Lenny (che comparve nel numero del gennaio 1958 di Infinity Science Fiction) fu scritto in circostanze curiose. Mi avviene, di quando in quando, di essere costretto ad andare in vacanza, malgrado il mio desiderio, espresso pavidamente, di evitarlo. Mia moglie, che sa essere egregiamente coercitiva, considerata la sua struttura dolce e la sua voce tenera, è piuttosto insensibile alla mia argomentazione che le vacanze sono una durissima prova per il mio sistema nervoso, dato che io divento irrequieto in assenza di una macchina per scrivere.

Calma, mi disse: " Portati dietro la tua macchina per scrivere.

Feci cosi: e per un paio d'ore ogni mattina me la portavo dietro sul praticello del nostro albergo tranquillo (mia moglie con dolcezza e voce tenera aveva insistito sulle sovrane virtù del sole e dell'aria fresca... ugh!, la sistemavo su un tavolino traballante, bloccavo una risma di carta con alcune pietre e mi mettevo al lavoro.

Non passava un solo mattino senza che qualcuno mi interrompesse per sapere che cosa stessi facendo. Lo spiegavo, e quando finalmente capivano che stavo lavorando mi guardavano senza tentare di nascondere la loro ostilità. Si sparse la voce che io ero un pericoloso radicale che tentava di sabotare la Grande Vacanza Americana.

In qualche modo riuscii a finire e quando ritornai alla mia adorabile mansarda questa non mi era mai sembrata altrettanto adorabile. Mi ci volle del tempo per rimettermi al lavoro. Prima mi sfogai a baciare tutti i muri.

Lenny

Titolo originale: Lenny (1957)

 

La United States Robots and Mechanical Men Corporation aveva un problema. Il problema era la gente.

Peter Bogert, matematico capo, stava andando alla sala di montaggio quando incontrò Alfred Lanning, direttore delle ricerche. Lanning, con le folte sopracciglia bianche corrugate, guardava oltre la ringhiera la sala del computer.

Giù, di là dal parapetto, un piccolo fiume di persone di entrambi i sessi e di diverse età si guardava intorno incuriosito, mentre una guida sciorinava un discorso già preparato in precedenza sull'argomento robotica.

«Il computer che avete davanti» disse «è il più grande computer di questo tipo che esista al mondo. Contiene cinque milioni e trecentomila criotroni e può tener conto simultaneamente di centomila variabili. Grazie ad esso la U.S. Robots è in grado di progettare con precisione il cervello positronico dei nuovi modelli.

«I requisiti che si richiedono vengono immessi nell'elaboratore su un nastro perforato da questa tastiera, un congegno che somiglia a una macchina per scrivere molto complessa o una linotype, solo che non lavora con le lettere, ma con i concetti. Tali concetti vengono tradotti in linguaggio simbolico, il quale a sua volta viene convertito in schede perforate.

«In meno di un'ora il computer fornisce ai nostri scienziati un progetto di cervello in cui è incluso l'elenco di tutti i circuiti positronici necessari alla costruzione del robot...»

Alfred Lanning alla fine alzò la testa e si accorse di Bogert. «Oh, Peter» disse.

Bogert si passò le mani sui capelli neri e lucidi, lisciandoseli. «Non sembrate apprezzare molto questa scena, Alfred» disse.

Lanning grugnì. L'idea di consentire al pubblico di visitare, accompagnato da una guida, gli stabilimenti della U.S. Robots era abbastanza recente e doveva assolvere in teoria due funzioni. La prima era quella di indurre la gente a familiarizzare sempre di più con i robot e a vincere la sua paura istintiva degli oggetti meccanici. La seconda era quella di suscitare sempre più interesse nei confronti della robotica e di indurre almeno qualcuno dei visitatori occasionali a dedicarsi ad essa professionalmente.

«Lo sapete bene quanto poco l'apprezzi» disse Lanning. «Una volta alla settimana il lavoro va a farsi benedire. Considerate le ore di attività perse, quel che si guadagna in cambio non è certo una compensazione sufficiente.»

«Allora le domande di impiego non sono aumentate?»

«Un pochino sì, ma solo nei settori dove non ce n'è molto bisogno. Sono i ricercatori che ci occorrono, lo sapete. Il guaio è che, con tutte le restrizioni imposte all'uso dei robot sulla Terra, il mestiere di robotologo è abbastanza impopolare.»

«Il maledetto "complesso di Frankenstein"» disse Bogert, ricorrendo apposta a una delle espressioni preferite di Lanning.

