Rischio apparve su Astounding SF nel maggio del 1955. Delle mie ultime storie di robot, è quella più strettamente legata a Io, Robot, perché è la continuazione di Il piccolo robot perduto, uno dei racconti di quel volume. Si tratta di un robot diverso e di un diverso problema, ma lo sfondo è il medesimo, i personaggi sono gli stessi e identico è il programma dì ricerca.

Rischio

Titolo originale: Risk (1955)

 

Da tempo l'Iperbase viveva in attesa di quel giorno. Nella tribuna della sala d'osservazione, disposti secondo un ordine di precedenza strettamente dettato dal protocollo, c'erano ufficiali, funzionari, scienziati, tecnici e altra gente cui si poteva attribuire solo la qualifica generica di "personale". Gli spettatori, a seconda del temperamento, aspettavano con speranza, disagio, ansia, apprensione o paura l'avvenimento che rappresentava il culmine di tutti i loro sforzi.

L'interno cavo dell'asteroide noto col nome di Iperbase era diventato il centro di una sfera di sistemi di sicurezza che si estendevano per sedicimila chilometri. Nessuna astronave sarebbe potuta entrare in quella sfera uscendone indenne. Nessun messaggio avrebbe potuto lasciare la sfera senza venire controllato attentamente.

Alla distanza di circa centosessanta chilometri, un piccolo asteroide si muoveva tranquillo nell'orbita in cui era stato messo un anno prima, un'orbita che descriveva intorno all'Iperbase un cerchio quasi perfetto. Il piccolo asteroide era classificato con il numero H937, ma sull'Iperbase tutti lo chiamavano "Quello". («Sei stato su Quello, oggi?» «Il generale è su Quello e sta dando fuori da matto.» E alla fine il pronome dimostrativo aveva conquistato la dignità della maiuscola.)

Su Quello, adesso che si era vicini all'ora zero, non c'erano persone, ma solo la Parsec, un tipo di astronave che non era mai stato costruito prima nella storia dell'uomo. Priva di equipaggio umano a bordo, era pronta a partire per la sua meta: l'inconcepibile.

Gerald Black, che essendo uno dei giovani ingegneri eterici di maggior talento meritava un posto di osservazione in prima fila, fece scrocchiare le grosse nocche, si asciugò le mani sudate sul camice bianco macchiato e disse, aspro: «Perché non seccate il generale, o Sua Eccellenza la Signora?».

Nigel Ronson, dell'Agenzia Stampa Interplanetaria, buttò un'occhiata al generale Richard Kallner, che risplendeva nella sua alta uniforme, e alla donna scialba che gli stava accanto e che risaltava ben poco vicino a tutto quel luccichio di mostrine. «Lo farei anche» disse, «solo che a me interessano le notizie.»

Ronson era basso e grasso. Portava i capelli cortissimi, a spazzola, la camicia con il colletto aperto e i pantaloni rimboccati fino alle caviglie, in una sorta di imitazione fedele dello stereotipo del giornalista propinato dai telefilm. Nonostante questo era un cronista in gamba.

Black era un tipo bruno e tarchiato, con l'attaccatura dei capelli così bassa, che la fronte appariva tutt'altro che spaziosa. Ma se il suo corpo era tozzo, la sue mente invece era agile e pronta. «Loro possono darvi tutte le notizie che volete» disse.

«Figuriamoci» disse Ronson. «Kallner non ha carne né sangue, sotto quei galloni dorati. Se lo spogliaste trovereste solo un trasportatore a cinghia che scarica ordini verso il basso e responsabilità verso l'alto.»

A Black venne voglia di ridere, ma si trattenne. «E la Signora Dottoressa?» disse.

«Oh sì, la dottoressa Susan Calvin, della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation» salmodiò il cronista. «La donna che ha l'iperspazio al posto del cuore ed elio liquido negli occhi. Sarebbe capace di penetrare nel nucleo del sole e venir fuori dall'altra parte racchiusa in un involucro di fiamme congelate.»

A Black venne ancor più voglia di ridere. «C'è sempre il direttore Schloss...»

«Ah, quello ve lo raccomando» disse allegramente Ronson. «Combattuto tra il desiderio di alimentare la debole scintilla d'intelligenza di chi lo ascolta e il desiderio di celare l'immenso fulgore del suo cervello per paura che detto fulgore accechi per l'eternità gli astanti, finisce col non dire assolutamente nulla.»

Black questa volta non poté fare a meno di sorridere. «E come mai avete scelto proprio me?»

«Risposta semplice, dottore. Vi ho guardato e ho pensato che foste troppo brutto per essere stupido e troppo furbo per lasciarvi sfuggire la possibilità di farvi un po' di pubblicità personale.»

«Ricordatemi di darvi un pugno, una volta o l'altra» disse Black. «Cosa vorreste sapere?»

L'inviato dell'Agenzia Stampa Interplanetaria indicò la sala di osservazione, giù, e disse: «Funzionerà tutta questa faccenda?».

Black guardò a sua volta in basso e fu scosso dal brivido di freddo che avrebbe potuto causargli la lieve brezza serale di Marte. Nella sala di osservazione c'era un ampio schermo televisivo diviso in due. Nella prima metà si vedeva il piccolo asteroide nel suo complesso. Sulla sua superficie grigia e accidentata c'era la Parsec, che brillava silenziosa nella fioca luce del sole. Nell'altra metà si vedeva la cabina di comando dell'astronave, dove non si notava alcun segno di vita. Al posto del pilota c'era un oggetto dalle vaghe sembianze umane, ma che umano non era affatto. Tutti sapevano che si trattava di un semplice robot positronico.

«Dal punto di vista fisico, caro signore, la faccenda funzionerà senz'altro» disse Black. «Quel robot partirà e tornerà indietro. Per lo spazio! Sì, dal punto di vista strettamente fisico l'operazione ha sempre funzionato. Io ho avuto modo di osservare l'evoluzione di tutta questa storia. Sono arrivato sull'Iperbase due settimane dopo avere preso la laurea in fisica eterica e da allora sono sempre rimasto qui, a parte congedi e permessi. Ero presente quando spedimmo per la prima volta del fil di ferro su Giove attraverso l'iperspazio e ci tornò indietro della limatura di ferro. Ero presente quando spedimmo nello stesso posto alcuni topolini bianchi e ci tornò indietro carne tritata.

«Dopo quell'esperienza passammo sei settimane a cercare di creare un iperspazio uniforme. Dovevamo eliminare intervalli di decimillesimi di secondo tra un punto e l'altro della materia soggetta all'iperviaggio. E in seguito i topolini bianchi cominciarono a tornare indietro intatti. Ricordo che festeggiammo per una settimana l'avvenimento, quando un topolino tornò indietro vivo e rimase vivo per dieci minuti, prima di tirare le cuoia. Adesso vivono a lungo, purché li si curi a dovere.»

«Fantastico!» disse Ronson.

Black gli buttò un'occhiata obliqua. «Ho detto che la faccenda funziona dal punto di vista fisico. Quei topolini...»

«Sì?»

«Be', erano distrutti, sotto il profilo mentale. Non avevano più neanche un briciolo del normale cervello di un topo. Non mangiavano e dovevano essere alimentati a forza. Non si accoppiavano. Non correvano. Se ne stavano lì accovacciati senza fare niente. Alla fine decidemmo di spedire nell'iperspazio uno scimpanzè. Che pena fu! Essendo così simile all'uomo, guardarlo faceva stringere il cuore. Quando tornò indietro era un pezzo di carne che si trascinava in giro senza più alcuna volontà. Al massimo muoveva gli occhi e si grattava. Lanciava lamenti strazianti e si sedeva sulle proprie feci senza tentare di spostarsi. Un giorno qualcuno gli sparò e noi tutti gli fummo riconoscenti. Vi posso assicurare, amico, che nessun essere vivente che abbia viaggiato nell'iperspazio è mai tornato indietro con la mente integra.»

«Sono notizie che si possono divulgare?»

«Dopo l'esperimento forse sì. Loro si aspettano grandi risultati.» Black storse la bocca in una smorfia di scetticismo.

«Voi no?»

«Con un robot ai comandi? No.» Quasi istintivamente Black ripensò a quando, anni prima, aveva involontariamente indotto un robot a darsi alla macchia. Pensò ai modelli Nestor che imperversavano per l'Iperbase sciorinando il loro radicato bagaglio di nozioni ed esibendo difetti di funzionamento dovuti a un complesso di superiorità. Ma che scopo aveva denigrare i robot? Lui per natura non possedeva certo lo spirito del fanatico.

Però Ronson non voleva lasciar perdere il discorso. Sputò il chewing-gum che aveva in bocca sostituendolo con uno nuovo e domandò: «Non sarete mica ostile ai robot, vero? Ho sempre sentito dire che gli scienziati sono gli unici a non avere un atteggiamento anti-robot».

