano senza uno strato di fango addosso, e non poté fare a meno di deglutire spasmodicamente a quella vista. Podrang era molto brutto. Egli riuniva in sé le più repellenti caratteristiche di ogni gnomo che Crockett avesse visto in precedenza. Il risultato, nel suo genere, era indescrivibile.
«Ah», fece Podrang, fermandosi e ondeggiando sulle sue corte gambe arcuate. «Abbiamo visite... Drook! In nome dei nove inferni fumanti, dov'è il mio bagno?»
Ma Drook si era nascosto.
L'imperatore annuì. «Capisco. Bene, non perderò la pazienza. Non perderò la pazienza! NON PERDERÒ...»
S'interruppe, quando una stalattite si staccò dal soffitto, schiantandosi al suolo. Nel momentaneo silenzio, Crockett fece un passo avanti, ma girandosi, come per schivare un colpo:
«Siamo in sciopero», annunciò, «questo è un sit-down. Non lavoreremo più fino a quando non...»
«Uaaaah!» urlò l'imperatore infuriato. «Non lavorerete, eh? Ohibò, voi occhi cisposi, lingue a sventola, progenie d'un verme innominabile dal ventre zebrato! Voi piccoli sgorbi lebbrosi e pustolosi nati da funghi mordicchiati da pipistrelli! Voi pavidi parassiti del sottopancia d'un tipo nano e rachitico! Uaaaah!»
«Lottate!» gridò l'irascile Mugza, e si lanciò contro Podrang, soltanto per venire atterrato da un colpo basso di costui, piazzato con eccellente precisione.
Crockett si sentì la gola secca. Alzò la voce, cercando di mantenerla salda.
«Vostra Maestà! Se vorrà soltanto aspettare un momento...»
«Voi, progenie degenerata di pipistrelli neri dal naso a fungo!» urlò ancora l'irato imperatore con tutta la sua possente voce. «Lancerò un incantesimo su tutti voi! Vi trasformerò in naiadi! Volete scioperare, eh? Impedirmi di fare i miei bagni di fango, vero? Per Kronos, Kid, Ymr e Loki, avrete modo di dispiacervene! Uaaaah!» concluse, non riuscendo più a parlare per la collera.
«Presto!» bisbigliò rapidamente Crockett, rivolto a Gru e a Brockle Buhn. «Mettetevi tra lui e la porta, cosicché non possa precipitarsi a prendere le uova di coquatrix!»
«Non sono nella sala del trono», gli spiegò Gru Magru, desolato, «lui le ghermisce direttamente dall'aria».
«Oh!» gemette Crockett, angustiato. E in quel momento cruciale, Brockle Buhn fu sopraffatta dai suoi peggiori istinti. Con un sonoro grido di gioia sbatté a terra Crockett, gli tirò due calci e balzò contro l'imperatore.
Riuscì a vibrargli un buon colpo, prima che Podrang calasse un pugno nodoso sulla sua testa, e il suo cranio a forma di cavolfiore rovesciato sembrò sprofondarle dentro il torace. L'imperatore, cianotico per la rabbia, protese un braccio, e un cristallo giallo comparve nella sua mano.
Era un uovo di coquatrix.
Barrendo come un elefante musth, Podrang lo scagliò. Istantaneamente, un folto gruppo di gnomi fu spazzato via per un raggio di sei metri. Ma non era vuoto. Dozzine di pipistrelli si alzarono e presero a svolazzare tutt'intorno, aumentando la confusione.
La confusione divenne caos. Con grida di collera deliziata, gli gnomi avanzarono come un'onda di marea verso il loro sovrano. «Lottiamo!» tuonava ovunque il grido, riverberandosi sul soffitto. «Lottiamo!»
Podrang ghermì un altro cristallo dal nulla, questa volta un cristallo verde. Trentasette gnomi furono istantaneamente trasformati in vermi, e finirono schiacciati. L'imperatore fu sepolto da una valanga di assalitori, i quali scomparvero all'improvviso, trasformati in topi da un altro uovo di coquatrix. Crockett vide uno dei cristalli volare verso di lui, e schizzò via come un matto. Nascostosi dietro una stalagmite, da lì osservò la carneficina.
Era decisamente uno spettacolo che valeva la pena di esser visto, anche se non lo si poteva certo raccomandare a un uomo nervoso.
Le uova di coquatrix scoppiavano in una grandinata continua. Tutte le volte che ciò accadeva, l'incantesimo si allargava per seisette metri prima di perdere la sua efficacia. Gli gnomi sorpresi al margine del cerchio venivano trasformati soltanto in parte. Crockett vide uno gnomo con la testa di talpa. Un altro era verme dalla cintola in giù. Un altro era... ulp! Alcuni dei modelli di questo incantesimo a quanto pareva non erano stati tratti neppure dalle più sconvolgenti mitologie conosciute.
I tonfi e i rimbombi, amplificati dalle pareti della caverna, facevano cadere continuamente stalattiti dal soffitto, che si schiantavano al suolo. Di tanto in tanto la testa ammaccata di Podrang riaffiorava, soltanto per riaffondare di nuovo quando altri gnomi si lanciavano all'attacco... e venivano trasformati dagli incantesimi. Topi, talpe, pipistrelli e altre cose riempivano ormai la Camera del Consiglio. Crockett chiuse gli occhi e pregò.
Li riaprì in tempo per vedere Podrang che ghermiva dall'aria un cristallo rosso, lo vide indugiare, per poi depositarlo con delicatezza dietro di sé. Poi comparve un uovo di coquatrix color porpora, e questo si schiantò subito sul pavimento, trasformando trenta gnomi in altrettanti rospi.
Sembrava che il solo Podrang fosse immune alla propria magia. Le migliaia di gnomi che avevano riempito la caverna si stavano rapidamente diradando, giacché sembrava che la fonte delle uova di coquatrix fosse inesauribile.
Quanto ci sarebbe voluto perché arrivasse il suo turno? pensò Crockett. Non avrebbe potuto nascondersi là dietro per sempre.
Il suo sguardo era come incollato al cristallo rosso che Podrang aveva deposto con tanta cautela dietro di sé. Stava ricordando qualcosa... ma sì, le uova rosse di coquatrix trasformavano gli gnomi in esseri umani! Per questo Podrang non l'aveva usato, poiché anche la sola vista degli uomini risultava così dolorosa per gli gnomi. Se Crockett fosse riuscito a metter le mani su quel cristallo rosso...
Tentò di farlo, avanzando furtivo in mezzo alla confusione, tenendosi il più possibile appiccicato alla parete della caverna, fino a quando non fu a pochi metri da Podrang. L'imperatore fu spazzato via da un'altra ondata di gnomi, che improvvisamente si trasformarono in ghiri, e Crockett s'impadronì del gioiello rosso. Che al tatto risultò stranamente gelido.