Lanning ignorò quella provocazione amichevole. «Ormai avrei dovuto abituarmi a tutto questo» disse, «ma credo che non ci riuscirò mai. Al punto in cui siamo sarebbe logico pensare che l'intera popolazione della Terra abbia capito che le Tre Leggi rappresentano un meccanismo di sicurezza perfetto e che i robot semplicemente non sono pericolosi. Ma guardate invece quella masnada.» Abbassò gli occhi, osservando torvo il pubblico. «Guardateli bene. La maggior parte di loro si aggira per la sala di montaggio dei robot soltanto per gustare il brivido della paura. È come se andassero sulle montagne russe. Poi, quando entra nella stanza del modello MEC... Perdio, Peter, il modello MEC non sa fare altro al mondo che avanzare di due passi, dire "Piacere di conoscervi, signore", stringere la mano e tornare tranquillo al suo posto, e quelli quando se lo trovano davanti indietreggiano tutti intimoriti, mentre le madri stringono a sé i bambini. Come possiamo aspettarci che in mezzo a questo branco di idioti ci sia qualcuno capace di aiutarci attivamente nella ricerca?»

Bogert non seppe cosa rispondere. I due osservarono di nuovo le file di visitatori, che adesso stavano passando dalla sala del computer al settore dove si montavano i cervelli positronici, poi se ne andarono. Come apparve chiaro in seguito, non si accorsero di che cosa stesse facendo il sedicenne Mortimer J. Jacobson, il quale, questo bisogna riconoscerglielo, non aveva alcuna intenzione di provocare dei danni.

 

Anzi, non si poteva nemmeno dire che la colpa fosse di Mortimer. Tutti i dipendenti della U.S. Robots sapevano qual era il giorno della settimana destinato alle visite. Tutti i congegni che si trovavano lungo l'itinerario avrebbero dovuto essere disattivati o bloccati, perché era assurdo pensare che gli ospiti resistessero alla tentazione di armeggiare con manopole, tasti, leve e bottoni. Per di più, la guida avrebbe dovuto stare all'erta, tenendo d'occhio la gente che a quella tentazione mostrava di cedere.

Ma in quel momento la guida era passata nella stanza accanto e Mortimer era in fondo alla fila. Il ragazzo passò davanti alla tastiera attraverso la quale venivano immesse nel computer le istruzioni. Non poteva sospettare che giusto allora si stessero fornendo all'elaboratore i dati relativi al progetto di un nuovo tipo di robot. Se l'avesse saputo, essendo un bravo ragazzo avrebbe evitato accuratamente la tastiera. Ma ignorava che, per una disattenzione quasi criminale, il tecnico si era dimenticato di disattivarla.

Così toccò i tasti a caso, come suonando un pianoforte.

Non si accorse che una parte del nastro perforato usciva silenziosamente dall'apparecchio in un altro angolo della sala.

E nemmeno il tecnico, quando tornò, si accorse che qualcuno aveva armeggiato con i tasti. Provò un certo disagio notando che la tastiera non era stata disattivata, ma non si curò di fare un controllo. Dopo pochi minuti non sentì più traccia del primitivo disagio e continuò tranquillamente a immettere dati nel computer.

Quanto a Mortimer, né allora né in seguito seppe mai che cosa aveva combinato.

 

Il nuovo modello LNE era destinato a lavorare nelle miniere di boro della fascia degli asteroidi. Gli idruri di boro erano sempre più preziosi, in quanto servivano all'innesco delle micropile protoniche che producevano il grosso dell'energia sulle astronavi. E le risorse di boro della Terra, già esigue, erano ormai sul punto di esaurirsi.

Dal punto di vista della struttura fisica i robot LNE erano dotati quindi di occhi sensibili alle righe spettrali che predominavano nell'analisi spettroscopica del boro. Possedevano inoltre delle membra particolarmente adatte a lavorare il minerale fino a trasformarlo nel prodotto finale. Come sempre, però, più importanti di tutto erano le caratteristiche mentali.

Il primo cervello positronico di un LNE era appena stato messo a punto e il prototipo si sarebbe aggiunto a tutti gli altri fabbricati dalla U.S. Robots. Una volta effettuato il collaudo definitivo, sarebbero stati costruiti altri modelli che le compagnie minerarie avrebbero preso a noleggio (non comprato).

Il prototipo LNE era dunque completo. Alto, diritto, lucido, all'esterno era quasi completamente uguale a molti dei robot non troppo specializzati.

Il tecnico di turno, seguendo le istruzioni per il collaudo date dal Manuale di robotica, disse: «Come stai?».

La risposta prevista sarebbe dovuta essere, più o meno: «Sto bene e sono pronto a cominciare il lavoro. Spero che stiate bene anche voi».