«È vero» sbottò Black, spazientito, «e proprio quello è il guaio. I tecnologi sembrano non possano vivere senza i robot. In qualsiasi lavoro la presenza dei robot pare ormai una necessità; se un ingegnere non ha a disposizione il suo, si sente defraudato. Uno ha bisogno di un fermaporta? Gli si suggerisce subito di comprare un robot con i piedi grossi. Ormai è una faccenda preoccupante.» Parlava a bassa voce, adesso, con un tono serio, e sussurrava le frasi quasi all'orecchio di Ronson.

Ronson cercò di liberare il braccio che l'altro gli aveva stretto. «Ehi, io non sono un robot! Non cercate di sfogare la vostra rabbia su di me. Sono un uomo. Homo Sapiens. Mi avete quasi rotto un braccio. Non è una prova della mia umanità?»

Ma Black ormai era partito per la tangente e quelle facezie non bastavano a fermarlo. «Avete idea di quanto tempo abbiamo sprecato per organizzare tutta questa messinscena? Abbiamo fatto costruire un robot dalle prestazioni generiche e gli abbiamo dato un ordine preciso. Punto. Ho sentito che ordine era, e me lo sono fissato nella memoria. Breve e chiaro: "Afferra saldamente la barra di comando. Tirala forte verso di te. Forte! Mantieni la presa finché dal quadro comandi non saprai di essere passato due volte attraverso l'iperspazio".

«Così all'ora zero il robot afferrerà la leva e la tirerà bene verso di sé. Le sue mani sono calde, hanno la stessa temperatura del corpo umano. Una volta che la leva di comando è nella posizione giusta, il calore espandendosi completa il contatto, e così si genera l'ipercampo. Non ha alcuna importanza se il cervello del robot subisce qualche danno durante il primo viaggio. Il robot deve solo mantenere ferma la leva per un microistante: entro quel microistante la nave tornerà indietro e l'ipercampo sarà disattivato. Non c'è niente che possa andare per il verso storto. Poi studieremo le reazioni del robot e vedremo se per caso si è verificato qualche intoppo.»

Ronson guardò Black con aria vacua. «Mi pare un procedimento sensato.»

«Davvero?» fece Black, aspro. «E quale lezione si potrà mai imparare studiando il cervello di un robot? È positronico, mentre il nostro è cellulare. È di metallo, mentre il nostro è composto di proteine. Non sono la stessa cosa. Non si possono nemmeno confrontare. Eppure sono convinto che, proprio in base alle analisi che effettueranno e a quello che crederanno di avere imparato con il robot, spediranno degli esseri umani nell'iperspazio. Poveracci! Sentite, il brutto non è morire, il brutto è tornare indietro senza più cervello. Se aveste visto quello scimpanzè, capireste cosa intendo dire. La morte è qualcosa di netto e definitivo. Quell'altra faccenda, invece...»

«Avete espresso le vostre opinioni con qualcuno?» chiese il cronista.

«Sì» disse Black. «Ma il commento delle persone con cui ho parlato è stato identico al vostro. Hanno dichiarato che il mio è un atteggiamento anti-robot e con quello hanno chiuso il discorso. Guardate Susan Calvin, là. Lei non è di sicuro ostile ai robot. Si è fatta tutto il lungo viaggio dalla Terra fino a qui per poter assistere all'esperimento. Se ai comandi ci fosse stato un essere umano, non si sarebbe certo disturbata a venire. Ma tanto a che servono le mie critiche!»

«Ehi» disse Ronson, «non troncherete mica sul più bello, eh? C'è dell'altro.»

«Dell'altro cosa?»

«Altri problemi. Mi avete spiegato del robot. Ma come mai di punto in bianco sono state prese tutte quelle misure di sicurezza?»

«Eh?»

«Oh via, non fate finta di non capire. All'improvviso mi si dice che non posso inviare messaggi. All'improvviso si vieta alle navi di entrare nella zona. Cosa sta succedendo? Questo qui non è altro che un ennesimo esperimento. La gente sa dell'iperspazio e sa quello che voi fisici state cercando di fare, per cui non afferro il motivo di tutta questa segretezza.»

Black non aveva ancora finito di covare la sua rabbia: gli facevano rabbia i robot, gli faceva rabbia Susan Calvin, gli faceva rabbia ricordare la storia del robot scomparso che lo aveva angustiato anni prima. Qualche notizia ancora la poteva dare a quel giornalistucolo irritante che gli rivolgeva domande irritanti.

Vediamo come reagirà, si disse.

E a Ronson: «Volete davvero sapere?».

«Certo!»

«Va bene. Gli ipercampi che abbiamo generato finora erano destinati a oggetti che equivalevano al massimo a un milionesimo di quell'astronave, e tali oggetti non sono mai arrivati a una distanza superiore a un milionesimo di quella prevista per questo esperimento. Ciò significa che l'ipercampo che sarà generato tra poco è milioni di volte più potente di quelli con cui abbiamo avuto a che fare fino ad oggi. Non sappiamo bene che effetti possa produrre.»

«Che cosa intendete dire?»

«In teoria, la nave dovrebbe tranquillamente arrivare nelle vicinanze di Sirio e tornare altrettanto tranquillamente indietro. Ma che porzione di spazio la Parsec si porterà dietro, nel suo viaggio? È difficile a dirsi. Non conosciamo abbastanza l'iperspazio. L'asteroide su cui si trova la nave potrebbe venire trasportato lontano assieme ad essa. Sapete, se i nostri calcoli fossero anche minimamente sbagliati, potrebbe anche non ricomparire più da queste parti e ricomparire invece a venti miliardi di miglia da qui. Poi esiste anche la possibilità che nell'operazione venga spostata una quantità di spazio superiore a quella occupata dall'asteroide.»

«Quanto superiore?» chiese Ronson.

«Non siamo in grado di dirlo. Ci troviamo davanti ad elementi di incertezza, dal punto di vista statistico. Per quello le astronavi non devono avvicinarsi troppo. Per quello vogliamo mantenere la massima segretezza, finché l'esperimento non avrà avuto esito positivo.»

Ronson inghiottì a vuoto. «C'è il rischio che anche l'Iperbase parta assieme alla nave e all'asteroide?»

«Il rischio c'è» disse calmo Black. «Un rischio minimo, intendiamoci, altrimenti vi assicuro che Schloss, il direttore, non si troverebbe qui. Però una simile possibilità sussiste, sotto il profilo matematico.»

Il giornalista diede un'occhiata all'orologio. «Quando inizierà l'operazione?»

«Fra circa cinque minuti. Non avrete mica paura, vero?»

«No» disse Ronson, ma si sedette con espressione vacua e non fece altre domande.

Black si sporse dalla ringhiera. Ormai si era agli sgoccioli: gli ultimi minuti stavano passando.

 

Il robot si mosse.

Vedendolo muoversi, gli spettatori si protesero in avanti. Le luci furono smorzate per dare risalto a quelle che illuminavano la scena, sotto. Dopo essersi appena spostato sul suo sedile, il robot allungò la mano verso la barra di comando.

Black attendeva con ansia lo scoccare dell'ora zero e immaginò tutti i possibili sviluppi della vicenda.

Ci sarebbe stata innanzitutto la lieve vibrazione che indicava l'avvenuta partenza e il ritorno quasi istantaneo dopo il viaggio nell'iperspazio. Anche se l'intervallo di tempo tra l'una e l'altro era minimo, la nave al ritorno non si sarebbe trovata nell'esatta posizione di partenza, per cui la vibrazione era sempre inevitabile.

Poi, al termine del viaggio, si sarebbe magari scoperto che il campo non era stato sufficientemente adattato all'enorme volume occupato dalla Parsec. In quel caso il robot sarebbe forse tornato indietro ridotto a un ammasso di ferraglia. E la nave altrettanto.

Oppure, se i calcoli fossero stati anche solo leggermente errati, la Parsec sarebbe potuta scomparire senza fare più ritorno. O, peggio ancora, con essa sarebbe potuta scomparire anche l'Iperbase e non ricomparire più nel luogo di partenza.

Ma naturalmente c'era anche la possibilità che tutto andasse bene. In quel caso la Parsec, dopo la regolare vibrazione, sarebbe ritornata perfettamente intatta. Il robot, senza mostrare alcun segno di deterioramento mentale, si sarebbe alzato dal posto di comando e avrebbe annunciato attraverso l'apposito segnale che il primo viaggio che aveva condotto un oggetto costruito dall'uomo oltre il campo gravitazionale del sole era stato portato a termine con successo.

Ormai l'ora zero stava per scoccare.