Stava quasi per frantumarlo contro la roccia, ai suoi piedi, quando un pensiero agghiacciante lo fermò. Lui si trovava nelle viscere della montagna di Dornsef, in un labirinto di caverne a grande profondità. Nessun essere umano sarebbe riuscito a trovare la via d'uscita. Ma uno gnomo poteva farlo, con l'aiuto di quello strano tropismo a rovescio nei confronti della luce del giorno.
Un pipistrello sbatté contro il viso di Crockett, il quale avrebbe giurato di averlo udito squittire «Che zuffa!» in una parodia della voce di Brockle Buhn. Non poteva, però, esserne certo. Lanciò un'ultima occhiata alla caverna, prima di voltarsi e scappare.
Era un caos immenso e totale. Pipistrelli, vermi, talpe, anatre, anguille e dozzine di altre specie strisciavano, volavano, correvano, mordevano, stridevano, ringhiavano, grugnivano, lanciavano urla strozzate e gracidavano dovunque. Da tutte le direzioni gli gnomi rimasti — poco più di una dozzina, non più — stavano convergendo su una montagnola brulicante che contrassegnava il punto dove l'imperatore continuava a lottare.
Mentre Crockett guardava, il mucchio di gnomi si dissolse, e un certo numero di lucertole geko fuggirono via per mettersi in salvo.
«Volevate scioperare, vero?» urlò Podrang. «Ve lo faccio vedere io!»
Crockett si voltò e scappò. Attraversò la sala del trono, completamente deserta, e s'infilò nella prima galleria. Una volta là dentro, concentrò i suoi pensieri sulla luce del giorno.
Si sentì schiacciare l'orecchio sinistro. Continuò a correre finché non vide un passaggio laterale sulla sinistra, che saliva in un lieve pendio, e vi si precipitò dentro alla massima velocità. I rumori sempre più confusi della lotta si spensero dietro di lui.
Strinse saldamente a sé l'uovo rosso di coquatrix. Che cos'era andato storto? Podrang avrebbe dovuto fermarsi e parlamentare. Soltanto... non l'aveva fatto. Uno gnomo singolarmente irascibile e miope. Probabilmente non si sarebbe fermato fino a quando non avesse spopolato del tutto il suo regno. A questo pensiero, Crockett si mise a correre ancora più in fretta.
Il tropismo lo guidava. A volte prese la galleria sbagliata ma, sempre, tutte le volte che pensava alla luce del giorno, riusciva a sentire la più vicina luce del giorno che premeva contro di lui. Le sue gambe corte e arcuate erano sorprendentemente vigorose.
Poi sentì che qualcuno gli correva dietro.
Non si voltò. Le sfrigolanti raffiche di bestemmie, tali da fargli arricciare le orecchie, gli avevano rivelato fin troppo chiaramente l'identità del suo inseguitore. Senza alcun dubbio Podrang aveva ripulito la Camera del Consiglio fino all'ultimo gnomo, e adesso aveva intenzione di fare a pezzi lui, Crockett, prolungando al massimo, ghiottamente, l'operazione. E questa era soltanto una delle cose che stava promettendo di fargli, con urla da accapponare la pelle.
Crockett continuò a correre. Infilò la nuova galleria come un razzo. Il tropismo lo guidava, ma lui era sempre terrorizzato alla prospettiva di trovarsi in un vicolo cieco. Il clamore alle sue spalle crebbe d'intensità. Se Crockett non avesse saputo come stavano le cose in realtà, avrebbe pensato che lo stesse inseguendo un intero esercito di gnomi.
Più veloce, sempre più veloce! Ma adesso Podrang era in vista, dietro di lui. Le pareti rocciose sussultavano ai suoi ruggiti. Crockett schizzò in avanti come una molla, girò un angolo e vide in lontananza, davanti a sé, un cerchio di luce... anzi, un vortice luminoso, un fiammeggiare accecante. Era la luce del giorno, così come appariva agli occhi degli gnomi.
Non avrebbe fatto in tempo a raggiungerla. Podrang era troppo vicino. Pochi istanti ancora, e quelle terribili mani nodose si sarebbero chiuse intorno alla sua gola. Poi Crockett si ricordò dell'uovo di coquatrix. Se adesso lui si fosse trasformato in un uomo, Podrang non avrebbe osato toccarlo. Ed era quasi arrivato all'imbocco della galleria.
Si fermò, girandosi di scatto, e sollevò il gioiello. Nel medesimo istante l'imperatore, vedendo le sue intenzioni, tese entrambe le mani e ghermì sei o sette cristalli dall'aria. E subito li lanciò contro Crockett, un turbine di colori dell'arcobaleno.
Ma Crockett aveva già scagliato la gemma rossa sulla roccia ai propri piedi. Vi fu uno schianto da spaccare i timpani. I gioielli parvero esplodere tutto intorno a Crockett, ma quello rosso si era frantumato per primo.
Il soffitto della galleria crollò.
Qualche minuto dopo, Crockett si trascinò dolorante fuori delle macerie. Un'occhiata gli bastò ad accertarsi che la strada per il mondo esterno era ancora aperta. E — grazie al cielo! — la luce del giorno gli appariva di nuovo normale, non più quella vampa fiammeggiante che cauterizzava gli occhi.
Crockett guardò verso le profondità della galleria, e s'immobilizzò. Podrang stava emergendo, con qualche difficoltà, da un mucchio di detriti. Le sue imprecazioni, che continuavano a esplodergli tra i denti, non avevano perso niente del loro fuoco.
Crockett si voltò per correr fuori, inciampò su una roccia e cadde lungo disteso. Quando balzò nuovamente in piedi, si accorse che Podrang lo aveva visto.
Lo gnomo restò impalato per un istante. Poi cacciò un urlo, girò sui tacchi e scappò nel buio. Se n'era andato. Il frenetico trepestio della sua corsa si spense quasi subito.
Crockett deglutì a fatica. Gli gnomi hanno paura degli uomini... pfiuuu! Se l'era cavata per un pelo. Ma adesso...
Provava più sollievo di quanto avesse creduto. Nel subconscio doveva essersi chiesto se l'incantesimo avrebbe davvero funzionato, poiché Podrang gli aveva scagliato addosso, contemporaneamente, sei o sette uova di coquatrix. Ma lui aveva frantumato l'uovo rosso per primo. Anche la strana luminosità argentea degli gnomi era scomparsa. Le profondità della galleria erano completamente nere... e silenziose.
Crockett si avviò verso l'imboccatura. Scivolò fuori, crogiolandosi al caldo sole del pomeriggio. Si trovava giusto ai piedi della montagna di Dornsef, in una macchia di rovi. A una trentina di metri di distanza, un contadino stava arando un campo a gradoni.
Crockett s'incamminò incespicando verso di lui. Mentre si avvicinava, l'uomo si girò. Restò un attimo come pietrificato. Poi cacciò un urlo, girò sui tacchi e scappò.
Gli echi delle sue urla rimbalzarono a lungo sugli scoscendimenti della montagna, mentre Crockett, ricordando le uova di coquatrix, si costrinse ad abbassare gli occhi sul proprio corpo.