Quel primo approccio non serviva ad altro che a verificare se il robot fosse in grado di udire, di capire una domanda normalissima, e di dare una risposta altrettanto normale e in sintonia con le funzioni tipiche della sua natura. Dopo si passava di solito ad argomenti più complessi, attraverso i quali si controllava Fazione delle diverse Leggi e il loro rapporto con le conoscenze specifiche di ciascun modello.

Così il tecnico disse: «Come stai?». E sobbalzò, sentendo la voce del prototipo LNE. Era diversa da quella di tutti gli altri robot con cui aveva avuto a che fare (ed erano tanti). Le sillabe venivano pronunciate con una musicalità che ricordava le note più basse di una celesta.

Rimase così stupito, che solo dopo qualche secondo si rese conto di che cosa il robot avesse detto con quella sua voce melodiosa.

«Da, da, da, goo» aveva detto.

Il prototipo stava ancora lì in piedi dritto e impettito, ma aveva sollevato una mano e si era messo un dito in bocca.

Il tecnico lo fissò inorridito, poi scappò via. Chiuse la porta a chiave e da un'altra stanza fece arrivare alla dottoressa Susan Calvin una chiamata d'emergenza.

 

La dottoressa Susan Calvin era l'unica robopsicologa della U.S. Robots (e praticamente del mondo). Dopo avere esaminato brevemente il prototipo LNE chiese con tono perentorio una copia del progetto di cervello positronico elaborato dal computer e le istruzioni su nastro che erano state immesse in quest'ultimo. Studiò i tabulati, poi mandò a chiamare Bogert.

Con i suoi capelli grigi tirati indietro in una pettinatura austera e il viso freddo, solcato da profonde rughe verticali chiuse dalla linea orizzontale delle labbra sottili, la Calvin si girò verso Bogert e lo fissò.

«Che cosa sono questi, Peter?»

Bogert studiò meravigliato i punti che lei gli indicava sulla carta e disse: «Dio santo, Susan, non hanno mica senso».

«Già, non ce l'hanno affatto. Com'è potuta finire nelle istruzioni questa roba?»

Chiamarono il tecnico di turno, che giurò in tutta onestà di non avere avuto alcuna parte nella faccenda e di non saper spiegare come una cosa del genere fosse potuta succedere. Si cercò un eventuale difetto di funzionamento nel computer, ma tutto risultò a posto.

«Il cervello positronico» disse pensierosa Susan Calvin, «ormai è compromesso. Sono talmente numerose le funzioni più elevate annullate da quelle istruzioni senza senso, che il prototipo è in pratica l'equivalente di un bambino.»

Bogert apparve sorpreso e la Calvin, come sempre faceva quando gli altri mostravano anche minimamente di mettere in dubbio le sue parole, si irrigidì. «Noi ci sforziamo di rendere la mente dei robot il più possibile somigliante a quella umana. Se si eliminano quelle che definiamo funzioni adulte, ci si ritrova per le mani un cervello infantile. Perché sembrate così stupito, Peter?»

Il prototipo LNE, che mostrava di non capire affatto quello che gli stava succedendo intorno, di colpo si mise a sedere e cominciò a esaminarsi attentamente i piedi.

Bogert lo fissò. «È un peccato dover smantellare questo robot. Era venuto fuori così bene.»

«Smantellarlo?» disse con foga la robopsicologa.

«Be' certo, Susan. A cosa serve? Dio santo, se c'è una cosa completamente e irrimediabilmente inutile è proprio un robot che non sa assolvere nessun compito. Non mi verrete mica a dire che questo aggeggio è in grado di assolvere qualche compito, vero?»

«No, naturalmente.»

«E allora?»

«Voglio sottoporlo ad altri esami» disse Susan Calvin, con ostinazione.

Bogert la guardò un attimo spazientito, poi scrollò le spalle. Se c'era alla U.S. Robots una persona con cui era inutile discutere, quella era sicuramente Susan Calvin. Lei nella vita amava soltanto i robot, e Bogert aveva l'impressione che a forza di stare a stretto contatto con essi avesse perso ogni parvenza di umanità. Tentare di convincerla con le parole a desistere da un proposito era come cercare di convincere con le parole una micropila a disattivarsi da sola.

«Mah, non vedo lo scopo...» sussurrò fra sé. Poi, a voce alta, disse: «Ci farete sapere qualcosa quando avrete terminato i vostri esami?».

«Sì» disse lei. «Vieni qui, Lenny.»

(LNE, pensò Bogert. Il numero di serie si trasformava inevitabilmente nel nome di Lenny.)

