L'esempio che segue è meno palesamente umoristico, ma ancora una volta i robot non vengono presi sul serio, ha storia è nata da un altro racconto, che non parlava di robot, al quale il racconto sui robot servi da conclusione.

Nel numero di ottobre 1941 di Astounding Science Fiction venne pubblicato un mio racconto intitolato Not Final, nel quale i coloni terrestri di Ganimede (il più grande dei satelliti di Giove) stabilivano dei contatti radio con forme viventi su Giove. Queste forme viventi si rivelavano poi estremamente ostili e i terrestri cominciavano a temere per la propria sicurezza nel caso che i gioviani fossero giunti a realizzare i viaggi spaziali.

Per essere precisi, su Giove la gravità è cosi intensa e l'atmosfera è cosi densa che astronavi costruite con materiali comuni non potrebbero contenere un'atmosfera del genere per difenderla dal vuoto esterno, né potrebbero vincere la forza dì gravità: tuttavia la tecnologia terrestre aveva realizzato dei campi di forza e se i gioviani fossero arrivati alla stessa cosa avrebbero potuto emergere dal loro pianeta protetti da muri dì energia pura, invece che da muri di materia.

Era necessario indagare su questa possibilità, ma nessun essere umano sarebbe probabilmente riuscito a sopravvivere al viaggio sulla superficie indicibilmente ostile di Giove.

Tuttavia, se gli esseri umani non potevano farcela, dei robot costruiti dagli esseri umani avrebbero invece potuto. Con quest'idea in testa mi misi a scrivere Vittoria Involontaria, che comparve per la prima volta in Super Science Stories nell'agosto del 1942.


Vittoria involontaria

Titolo originale: Victory Unintentional (1942)

 

L'astronave era piena di falle, tanto da sembrare, come si dice in questi casi, un colabrodo.

Non era strano che fosse piena di falle; anzi, l'idea di partenza era stata proprio di costruirla così.

Durante il viaggio da Ganimede a Giove il vuoto dello spazio si era quindi infiltrato in essa in misura massiccia, e poiché mancavano i congegni di riscaldamento, il vuoto era a temperatura normale, ossia una frazione di grado sopra lo zero assoluto.

Anche questo faceva parte del programma. Inezie come l'assenza di calore e di aria non disturbavano nessuno, su quella particolare astronave.

Le prime, rarefatte folate di atmosfera gioviana cominciarono a penetrare nella nave quando questa si trovava molte migliaia di chilometri sopra la superficie di Giove. Era praticamente tutto idrogeno, anche se forse, a un'attenta analisi dei gas, si sarebbe potuta rilevare la presenza di qualche traccia di elio. Le lancette dei manometri cominciarono a salire progressivamente.

Continuarono a farlo a un ritmo sempre più rapido, mentre la nave scendeva verso il pianeta seguendo una traiettoria a spirale. Le lancette di altri manometri destinati a misurare pressioni sempre più alte cominciarono a loro volta a muoversi, finché arrivarono a rasentare il milione di atmosfere, una cifra quasi insensata. La temperatura, registrata da termocoppie, saliva lentamente e irregolarmente, e alla fine si stabilizzò sui settanta gradi centigradi sotto zero.

La nave si dirigeva piano verso la sua meta, procedendo faticosamente in mezzo a un intrico di molecole di gas così fitte e strette le une alle altre, che l'idrogeno finiva per avere la densità di un liquido. L'orribile atmosfera era satura di vapori di ammoniaca che si levavano dagli immensi oceani di quel liquido. Il vento, che si era alzato quasi duemila chilometri più su, soffiava adesso con tanta violenza da superare di gran lunga l'intensità di un uragano.

Ormai da molto prima che la nave atterrasse su un'isola abbastanza grande, pari probabilmente a sette volte l'estensione dell'Asia, fu chiaro che Giove non era un mondo accogliente.

Tuttavia i tre membri dell'equipaggio non pensavano che fosse un pianeta inospitale; anzi, erano convinti del contrario. I tre membri dell'equipaggio, però, non erano propriamente umani. E non erano nemmeno giovani, in verità.

Erano semplicemente robot costruiti sulla Terra per quella particolare destinazione: Giove.

ZZ Tre disse: «Sembra un posto abbastanza deserto».

ZZ Due lo raggiunse e osservò con aria cupa il paesaggio sferzato dal vento. «Vedo in lontananza alcune strutture indefinite, chiaramente artificiali» disse. «Propongo di aspettare che gli esseri che si trovano al loro interno facciano il primo passo.»