Poi urlò anche lui. Ma il suono non era quello che sarebbe mai potuto uscire da una gola umana.
Tuttavia, ciò era più che naturale... viste le circostanze.
Per qualche millennio in più
By his Bootstraps
di Robert A. Heinlein (sotto lo pseudonimo di «Anson MacDonald»)
Astounding Science Fiction, ottobre
Heinlein era così prolifico che John Campbell trovò necessario fargli usare uno pseudonimo, dal momento che poteva sembrare strano che sullo stesso numero di una rivista comparissero ben due racconti dello stesso autore. In realtà, Bob aveva ormai un tale seguito nel 1941 che la cosa probabilmente non avrebbe avuto importanza.
Il racconto imperniato sul viaggio nel tempo era un argomento ormai caratteristico della fantascienza all'inizio degli anni quaranta, ma qui Heinlein seppe introdurre un grandioso colpo di coda... e scrisse quello che molti considerano il racconto definitivo sull'argomento.
(Bob Heinlein fa di nuovo centro. Sono d'accordo con Marty che questa è probabilmente la più bella storia di viaggi nel tempo che sia mai stata scritta di lunghezza inferiore al romanzo. Desidero però anche dire che John Campbell era fin troppo incline a far pressione perché si usassero degli pseudonimi. La mia impressione è che secondo lui fosse impossibile presentare nello stesso numero due racconti col nome dello stesso autore, ma avrebbe dovuto almeno provarcisi. Alcuni dei migliori racconti di Heinlein uscirono proprio con lo pseudonimo di MacDonald e perché i lettori non avrebbero dovuto saperlo? Non solo questa storia appartiene a questo gruppo, ma anche Solution Unsatisfactory che comparve su «Astounding» nel maggio del 1941 assieme a Blowups Happen. Be', era Heinlein che dominava nel 1941 e noi non possiamo farci nulla. - I.A.)
Bob Wilson non aveva visto il cerchio allargarsi.
E non aveva visto lo straniero, che era uscito dal cerchio e lo guardava alle spalle, lo guardava respirando pesantemente, ansimando quasi per l'intensa e insolita emozione.
Wilson non aveva motivo di sospettare che ci fosse qualcuno nella sua stanza; era un'ipotesi assurda, irragionevole. Si era chiuso a chiave (nella sua stanza) per finire la tesi di laurea lavorando duro e senza concedersi pause. Doveva farlo, domani sarebbe stato l'ultimo giorno utile per presentare la tesi che fino al giorno prima era solo un titolo: «Ricerche su alcuni problemi matematici per una metafisica più rigorosa».
Cinquantadue sigarette, quattro tazze di caffè e tredici ore di lavoro ininterrotto avevano aggiunto settemila parole al titolo. Se poi la tesi era valida, si sentiva troppo stordito per preoccuparsene. Ultimato e consegnato il lavoro, si sarebbe sbronzato e avrebbe dormito per una settimana.
Alzò gli occhi e accarezzò con lo sguardo la porta dell'armadio, dove aveva nascosto una bottiglia di gin, quasi piena. No, si disse, un altro sorso e non finirai mai, Bob, vecchio mio.
Lo straniero alle sue spalle non disse nulla.
Wilson riprese a battere a macchina. «... Non è logico supporre che una proposizione solo perché pensabile debba essere necessariamente possibile, pur essendo possibile formulare principi matematici che dimostrano esattamente la proposizione stessa. Si pensi al concetto di "viaggio nel tempo". Si può immaginare un viaggio nel tempo e esprimerne le sequenze logiche applicando una qualsiasi teoria sul tempo, una logica consequenziale che risolverebbe tutti i paradossi teorici. Ma sulla natura empirica del tempo conosciamo poche cose che precludono ogni possibilità di formulare una proposizione o un teorema. La durata è un attributo della coscienza e non del plenum. Non esiste ding an sicht. Quindi...».
Un tasto della macchina da scrivere si bloccò e altri tre andarono ad aggrovigliarsi su quello che si era bloccato. Wilson imprecò e si piegò sul groviglio di tasti per rimetterli a posto. «Lascia perdere», gli disse una voce. «Si tratta in ogni caso di un sacco di idiozie».
Wilon sobbalzò sulla sedia e si guardò intorno. Sperò ardentemente che ci fosse qualcuno dietro di lui. Altrimenti...
Con sollievo si accorse della presenza dello straniero. «Grazie a Dio», si disse. «Per un momento ho creduto di essere andato nel pallone». Ma si sentiva irritato. «Che diavolo fai nella mia stanza?», gli domandò. Spinse indietro la sedia, si alzò e andò a controllare la serratura della porta. Era ancora chiusa e saldamente sprangata.
Le finestre non erano certo una comoda via d'accesso; erano vicine alla scrivania e tre piani sopra una via intasata di traffico. «Come hai fatto a entrare?», disse poi.
«Attraverso questo», rispose lo straniero, piegando un pollice verso il cerchio. Wilson lo notò per la prima volta, sbatté gli occhi e lo guardò ancora. Era sospeso tra loro due e il muro, un enorme cerchio fatto di nulla, con tutti i colori del buio.
Wilson scosse energicamente la testa. Il cerchio era ancora lì. «Mannaggia», pensò. «Avevo ragione prima. Ma quand'è che ho perso la bussola?». Si avvicinò al disco e cercò di toccarlo con una mano.
«No!», urlò lo straniero.
«Perché no?», rispose Wilson irritato. Ma si fermò.
«Te lo dirò. Prima beviamo qualcosa». Andò direttamente verso l'armadio, lo aprì, allungò la mano e afferrò la bottiglia di gin senza guardarla.
«Ehi!», strillò Wilson. «Che cosa fai? Il liquore è mio».
«Tuo?». Lo straniero per un istante restò interdetto. «Mi spiace. Ti secchi se ne bevo un goccio?».
«Direi di no», ammise Bob Wilson con tono seccato. «Versamene un po', visto che sei lì».
«O.K.», convenne lo straniero, «poi te lo dirò».
«Sarebbe ora», disse Wilson sempre più irato. Ma bevve il gin e mentre beveva studiò lo straniero.
L'uomo aveva la sua stessa corporatura e più o meno la stessa età, un po' più vecchio, ma forse era la barba di tre giorni a giustificare la sua impressione. Lo straniero aveva un occhio nero, una ferita recente e un labbro gonfio. A Wilson la faccia di quell'uomo non piaceva. Ma in quella faccia c'era qualcosa di familiare, di noto; aveva la sensazione di conoscerla, di averla già vista molte volte e a più riprese.
«Chi sei?», gli chiese all'improvviso.
«Io?», disse l'ospite. «Non mi riconosci?».
«Non ne sono certo», ammise Wilson. «Ti ho già visto prima?».
«Beh, non proprio», temporeggiò l'altro. «Lascia andare, non potresti capire».