Susan Calvin allungò un braccio, ma il robot si limitò a fissarlo. La robopsicologa allora lo afferrò per una mano. Lenny si alzò agilmente (la coordinazione meccanica, se non altro, era perfetta). Insieme uscirono dalla stanza, con il robot che superava in statura la donna di circa mezzo metro. Molti occhi seguirono con curiosità la scena, lungo i corridoi.

Una delle pareti del laboratorio di Susan Calvin, quella adiacente al suo studio, era coperta dalla gigantografia dei circuiti di un cervello positronio). Susan Calvin la stava studiando attentamente da quasi un mese.

E la stava studiando attentamente anche adesso, ricalcando la traiettoria contorta seguita dai circuiti. Alle sue spalle, sul pavimento, era seduto Lenny. Il robot apriva e chiudeva in continuazione le gambe e bisbigliava fra sé sillabe senza senso con una voce così bella, che c'era da rimanerne incantati nonostante l'assurdità di quel che esprimeva.

Susan Calvin si girò verso di lui. «Lenny... Lenny...»

Continuò a chiamarlo pazientemente, finché lui alzò la testa ed emise un suono dal tono interrogativo. La robopsicologa per un attimo si illuminò. Il robot mostrava di rispondere ai richiami con sempre maggiore prontezza.

«Alza la mano, Lenny» gli disse. «Mano... su. Mano... su.»

Dicendolo alzò lei stessa la propria, più e più volte.

Lenny seguì con gli occhi il movimento. Su, giù, su, giù. Poi tentò di imitare il gesto alla meglio e trillò: «Eh... uh».

«Bravissimo, Lenny» disse Susan Calvin, seria. «Prova ancora. Mano... su.»

Con molto garbo afferrò la mano del robot e gliela alzò e abbassò. «Mano... su. Mano... su.»

«Susan?» fece una voce proveniente dallo studio.

La Calvin strinse le labbra e s'interruppe. «Cosa c'è, Alfred?»

Il direttore delle ricerche entrò nel laboratorio e guardò il robot e la gigantografia appesa alla parete. «Ancora dietro a queste cose?»

«Sono al lavoro, sì.»

«Sentite, Susan...» Lanning tirò fuori un sigaro, lo fissò un attimo e ci accinse a fumarlo, quando incontrò il severo sguardo di disapprovazione della donna. Allora lo mise via e riprese il discorso. «Sentite, Susan, il modello LNE è ormai in produzione.»

«Così ho sentito dire. Volevate parlarmi per questo?»

«N-no. Ma il solo fatto che sia in produzione e che funzioni bene significa che è inutile continuare a lavorare intorno a quest'esemplare tarato. Non sarebbe meglio smantellarlo?»

«In una parola, Alfred, vi secca che io sciupi il mio tempo prezioso. State tranquillo. Non è tempo sprecato. Con questo robot io sto lavorando.»

«Ma è un lavoro che non ha senso.»

«Questo lasciate giudicarlo a me, Alfred.» Il suo tono era gelidamente pacato e Lanning pensò fosse prudente cambiare tattica.

«Potete dirmi che significato ha tutto ciò? Per esempio cosa state facendo con lui, adesso?»

«Cerco di fargli alzare una mano dietro comando verbale. Cerco di indurlo a imitare il suono delle parole.»

Come se avesse ricevuto l'imbeccata, Lenny disse: «Eh-uh». E alzò esitante una mano.

Lanning scosse la testa. «Che voce strana. Com'è che ce l'ha così?»

«Non lo so proprio» disse Susan Calvin. «Il microfono è normale. Potrebbe parlare come tutti gli altri robot, ne sono certa. Però non lo fa. Questo timbro che ha è dovuto a qualcosa, nei circuiti positronici, che non sono ancora riuscita a individuare.»

«Allora individuatelo, Dio santo. Una voce del genere potrebbe tornare utile.»

«Oh, dunque, i miei studi su Lenny a qualche scopo servono?»

Lanning alzò le spalle, imbarazzato. «Be', a scopi minori.»

«Peccato che non vediate quelli maggiori» disse Susan Calvin, aspra, «perché sono molto più importanti. Ma non è colpa mia se non li vedete. E adesso Alfred vi spiace andarvene e lasciarmi proseguire con il mio lavoro?»

 

Lanning si accese finalmente il sigaro quando entrò nell'ufficio di Bogert. Disse, acido: «Quella donna diventa ogni giorno più stramba».

Bogert capì subito. Alla U.S. Robots and Mechanical Men Corporation "quella donna" poteva essere solo Susan Calvin. «È ancora lì che gira per i corridoi con quello pseudo-robot, quel suo Lenny?»

«Adesso cerca di farlo parlare, perdio.»