Dopo l'ultimo secondo, il robot afferrò la leva di comando e la tirò a sé con forza...

Mente.

Nessuna vibrazione. Niente!

La Parsec non aveva lasciato lo spazio normale.

 

Il generale Kallner si tolse il berretto da ufficiale e si asciugò la fronte sudata, esponendo una calvizie che l'avrebbe invecchiato di dieci anni se a invecchiarlo così non ci avesse già pensato l'espressione angosciata degli occhi. Era passata quasi un'ora dall'avvenimento, o dal mancato avvenimento, e nessuno aveva fatto ancora nulla.

«Com'è potuto succedere? Com'è potuto succedere? Non riesco a capire.»

Il dottor Mayer Schloss, che a quarant'anni era il "grande vecchio" della giovane scienza che studiava le matrici dell'ipercampo, disse, scoraggiato: «Non ci sono stati errori di teoria. Metterei la mano sul fuoco che non ci sono stati. Si dev'essere verificato un qualche guasto meccanico sulla nave. Tutto qui». E quel parere lo espresse una dozzina di volte.

«Credevo che la Parsec fosse stata controllata fin nei minimi particolari» disse Kallner.

«Infatti è così, signore. Eppure qualcosa evidentemente ci è sfuggito...»

Sedevano uno di fronte all'altro nell'ufficio di Kallner, l'accesso al quale era stato proibito a tutto lo staff presente sull'Iperbase. Né Kallner né Schloss osavano guardare la terza persona seduta con loro.

Susan Calvin era completamente inespressiva. «Potete consolarvi ripensando a quel che vi avevo detto prima che l'esperimento iniziasse» osservò, gelida. «Probabilmente i risultati sarebbero stati comunque inutili.»

«Non è il momento di riprendere le vecchie discussioni» brontolò Schloss.

«Non sto discutendo. La United States Robots and Mechanical Men Corporation è disposta a fabbricare robot capaci di svolgere qualsiasi funzione un cliente in regola desideri far loro svolgere, sempre che queste funzioni rientrino nell'ambito consentito dalla legge. Noi però vi avevamo avvertito. Vi avevamo informato che non eravamo in grado di dedurre con sicurezza quali potessero essere le reazioni del cervello umano dai dati raccolti sulle reazioni del cervello positronico. La nostra responsabilità ha quindi limiti molto precisi. Questo è fuori di dubbio.»

«Per lo spazio!» disse il generale Kallner con il tono che avrebbe potuto usare per un'imprecazione ben più forte. «Non ricominciamo con questa storia!»

«Ma cos'altro potevamo fare?» mormorò Schloss, indotto suo malgrado a discutere dell'argomento. «Finché non sappiamo esattamente cosa succede al cervello quando entra nell'iperspazio, è escluso che possiamo compiere progressi. Se non altro il cervello di un robot lo si può sottoporre a un'analisi matematica. È un tentativo, un inizio. E finché non proveremo a...» Guardò la robopsicologa con aria stralunata. «Ma il punto cruciale non è il vostro robot, dottoressa Calvin. Non è lui che ci preoccupa, né ci preoccupa il suo cervello positronico. Per la miseria, signora...» ormai parlava quasi in falsetto.

La robopsicologa lo interruppe con voce poco più secca del solito. «Niente isterismi, signore. Nella mia vita mi sono trovata di fronte a parecchi problemi e nessuno è mai stato risolto con le crisi isteriche. Pretendo che si risponda ad alcune domande che ho da porre.»

Le grosse labbra di Schloss tremarono e i suoi occhi infossati parvero ritirarsi ancora di più dalle orbite, fino a diventare due ombre scure. «Conoscete l'ingegneria eterica?» disse, aspro.

«Non ha alcuna importanza se la conosco o meno. Sono robopsicologa capo della United States Robots and Mechanical Men Corporation e quello seduto ai comandi della Parsec è un robot positronico da noi prodotto. Come tutti i nostri modelli, è stato dato a noleggio, non venduto. Quindi ho il diritto di chiedere informazioni in merito a qualsiasi esperimento in cui esso sia coinvolto.»

«Accontentatela, Schloss» ringhiò il generale Kallner. «È... è una persona a posto.»

La dottoressa Calvin posò i suoi occhi scialbi sul generale, che essendo stato presente all'epoca in cui un modello NS-2 era scomparso non poteva commettere l'errore di sottovalutarla. (In quel frangente Schloss si trovava in congedo per malattia, e si sa che le voci riportate non hanno la stessa efficacia dell'esperienza personale.) «Grazie, generale» disse.

Schloss guardò smarrito prima Kallner poi lei e mormorò: «Che cosa volete sapere?».

«Ovviamente la mia prima domanda è: se non è il robot che vi preoccupa, qual è il vostro problema?»

«Semplicissimo. La nave non si è mossa. Non ve ne siete accorta? Cosa siete, cieca?»

«Me ne sono accorta benissimo. Ma non capisco perché questa reazione di panico davanti a un guasto meccanico. Non vi capita mai di trovarvi alle prese con qualcosa che non funziona?»

«Il guaio sono i costi» borbottò il generale Kallner. «Quella nave ci è costata un patrimonio. Il Congresso Mondiale ha... Gli stanziamenti...» Non riuscì a portare a termine il discorso.

«La nave è ancora lì. Basteranno un controllo e una revisione delle apparecchiature. Cosa c'è di così drammatico?»

Schloss aveva riacquistato l'autocontrollo. Sfoderava adesso l'espressione di chi avesse preso in mano la propria anima, l'avesse scossa bene e poi rimessa in sesto. Parlò addirittura con tono pacato. «Dottoressa Calvin, usando il termine "guasto meccanico" posso riferirmi a un relè bloccato da un granellino di polvere, a un collegamento interrotto da una macchia di grasso, a un transistor che si inceppa per via di un momentaneo aumento di calore e a una dozzina di altre cose. Anzi, a un centinaio di altre cose. Si tratta di intoppi che potrebbero essere tutti temporanei, e risolversi da soli in qualsiasi momento.»

«Quindi da un momento all'altro la Parsec potrebbe partire per l'iperspazio e tornare indietro, suppongo.»

«Già. Ora capite?»

«No, affatto. Non è proprio questo che volete?»

Schloss fece un gesto strano, come se avvertisse la tentazione di prendersi due ciocche di capelli tra le mani e tirarle. «Voi non siete un ingegnere eterico» disse.

«E questo vi impedisce di parlare, dottore?»

«Tutto era sistemato in modo che la nave compisse un balzo da un punto definito a un altro punto definito dello spazio, rispetto al centro di gravità della galassia» disse Schloss, esasperato. La Parsec sarebbe dovuta tornare nel luogo di partenza originario corretto in base al movimento del sistema solare. Nell'ora che è trascorsa dal momento del mancato decollo, il sistema solare ha cambiato posizione. I parametri iniziali cui l'ipercampo faceva riferimento non sono più applicabili. Le leggi del moto ordinarie non sono valide per l'iperspazio e ci costerebbe una settimana di calcoli stabilire una nuova serie di parametri.»

«Intendete dire che se la nave si muovesse adesso ricomparirebbe in qualche punto imprevedibile lontano magari migliaia di miglia da qui?»

«Imprevedibile?» Schloss sorrise cupo. «Sì, la parola non è impropria. La Parsec potrebbe finire nella nebulosa di Andromeda come al centro del sole. In ogni caso avremmo ben poche probabilità di rivederla.»

Susan Calvin annuì. «Dunque se la nave scomparisse, come potrebbe accadere da un momento all'altro, scomparirebbero irrimediabilmente con lei vari miliardi di dollari dei contribuenti, e molta gente darebbe la colpa alla vostra imperizia.»

Il generale Kallner sobbalzò come se gli avessero piantato uno spillo nel sedere.

«Quindi» continuò la robopsicologa, «bisogna disattivare il meccanismo che genera l'ipercampo, e bisogna farlo al più presto. Occorre, come dire, togliere il contatto, disinserire ciò che va disinserito, interrompere il collegamento.» Più che con gli altri due parlava quasi fra sé.

«Non è così semplice» disse Schloss. «Non posso spiegarvi bene, visto che non siete un ingegnere eterico. È come cercare di interrompere un comune circuito elettrico tagliando i fili ad alta tensione con le cesoie da giardiniere. Si potrebbe combinare un disastro. Si combinerebbe un disastro.»

«Volete dire che se si tentasse di disattivare il meccanismo la nave potrebbe finire dritta nell'iperspazio?»

«Se il tentativo fosse fatto alla cieca, il risultato sarebbe probabilmente quello. Nelle iperforze la velocità della luce non costituisce un limite preciso. Anzi, è facile che le iperforze non abbiano alcun limite di velocità. Questo rende tutto particolarmente difficile. L'unica soluzione sensata è cercare di scoprire la natura del guasto e capire così quale sia il modo più sicuro per disattivare il campo.»