«Come ti chiami?».
«Come mi chiamo? Uh... chiamami Joe».
Wilson posò gli occhiali sulla scrivania. «O.K., Joe Vattelapesca, caccia fuori la tua spiegazione e fallo in fretta».
«Mi bastano due parole», disse Joe. «Quell'arnese», e indicò il cerchio attraverso cui era arrivato, «è una Porta Temporale».
«Cosa?».
«Una Porta Temporale, una porta sul tempo. Il tempo scorre in parallelo da entrambe le parti della Porta, sfalsato di alcune migliaia di anni, quante esattamente non so. E resterà aperta per le prossime due ore. Puoi andartene nel futuro attraverso quel cerchio».
Lo straniero si interruppe.
Bob picchiò sulla scrivania. «Avanti. Ti ascolto. È una storia interessante».
«Non mi credi? Eccoti una piccola dimostrazione». Joe si alzò, andò a cercare qualcos'altro nell'armadio e prese il cappello di Bob, un gioiello di cappello, che aveva maltrattato per sei anni di vita universitaria fino a ridurlo in quello stato. Joe lo lanciò verso il disco di impalpabile nulla.
Il cappello colpì la superficie del disco, lo attraversò senza incontrare resistenza e scomparve.
Wilson si alzò, si aggirò attentamente intorno al cerchio e studiò il pavimento. Sul pavimento non c'era nulla. «Un bel trucco», riconobbe. «Ora fammi il piacere di ridarmi il cappello».
Lo straniero scosse il capo. «Lo prenderai da te quando attraverserai il cerchio».
«Uhm?».
«E va bene. Ascolta». Lo straniero gli ripeté brevemente la sua spiegazione sulla Porta del Tempo. Wilson, insistette, aveva a portata di mano una possibilità che si presentava una volta in un millennio... se si affrettava ad arrampicarsi sul disco del Tempo. Joe sul momento non diede altri particolari ma ribadì che Wilson doveva attraversare la Porta. A tutti i costi.
Bob Wilson si fece coraggio con un altro drink e con un altro ancora. Incominciava a sentirsi bene e pronto alla polemica. «Perché?», disse in tono deciso.
Joe sembrava esasperato. «Dannazione! Se ti decidi una buona volta a passare, le spiegazioni non servono. Comunque...». Secondo Joe, dall'altra parte c'era un vecchio che aveva bisogno dell'aiuto di Wilson. Con il suo aiuto loro tre avrebbero conquistato il potere. Joe non poteva o non voleva precisare l'esatta natura di quell'aiuto. Insisteva invece sulle esaltanti possibilità della loro avventura. «Non vorrai sgobbare tutta la vita insegnando a una marea di stupidi in un'università di provincia», insistette. «È l'occasione della tua vita. Approfittane!».
Bob Wilson era più che mai convinto che una specializzazione o un incarico a tempo indeterminato o una libera docenza non erano il suo ideale di vita. Per vivere avrebbe dovuto rompersi di fatica. Lo sguardo gli cadde sulla bottiglia di gin, semivuota. Era l'unica spiegazione possibile. Quando si alzò era molle sulle gambe.
«No, mio caro», ribatté, «non voglio salire sul tuo ottovolante. E sai perché?».
«Perché?».
«Perché sono sbronzo. Ecco perché. Tu non esisti. Non esisti. E quello non esiste». E indicò con un largo cenno della mano il cerchio. «Qui ci sono solo io e sono sbronzo. Ho lavorato troppo. Troppo, hai capito», aggiunse come se volesse scusarsi. «E ora vado a letto».
«Non sei ubriaco».
«Sono sbronzo, fradicio. Crapa pelada la fa i tortêi, ghen da minga ai so fradèi, i so fradèi fa la fritada...». E si avviò verso il letto.
Joe lo afferrò per un braccio. «Non puoi farlo», disse.
«Lascialo stare!».
Si girarono di scatto. Di fronte a loro, in piedi davanti al cerchio, c'era un terzo uomo. Bob guardò il nuovo arrivato, poi si voltò a guardare Joe, sbatté gli occhi e cercò di inquadrarli meglio. I due si assomigliavano, pensò, sembravano fratelli. Oppure vedeva doppio. Brutta cosa il gin. Da tempo avrebbe dovuto darsi al rum. Buono il rum. Potevi berne a volontà e farci il bagno. No, quello era gin — ma il gin era Joe.
Che sciocco! Joe era quello con l'occhio nero. Si chiese come avesse potuto confondersi.
E allora chi era quel rompiscatole? Possibile che due amici non potessero bere in santa pace senza che qualcuno venisse a rompere i...?
«Chi sei?», domandò cercando di darsi un contegno.
Il nuovo arrivato si voltò e guardò Joe. «Lui mi conosce». Il tono era più che eloquente.
Joe alzò gli occhi a fatica. «Sì», disse, «sì. Suppongo di sì. Cosa diavolo vai cercando? E perché vuoi rovinare il piano?».
«Non ho tempo per lunghe spiegazioni. Ne so più di te — devi ammetterlo — e so valutare la situazione meglio di te. Non ha alcuna intenzione di attraversare la Porta».
«Non posso ammettere nulla del genere».
Lo squillo del telefono.
«Rispondi!», sbraitò il nuovo arrivato.
Bob stava per protestare con tono perentorio, ma decise di non farlo. Non aveva un temperamento abbastanza flemmatico per ignorare lo squillo di un telefono. «Pronto?».
«Pronto?», gli rispose una voce. «C'è Bob Wilson?».
«Sì. Chi è?».
«Non importa. Volevo assicurarmi che eri lì. Dovevi essere lì. Sei veramente in gran forma, ragazzo, proprio in gran forma».
Wilson sentì una risata soffocata e poi lo scatto di fine chiamata. «Pronto», disse. «Pronto!». Scosse la cornetta un paio di volte e poi riattaccò.
«Chi era?», chiese Joe.
«Nessuno. Un balordo con un senso dell'umorismo fuori posto». Il telefono squillò un'altra volta. Wilson aggiunse: «Eccolo di nuovo», e alzò il ricevitore. «Ehi, vecchia scimmia dal cervello d'insetto! Ho da fare e il mio non è un telefono pubblico».
«Che hai, Bob?». La voce della donna era seccata.
«Ah, sei tu, Genevieve. Senti, scusami. Scusami, ti dico».
«Vorrei vedere».
«Non puoi capire, cara. Un tipo continuava a scocciarmi per telefono e pensavo che era lui. Tesoro, con te non mi permetterei mai...».
«Direi! Soprattutto dopo quello che mi hai detto nel pomeriggio e quello che rappresentiamo l'uno per l'altra».
«Uhm? Nel pomeriggio? Hai detto nel pomeriggio?».
«Naturale. Ti ho chiamato per questo: hai lasciato il cappello nella mia stanza. L'ho visto pochi minuti dopo che te ne eri andato e ho pensato di telefonarti e di dirtelo. Ad ogni modo», aggiunse timidamente, «era una scusa per sentirti ancora».