Bogert scrollò le spalle. «Questa storia mette in evidenza l'entità del nostro problema. Voglio dire, il problema di avere dei ricercatori qualificati. Se disponessimo di altri robopsicologi, potremmo mandare in pensione Susan. A proposito, immagino che la riunione dei direttori prevista per domani sarà incentrata sull'argomento assunzioni, vero?»

Lanning annuì e guardò il sigaro con aria nauseata, come se avesse un cattivo sapore. «Sì. L'importante però è la qualità, non la quantità. Abbiamo aumentato gli stipendi, per cui adesso c'è una richiesta costante da parte di aspiranti al posto che sono attratti soprattutto dal denaro. Il difficile è trovare gente attratta soprattutto dalla robotica. Ci vorrebbero un po' più di persone come Susan Calvin.»

«Per la miseria, no! Non come lei!»

«Be', non come lei quanto al carattere. Ma dovrete ammettere, Peter, che Susan pensa unicamente a quello, ai robot. Non ha altri interessi nella vita.»

«Lo so. È proprio il motivo per cui è così insopportabile.»

Lanning annuì. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva provato una gran voglia di licenziare la Calvin. E aveva perso anche il conto dei milioni di dollari che lei, in varie occasioni, aveva fatto risparmiare alla compagnia. Era una donna veramente indispensabile e lo sarebbe rimasta fino alla morte. O fino a che non fossero riusciti a trovare uomini e donne del suo calibro, sinceramente interessati alla ricerca.

«Credo che limiteremo le visite del pubblico alla fabbrica» disse.

Peter alzò le spalle. «Se pensate che sia giusto così. Ma intanto vorrei rivolgervi una domanda seria: cos'è giusto fare con Susan? Potrebbe continuare a occuparsi di Lenny per un tempo indefinito. Sapete com'è, quando s'immerge in un problema che considera interessante.»

«Cosa possiamo fare?» disse Lanning. «Se ci mostrassimo troppo ansiosi di allontanarla da questo suo interesse, per spirito di contraddizione femminile s'incaponirebbe ancora di più. In fin dei conti non possiamo costringerla ad agire in un modo anziché in un altro.»

Il matematico sorrise. «Non userei mai l'aggettivo "femminile" riferendomi a lei, sotto nessun riguardo.»

«E va be'» disse Lanning, brusco. «Se non altro, con questa sua mania di studiare Lenny non fa del male a nessuno.»

Ma se anche non avesse sbagliato nelle altre cose, Lanning in quella si sbagliava.

 

La sirena d'allarme crea sempre tensione, in qualsiasi stabilimento industriale. Nella storia della U.S. Robots tali sirene avevano suonato una dozzina di volte per motivi diversi: incendi, allagamenti, tumulti e sommosse.

Ma da quando esisteva la fabbrica non aveva mai squillato l'allarme che indicava che un robot era "fuori controllo". E nessuno si aspettava che potesse squillare. Era stato installato solo dietro le pressioni insistenti del governo. («Quel maledetto complesso di Frankenstein» mormorava Lanning nelle rare occasioni in cui rifletteva sulla cosa.)

Adesso però l'urlo intermittente di quella particolare sirena risonava in tutte le stanze e i corridoi, e per qualche secondo nessuno, dal presidente del consiglio direttivo all'ultimo dei custodi, capì che cosa significasse lo strano segnale acustico. Dopo che quei secondi furono passati, drappelli di medici e di guardie armate confluirono nell'area di pericolo e l'attività della fabbrica si paralizzò istantaneamente.

Charles Randow, tecnico dei computer, fu portato in infermeria con un braccio rotto. Non vi furono altri danni. Altri danni a esseri umani.

«Ma il danno morale» ruggì Lanning, «è incalcolabile.»

Susan Calvin lo affrontò con gelida calma. «Non farete niente a Lenny. Niente, avete capito?»

«Sarà meglio che capiate voi, Susan. Quell'aggeggio ha rotto un braccio a una persona. Ha infranto la Prima Legge. La conoscerete pure la Prima Legge, no?»

«Voi non farete niente a Lenny.»

«Dio santo, Susan, devo proprio ricordarvela io, la Prima Legge? Un robot non può recar danno agli esseri umani, né permettere che, causa il suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno. Il nostro successo come impresa dipende dal fatto che tutti i tipi di robot obbediscono strettamente alla Prima Legge. Se la gente dovesse venire a sapere, e lo verrà a sapere, che c'è stata un'eccezione, anche una sola eccezione alla regola, potremmo essere costretti a chiudere la fabbrica. Per evitare questo dovremmo annunciare subito che il robot in questione è stato distrutto, spiegare i vari particolari della vicenda e cercare di convincere il pubblico che un simile evento non potrebbe mai verificarsi un'altra volta.»