«E come pensate di farlo, dottor Schloss?»

«Secondo me» disse Schloss, «l'unica è mandare uno dei nostri modelli Nestor a...»

«Non dite sciocchezze!» lo interruppe Susan Calvin.

«I Nestor conoscono la fisica eterica» replicò gelido Schloss. «Sarebbero i più adatti a...»

«Non ne parliamo nemmeno. Non potete usare per un simile scopo uno dei nostri robot positronici. Non senza la mia autorizzazione. E siccome io non ve la do, i Nestor non li toccherete.»

«Che alternativa ci resta?»

«Mandate uno dei vostri ingegneri.»

Schloss scosse energicamente la testa. «Impossibile. Il rischio è troppo grande. Se oltre alla nave perdessimo un uomo...»

«In ogni caso non utilizzerete né un Nestor, né alcun altro modello.»

«B-bisogna che mi metta in contatto con la Terra» disse il generale Kallner. È necessario che di questo problema si occupi qualcuno a un livello più alto del mio.»

«Io non lo farei se fossi in voi, generale» disse aspra Susan Calvin. «Vi mettereste alla mercé del governo, perché non avendo un piano d'azione da suggerire partireste da una posizione di debolezza. E sono sicura che vi trovereste in grave difficoltà.»

«Ma cos'altro si può fare?» Il generale ricominciò ad asciugarsi il sudore con il fazzoletto.

«Mandate un uomo sulla Parsec. È l'unica alternativa.»

Schloss era così impallidito che aveva assunto un colorito grigiastro. «Già, mandare un uomo. Facile a dirsi. Ma chi dovrebbe essere?»

«Io ci ho pensato. Non avete qui un giovane di nome Black? Uno che ho conosciuto in occasione della mia precedente visita?»

«Il dottor Gerald Black?»

«Credo si chiami così, sì. A quel tempo era scapolo. Lo è tuttora?»

«Sì, a quanto mi risulta.»

«Allora suggerirei di convocarlo qui, diciamo fra un quarto d'ora. Nel frattempo vorrei se possibile studiare il suo curriculum.»

Agiva ormai come se fosse lei la responsabile in quella situazione, e né Kallner né Schloss fecero il minimo tentativo di mettere in discussione la sua autorità.

Black aveva tenuto le distanze da Susan Calvin, in occasione della seconda visita di lei all'Iperbase. Né aveva mai tentato di accorciarle. E adesso che era stato chiamato nell'ufficio di Kallner guardava la robopsicologa con profondo disgusto. Si accorse appena che nella stanza erano presenti anche il dottor Schloss e il generale.

Gli tornò in mente quella volta in cui lei lo aveva sottoposto a un lungo interrogatorio per ritrovare uno dei suoi preziosi robot.

La dottoressa Calvin posò i suoi occhi grigi sugli occhi neri e irati di Black e disse: «Dottor Black, penso vi rendiate conto della situazione».

«Sì» disse lui.

«Bisogna fare qualcosa. Non si può perdere una nave che è costata un patrimonio. La cattiva pubblicità che ne nascerebbe porrebbe probabilmente fine al progetto.»

Black annuì. «Ci ho già pensato.»

«Spero abbiate anche pensato che qualcuno dovrà per forza salire a bordo della Parsec, scoprire qual è il guasto e... ehm... disattivare definitivamente l'ipercampo.»

Seguì un attimo di silenzio. Poi Black disse, aspro: «Chi mai può essere così pazzo da salire a bordo della nave?».

Kallner corrugò la fronte e guardò Schloss, che si morse il labbro e fissò un punto indefinito.

«Ovviamente esiste la possibilità che l'ipercampo si attivi accidentalmente» disse Susan Calvin, «nel qual caso la nave potrebbe finire in un luogo lontanissimo da qui. Se no potrebbe anche riapparire all'interno del sistema solare, e ove questo si verificasse non si risparmierebbero né sforzi né spese per recuperare l'uomo e l'astronave.»

«Il fesso e l'astronave!» disse Black. «Diciamo le cose come stanno.»

Susan Calvin fece finta di non aver sentito. «Ho già chiesto al generale Kallner il permesso di affidare l'incarico a voi. Sareste voi a dover andare.»

Stavolta non ci furono pause di riflessione. Black disse subito, nel modo più brusco possibile: «Io non mi offro volontario, signora».

«Sull'Iperbase non ci sono molti uomini sufficientemente esperti da avere qualche minima probabilità di portare a termine con successo l'impresa. Tra gli esperti ho scelto voi perché ho avuto modo di conoscervi in occasione della mia precedente visita e so che la vostra competenza vi consentirà di...»

«Sentite, non ho alcuna intenzione di offrirmi volontario.»

«Non avete scelta. Non vorrete sottrarvi alle vostre responsabilità, vero?»

«Le mie responsabilità? Da quando in qua sono mie?»

«Sono vostre perché siete la persona più adatta a svolgere l'incarico.»

«Vi rendete conto del rischio?»

«Credo di sì» disse Susan Calvin.

«Io credo proprio di no. Voi non avete mai visto quello scimpanzè. Sentite, quando ho detto "il fesso e l'astronave" non esprimevo un'opinione campata in aria, ma esponevo un fatto. Se ci fossi costretto sarei pronto anche a rischiare la vita. Magari non a cuor leggero, ma la rischierei. Non accetto invece il rischio di diventare idiota, di vivere per il resto dei miei giorni come un vegetale. È da fessi, ecco tutto.»

Susan Calvin guardò pensierosa il giovane ingegnere, che era sudato e furioso.

«Perché non mandate uno dei vostri robot?» disse lui. «Uno dei vostri modelli NS-2?»

La psicologa gli scoccò un'occhiata fredda. «Sì, il dottor Schloss aveva avanzato una proposta del genere» disse, con cautela. «Ma la nostra azienda non vende i robot, li dà a noleggio. Sapete, costano milioni di dollari l'uno. Io rappresento la compagnia e ho pensato che se venissero utilizzati in quest'impresa il rischio di veder andare in fumo un patrimonio del genere sarebbe inaccettabile.»

Black sollevò le mani e le strinse a pugno contro il petto, come se si stesse trattenendo a stento dall'usarle. «Intendete dire... intendete dire che vorreste mandare me al posto di un robot perché la mia vita vale meno della sua?»

«In sostanza, sì.»

«Dottoressa Calvin» disse Black, «piuttosto che accettare preferirei prima vedervi all'inferno.»

«È un'affermazione che potrebbe rivelarsi vera quasi alla lettera, dottor Black. Come vi confermerà il generale Kallner, voi avete l'obbligo di assumere questo incarico. A quanto ho capito le leggi cui siete sottoposti qui sono pressoché militari, e se rifiutaste finireste davanti alla corte marziale. In un caso del genere sareste spedito in una prigione su Mercurio, e poiché Mercurio è circa come l'inferno, se io vi facessi visita là, un'ipotesi peraltro abbastanza improbabile, la vostra affermazione, come dicevo, si dimostrerebbe spiacevolmente esatta. Se invece accetterete di salire a bordo della Parsec e di svolgere l'incarico assegnatovi, la vostra carriera ci guadagnerebbe parecchio.»

Black la guardò torvo, con gli occhi iniettati di sangue.

«Date al signor Black cinque minuti per riflettere, generale Kallner» disse Susan Calvin, «e intanto preparate una nave per il viaggio.»

Due guardie scortarono Black fuori della stanza.

Gerald Black provava una sensazione di freddo. Si muoveva come se le proprie membra non gli appartenessero. Mentre si avviava verso la nave che l'avrebbe portato su Quello e sulla Parsec, era come se si osservasse da un qualche luogo remoto e sicuro.

Stentava a crederci. Di colpo aveva chinato la testa e aveva detto: «Vado».

Come mai si era deciso ad accettare?

Non si era mai ritenuto il tipo dell'eroe. Allora perché aveva risposto di sì? In parte, naturalmente, non lo attirava l'idea di finire in una prigione su Mercurio. In parte gli seccava moltissimo far la figura del codardo davanti a gente che conosceva bene. E, come tutti sapevano, la codardia inconfessata era proprio la molla di gran parte degli atti temerari che si compivano al mondo.

Però i veri motivi erano altri.

Ronson, il giornalista dell'Agenzia Stampa Interplanetaria, lo fermò un attimo mentre lui si dirigeva verso la nave. Black guardò Ronson, che era rosso in viso, e disse: «Cosa volete?»

«Sentite» balbettò l'altro, «quando tornerete vorrei l'esclusiva. Vi farò dare la cifra che vorrete... tutto quello che vorrete...»