Dalla parte opposta della cabina ZZ Uno ascoltava, ma non espresse il suo parere. Era quello dei tre che era stato costruito per primo, e non era perfetto. Di conseguenza parlava un pochino meno dei suoi compagni.

L'attesa non fu lunga. Un apparecchio dalla forma strana sfrecciò sopra le loro teste, seguito da altri. Poi arrivarono alcuni veicoli di terra, in fila uno dietro all'altro. Si avvicinarono, si misero in posizione strategica e lasciarono fuoriuscire diversi organismi viventi. Assieme agli organismi apparvero diversi accessori inanimati che potevano anche essere armi. Alcuni di questi accessori erano portati da singoli gioviani, altri da parecchi gioviani insieme, altri ancora avanzavano da soli e forse nascondevano gli esseri viventi all'interno.

I robot non erano in grado di dire se queste ipotesi fossero giuste o sbagliate.

«Ci hanno circondato» disse ZZ Tre. «Il gesto più pacifico adesso sarebbe naturalmente di uscire allo scoperto. Siete d'accordo?»

Gli altri due erano d'accordo, così ZZ Uno spinse il pesante portello, che non era né doppio, né particolarmente ermetico.

Appena i tre robot uscirono dall'astronave, nacque un grande fermento tra i gioviani raccolti lì intorno. Qualcuno armeggiò con parecchi degli accessori inanimati più grandi, e ZZ Tre si accorse che la temperatura, sulla superficie esterna del suo corpo di bronzo-iridio-berillio, era salita sensibilmente.

Buttò un'occhiata a ZZ Due. «Lo senti? Credo che ci stiano dirigendo contro dell'energia termica.»

«Mi chiedo perché...» fece ZZ Due, stupito.

«Sì, dev'essere senz'altro un qualche raggio termico. Guarda!»

Uno dei raggi, per qualche motivo incomprensibile, aveva deviato dalla traiettoria seguita dagli altri e intersecato un ruscelletto di ammoniaca pura scintillante, che si era messa subito a ribollire furiosamente.

Tre si girò verso ZZ Uno e disse: «Uno, prendi nota di questo fenomeno, per piacere».

«Certo.» Toccava a ZZ Uno il noioso lavoro di segretario; per prendere nota di una cosa, doveva aggiungerla mentalmente al nastro di memoria pieno di informazioni che era inserito in lui. Aveva già raccolto ora per ora tutti i dati registrati dagli strumenti di bordo durante il viaggio fino a Giove. «Che motivo metto a giustificazione del comportamento gioviano?» aggiunse, amabilmente. «I padroni umani avranno probabilmente piacere di conoscerlo.»

«Nessun motivo» disse Tre. «O meglio» si corresse, «nessun motivo apparente. Puoi dire però che la temperatura massima del raggio è grosso modo di trenta gradi centigradi.»

«Proviamo a comunicare?» interloquì Due.

«Sarebbe una perdita di tempo» disse Tre. «Sono indubbiamente pochissimi i gioviani che conoscono il codice radio che è stato stabilito tra Giove e Ganimede. La gente che ci ha circondato prima o poi dovrà mandare a chiamare uno di questi esperti, e appena lui arriverà penso che si metterà molto presto in contatto con noi. Nel frattempo continuiamo a osservarli. A dir la verità non riesco a capire le loro azioni.»

E ZZ Tre continuò a non capirle. Le radiazioni termiche cessarono e altri strumenti vennero portati in prima linea e attivati. Varie capsule caddero ai piedi dei tre robot, precipitando giù con violenza e rapidità, causa la gravità di Giove. Appena arrivavano in terra si disintegravano, stillando un liquido azzurro che formava pozze. Le pozze ben presto rimpicciolivano perché il liquido evaporava.

Il vento furioso portava via i vapori e ogni volta che questi spiravano in direzione della folla, i gioviani scappavano. Un gioviano che era stato troppo lento fu investito dal vapore, e dopo essersi dibattuto come in preda a convulsioni giacque floscio e immobile.

ZZ Due si chinò, sfiorò con un dito una delle pozze e fissò il liquido gocciolante. «Credo sia ossigeno» disse.

«Sì, è ossigeno» convenne Tre. «La faccenda diventa sempre più strana. È un modo di agire pericoloso, direi, perché l'ossigeno sembra velenoso per queste creature. Una di loro è morta!»

Ci fu una pausa, poi ZZ Uno, che essendo più rozzo a volte aveva un modo di ragionare meno artificioso, disse serio: «Potrebbe essere che queste strane creature stiano tentando in modo abbastanza infantile di distruggerci».