«Vorrei scoprire cos'è successo esattamente» disse Susan Calvin. «Non ero presente quando è accaduto il fatto e vorrei tanto sapere che cosa ci faceva quel Randow nel mio laboratorio senza il mio permesso.»

«Il succo di quel che è successo è chiaro» disse Lanning. «Il vostro robot ha colpito Randow, e Randow, da perfetto cretino, ha premuto il bottone che fa suonare l'allarme per i "robot fuori controllo", sollevando così il finimondo. Resta il fatto che il vostro robot l'ha colpito, spezzandogli addirittura un braccio. La verità è che Lenny ha un cervello così abnorme che non obbedisce alla Prima Legge. È chiaro che bisogna distruggerlo.»

«Non è vero che non obbedisca alla Prima Legge. Ho studiato i suoi circuiti positronici e lo so con certezza.»

«Allora come ha potuto far del male a un uomo?» La disperazione lo indusse al sarcasmo. «Perché non lo chiedete a Lenny stesso? A quest'ora gli avrete certo insegnato a parlare!»

Susan Calvin, ferita, arrossì. «Preferisco interrogare la vittima» disse. «E, Alfred, vorrei che in mia assenza i miei uffici venissero chiusi a chiave, con Lenny dentro. Desidero che non gli si avvicini nessuno. Se gli succede qualcosa mentre io sono via, non metterò mai più piede alla U.S. Robots.»

«Acconsentirete a che venga distrutto, se ha infranto la Prima Legge?»

«Sì» disse Susan Calvin, «perché so che non l'ha infranta.»

 

Charles Randow giaceva nel letto con il braccio ingessato. Ma la sofferenza maggiore gli veniva tuttora dallo shock che aveva provato quando aveva visto il robot avanzare verso di lui con intenzioni apparentemente omicide. A nessun essere umano era mai capitato, come a lui, di temere per la propria incolumità davanti a un robot e di venire aggredito sul serio. La sua era un'esperienza unica.

Susan Calvin e Alfred Lanning erano in piedi accanto al suo letto. Con loro c'era anche Peter Bogert, che avevano incontrato lungo la strada. Medici e infermiere erano stati mandati via.

«Allora, cos'è successo?» disse Susan Calvin.

Randow era intimidito. «Quel... coso mi ha colpito il braccio» mormorò. «Aveva brutte intenzioni.»

«Risaliamo un po' indietro, in tutta questa storia» disse la Calvin «Che cosa facevate nel mio laboratorio senza autorizzazione?»

Il giovane esperto di computer inghiottì a vuoto e il pomo d'Adamo si mosse visibilmente nel suo collo sottile. Aveva gli zigomi alti e un colorito anormalmente pallido. «Sapevamo tutti del vostro robot» dichiarò. «Si diceva in giro che steste cercando di insegnargli a parlare e che le sue parole fossero come note di uno strumento musicale. C'era chi scommetteva che sapeva parlare e chi scommetteva invece di no. Qualcuno sosteneva che... ehm... che voi sapreste insegnare a parlare anche a un pilastro di cemento.»

«Suppongo si tratti di un complimento» disse Susan Calvin, gelida. «Ma voi che ruolo avevate in tutto questo?»

«Io dovevo andare nel vostro ufficio per chiarire la faccenda. Cioè, per vedere se il robot sapeva parlare o no. Abbiamo rubato una delle chiavi che aprivano il vostro ufficio e io prima di entrare ho aspettato naturalmente che voi ve ne andaste. Abbiamo tirato a sorte per decidere chi doveva compiere l'impresa. È toccato a me.»

«Allora?»

«Ho cercato di farlo parlare e lui mi ha colpito.»

«Come sarebbe che avete cercato di farlo parlare? In che modo avete provato?»

«Gli... gli ho rivolto delle domande, ma lui non rispondeva niente, e allora per smuoverlo dalla sua apatia ho... ho urlato, e...»

«E?»

Ci fu una lunga pausa. Sotto lo sguardo severo della Calvin, Randow alla fine disse: «Ho cercato di farlo parlare spaventandolo». Poi aggiunse subito, per giustificarsi: «Dovevo smuoverlo dalla sua apatia, capite?».

«In che modo avete tentato di spaventarlo?»

«Ho fatto l'atto di dargli un pugno.»

«E lui vi ha bloccato il braccio?»

«Mi ha colpito il braccio.»

«Benissimo. È tutto.» Rivolta a Lanning e Bogert disse: «Venite, signori».

Sulla soglia si girò di nuovo a guardare Randow. «Posso darvi una risposta sicura a proposito della scommessa, se vi interessa ancora. Lenny sa dire benissimo alcune parole.»