Black lo spinse di lato con tale violenza che quello finì in terra a gambe levate, e proseguì.

Sulla nave l'equipaggio era composto da due uomini. Nessuno dei due gli rivolse la minima parola. Cercavano anzi di non guardarlo nemmeno in faccia. Ma a Black non importava niente. Anche loro avevano una paura folle, e la nave mentre si avvicinava alla Parsec sembrava un gattino che si accostasse con estrema prudenza al primo cane che avesse mai visto. Di quei due poteva sicuro fare a meno; non gli sarebbero stati di alcun aiuto.

Con gli occhi della mente continuava a vedere un'unica faccia. L'espressione ansiosa del generale Kallner e quella falsamente determinata di Schloss gli erano rimaste impresse poco ed erano svanite quasi subito dalla coscienza. Ciò che invece non riusciva a dimenticare era il viso calmo, indifferente e inespressivo di Susan Calvin.

Black fissò l'oscurità dove fino a un attimo prima c'era l'Iperbase da cui erano partiti.

Susan Calvin. La dottoressa Susan Calvin. La robopsicologa Susan Calvin. Il robot con sembianze di donna!

Quali erano le tre leggi per lei?, si chiese. Prima Legge: Proteggerai il robot dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Seconda Legge: Difenderai gli interessi della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation purché questi sacri interessi non contrastino con la Prima Legge. Terza Legge: Mostrerai una qualche effimera considerazione per gli esseri umani, purché tale considerazione non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.

Era mai stata giovane quella donna?, si domandò con rabbia. Aveva mai provato una vera emozione?

Per lo spazio! Come gli sarebbe piaciuto fare qualcosa... qualcosa capace di toglierle dalla faccia quell'espressione impassibile!

Ma ci sarebbe riuscito.

Oh sì, per mille stelle. Se ce l'avesse fatta a uscire fuori da quella storia con la testa a posto, avrebbe portato alla rovina lei, la sua compagnia e tutta la schifosa genia dei robot. Era quello, più che la paura della prigione o il desiderio di ottenere prestigio sociale, il pensiero che l'aveva indotto ad accettare la sfida. Era quello il pensiero che gli aveva tolto del tutto, o quasi, ogni timore.

Uno dei piloti mormorò, senza guardarlo in viso: «Potete calarvi giù da qui. La distanza è circa mezzo miglio».

«Non atterrate?» chiese Black, aspro.

«Abbiamo ricevuto l'ordine di non farlo. Le vibrazioni causate dall'atterraggio potrebbero...»

«E le vibrazioni dovute al mio atterraggio?»

«Io eseguo gli ordini» disse il pilota.

Black non disse altro. S'infilò la tuta e aspettò che venisse aperto il portello interno. Agganciata saldamente al metallo della tuta, sulla coscia destra, c'era la scatola degli attrezzi.

Appena fu entrato nel compartimento stagno, Black sentì risonare una frase nella cuffia d'ascolto che aveva dentro il casco. «Buona fortuna, dottore.»

Gli ci volle un attimo per capire che la frase era stata detta dai due uomini dell'equipaggio. Se non altro, avevano avuto il pensiero di fargli gli auguri prima di tagliare la corda e abbandonare in gran fretta quella zona pericolosa.

«Grazie» disse Black, con un certo imbarazzo e un certo risentimento.

Poi si ritrovò nello spazio. Puntellò i piedi contro il portello esterno e si spinse lentamente in giù, un po' spostato di lato.

Vide la Parsec che lo aspettava e sbirciando di tra le proprie gambe nell'esatto momento in cui cominciò a rotolare nel vuoto, scorse i razzi laterali della navetta che sibilavano preparandosi alla partenza.

Era solo, adesso. Per lo spazio, era completamente solo!

C'era mai stato un uomo, nella storia delle imprese umane, che si fosse sentito così solo?

Se... se fosse successo qualcosa avrebbe avuto il tempo di capire? si chiese, con un senso di angoscia. Si sarebbe reso conto di perdere la ragione? Avrebbe sentito, anche solo per un attimo, la mente offuscarsi e le facoltà intellettuali dissolversi?

Oppure sarebbe accaduto tutto di colpo, con la repentinità di un taglio netto?

In entrambi i casi...

Il ricordo dello scimpanzè e dei suoi occhi vacui che esprimevano terrori oscuri e folli era ancora vivo in lui.

 

L'asteroide adesso distava solo cinque o sei metri. Si muoveva nella sua orbita con perfetta regolarità. Se si escludeva l'intervento dell'uomo, neanche un granello di sabbia si era mai mosso sulla sua superficie per astronomici periodi di tempo.

Nel silenzio immobile di Quello, una minuscola particella di pietrisco aveva ostruito un delicato ingranaggio della Parsec. O forse una gocciolina di liquido impuro presente nell'olio raffinatissimo che lubrificava qualche meccanismo essenziale aveva inceppato il tutto.

Magari bastava una piccola vibrazione, il minimo tremolio provocato dalla collisione di una massa con l'altra a rimettere in moto gli ingranaggi bloccati, ad avviarli di nuovo, ad attivare l'ipercampo e a proiettarlo verso l'esterno come un'incredibile rosa che aprisse di colpo i petali.

Sul punto di toccare Quello, Black strinse le membra per cercare di atterrare nel modo più dolce possibile. Non sarebbe mai voluto scendere fino a sfiorare la superficie. Aveva la pelle accapponata, tant'era la riluttanza che provava al pensiero di colpire il terreno.

E il terreno era sempre più vicino.

Era lì, proprio lì. A pochi centimetri di distanza...

Niente!

Black toccò il suolo dell'asteroide e provò un brivido sentendo che aumentava lentamente la pressione causata dalla sua massa di centodieci chili (quella del corpo più quella della tuta), che possedeva inerzia ma non un peso degno di nota.

Aprì pian piano gli occhi e guardò la luce delle stelle. Il sole era una piccola sfera scintillante la cui luminosità era attutita dal filtro polarizzatore della visiera del casco. Le stelle in confronto erano opache, ma erano disposte nella maniera giusta. Visto che sole e costellazioni apparivano normali, era chiaro che Black si trovava ancora nel sistema solare. Riusciva a distinguere perfino l'Iperbase, che aveva la forma di una piccola mezzaluna, scarsamente luminosa.

Trasalì di colpo sentendo negli auricolari una voce. La voce di Schloss.

«Vi vediamo nello schermo, dottor Black» disse Schloss. «Non siete solo!»

Black avrebbe avuto voglia di ridere per quella frase che aveva più che altro il sapore di una battuta, ma disse solo, con voce chiara e sommessa: «Staccate il contatto, sennò mi distrarrete».

Seguì una pausa. Poi Schloss, con tono ancora più zuccheroso, disse: «Se vi manterrete in contatto riferendoci a mano a mano tutto quello che succede vi sentirete più tranquillo, no?».

«Vi fornirò informazioni appena sarò tornato. Non prima.» Lo disse con decisione, e con decisione portò la mano guantata al quadro comandi che aveva sul petto, spegnendo la radio della tuta. Che parlassero pure al vuoto, adesso. Lui aveva i suoi piani. Se fosse uscito da quella situazione con la mente integra, le notizie le avrebbe date come pareva a lui. Si alzò con estrema cautela e rimase in piedi sull'asteroide. Barcollò leggermente perché il movimento involontario dei muscoli, a causa della quasi totale assenza di gravità, lo induceva a sbilanciarsi continuamente ora in una direzione, ora in un'altra. Sull'Iperbase c'era un campo pseudo-gravitazionale che consentiva alla gente di mantenersi in equilibrio. Black scoprì che si sentiva abbastanza distaccato da ricordarsi di quel particolare e apprezzarne il valore in absentia.

Il sole era scomparso dietro un picco. Le stelle si muovevano visibilmente, mentre l'asteroide compiva la sua rotazione nel periodo di un'ora.

Da dove si trovava, Black vedeva bene la Parsec e si diresse verso di essa piano, con cautela, quasi in punta di piedi. (Niente vibrazioni. Niente vibrazioni. Quelle parole suonavano come una preghiera nella sua mente.)

Prima ancora di rendersi conto della distanza che aveva percorso, si ritrovò davanti alla nave. Era proprio sotto la serie di appigli metallici che conducevano al portello esterno.

Lì si fermò.

La Parsec all'apparenza era normalissima. O almeno, appariva normale se si escludevano le manopole d'acciaio che descrivevano un cerchio a un terzo della sua altezza, e le altre manopole che descrivevano un secondo cerchio, più su. Erano quelle manopole che avrebbero dovuto generare l'ipercampo, e magari in quel momento stavano lì lì per attivarlo.

Provò la strana tentazione di allungare la mano e toccarne una. Era un impulso irrazionale, simile a quello che può venire a volte a chi guarda giù da un palazzo alto e si domanda: «E se mi buttassi?».