«Bene. Benissimo», rispose Bob meccanicamente. «Senti, tesoro, per ora sono un po' stonato. Ho avuto molto da fare tutto il giorno e ho ancora un sacco di lavoro. Ci vedremo stasera e sistemerò tutto. Ma posso assicurarti che non hai lasciato il cappello in camera mia».
«Il tuo cappello, sciocco!».
«Uhm? Ah, sì, certo. Ci vediamo stasera. Ciao». Riattaccò in fretta. Maledizione, quella donna sta diventando un problema. Allucinazioni. Si voltò verso i due compari.
«Benissimo, Joe. Se sei pronto possiamo andare». Non sapeva esattamente quando o perché avesse deciso di attraversare la porta sul domani. Ma si era deciso. Con chi credeva di avere a che fare quell'altra faccia di... Perché cercava di interferire con la sua libera scelta?
«Era ora!», disse Joe, sollevato. «Su, passa. È una cosa semplicissima».
«No, fermati!». Era lo straniero, onnipresente. Si spostò tra il disco temporale e Wilson.
Bob Wilson lo aggredì. «Senti, tu! Sei entrato qui trattandomi come un barbone. Se la cosa non ti va, buttati a mare... Potrei farlo. Sono il tipo adatto. Chi c'è con te?».
Lo straniero si protese e cercò di afferrarlo per il collo. Wilson lo colpì, ma non aveva un buon pugno. Era lento come un pacco postale. Lo straniero reagì istantaneamente e lo colpì a sua volta duramente, con le grosse, legnose nocche delle mani. Joe si affrettò a venire in aiuto di Bob. Ci fu un breve match a tre, con Bob che si buttava nella mischia con entusiasmo ma in modo tutt'altro che efficace. Riuscì a stendere Joe con un diretto, anche se almeno teoricamente voleva proteggerlo. Voleva stendere l'altro.
Questo passo falso diede allo straniero l'opportunità di allungare un secco jab sinistro sul volto di Wilson. Lo toccò appena sopra la mascella, ma dato il suo stato confusionale il colpo fu più che sufficiente per toglierlo di mezzo.
Bob Wilson a poco a poco fu consapevole dell'ambiente che lo circondava. Era seduto su un pavimento un po' irregolare. Qualcuno era curvo su di lui. «Tutto bene?», gli chiese.
«Credo di sì», rispose confusamente. Gli faceva male la bocca; se la toccò con una mano. Era impastata di sangue. «Ho un po' di mal di testa».
«Vorrei vedere. Sei passato con la testa sui calcagni. Devi averla sbattuta quando sei arrivato».
Wilson cercava di riandare con la mente a qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. Arrivato dove? Guardò più attentamente il personaggio che lo aveva soccorso. Era un uomo di mezza età, dai capelli cespugliosi leggermente brizzolati, e una barba non molto pronunciata e tagliata accuratamente. Indossava quello che a Wilson sembrava un pigiama color porpora.
Ma la stanza in cui si trovava lo sconcertava. Era circolare e l'arco del soffitto si piegava in modo che era difficile stabilirne l'altezza. Una luce uniforme, soffusa, riempiva la stanza irradiandosi da una fonte luminosa che non riusciva ad individuare. Non c'erano mobili oltre a una predella piuttosto alta e a un oggetto a forma di pulpito accanto alla parete di fronte. «Passato? Passato attraverso che cosa?».
«La Porta, è evidente». C'era qualcosa di esotico nel suo accento. Wilson non riuscì ad identificarlo, ma aveva la sensazione che non era molto abituato a parlare inglese.
Wilson guardò oltre, nella direzione del suo sguardo. E vide il cerchio.
E sentì una fitta più acuta alla testa. «Oh, dio», pensò, «sono impazzito. Perché non mi sveglio?». Scosse la testa per chiarirsi le idee.
Fu uno sbaglio: non riusciva ad uscirne fuori. E il cerchio era sempre là, un semplice nulla sospeso nell'aria, le cui insondabili profondità erano piene delle forme e dei colori amorfi del non visibile. «Sono passato di là?».
«Sì».
«Dove sono?».
«Nella Sala della Porta, nel Grande Palazzo di Norkaal. Ma è più importante che tu sappia in che anno ti trovi. Hai viaggiato nel futuro per più di trentamila anni».
«Ora so di essere pazzo», pensò Wilson. Si alzò, ma era ancora molle sulle gambe, e si avvicinò alla Porta.
Il vecchio gli posò una mano sulla spalla. «Dove credi di andare?».
«Indietro!».
«Non subito. Ritornerai al momento opportuno, te lo assicuro. Prima devo sistemarti le ferite. E devi riposare. Ti devo spiegare alcune cose, e quando te ne andrai ti vorrei affidare un incarico — utile per tutti e due. Ci aspetta un grande futuro, ragazzo mio — un grande futuro!».
Wilson sembrava interdetto. L'insistenza del vecchio era vagamente inquietante. «Non mi piace».
L'altro per un attimo lo fissò attentamente. «Non vuoi bere qualcosa prima di andartene?».
Wilson accettò di slancio. In quel momento un liquore gli sembrava la cosa più desiderabile della Terra, o del tempo. «Okay».
«Vieni con me». Il vecchio lo riaccompagnò alla struttura vicino alla parete, e superata una porta entrò in un corridoio. Camminava veloce; Wilson affrettò il passo per tenergli dietro.
«Strada facendo», gli chiese, mentre scendevano per il lungo corridoio, «dimmi almeno come ti chiami».
«Come mi chiamo? Chiamami Diktor, tutti mi chiamano così».
«Bene, Diktor. Sai come mi chiamo?».
«Come ti chiami?». Diktor sogghignò. «Lo so come ti chiami. Bob Wilson».
«Ah, deve avertelo detto Joe».
«Joe? Non conosco nessun Joe».
«No? Sembrava che ti conoscesse. Ma forse non sei la persona che mi aspettavo di incontrare».
«Sono io, sono io. Ti aspettavo, in un certo senso. Joe... Joe, oh!», e Diktor sogghignò ancora. «Per un attimo mi era uscito di mente. Ti ha detto di chimarlo Joe. Non è così?».
«Non si chiama Joe?».
«È un nome come un altro. Eccoci arrivati». Spinse Wilson in una camera non molto grande ma luminosa. Non c'erano mobili, ma il pavimento era soffice e tiepido come carne viva. «Siediti. Torno subito».
Bob si guardò intorno cercando qualcosa per sedersi e poi si girò per chiedere a Diktor una sedia. Ma Diktor era sparito ed era sparita anche la porta attraverso la quale erano entrati. Bob si mise a sedere sul pavimento, morbido come carne, e cercò di non tormentarsi.