 

Rimasero in silenzio finché non arrivarono nell'ufficio di Susan Calvin. Le pareti erano coperte da scaffali pieni di libri, alcuni dei quali scritti da lei stessa. L'aria che si respirava nella stanza rifletteva il carattere di Susan, la sua freddezza e la sua meticolosità. C'era un'unica sedia e su quella si sedette lei. Lanning e Bogert restarono in piedi.

«Lenny si è solo difeso» disse la Calvin. «Ha obbedito alla Terza Legge: Un robot deve salvaguardare la propria esistenza.»

«Purché ciò non contrasti con la Prima e la Seconda Legge» disse Lanning, con foga. «Perché non la enunciate per intero? Lenny non aveva il diritto di difendersi facendo del male, anche se un male non grave, a un essere umano.»

«E infatti queste non erano le sue intenzioni» ribatté la Calvin. «Lenny ha un cervello primitivo. Non può rendersi conto della propria forza, né sapere quanto siano deboli gli esseri umani. Quando ha bloccato il braccio che lo minacciava, non aveva idea che potesse rompersi. Parlando in termini di morale umana, non si può incolpare un individuo che non è in grado di distinguere tra il bene e il male.»

«Sentite, Susan» interloquì Bogert, conciliante, «noi non incolpiamo affatto Lenny. Noi sappiamo che è l'equivalente di un bambino e che quindi non può essere incolpato. Ma la gente? La gente queste cose non le può capire. La U.S. Robots dovrà chiudere i battenti.»

«Al contrario. Se voi aveste anche solo un minimo di cervello, Peter, capireste che questa è l'occasione che la U.S. Robots sta aspettando da tempo. L'occasione che l'aiuterà a risolvere i suoi problemi.»

Lanning corrugò le sopracciglia. «Quali problemi, Susan?» disse, pacato.

«La compagnia non ha forse interesse a mantenere costante l'alta efficienza, sic!, del settore ricerca?»

«Certo».

«Ma che cosa offrite agli aspiranti ricercatori? Li allettate forse prospettandogli un ambiente stimolante dove si possano scoprire cose nuove e provare il brivido di sfidare l'ignoto? Macché! Pensate di invogliarli soltanto con un buono stipendio e con la garanzia che vada sempre tutto liscio.»

«Che vada sempre tutto liscio? In che senso?» disse Bogert.

«Perché, c'è mai il minimo problema in questa fabbrica?» rispose Susan Calvin. «Che tipi di robot produciamo? Robot destinati ad assolvere perfettamente una determinata funzione. Un'industria ci dice che modello le occorre, un computer progetta il cervello, i macchinari provvedono alla fabbricazione, ed eccolo là il robot, pronto a svolgere il proprio incarico. Qualche tempo fa voi, Peter, mi avete chiesto a che poteva servire un robot come Lenny. Non è inutile, mi avete detto, visto che non è in grado di assolvere alcuna funzione? Ora io vi chiedo: non è inutile un robot destinato a una sola funzione? Il suo lavoro finisce là dove comincia. I modelli LNE estraggono il boro. Se occorresse il berillio, non saprebbero estrarlo. Una persona con queste caratteristiche sarebbe subumana. Un robot con queste caratteristiche è subrobotico.»

«Vorreste un robot versatile?» chiese Lanning, incredulo.

«Perché no?» fece la robopsicologa. «Perché no? Ho preso in consegna un robot con un cervello quasi da deficiente. Ho cominciato a insegnargli alcune cose, e voi, Alfred, mi avete domandato che senso avevano i miei sforzi. Forse non ne avevano molto, dal punto di vista di Lenny, perché è un robot che non svilupperà mai facoltà superiori a quelle di un bambino di cinque anni. Ma per noi l'utilità del lavoro è notevole, perché si tratta di uno studio teorico sul metodo per riuscire a insegnare ai robot. Ho imparato a mettere in corto circuito percorsi confinanti allo scopo di crearne dei nuovi. Procedendo nell'analisi sarà possibile elaborare al riguardo tecniche migliori, più sofisticate ed efficaci.»

«E allora?»

«Poniamo di avere un cervello positronico perfettamente dotato di tutti i circuiti principali, ma di nessun circuito secondario. Poniamo di riuscire a creare quelli secondari. Si potrebbero così vendere dei robot progettati per ricevere istruzioni. Robot che potremmo adattare a un certo lavoro e poi, se necessario, anche a un altro. Insomma i robot in questo modo diventerebbero duttili come gli esseri umani. Potrebbero imparare!»

I due uomini la fissarono senza parlare.

«Non avete ancora capito, vero?» disse lei, spazientita.

«Ho capito benissimo» disse Lanning.