Black trasse un respiro profondo e si sentì invadere da un sudore freddo quando aprì le mani e le appoggiò con estrema delicatezza alla fiancata della nave.

Niente!

Afferrò l'appiglio più basso e si tirò su con cautela. Avrebbe voluto tanto sapersi muovere a gravità zero con la stessa agilità degli operai addetti alla costruzione delle navi. Bisognava compiere uno sforzo abbastanza intenso da superare l'inerzia, e poi fermarsi in tempo. Se ci si tirava su con troppa violenza si perdeva l'equilibrio e si andava a sbattere contro la fiancata.

Black salì lentamente, stringendo gli appigli con la punta delle dita. Quando alzava la sinistra le gambe e i fianchi gli ondeggiavano verso destra, quando alzava la destra le gambe e i fianchi gli ondeggiavano verso sinistra.

Dopo una dozzina di pioli sfiorò con le mani il bottone che apriva il portello esterno. Il segnale di sicurezza era rappresentato da una semplice macchiolina verde.

Ancora una volta esitò. Premere il bottone significava usare per la prima volta l'energia della nave. Ripensò in fretta a come essa fosse distribuita sulla Parsec e alla disposizione degli schemi circuitali. Se avesse fatto scattare l'interruttore, l'energia sarebbe fuoriuscita dalla micropila e avrebbe aperto la massiccia piastra di metallo che era il portello esterno.

Ebbene? si disse. Che senso aveva esitare? Poiché non aveva idea di quale fosse il guasto, non aveva modo di sapere che effetto avrebbe avuto innescare il contatto. Così, con un sospiro, si decise a premere il bottone.

Dolcemente, senza suoni né vibrazioni, un segmento della fiancata si aprì. Black buttò un ultimo sguardo alle costellazioni che gli erano familiari (e che non avevano cambiato posizione) ed entrò nell'interno fiocamente illuminato della Parsec. Il portello si richiuse alle sue spalle.

Ora bisognava premere un altro bottone per aprire il portello interno. Si fermò ancora un attimo a riflettere. La pressione dell'aria all'interno della nave sarebbe scesa leggermente appena il portello fosse stato aperto, e sarebbe passato qualche secondo prima che gli elettrolizzatori della Parsec avessero potuto compensare la perdita.

E allora?

La piastra posteriore Bosch, tanto per nominare un'apparecchiatura, era sensibile alla pressione, ma certo non così sensibile da risentire di un'operazione del genere.

Emise un altro sospiro, meno forte del primo (ormai stava cominciando a fare il callo alla paura) e premette il bottone. Il portello interno si aprì.

Black entrò nella cabina di comando e sentì uno strano tuffo al cuore quando vide lo schermo del visore regolato per la ricezione e gremito di stelle. Si impose di guardarle.

Niente!

Era dentro la Parsec e non era successo niente. Si vedeva Cassiopea; le costellazioni erano normali, le stelle erano normali. In certo modo gli pareva che il peggio fosse passato. Era arrivato fin lì e si trovava ancora nel sistema solare. E la sua mente restava lucida. A poco a poco cominciò a sentirsi più sicuro di sé.

Il silenzio sulla Parsec era quasi sinistro. Black era stato a bordo di parecchie navi nella sua vita, e aveva sempre sentito qualche suono, magari anche solo un rumore di passi o il fischiettare del cameriere di bordo nel corridoio. Lì perfino il battito del suo cuore era così lieve da sembrare inaudibile.

Il robot seduto al posto di comando gli voltava le spalle. Non mostrava minimamente di essersi accorto della sua presenza.

Black scoprì i denti in un ghigno rabbioso e disse, aspro: «Lascia andare la leva e alzati!». In quello spazio angusto la sua voce rimbombò forte.

Troppo tardi pensò con orrore alle vibrazioni che il suono delle parole avrebbe potuto generare, ma si consolò quando vide che sul visore le stelle erano sempre al loro posto.

Il robot naturalmente non si mosse. Non era in grado di reagire ad alcuno stimolo. Non poteva nemmeno rispondere ai dettati della Prima Legge. Era bloccato nell'attimo interminabile di quello che sarebbe dovuto essere un processo quasi istantaneo.

Black si ricordò di quali ordini gli fossero stati impartiti. Erano ordini precisi, che non potevano essere interpretati male: «Afferra saldamente la barra di comando. Tirala forte verso di te. Forte! Mantieni la presa finché dal quadro comandi non saprai di essere passato due volte attraverso l'iperspazio».

Già. E invece la nave non ci era passata nemmeno una volta.

Si avvicinò con prudenza al robot, che se ne stava seduto impugnando bene la leva, collocata tra le sue ginocchia. In quel modo il meccanismo d'avvio era quasi innescato. La temperatura delle mani di metallo avrebbe dovuto in teoria far scattare il congegno, simile a quello di una termocoppia, e dare luogo al contatto. Black buttò macchinalmente un'occhiata al termometro del quadro comandi. Le mani del robot avevano la prevista temperatura di trentasette gradi centigradi.

Perfetto, pensò, con ironia. Sono solo con questa macchina e non posso assolutamente indurla ad aiutarmi.

Quanto gli sarebbe piaciuto prendere un piede di porco e colpire il robot fino a ridurlo a un ammasso di rottami! Si crogiolò a quel pensiero. Immaginò l'espressione di orrore sul viso di Susan Calvin (se su quella faccia di pietra avesse potuto insinuarsi un sentimento d'orrore, esso sarebbe nato solo dalla visione di un robot fatto a pezzi). Come tutti i modelli positronici, anche quell'esemplare lì era di proprietà della U.S. Robots, era stato costruito nella sua fabbrica e collaudato là.

Dopo aver ricavato tutto il gusto che poteva dalla propria vendetta immaginaria, Black tornò alla realtà e si guardò intorno.

Dopotutto, fino allora non aveva compiuto alcun progresso.

Si tolse con calma la tuta e l'appese all'attaccapanni. Passò da una cabina all'altra con cautela, studiò le ampie superfici interbloccate del motore iperatomico, seguì attentamente la traiettoria dei cavi, ispezionò i relè del campo.

Non toccò nulla. C'erano vari metodi per disattivare l'ipercampo, ma utilizzarne uno qualsiasi avrebbe potuto rivelarsi disastroso se non si sapeva almeno approssimativamente dov'era il guasto e non si procedeva in base a quel dato di partenza essenziale.

Alla fine tornò davanti al quadro comandi e trovandosi di fronte come al solito quello stupido robot che gli voltava le spalle, gridò esasperato: «Senti, me lo vuoi dire tu cosa c'è che non va?».

Gli venne la tentazione di armeggiare a casaccio con le apparecchiature della nave, di strappare un po' di fili e fracassare qualche congegno, così da farla finita una volta per tutte. Ma represse con decisione quell'impulso. Anche gli fosse occorsa una settimana, avrebbe cercato di capire qual era l'intoppo. L'avrebbe fatto per il bene della dottoressa Susan Calvin... per portare a termine il piano che aveva in serbo per lei.

Girò piano sui tacchi e si mise a riflettere. Sull'Iperbase erano stati controllati e ricontrollati tutti i componenti della Parsec, dal motore stesso a ciascun interruttore bipolare a leva. Era praticamente impossibile credere che qualcosa si fosse inceppato. Non c'era niente a bordo della nave che...

E invece sì per la miseria, certo! C'era il robot! Il robot era stato collaudato da quelli della U.S. Robots, i quali, maledetta la loro pellaccia, avrebbero dovuto essere persone competenti.

Come dicevano sempre tutti? Un robot per sua natura è in grado di lavorare meglio di chiunque altro.

Era come un assioma, che in parte si basava sulla stessa campagna pubblicitaria della U.S. Robots. Loro sostenevano di saper fabbricare robot capaci di superare l'uomo in qualsiasi tipo di funzione. Per loro gli automi non erano "abili come l'uomo", ma "più abili dell'uomo".

E mentre fissava il robot e rifletteva su queste cose, Gerald Black corrugò le sopracciglia e assunse un'espressione che era un misto di stupore e speranza.

Si avvicinò al posto di comando e girò intorno al robot. Osservò intento le sue mani che stringevano la leva di comando e che sarebbero rimaste così forse per sempre, se la nave di punto in bianco non avesse compiuto il balzo nell'iperspazio o se la stessa energia dell'automa non si fosse a un certo momento esaurita.

«Scommetto che è proprio così» sussurrò Black. «Metterei la mano sul fuoco.»

Si allontanò di nuovo e continuò a riflettere. «Dev'essere così.»

Accese la radio della Parsec, che era sintonizzata sulla frequenza dell'Iperbase. «Ehi, Schloss» ruggì al microfono.