Diktor tornò quasi subito. Wilson vide dilatarsi la porta per lasciarlo entrare, ma non riuscì a capire come aveva fatto ad aprirla. Diktor aveva in mano un boccale, che gorgogliava stuzzicandolo, e una tazza. «Alla tua», disse per metterlo a suo agio e gliene versò quattro dita. «Su, bevi».
Bob prese con gioia la tazza. «E tu non bevi?».
«Tra poco. Ora devo pensare alle tue ferite».
«Okay». Wilson vuotò la tazza con una foga eccessiva — non male, sapeva di Scotch, ma era più amabile e meno secco — mentre Diktor spalmava abilmente pomate ed unguenti che bruciavano al primo contatto e poi perdevano il bruciore. «Ti spiace se ne prendo un altro?».
«Serviti».
Bob vuotò lentamente la seconda tazza. Non la finì; la ciotola gli scivolò dalle mani distese, lasciando sul pavimento una chiazza rosso-marrone. Bob già dormiva. E russava.
Quando Bob Wilson si svegliò si sentiva bene e completamente riposato. Si sentiva allegro senza sapere il perché. Per qualche istante restò sdraiato, a occhi chiusi e perfettamente rilassato, mentre l'anima appena sveglia tornava a rannicchiarsi nel corpo assopito. Lo aspettava una splendida giornata, ne era certo. Sì, aveva finito quella dannatissima tesi. No, che non l'aveva finita! Si mise a sedere con un sussulto.
La vista delle pareti esotiche lo riportò nella logica delle cose. Ma prima che avesse tempo di preoccuparsi — cioè subito — la porta si aprì e Diktor entrò. «Ti senti meglio?».
«Sì, certo che sì. Di', cos'è questo?».
«Ne parleremo poi. Non vuoi fare colazione?».
Nella scala di valori di Wilson la colazione veniva subito dopo la vita e aveva il sapore di un preludio all'immortalità. Diktor lo accompagnò in un'altra stanza, la prima, per quanto poteva vedere, dotata di finestre. In pratica metà della stanza si apriva su una terrazza sospesa in alto sulla campagna. Il vento dell'estate, morbido e caldo, soffiava leggero. I due ruppero il digiuno nello sfarzo di un pranzo luculliano mentre Diktor parlava.
Bob Wilson non seguì la spiegazione di Diktor con l'attenzione che avrebbe voluto, distratto com'era dalle ragazze che servivano i cibi. La prima era entrata recando sulla testa un enorme vassoio di frutta. Era frutta eccezionale. Come la ragazza. Splendida ragazza. Poteva frugarla a piacere: non le avrebbe trovato un difetto.
Anche i vestiti favorivano quello studio accurato del corpo.
Prima andò da Diktor e con un unico, aggraziato movimento si piegò su un ginocchio, si tolse di capo il vassoio e glielo offrì. Diktor prese un piccolo frutto rosso e le fece segno di allontanarsi. La ragazza andò a inginocchiarsi da Bob con la stessa deliziosa sensualità.
«Come dicevo», continuò Diktor, «non si sa esattamente da dove provengono i Sommi o dove sono andati quando hanno lasciato la Terra. Sarei propenso a pensare che sono fuggiti nel Tempo. Ad ogni modo hanno regnato per più di ventimila anni distruggendo completamente la cultura che voi conoscevate. Ma a me e anche a te, Bob, interessano di più gli effetti prodotti sulla psiche umana. Una persona del ventesimo secolo che abbia un po' di spirito d'iniziativa qui ha la possibilità di realizzare tutto quello che vuole... Non mi stai seguendo?».
«Che? Ah, sì, certo. Scusa, quella ragazza è veramente straordinaria». Con gli occhi fissava ancora la porta da cui era uscita.
«Chi? Ah, sì. suppongo di sì. Non è poi così bella. Niente di eccezionale rispetto alle donne che circolano da queste parti».
«Stento a crederlo. Mi piacerebbe giocare con una ragazza come quella».
«Ti piace? Benissimo, è tua».
«Che?».
«È una schiava. Non stupirti. Sono schiave per natura. Se ti piace, te ne faccio dono. La cosa la renderà felice». La ragazza era appena rientrata. Diktor la chiamò in una lingua che Bob non conosceva. «Si chiama Arma», gli disse a parte e poi parlò brevemente alla giovane schiava.
Arma rise scioccamente. Poi si ricompose quasi subito e spostandosi verso quella specie di triclinio dove giaceva Bob, posò entrambe le ginocchia sul pavimento e chinò il capo, aprendo le mani a coppa davanti a sé. «Toccale la fronte», gli consigliò Diktor.
Bob le toccò la fronte. La ragazza si alzò e restò tranquilla al suo fianco ad aspettarlo. Diktor le disse qualcos'altro. Arma sembrava perplessa ma uscì lo stesso dalla stanza. «Le ho detto che, nonostante il suo nuovo stato, desideri che continui a servirci la colazione».
Diktor riassunse per sommi capi il suo discorso mentre Arma continuava a servirli. La portata successiva Arma la portò inisieme ad un'altra ragazza. Quando Bob vide la seconda ragazza si lasciò andare a un fischio leggero. Si rese subito conto di essere stato troppo precipitoso a chiedere a Diktor di regalargli Arma. O il livello medio di bellezza era aumentato in modo incredibile, concluse, oppure Diktor aveva dovuto lottare duramente per assicurarsi schiave di quella fatta.
«... Proprio per questo», stava dicendo Diktor, «è indispensabile che riattraversi immediatamente la Porta del Tempo. Per prima cosa ti preoccuperai di riportare qui quel tizio. E poi c'è un'altra cosa che dovresti fare e poi potremo divertirci e dividere in parti uguali. Ti garantisco che c'è molto da spartire, io... ma non mi stai ascoltando!».
«Ti ho sentito, capo. Ho sentito tutto quello che hai detto, parola per parola». Si massaggiò la faccia. «Hai per caso un rasoio da prestarmi? Vorrei radermi».
Diktor imprecò a bassa voce in due lingue. «Smettila di guardare quelle puttanelle e ascoltami! Il lavoro va fatto».
«Certo, certo, ti capisco, e io sono l'uomo che fa per te. Quando si comincia?». Wilson si era deciso da tempo, pochi istanti dopo che Arma era entrata col vassoio colmo di frutta. Si sentiva come se avesse vagato in un sogno estremamente piacevole. Se cooperare con Diktor gli avrebbe permesso di continuare quel sogno, non aveva nulla in contrario. Al diavolo la carriera universitaria!
Per il momento, Diktor voleva soltanto che ritornasse dove era partito e persuadesse una persona a passare attraverso la Porta. Il peggio che gli poteva capitare era di ritrovarsi nel ventesimo secolo. Che cosa aveva da perdere?
Diktor si era alzato. «Vediamo di procedere», disse rapidamente, «prima che ti distragga un'altra volta. Seguimi». Si incamminò a passo veloce mentre Wilson lo seguiva.