«Vi rendete conto che con un campo di ricerca assolutamente nuovo, tecniche d'avanguardia da mettere a punto e un settore completamente vergine da esplorare i giovani si sentirebbero molto invogliati a dedicarsi alla robotica? Provate e vedrete che ho ragione.»

«Posso farvi notare» disse Bogert, pacato «che si tratta di un esperimento pericoloso? Avere a che fare per esempio con robot primitivi come Lenny significherebbe perdere la garanzia di essere protetti dalla Prima Legge. Proprio com'è successo nel caso di Lenny.»

«Certo. Date pubblicità alla cosa.»

«Dar pubblicità alla cosa?!»

«Naturalmente. Che sappiano tutti che esiste qualche rischio. Spiegate che impianterete un nuovo istituto di ricerca sulla Luna, se la popolazione della Terra deciderà di impedire che questo tipo di esperimento avvenga sul nostro pianeta. Ma sottolineate con estremo vigore che la faccenda presenta dei pericoli, quando affrontate gli eventuali aspiranti ricercatori.»

«Dio santo, ma perché?» disse Lanning.

«Perché l'idea del rischio solletica. La spazionautica e le tecnologie nucleari non comportano forse dei rischi? La vostra mania di garantire la sicurezza assoluta è forse riuscita a farvi trovare gente in gamba? Vi ha forse aiutato a sfatare il complesso di Frankenstein che infastidisce tanto tutti voi? Cercate qualche altra soluzione allora, una di quelle soluzioni che hanno funzionato negli altri campi.»

Dalla porta che dava accesso al laboratorio di Susan Calvin arrivò un suono. Era il suono dei gorgoglii melodiosi di Lenny.

La robopsicologa s'interruppe immediatamente e si mise in ascolto. «Scusatemi» disse. «Credo che Lenny mi stia chiamando.»

«È in grado di chiamarvi?» chiese Lanning.

«Vi ho già detto che sono riuscita a insegnargli alcune parole.» Susan Calvin si diresse alla porta con aria leggermente imbarazzata. «Se volete aspettarmi...»

I due uomini la seguirono con lo sguardo e rimasero un attimo in silenzio. Poi Lanning disse: «Credete che abbia ragione, Peter?»

«Chissà, forse» rispose Bogert. «Forse. Penso sia il caso di discutere la faccenda alla riunione dei direttori. Vedremo cosa dicono. Dopotutto, ormai la frittata è fatta. Un robot ha recato danno a un essere umano e la cosa è di dominio pubblico. Come dice Susan, tanto varrebbe cercare di sfruttare la situazione a nostro vantaggio. Naturalmente però non credo che le ragioni da lei addotte siano quelle reali.»

«In che senso?»

«Be', anche se il suo discorso è stato ineccepibile, Susan non ha fatto che razionalizzare. Il motivo profondo che l'ha spinta a parlare così è il desiderio di tenersi per sé quel robot. Se anche fosse stretta da noi - (e qui il matematico sorrise pensando al significato letterale del termine, così improprio in quel caso) - a dire la vera ragione del suo attaccamento a Lenny, tirerebbe fuori la scusa che il robot le serve a studiare le tecniche dell'insegnamento. Ma in realtà credo che Lenny soddisfi tutt'altra esigenza. Un'esigenza che solo Susan, fra tutte le donne, può vedersi soddisfare da un robot.»

«Non capisco cosa intendete.»

«Avete sentito cosa diceva Lenny, chiamandola?»

«Be', no, non ho afferrato bene...» Lanning s'interruppe, vedendo la porta che si apriva di colpo, e anche Bogert tacque.

Susan Calvin rientrò nello studio e si guardò intorno con aria incerta. «Avete visto per caso... Sono sicura di averlo messo qui da qualche parte... Ah, eccolo.»

Si avvicinò in fretta alla libreria e raccolse da un angolo un complicato oggetto di metallo. Era un oggetto cavo e sferico, coperto di fori e contenente alcuni frammenti di metallo troppo grossi per uscire dalle aperture.

Quando Susan lo raccolse, i frammenti di metallo all'interno si mossero, sbattendo l'uno contro l'altro con un suono piacevole. A Lanning parve che l'aggeggio somigliasse molto, benché in versione robotica, a un sonaglio per bambini.

Quando Susan Calvin riaprì la porta per passare in laboratorio la voce di Lenny risonò di nuovo. Questa volta Lanning udì chiaramente le parole che la Calvin gli aveva insegnato.

Con melodioso timbro musicale, il robot trillò: «Mamma, vieni qui. Vieni qui, mammina».

E Susan Calvin corse in fretta dall'unico tipo di bambino che avrebbe mai potuto avere o amare.