La risposta di Schloss fu immediata. «Per lo spazio, Black...»

«Lasciate perdere i commenti» disse secco Black. «Niente chiacchiere, per favore. Volevo solo assicurarmi che steste guardando.»

«Certo che stiamo guardando. Tutti quanti. Sentite...»

Ma Black spense la radio. Guardò con un sorriso particolarmente obliquo la telecamera della cabina di pilotaggio e scelse una parte del meccanismo dell'ipercampo che risultava bene in vista. Non sapeva quante persone si trovassero nella sala di osservazione. Forse c'erano solo Kallner, Schloss e Susan Calvin. Oppure poteva essere presente tutto quanto il personale. In ogni caso, avrebbe dato loro modo di contemplare un piccolo spettacolo.

Pensò che la scatola dei relè numero tre serviva perfettamente al suo scopo. Si trovava in una nicchia nel muro ed era coperta da un pannello levigato, saldato a freddo. Black cercò tra gli attrezzi il cannello ricurvo dalla punta smussata. Poi rimise a posto la tuta (che aveva spostato per prendere la cassetta degli attrezzi) e si girò verso la scatola dei relè.

Vincendo un lieve senso di disagio, sollevò il cannello e lo appoggiò su tre distinti punti della saldatura a freddo. Il campo di forza generato dall'arnese entrò subito in funzione e Black sentì il manico che si surriscaldava leggermente al passaggio dell'energia. Il pannello ormai era già staccato.

Quasi istintivamente, buttò un'occhiata al visore. Le stelle erano al loro posto. E anche lui si sentì a posto.

Incoraggiato da ciò che aveva appena visto, alzò un piede e sferrò un calcio contro il delicatissimo meccanismo incuneato dentro la nicchia.

In mezzo a frammenti di vetro e a pezzi di metallo contorti, si levò un lieve spruzzo di goccioline di mercurio...

Black adesso ansimava forte. Accese ancora una volta la radio. «Siete lì, Schloss?»

«Sì, ma...»

«Allora vi comunico che l'ipercampo a bordo della Parsec è stato disattivato. Venite a prendermi.»

 

Gerald Black non si sentiva più eroe di come si fosse sentito quando aveva lasciato l'Iperbase, ma si ritrovò eroe suo malgrado. Gli uomini che l'avevano condotto sul piccolo asteroide quando vennero a riprenderlo atterrarono e gli diedero manate amichevoli sulle spalle.

E quando la navetta fece ritorno, sull'Iperbase c'era il personale al completo ad attenderlo. Tutti lo salutarono con grida festose e lui salutò la folla con la mano, come si conveniva a un eroe. Ma dentro non avvertiva alcuna sensazione di trionfo. No, non ancora. Poteva solo pregustare quel che avrebbe provato di lì a poco. Il vero trionfo l'avrebbe conosciuto dopo, appena avesse incontrato Susan Calvin.

Si fermò un attimo, prima di scendere dalla nave. Cercò con gli occhi la robopsicologa, ma non la vide. C'era il generale Kallner, che aveva ripreso il suo piglio militaresco e ostentava un'espressione austera, ma visibilmente soddisfatta. Mayer Schloss rivolse a Black un sorriso nervoso. Ronson, dell'Agenzia Stampa Interplanetaria, gli fece gesti frenetici con la mano. Ma Susan Calvin non la si vedeva da nessuna parte.

Appena arrivò a terra Black spinse da parte Kallner e Schloss. «Prima di tutto voglio lavarmi e mangiare un boccone.»

Era sicuro di potere, almeno per il momento, imporre la sua volontà al generale e a chiunque altro.

Le guardie gli aprirono la strada in mezzo alla folla. Black fece il bagno e mangiò con calma in un isolamento da lui stesso preteso. Poi chiamò Ronson al telefono e parlò brevemente con lui. Solo dopo che il giornalista lo ebbe richiamato sentì di potersi rilassare completamente. Tutto era andato molto meglio di quanto si fosse aspettato. Che la Parsec avesse fallito nell'impresa gli era tornato estremamente comodo.

Alla fine telefonò a Kallner nel suo ufficio e ordinò che si convocasse una riunione. Proprio quello era, il suo: un ordine. E il generale Kallner non poté che rispondere: «Sì, signore».

 

Si ritrovarono tutti quanti insieme: Gerald Black, Kallner, Schloss... e anche Susan Calvin. Ma era Black adesso in posizione di potere. La robopsicologa aveva come sempre un viso di pietra scolpita che non si scomponeva né per i trionfi, né per le catastrofi. Ma il suo atteggiamento era cambiato impercettibilmente e si capiva che l'autorità conferitale in precedenza non le apparteneva più.

Il dottor Schloss si mordicchiò l'unghia del pollice e disse, cauto: «Dottor Black, vi siamo estremamente grati per avere condotto a termine l'impresa con successo e con grande coraggio». Poi, come per togliere subito ogni connotazione solenne a quel discorso, aggiunse: «Tuttavia fracassare con un calcio la scatola dei relè è stata un'azione imprudente che... be', non prometteva certo un esito positivo».

«È stata un'azione che non poteva assolutamente pregiudicare l'esito positivo della faccenda» replicò Black. «Vedete» (quella era la bomba numero uno, pensò) «quando ho agito in quel modo sapevo già cos'era che non andava a bordo della Parsec.»

Schloss scattò in piedi. «Davvero? Ne siete sicuro?»

«Andate là voi stesso. Ormai non ci sono più pericoli. Vi dirò io dove dovete cercare il guasto.»

Schloss si accomodò di nuovo sulla sedia. Il generale Kallner era entusiasta. «Per la miseria, questa è la miglior notizia che potessimo ricevere, sempre che sia vera.»

«È vera» disse Black. Sbirciò con la coda dell'occhio Susan Calvin, che rimase zitta.

Black era inebriato dalla sensazione del potere. Sganciò la bomba numero due dicendo: «Responsabile dell'impasse era il robot, naturalmente. Avete sentito, dottoressa Calvin?».

Susan Calvin intervenne per la prima volta nella conversazione. «Ho sentito. Per la verità confesso che me l'aspettavo. Il robot era l'unico congegno a bordo della nave che non fosse stato collaudato sull'Iperbase.»

Black provò un attimo di abbattimento. «Non avevate espresso quest'opinione, però.»

«Come ho ripetuto varie volte al dottor Schloss, non m'intendo di fisica eterica» disse la Calvin. «La mia ipotesi, perché altro non era se non un'ipotesi, poteva essere errata. Ho pensato che non fosse giusto instillarvi un'idea definita prima della missione.»

«Bene» disse Black, «avete per caso anche intuito perché il robot non abbia funzionato?»

«No, signore.»

«Ma è chiaro. Perché è stato fabbricato per svolgere determinati incarichi meglio di un uomo. Il guaio è tutto lì. Non è strano che i problemi nascano proprio dalla qualità superiore che i prodotti della U.S. Robots vantano? Ho sentito dire che costruite robot che sono migliori degli uomini.»

Black adesso usava un tono provocatorio, ma la dottoressa Calvin non abboccò.

Invece disse, con un sospiro: «Caro signor Black, non sono certo responsabile degli slogan ideati dalla nostra agenzia pubblicitaria».

Black accusò ancora una volta il colpo. Quella Calvin era un osso duro. «I vostri tecnici hanno costruito un robot in grado di sostituire un uomo ai comandi della Parsec» disse. «Questo robot non doveva far altro che tirare a sé la barra di comando, metterla nella posizione giusta e lasciare che il calore delle sue mani innescasse il meccanismo d'avvio. Abbastanza semplice, dottoressa Calvin, no?»

«Abbastanza semplice, dottor Black.»

«E se il robot non fosse stato costruito in modo da essere più perfetto di un uomo, sarebbe sicuramente riuscito a portare a termine il suo compito. Purtroppo la U.S. Robots si è sentita in dovere di renderlo migliore di un uomo. Al robot è stato detto di tirare la leva forte. Forte. Questa parola è stata ripetuta e messa in gran rilievo. Così il robot ha eseguito fedelmente l'ordine. Ha tirato con forza. Ma c'era un piccolo problema: la sua forza era dieci volte superiore a quella dei comuni esseri umani per i quali la leva di comando era stata progettata.»

«State insinuando che...»

«Sto dicendo che la barra si è piegata. Si è incurvata all'indietro abbastanza da impedire che il meccanismo d'avvio si innescasse. Quando il calore delle mani del robot ha agito sulla termocoppia, il contatto non c'è stato.» Sogghignò. «Questo insuccesso non è ascrivibile a un solo robot, dottoressa Calvin, ma, almeno simbolicamente, a tutta quanta la categoria e all'idea stessa di automa.»