«Sai, Uno» disse Due, colpito da quell'idea, «credo che tu abbia ragione!»

Tra le schiere dei gioviani c'era stato un attimo di calma, e adesso i tre robot videro che veniva issata una nuova struttura fornita di un'asta sottile che fu puntata verso il cielo. L'asta penetrava la tetra oscurità dell'atmosfera di Giove e resisteva perfettamente immobile al vento furibondo, il che mostrava come la struttura che la sorreggeva fosse solidissima. Dalla cima dell'asta arrivò uno schiocco, poi un lampo che illuminò le scure profondità dell'atmosfera colorandole di un grigio nebbioso.

Per un attimo i tre robot furono inondati da un'intensa radiazione che li avviluppò completamente. Poi Tre disse, pensieroso: «Elettricità ad alta tensione! E di notevole potenza, anche. Uno, credo che tu abbia ragione. Dopotutto, i padroni umani ci hanno detto che queste creature cercano di distruggere tutta l'umanità, e organismi così inconcepibilmente cattivi da albergare nell'animo sentimenti ostili verso gli esseri umani» e qui la sua voce tremò per l'emozione, «è logico che non esitino a tentare di distruggere noi».

«Che peccato, avere menti così distorte» disse ZZ Uno. «Poveracci!»

«È davvero una cosa che rattrista» ammise Due. «Torniamo alla nave. Abbiamo visto abbastanza, per il momento.»

Così fecero, e si misero ad aspettare. Come osservò ZZ Tre, Giove era un pianeta grande e i mezzi di trasporto del luogo potevano impiegare abbastanza tempo a portare fin lì un esperto del codice radio. La pazienza, tuttavia, è una virtù che ai robot non costa praticamente nulla.

Anzi, a dir la verità Giove fece in tempo a ruotare intorno al suo asse tre volte, prima che l'esperto arrivasse. Le tre rotazioni del pianeta furono testimoniate dal cronometro, perché in quella cupa atmosfera dove per tremila miglia il gas viaggiava denso come un liquido era impossibile vedere il sorgere e il tramontare del sole e distinguere il giorno dalla notte. In ogni caso né i gioviani, né i robot vedevano attraverso le radiazioni della luce visibile, per cui l'oscurità costante non li disturbava affatto. Durante quell'intervallo di trenta ore le creature che circondavano l'astronave continuarono a condurre il loro attacco con una pazienza, una costanza e una determinazione tali, che indussero il robot ZZ Uno a segnarsi moltissimi appunti mentali in merito all'argomento. La nave fu assalita ogni ora da un'arma diversa e i robot analizzarono con attenzione ciascun attacco, studiando di volta in volta le armi che riconoscevano. Non le riconobbero assolutamente tutte.

Ma i padroni umani erano degli ottimi progettisti. C'erano voluti quindici anni per costruire la nave e i robot, e le caratteristiche essenziali dell'una e degli altri si potevano sintetizzare in due parole: forza bruta. L'attacco si esaurì senza avere sortito alcun effetto, ovvero senza avere danneggiato né l'astronave, né i robot.

Tre disse: «Credo che sia l'involucro di gas che circonda il pianeta a metterli in difficoltà. Non possono usare disintegratori atomici perché riuscirebbero unicamente a ricavare un buco in quest'atmosfera densa e a farsi saltare in aria da soli».

«Non hanno nemmeno usato esplosivi ad alto potenziale» disse Due, «ed è una fortuna, perché, anche se naturalmente non ci avrebbero danneggiato, ci avrebbero sconquassato un po'.»

«È chiaro che qui gli esplosivi ad alto potenziale non si possono assolutamente usare. Non si può avere esplosivo senza espansione del gas e il gas in quest'atmosfera semplicemente non può espandersi.»

«È un'ottima atmosfera» mormorò Uno. «Mi piace.»

Il che era logico, visto che era stato costruito proprio per essa. I robot ZZ erano i primi modelli privi di qualsiasi somiglianza con l'uomo che fossero mai stati prodotti dalla United States Robots and Mechanical Men Corporation. Erano bassi e tozzi, con un centro di gravità che si trovava a meno di trenta centimetri da terra. Avevano ciascuno sei gambe corte e grosse destinate a sollevare pesi di tonnellate su un pianeta che aveva una forza di gravità pari a due volte e mezzo quella della Terra. Ed erano costituiti da una lega di bronzo-iridio-berillio che resisteva in qualsiasi condizione a tutti gli agenti corrosivi conosciuti, nonché a qualsiasi agente distruttivo, fatta eccezione per un disintegratore atomico da mille megatoni.