Diktor lo portò nella Sala del Tempo e si fermò. «Devi attraversare la Porta», disse. «Ti ritroverai in camera tua. nel tuo tempo. Devi convincere la persona che incontrerai ad attraversare la Porta. Abbiamo bisogno di lui. E poi tornerai».
Bob sollevò una mano e chiuse in un cenno d'intesa il pollice e l'indice. «È cosa fatta, capo. Contaci». E si diresse verso la Porta per attraversarla.
«Aspetta!», gli ordinò Diktor. «Non sei abituato a viaggiare nel tempo. Ti avverto che subirai uno choc violento quando passerai da quella Porta. Quell'altro, lo riconoscerai subito».
«Chi è?».
«Non posso dirtelo, non capiresti. Capirai quando lo vedrai. Ma ricordati una cosa: ci sono molti assurdi paradossi quando si deve viaggiare nel tempo. Qualunque cosa ti succeda non turbarti. Fa' quello che ti ho detto e tutto andrà per il meglio».
«I paradossi non mi preoccupano», disse Bob con tono confidenziale. «È tutto? Sono pronto».
«Un minuto». Diktor sparì dietro la predella già sollevata. Ma ricomparve subito dopo. «Ho innestato i contatti. Parti».
Bob Wilson passò attraverso la spazio conosciuto come la Porta del Tempo.
Il passaggio non creava sensazioni particolari. Era come attraversare le tende su una porta e entrare in una stanza più buia. Dall'altra parte Wilson attese un attimo e lasciò che gli occhi si abituassero alla luce più tenue, più incerta. Si trovava nella sua stanza, se ne rese subito conto.
C'era un uomo, seduto alla sua scrivania. Diktor aveva ragione. Quella era la persona che doveva riportare nel futuro attraverso la Porta del Tempo. Diktor gli aveva detto che l'avrebbe riconosciuta. E vediamola, allora.
Provò un fugace moto d'ira a vedere qualcuno seduto alla sua scrivania nella sua stanza, ma poi ci ripensò. Dopo tutto si trattava di una camera in affitto; scomparso lui, con ogni probabilità l'avevano riaffittata. Non aveva modo di stabilire quanto tempo era rimasto lontano; sciocchezze, non doveva essere passata più di una settimana!
Il tizio aveva qualcosa di familiare, anche se ne vedeva solo la schiena. Chi era? Se gli avesse rivolto la parola, si sarebbe voltato? Si sentiva un po' riluttante a farlo senza sapere chi fosse. Cercò di considerare razionalmente le proprie reazioni, dicendosi che era indispensabile sapere con chi aveva a che fare prima di tentare qualcosa d'insolito, e cioè persuaderlo ad attraversare la Porta.
L'uomo alla scrivania continuava a battere a macchina. Si fermò un istante a spegnere una sigaretta, infilandola in un posacenere e schiacciandola col fermacarte.
Bob Wilson conosceva quel gesto.
Un brivido gli corse per la schiena. «Se ne accende un'altra», si disse sussurrando, «come penso, non può essere che...».
L'uomo alla scrivania prese un'altra sigaretta, la compresse da una parte, la girò e la compresse dall'altra, raddrizzò e piegò la cartina da un lato contro l'unghia del pollice sinistro e se la infilò in bocca.
Wilson sentì il sangue pulsargli nelle vene del collo. Seduto là di spalle era lui, Bob Wilson!
Sì sentì mancare. Chiuse gli occhi e si aggrappò a una sedia. «Lo sapevo», pensò, «è un'assurdità. Sono pazzo. So di essere pazzo. Uno sdoppiamento di personalità. Non dovevo lavorare tanto».
Il rumore della macchina da scrivere continuò.
Si ricompose e tornò ad esaminare la questione. Diktor lo aveva avvertito che avrebbe provato uno choc, uno choc che non si poteva spiegare in anticipo, perché inspiegabile, incredibile. «Ammettiamo pure di non essere pazzo. Se si crede alla possibilità dei viaggi nel tempo, non c'è ragione perché non possa tornare indietro e vedere me stesso al lavoro o quello che stavo facendo in passato. Se sto bene, è proprio quello che mi sta capitando.
«Ma se sono pazzo, non ha la minima importanza quello che sto facendo!
«E poi», aggiunse a se stesso, «se sono pazzo, posso continuare ad esserlo e riattraversare la Porta! No, la cosa non ha senso. E anche tutto il resto non ha senso... all'inferno!».
Si mosse lentamente in avanti e sbirciò sopra la spalla del suo duplicato. «La durata è un attributo della coscienza e non del plenum», lesse.
«Questo guasta tutto», pensò, «sono tornato al punto di partenza e mi sto guardando scrivere la tesi».
Ancora il rumore della tastiera. «Non esiste ding an sicht. Quindi...». Un tasto si bloccò e altri gli si accavallarono sopra. Il suo duplicato alla scrivania imprecò e stese una mano per sistemare i tasti.
«Lascia perdere», disse Wilson, mosso da un impulso improvviso. «Si tratta in ogni caso di un sacco di idiozie».
L'altro Bob Wilson sussultò sulla sedia e si guardò intorno. L'espressione di sorpresa divenne uno scatto d'ira. «Che diavolo fai nella mia stanza?», gli domandò. Senza aspettare la risposta si alzò, si avvicinò in fretta alla porta e esaminò la serratura. «Come hai fatto ad entrare?».
«Ecco, le cose si complicano», pensò Wilson.
«Attraverso questa», rispose Wilson, indicando la Porta del Tempo. Il duplicato guardò dove gli aveva indicato, diede un'altra occhiata e poi si avvicinò con estrema cautela e cercò di toccarlo.
«No!», urlò Wilson.
L'altro si fermò di colpo. «Perché no?», domandò.
Perché non dovesse permettere al suo altro sé di toccare la Porta non era chiaro, ma Wilson aveva avuto la netta sensazione di un disastro imminente quando si era accorto delle «sue» intenzioni. Prese un po' di respiro dicendo: «Te lo dirò. Ma prima beviamo qualcosa». In ogni caso non era una brutta idea. Mai come ora aveva sentito il bisogno di un bicchiere di gin. Andò automaticamente verso l'armadio dove era solito tenere il liquore, e prese la bottiglia dal ripostiglio segreto dove si aspettava di trovarla.
«Ehi!», protestò l'altro. «Che cosa fai? Il liquore è mio».
«Tuo?». Sangue di Giuda! Era il suo liquore. No. a dire il vero, era il loro liquore. Oh, al diavolo. Era troppo sconvolto per trovare una risposta. «Mi spiace. Ti secchi se ne bevo un goccio?».
«Direi di no», disse il duplicato con tono irritato. «Versamene un po', visto che sei lì».
«O.K.», convenne Wilson, «poi te lo dirò». Era molto, troppo difficile cercare di spiegarsi senza bere un goccio. Ne era più che convinto. Effettivamente, non sapeva spiegare la cosa nemmeno a se stesso.