«Via, dottor Black» disse gelida Susan Calvin, «siete così accecato dal desiderio di arrivare a determinate conclusioni che dimenticate per strada la logica. Il robot era dotato sia di adeguate capacità mentali sia di forza bruta. Se gli uomini che gli hanno impartito gli ordini avessero usato termini precisi e matematici anziché lo stupido avverbio "forte", tutto questo non sarebbe successo. Se avessero detto: "esercita una trazione di venticinque chili", non ci sarebbe stato alcun problema.»

«In pratica» disse Black, «state dicendo che all'imperfezione dei robot dovrebbero rimediare l'ingegnosità e l'intelligenza degli uomini. Vi assicuro che la gente, sulla Terra, si renderà ben conto di questo fatto e non sarà assolutamente disposta a perdonare alla U.S. Robots un simile fiasco.»

Il generale Kallner intervenne con tono autorevole. «Un momento, Black. Ciò che è successo è naturalmente top secret.»

«Anzi» interloquì Schloss, «la vostra ipotesi non è stata ancora confermata. Manderemo una squadra di esperti sulla nave, perché verifichi se quanto dite è esatto. Potrebbe non trattarsi affatto del robot.»

«E vi preoccuperete di tirar fuori qualche scusa per nascondere la verità, no? Mi chiedo se la gente vi crederà, visto che siete voi i responsabili di questo insuccesso. Ma ho anche un'altra cosa da dirvi.» Stava per sganciare la bomba numero tre, pensò. «Da questo momento mi dissocio dal Progetto e rassegno le dimissioni. Me ne vado.»

«Perché?» chiese Susan Calvin.

«Perché, come avete detto voi, dottoressa Calvin, sono accecato dal desiderio di arrivare a determinate conclusioni. Sono accecato dal desiderio di compiere una missione. Sento il dovere di dire agli abitanti della Terra che si è ormai giunti al punto in cui la vita di un uomo è valutata meno di quella di un robot. A questo ci ha portato la robotica. È diventato possibile ordinare a un uomo di affrontare un grave pericolo perché i robot costano un patrimonio e sarebbe inopportuno correre il rischio di provocarne la distruzione. Credo sia giusto che i terrestri sappiano tutto questo. Già ora molti uomini sono prevenuti contro i robot. La U.S. Robots non è ancora riuscita a far sì che l'uso dei robot sulla Terra sia autorizzato dalla legge. Credo che le mie argomentazioni ostacoleranno ancora di più i suoi sforzi. Grazie a questa mia giornata di lavoro, dottoressa Calvin, voi, la vostra compagnia e i vostri robot sarete cancellati dalla faccia del sistema solare.»

Dicendo così la metteva in guardia, pensò, le dava modo di studiare una linea di difesa; ma non avrebbe mai potuto rinunciare a quell'exploit. Fin da quando aveva lasciato la Parsec per recarsi sull'asteroide aveva vissuto in attesa di quel momento e non avrebbe mai accettato di rinunciare alla soddisfazione che gli dava.

Gongolò di piacere vedendo gli occhi grigi di Susan Calvin lampeggiare un attimo e le sue guance pallide coprirsi di un impercettibile rossore. Pensò: come ti senti adesso, signora scienziato?

«Non vi sarà permesso di rassegnare le dimissioni, Black» disse Kallner, «né vi sarà permesso di...»

«Come potete fermarmi, generale? Non vi siete accorto che ormai sono un eroe? E la vecchia Madre Terra esalta i suoi eroi. Li ha sempre esaltati. Tutti vorranno sentire la mia opinione e crederanno a ogni cosa che dirò. E non gradiranno che mi si intralci, per lo meno non finché sarò un eroe uscito fresco fresco dalla grande impresa. Ho già parlato con Ronson, dell'Agenzia Stampa Interplanetaria, e gli ho detto che avevo una notizia sensazionale per lui, una notizia capace di far sobbalzare sulle loro sedie tutti i funzionari governativi e tutti i direttori di istituti scientifici. Per cui l'Interplanetaria è lì pronta in prima fila ad aspettare le mie rivelazioni. Cosa potreste fare, dunque, altro che uccidermi? E credo che la vostra situazione peggiorerebbe molto, se ci provaste.»

La vendetta di Black era completa. Non aveva risparmiato una sola parola. Non aveva avuto peli sulla lingua. Soddisfatto, si alzò per andarsene.

«Un momento, signor Black» disse Susan Calvin, con autorevolezza.

Black istintivamente si girò come un bambino richiamato dalla voce dell'insegnante, ma si affrettò a rimediare a quell'atto usando un tono sfottente. «Avete una qualche spiegazione da dare, immagino, vero?»

«Nient'affatto» disse lei, pacata. «La spiegazione l'avete data voi a me, e molto bene. Ho scelto voi per la missione perché sapevo che avreste capito dove stava l'intoppo, anche se francamente pensavo che ci avreste messo meno tempo a capire. Avevo già avuto modo di conoscervi in passato. Sapevo che provavate avversione per i robot e che quindi non avreste cercato di considerarli con indulgenza. Leggendo il vostro curriculum, che ho chiesto di vedere prima che vi fosse affidato l'incarico, ho appreso che avevate disapprovato l'esperimento con il quale si progettava di spedire un robot nell'iperspazio. I vostri superiori ritenevano che questo fosse un punto a vostro sfavore, mentre io ho ritenuto al contrario che fosse un punto a vostro favore.»

«Di che diavolo state parlando, dottoressa, se posso esprimermi con franchezza un po' rude?»

«Del fatto che avreste dovuto capire perché non si poteva affidare a un robot questa missione. Voi stesso avete detto che all'imperfezione dei robot devono rimediare l'ingegnosità e l'intelligenza degli uomini. Ed è proprio così, giovanotto, proprio così. I robot non sono ingegnosi. La loro mente ha limiti ben definiti, quantificabili fino all'ultimo decennale. E anzi, la mia professione è esattamente questa: studiare tali limiti.

«Ora, se a un robot viene impartito un ordine, un ordine preciso, lui è in grado di eseguirlo. Ma se l'ordine non è preciso, lui non può correggere il proprio errore se non gli vengono impartiti ulteriori ordini. Non è questo che avete constatato osservando il robot a bordo della nave? Come avremmo quindi potuto assegnare a un robot il compito di trovare un guasto in un meccanismo, visto che, ignorando noi stessi la natura del guasto, non eravamo in grado di dargli ordini precisi? "Scopri cosa c'è che non va" è un comando che non si può impartire a un robot, ma solo a un uomo. Il cervello umano, almeno finora, non è esattamente quantificabile.»

Black si lasciò cadere di colpo su una sedia e fissò sgomento la psicologa. Le parole di lei erano penetrate in quel substrato della sua mente dove risiedevano le facoltà razionali e che era stato messo a tacere dalla furia delle emozioni. Non riuscì a ribattere nulla. E il peggio era che si sentiva oppresso da un senso di sconfitta.

«Avreste potuto spiegarmi tutto questo prima che partissi» disse.

«Sì» convenne la dottoressa Calvin, «ma mi ero accorta che avevate una gran paura, una paura comprensibile, di perdere il lume della ragione nel caso l'ipercampo si fosse attivato da solo. Una preoccupazione del genere poteva facilmente ostacolarvi nel vostro compito, per cui ho ritenuto opportuno farvi credere che l'unico motivo che mi spingeva a mandarvi sulla Parsec fosse che attribuivo più valore al robot che a voi. Ho pensato che così vi sareste arrabbiato e la rabbia, caro dottor Black, è a volte un'emozione molto utile. Se non altro un uomo arrabbiato ha meno paura di quanta ne avrebbe se non lo fosse. Credo che il mio piano abbia funzionato bene.» Intrecciò le mani in grembo e arrivò più vicina a sorridere di quanto fosse mai giunta in vita sua.

«Per la miseria» borbottò Black.

«Quindi ora, se volete seguire il mio consiglio» continuò Susan Calvin, «tornate al lavoro, recitate la vostra parte di eroe e raccontate al vostro amico giornalista i particolari della vostra coraggiosa impresa. Fate finta che sia quella la notizia sensazionale che gli avevate promesso.»

Lentamente, con riluttanza, Black annuì.

Schloss appariva sollevato; Kallner sorrise scoprendo i denti. Entrambi tesero la mano al giovane. Non avevano detto una sola parola per tutto il tempo in cui Susan Calvin aveva esposto i fatti, e non la dissero nemmeno ora.

Black strinse loro la mano con una certa freddezza e disse: «Sarebbe a voi e al ruolo che avete svolto in questa faccenda che bisognerebbe dare pubblicità, dottoressa Calvin».

«Non dite sciocchezze, giovanotto» replicò lei, gelida. «Ho fatto solo il mio lavoro.»