Per farla corta erano indistruttibili e così spaventosamente forti, che erano gli unici robot mai costruiti ai quali i robotologi dell'industria produttrice non avessero mai avuto il coraggio di appioppare un soprannome ricavato dal numero di serie. Un giovane e brillante robotologo aveva suggerito il nomignolo di Sissy Uno, Due, Tre, ma l'aveva suggerito molto sottovoce, e nessuno più l'aveva ripetuto.

Durante le ultime ore di attesa i tre automi discussero con una certa perplessità del possibile aspetto dei gioviani. ZZ Uno aveva annotato mentalmente che possedevano tentacoli e una simmetria radiale, ma i suoi appunti si erano fermati lì. ZZ Due e ZZ Tre avevano fatto del loro meglio, ma non erano riusciti ad aiutarlo.

«Non si può descrivere bene niente se non si ha un parametro a cui riferirsi» dichiarò alla fine Tre. «Queste creature non somigliano a niente ch'io conosca: sono completamente estranee ai circuiti positronici del mio cervello. Sarebbe come cercare di descrivere le radiazioni gamma a un robot non attrezzato per la ricezione dei raggi gamma.»

Fu proprio in quel momento che l'offensiva gioviana ancora una volta s'interruppe. I robot si girarono a guardare che cosa succedeva fuori dell'astronave.

Un gruppo di gioviani stava avanzando in modo curiosamente irregolare, ma anche se si guardava con la massima cura possibile era difficile capire esattamente come procedesse la loro locomozione. Non era affatto chiaro in che modo usassero i tentacoli. A tratti sembravano scivolare in avanti, quindi si spostavano a grande velocità, forse aiutati dal vento favorevole.

I robot uscirono dall'astronave per andare incontro ai gioviani, che si fermarono a un tre metri di distanza. Sia i primi sia i secondi rimasero immobili, in silenzio.

ZZ Due disse: «È evidente che ci stanno osservando, ma non capisco come. Voi vedete nessun organo fotosensibile?».

«Non saprei dirlo» grugnì Tre, in risposta. «In loro non vedo niente che abbia un senso.»

D'un tratto dal gruppo di gioviani si sentì provenire un secco suono metallico e ZZ Uno disse, tutto contento: «È il codice radio. Hanno trovato l'esperto delle comunicazioni e l'hanno portato qui».

Effettivamente le cose stavano così. Il complesso sistema di punti e linee che era stato faticosamente elaborato nel corso di venticinque anni dagli abitanti di Giove e dai terrestri residenti su Ganimede e che costituiva ora un mezzo di comunicazione straordinariamente duttile, era stato finalmente attivato proprio lì, a poca distanza dall'astronave.

In prima linea adesso era rimasto solo un gioviano; gli altri erano indietreggiati. Era chiaramente lui a dover parlare. Il messaggio in codice che inviò dopo un attimo diceva: «Di dove siete?».

ZZ Tre, che era il robot mentalmente più perfezionato, si fece, com'era logico, portavoce del gruppo. «Veniamo dal satellite di Giove, Ganimede.»

«Che cosa volete?» continuò il gioviano.

«Informazioni. Siamo venuti qui per studiare il vostro mondo e per portare su Ganimede i dati raccolti. Se potessimo ottenere la vostra collaborazione...»

Il codice radio gioviano s'interruppe. «Dovete essere distrutti!» fu il messaggio successivo.

ZZ Tre fece una pausa e prendendo un attimo in disparte i suoi compagni disse, pensieroso: «Proprio l'atteggiamento che i padroni umani ci hanno detto che avrebbero assunto. Sono davvero strane, queste creature».

Tornando a comunicare in codice, chiese semplicemente: «Perché?».

Il gioviano considerava evidentemente certe domande troppo odiose perché meritassero una risposta. Disse: «Se ve ne andrete entro un periodo di rivoluzione del pianeta, vi risparmieremo... almeno fino al momento in cui non saliremo a bordo di astronavi per andare a distruggere i parassiti non-gioviani di Ganimede».

«Vorrei precisare» disse Tre, «che noi di Ganimede e dei pianeti interni...»

«I nostri astronomi sanno dell'esistenza del Sole e di quattro nostri satelliti» lo interruppe il gioviano. «Non ci sono pianeti interni.»