«Sarebbe ora», lo avvertì l'altro e rimase a guardarlo attentamente mentre beveva il suo gin.
Wilson osservò il suo sé più giovane che lo scrutava, con un senso confuso e quasi insopportabile di emozione. Come mai quello sciocco non lo riconosceva? E dire che gli era seduto davanti. Se non riusciva a capire la situazione, come diavolo avrebbe fatto a spiegarsi o a cercare di schiarirgli le idee?
Non aveva pensato di essere difficilmente riconoscibile così malconcio e non rasato. E, cosa ancor più importante, non aveva tenuto nella giusta considerazione il fatto che una persona non si guarda mai in faccia, neanche allo specchio, con l'atteggiamento mentale con cui guarda gli altri. Nessuna persona sana di mente si aspetterebbe di vedere la propria faccia appesa al corpo di un altro.
Wilson si accorse che l'altro era piuttosto imbarazzato dalla sua presenza, ma era altrettanto evidente che non lo aveva riconosciuto. «Chi sei?», gli chiese all'improvviso.
«Io?», rispose Wilson. «Non mi riconosci?».
«Non ne sono certo. Ti ho già visto prima?».
«Beh, non proprio», ribatté Wilson cercando di prendere tempo. Come si può dire a qualcuno che voi siete qualcosa di più di due gemelli? «Lascia andare, non potresti capire».
«Come ti chiami?».
«Come mi chiamo? Uh...». Le cose si complicavano! Tutta la situazione era estremamente comica. Aprì la bocca e cercò di rispondere «Bob Wilson», ma poi si arrese con una terribile sensazione di futilità. Come molti prima di lui, fu costretto a mentire perché la verità era assolutamente incredibile. «Chiamami Joe», disse infine in modo tutt'altro che convincente.
All'improvviso le sue stesse parole lo fecero sussultare. Fu a questo punto che capì chi era, in realtà, «Joe», quel Joe che aveva incontrato quando era lui a scrivere la tesi. Aveva già capito di essere ritornato nella sua stanza proprio nell'istante in cui aveva smesso di lavorare alla tesi, ma non aveva molto tempo per rifletterci. Sentirsi parlare di se stesso come se fosse Joe fu uno schiaffo morale. Capì che non si trattava di una scena simile alla precedente ma della stessa scena già vissuta in passato, solo che adesso la stava vivendo da una differente angolatura.
Almeno, doveva essere la stessa scena. Qualcosa era cambiato? Non ne aveva la certezza assoluta, e del resto non poteva ricordarsi, parola per parola, i termini della conversazione precedente.
Per ricordare completamente la scena registrata e archiviata nella sua memoria avrebbe pagato venticinque bei dollaroni più la speciale tassa sui viaggi nel tempo.
Un attimo di pazienza. Non si sentiva costretto a dire quello che diceva. Ne era certo. Tutto quello che diceva e faceva era il prodotto della sua libera volontà. Anche se non ricordava le singole battute, c'era pur sempre qualcosa che «Joe» non aveva sicuramente detto. «Maria ha comprato una bistecca d'agnello», per esempio. Avrebbe recitato una filastrocca e spezzato quella maledetta sequenza ripetitiva. Aprì la bocca...
«O.K., Joe Vattelapesca», interloquì il suo alter ego, posando il bicchiere dove, fino a qualche istante prima, c'era un quarto di pinta di gin, «caccia fuori la tua spiegazione e fallo in fretta».
Tornò ad aprire la bocca per rispondere alla domanda, ma la richiuse. «Calma, vecchio, calma», si disse. «Sei libero di agire. Vuoi recitare una filastrocca, avanti, fallo. Non rispondergli; avanti, dì la tua filastrocca e rompi questo circolo vizioso».
Ma sotto lo sguardo ostile e indagatore dell'uomo che gli stava di fronte si sentì del tutto incapace di recitare una filastrocca. I suoi processi mentali erano a un punto morto.
E si arrese. «Mi bastano due parole. Quell'arnese», e indicò il cerchio attraverso cui era arrivato, «è una Porta Temporale».
«Cosa?».
«Una Porta Temporale, una porta sul tempo. Il tempo scorre in parallelo da entrambe le parti...». Mentre parlava si sentiva sudare copiosamente; aveva la certezza matematica di usare le stesse parole che Joe aveva usato con lui quando lui era Bob Wilson. «... Puoi andartene nel futuro attraverso quel cerchio». Si fermò e si asciugò la fronte.
«Avanti», disse l'altro, implacabile. «Ti ascolto. È una storia interessante».
All'improvviso Bob si chiese se l'altro poteva essere lui. L'assurdo, arrogante dogmatismo dei suoi modi lo infuriò. Va bene, va bene! Glielo avrebbe dimostrato. All'improvviso schizzò verso l'armadio, prese il suo cappello e lo lanciò attraverso la Porta.
La sua controfigura guardò il cappello sparire dalla sua vita con sguardo inespressivo, poi si alzò e girò intorno alla Porta, camminando come se fosse un po' sbronzo, ma deciso a non farlo vedere. «Un bel trucco», disse applaudendo, dopo essersi accertato che era sparito, «ma ora fammi il piacere di ridarmi il cappello».
Wilson scosse il capo. «Lo prenderai da te quando attraverserai il cerchio», rispose pensando ad altro. Quanti cappelli c'erano dall'altra parte della Porta?
«Uhm?».
«E va bene. Ascolta...». Wilson fece del suo meglio per spiegare in modo abbastanza convincente che cosa voleva dal suo ego precedente. Cercò di raggirarlo. Le spiegazioni era inutili, nel senso stretto del termine. Avrebbe preferito spiegare il calcolo infinitesimale a un aborigeno australiano, anche se non capiva gran che di matematica astratta. Una matematica così esoterica!
L'altro non gli era d'aiuto. Sembrava più interessato a succhiare gin che a seguire le spiegazioni poco convincenti di Wilson.
«Perché?», lo interruppe.
«Dannazione», rispose Wilson, «se ti decidi una buona volta a passare, le spiegazioni non servono. Comunque...». E continuò riassumendo il discorso di Diktor. Irritato, si accorse che Diktor era stato terribilmente lacunoso nelle sue spiegazioni. Fu costretto a schematizzare al massimo le parti logiche del ragionamento e a far leva sul fattore emotivo. Era il suo terreno, nessuno meglio di lui sapeva che il vecchio Bob Wilson era annoiato a morte dal lavoro insignificante e dall'atmosfera arrogante degli ambienti universitari. «Non vorrai sgobbare tutta la vita insegnando a una marea di stupidi in un'università di provincia», concluse. «È l'occasione della tua vita. Approfittane!».
Wilson scrutò a lungo il suo ex-io e pensò di aver ottenuto una reazione favorevole. Sembrava che la cosa lo interessasse. Ma quello posò accuratamente il bicchiere, fissò la bottiglia di gin e alla fine rispose:
«No, mio caro, non voglio salire sul tuo ottovolante. E sai perché?».