Tre, stanco di discutere, lo lasciò nella sua convinzione. «Diciamo allora che noi di Ganimede non abbiamo alcuna mira su Giove. Siamo pronti a offrirvi la nostra amicizia. Da venticinque anni voi gioviani comunicate liberamente con gli esseri umani di Ganimede. Quale motivo c'è di muovere guerra all'improvviso agli umani?»

«Da venticinque anni credevamo che gli abitanti di Ganimede fossero gioviani» rispose il portavoce, gelido. «Quando abbiamo scoperto che avevamo trattato degli animali inferiori come esseri dotati di intelligenza superiore quali siamo noi, ci siamo sentiti obbligati a prendere provvedimenti per cancellare il disonore.»

Dosando le parole e caricandole di particolare violenza concluse: «Noi gioviani non tollereremo l'esistenza di inutili parassiti!».

Il gioviano con la sua andatura buffa chiaramente indietreggiava, muovendosi a zig-zag nel vento contrario. Era evidente che considerava terminato il colloquio.

I robot si ritirarono sulla nave.

ZZ Due disse: «Brutta situazione, eh?». Poi continuò, pensieroso: «È proprio come avevano detto i padroni umani. Soffrono di un gravissimo complesso di superiorità e hanno un'estrema intolleranza verso qualsiasi persona o cosa insidi quel complesso».

«L'intolleranza» osservò Tre, «è la conseguenza naturale del loro senso di superiorità. Il guaio è che non è un'intolleranza disarmata; le armi le hanno eccome, e sono scientificamente progrediti.»

«Adesso capisco» intervenne ZZ Uno, «perché ci è stato detto di ignorare accuratamente gli ordini dei gioviani. Sono esseri orribili, intolleranti, pseudo-superiori!» Poi aggiunse enfaticamente, con la fedeltà e la lealtà tipiche del robot: «Nessun padrone umano potrebbe mai essere come loro».

«Questo è vero, ma non c'entra» disse Tre. «Resta il fatto che i padroni umani sono in grave pericolo. Giove è un mondo gigantesco, e i gioviani sono cento volte più numerosi degli umani e dispongono di risorse cento volte superiori a quelle di cui dispone l'intero Impero Terrestre. Se riuscissero a perfezionare il campo di forza fino al punto da usarlo come scafo dell'astronave, come hanno già fatto i padroni umani, potrebbero invadere tranquillamente tutto il sistema. Però non sappiamo ancora quanti progressi abbiano compiuto in quella direzione, quali altre armi abbiano, quali preparativi stiano facendo, e così via. Naturalmente tornare con tutte queste informazioni è il nostro compito, e sarà meglio che decidiamo la nostra prossima mossa.»

«Forse non è tanto facile» disse Due. «I gioviani non credo ci aiuteranno molto in questo senso.» Fatto in quel momento, era certo un discorso che non dava l'idea della gravità della situazione.

Tre rifletté un momento. «Secondo me occorre soltanto aspettare. Ormai sono trenta ore che cercano di distruggerci e non ci sono riusciti. Certo hanno fatto del loro meglio. Ora, chiunque soffra di un complesso di superiorità sente inevitabilmente il bisogno di salvare la faccia, e l'ultimatum che i gioviani ci hanno dato poco fa dimostra la verità di questo assunto. Non ci lascerebbero mai andare se avessero il modo di distruggerci. Ma se non ce ne andremo, piuttosto che ammettere che non possono costringerci ad andare via fingeranno sicuramente di essere disposti a farci restare per scopi loro.»

Ancora una volta si misero in attesa. Il giorno passò. L'offensiva dei gioviani non ricominciò. I robot non partirono, sfidando gli avversari a trasformare in realtà le loro minacce. Alla fine l'esperto del codice radio tornò all'astronave.

Se i modelli ZZ fossero stati forniti dagli umani del senso dell'umorismo si sarebbero divertiti moltissimo, a quel punto. Poiché invece ne erano sprovvisti, provarono soltanto un'enorme soddisfazione.

Il gioviano disse: «Abbiamo deciso di permettervi di restare ancora per breve tempo, in modo che possiate vedere con i vostri occhi quanto sia grande la nostra potenza. Poi tornerete su Ganimede per informare gli altri parassiti come voi dello spaventoso destino che li attende e che li colpirà infallibilmente entro una rivoluzione solare».

ZZ Uno annotò mentalmente che per una rivoluzione gioviana occorrevano dodici anni terrestri.

Tre rispose, come se niente fosse: «Grazie. Possiamo accompagnarvi fino alla città più vicina? Ci sono molte cose che ci piacerebbe imparare». Poi, come ricordando all'ultimo momento, aggiunse: «Alla nostra nave naturalmente non si deve avvicinare nessuno».

Il tono era quello di una richiesta, non di una minaccia, perché i modelli ZZ non erano degli attaccabrighe. Ogni minima tendenza all'irritabilità era stata accuratamente eliminata in fase di costruzione. Poiché gli ZZ erano robot dalle infinite potenzialità, era essenziale che il loro buonumore fosse inalterato se non si volevano avere problemi di sicurezza durante gli anni del collaudo sulla Terra.

«Non siamo interessati alla vostra pidocchiosa astronave» disse il gioviano. «Nessun gioviano le si avvicinerebbe mai, per paura di contaminarsi. Potete accompagnarci, ma se vi provate a stare a meno di tre metri di distanza da uno qualsiasi di noi, vi distruggeremo all'istante.»

«Che boria hanno addosso, eh?» sussurrò allegramente Due mentre arrancavano controvento.

La città era una città portuale che sorgeva sulle rive di un incredibile lago di ammoniaca. Il vento fuori soffiava furioso e onde spumeggianti spazzavano la superficie liquida con violenza rafforzata dalla gravità. Il porto in se stesso non era né grande né imponente, e appariva chiaro che la maggior parte delle costruzioni dovevano essere sotterranee.

«Quanti abitanti ha questo posto?» chiese Tre.

«È una piccola città di dieci milioni di abitanti» disse il gioviano.

«Capisco. Prendi nota, Uno.»

ZZ Uno lo fece macchinalmente, poi tornò a guardare il lago, che fino a un attimo prima aveva contemplato affascinato. Tirando Tre per un gomito disse: «Senti, pensi che sia pescoso?».

«Che importanza ha se è pescoso o no?»

«Credo che sarebbe giusto informarsene. I padroni umani ci hanno ordinato di scoprire più cose possibile.» Dei tre robot Uno era il più semplice e quindi era anche quello che prendeva più alla lettera gli ordini.

«Lasciamo che vada a dare un'occhiata, se vuole. Non c'è niente di male a lasciarlo divertire un po'» disse Due.

«D'accordo» disse Tre. «Non ho obiezioni, se non sciupa troppo il tempo. Non è che siamo venuti qui per i pesci, ma... va' pure, Uno.»

ZZ Uno corse via tutto eccitato e avanzò veloce lungo la spiaggia tuffandosi nell'ammoniaca e sollevando spruzzi. I gioviani osservarono attentamente la scena. Naturalmente non avevano capito nulla della precedente conversazione.

L'esperto di codice radio si mise in comunicazione e disse: «A quanto sembra il vostro compagno, non reggendo alla visione della nostra potenza, ha deciso di dire addio alla vita».

«No, niente del genere» replicò Tre, meravigliato. «Vuole vedere se nell'ammoniaca ci sono per caso degli organismi viventi.» Fece una breve pausa, poi aggiunse, in tono di scusa: «Il nostro amico a volte è molto curioso. Sapete, non è intelligente come noi, ma questa è una sfortuna che riguarda soltanto lui e che a noi non causa alcun problema. Noi capiamo le sue debolezze e cerchiamo di accontentarlo ogni volta che possiamo».

Ci fu una lunga pausa, poi il gioviano osservò: «Affogherà».

«Oh no, non c'è pericolo» replicò Tre, tranquillo. «Noi non affoghiamo mai. Possiamo entrare in città appena ritorna?»

In quella dal lago si levò uno spruzzo alto un centinaio di metri. Il liquido sfrecciò verso l'alto con grande violenza per poi ricadere giù in una nebbiolina agitata dal vento. Seguirono altri due spruzzi uguali al primo. Quindi sulla superficie del lago si disegnò una spessa striscia di spuma che avanzò verso riva diventando sempre meno ribollente a mano a mano che si avvicinava.

I due robot guardarono stupiti la scia, e anche i gioviani guardarono: lo si capiva dal fatto che stavano completamente immobili.

Alla fine dall'ammoniaca emerse ZZ Uno, che piano piano guadagnò la riva. Qualcosa, però, lo seguiva: un organismo di dimensioni gigantesche che sembrava un groviglio di zanne, artigli e aculei. Poi gli spettatori si accorsero che il mostro non seguiva ZZ Uno di sua volontà, ma veniva trascinato lungo la spiaggia dal robot. Era tutto floscio, come fosse senza vita.

ZZ Uno si avvicinò un po' esitante e prese in mano il congegno di comunicazione, trasmettendo con evidente nervosismo un messaggio ai giovani. «Mi dispiace molto che sia successo questo, ma sono stato attaccato dalla creatura. Stavo solo prendendo appunti su di lei. Spero non sia di inestimabile valore, per voi.»

La risposta non arrivò subito, perché appena il mostro era apparso, tra le file dei gioviani c'era stato grande scompiglio. Poi a poco a poco tutti erano tornati nei ranghi, e dopo che un attento esame aveva rivelato come la creatura fosse in effetti morta, era stato ristabilito l'ordine. I più coraggiosi si spinsero fino a toccare con curiosità il cadavere.

«Spero perdonerete il nostro amico» disse ZZ Tre, umilmente. «A volte è un po' maldestro. Non abbiamo la benché minima intenzione di fare del male agli esseri viventi di questo pianeta.»

«Mi ha attaccato» spiegò Uno. «Ha cercato di mordermi senza che io gli avessi fatto niente. Guardate!» Tirò fuori una zanna lunga mezzo metro che era stata evidentemente spezzata, perché da un lato era tutta frastagliata. «Se l'è rotta tentando di mordermi una spalla e mi ha quasi lasciato il segno. Io ho reagito dandogli giusto due schiaffoni per allontanarlo e... e lui è morto. Mi dispiace.»

Finalmente il gioviano rispose e il suo messaggio in codice fu pronunciato in mezzo a balbettii. «È una creatura selvaggia che di rado si trova così vicina a riva, ma il lago in questo punto è profondo.»

Tre disse, ancora preoccupato: «Se la sua carne è commestibile, saremmo lietissimi di lasciarvelo per...».

«No. Sappiamo procurarci il cibo da soli, senza l'aiuto di pidocc... senza l'aiuto di altri. Mangiatevelo voi.»

A quel punto ZZ Uno sollevò il mostro e lo rigettò nel lago con una mano sola e senza sforzi. Tre disse, con aria indifferente: «Grazie per la vostra gentile offerta, ma non ci serve alcun cibo. Noi naturalmente non mangiamo».

Scortati da circa duecento gioviani in assetto di guerra, i robot entrarono nella città sotterranea scendendo una serie di rampe. Se in superficie la città era sembrata piccola e insignificante, sottoterra appariva invece come una vasta megalopoli.

I robot furono fatti entrare in macchine di terra azionate tramite controllo a distanza (perché un gioviano che tenesse al suo onore e alla sua dignità avrebbe sentito come un insulto alla propria natura superiore sedersi vicino a un essere pidocchioso) e condotti a velocità straordinaria fino al centro della città. Videro abbastanza da capire che si estendeva per un'ottantina di chilometri da un capo all'altro, e che scendeva sotto la superficie di Giove per più di dieci chilometri.

«Se questo è un esempio di sviluppo gioviano, temo che il rapporto che faremo ai padroni umani non li lascerà particolarmente soddisfatti» disse Due, tutt'altro che allegro. «Dopotutto, siamo atterrati a caso su questo pianeta immenso e avevamo mille probabilità contro una di capitare proprio vicino a un centro popoloso. E pensate che, come ha detto l'esperto di codice radio, si tratta solo di una cittadina.»

«Dieci milioni di gioviani» disse Tre, distratto. «La popolazione totale sarà di trilioni e trilioni di individui, il che è molto, moltissimo perfino per Giove. Probabilmente hanno una civiltà completamente urbana, il che significa che dal punto di vista scientifico devono essere assai progrediti. Se hanno dei campi di forza...»

Tre non aveva il collo; allo scopo di renderli più forti, i costruttori umani avevano progettato gli ZZ in modo che la testa si attaccasse direttamente al torso e il delicato cervello positronico fosse protetto da tre distinti strati di una lega di iridio spessa più di due centimetri. Ma se l'avesse avuto, a quel punto avrebbe scosso la testa tristemente.

Si erano fermati in uno spazio aperto da cui si diramavano numerosi viali pieni di costruzioni. Strade e palazzi erano gremiti di gioviani che, come sarebbe accaduto ai terrestri in circostanze analoghe, apparivano assai incuriositi.

L'esperto di codice radio si avvicinò ai tre robot. «È venuto per noi il momento di ritirarci fino al prossimo periodo di attività» disse. «Siamo stati così generosi da prepararvi un alloggio, il che naturalmente è molto seccante per noi, visto che la struttura dopo dovrà essere abbattuta e ricostruita. Nonostante gli inconvenienti che questo comporta, abbiamo comunque deciso di lasciarvi dormire per un po'.»

ZZ Tre agitò una mano in segno di disapprovazione e trasmise il messaggio di risposta. «Vi ringraziamo molto, ma non occorre che vi disturbiate. Ci va benissimo di restare qui dove siamo. Se voi volete riposarvi e dormire, fatelo pure, vi prego. Noi vi aspetteremo. Sapete» e qui assunse un tono particolarmente noncurante, «noi non dormiamo.»

Il gioviano non disse niente ma, se avesse avuto una faccia, a quel punto la sua espressione sarebbe stata probabilmente interessante. Se ne andò e i robot rimasero in macchina, sorvegliati da drappelli di gioviani armati fino ai denti che si alternavano nei turni di guardia.

Solo parecchie ore dopo la fitta schiera delle sentinelle si divise per lasciar passare l'esperto di codice radio. Lo accompagnavano altri gioviani, che presentò ai robot.

«Sono venuti con me due funzionari del governo centrale che hanno acconsentito molto gentilmente a parlare con voi» disse.

Uno dei funzionari conosceva evidentemente il codice, perché il "clic" del suo messaggio interruppe bruscamente quello dell'esperto. «Brutti pidocchiosi!» disse, rivolto ai robot. «Uscite da quella macchina e lasciate che vi guardiamo in faccia!»

I robot non desideravano altro che di accontentarlo, così Due e Tre saltarono giù dal fianco destro dell'auto, mentre Uno piombò giù dal sinistro. La parola "piombò" è usata appropriatamente, in quanto Uno, dimenticatosi di azionare il meccanismo che apriva la portiera, scardinò l'intera fiancata, portandosi dietro oltre a quella anche due ruote e un assale. La macchina andò in pezzi e ZZ Uno rimase a fissare i rottami in silenzio, imbarazzato.

Alla fine trasmise un messaggio in tono mortificato. «Scusate» disse. «Scusate tanto. Spero non fosse una macchina costosa.»

ZZ Due aggiunse, contrito: «Il nostro compagno è spesso maldestro. Vi prego di perdonarlo». ZZ Tre tentò con poca convinzione di rimettere di nuovo insieme i pezzi dell'auto.

ZZ Uno cercò ancora una volta di giustificarsi. «Era piuttosto fragile, vedete?» Sollevò con entrambe le mani un pezzo di lamiera largo un metro per un metro, spesso sette od otto centimetri e di un materiale plastico duro come il metallo. Esercitò una certa pressione su di esso e subito lo ruppe in due. «Avrei dovuto tener conto della sua fragilità» ammise.

Il funzionario del governo gioviano disse, con un tono un po' meno brusco di quello assunto in precedenza: «La macchina avrebbe dovuto essere distrutta comunque, dato che era stata contaminata dalla vostra presenza». Fece una pausa, poi aggiunse: «Alieni! Noi gioviani non siamo certo così rozzi da provare interesse per gli animali inferiori, ma i nostri scienziati amano indagare sui fatti concreti».

«Siamo d'accordissimo con voi» disse allegramente Tre. «Anche i nostri procedono nello stesso modo.»

Il gioviano fece finta di non averlo sentito. «A quanto sembra» disse, «vi mancano gli organi sensibili alla massa. Come fate a percepire gli oggetti distanti?»

Tre provò subito interesse per quel tipo di discorso. «Intendete dire che la vostra gente è direttamente sensibile alla massa?»

«Non sono qui per rispondere alle vostre domande... alle vostre insolenti domande su di noi.»

«Immagino allora che gli oggetti di bassa massa specifica vi appaiano trasparenti anche in assenza di radiazioni.» ZZ Tre si rivolse a ZZ Due. «Ecco come vedono. L'atmosfera del pianeta è trasparente come lo spazio, per loro.»

Il gioviano riprese a trasmettere. «Rispondete immediatamente alla domanda che vi ho rivolto, o perderò la pazienza e ordinerò che veniate eliminati.»

«Noi siamo sensibili all'energia, gioviano» disse pronto Tre. «Siamo in grado di adattarci senza problemi all'intera scala elettromagnetica. Al momento attuale la vista che ci consente di percepire oggetti lontani è dovuta a radioonde che emettiamo noi stessi, mentre a distanza ravvicinata riusciamo a vedere grazie a...» Fece una pausa e disse a Due: «C'è mica una parola in codice per definire i raggi gamma?».

«No, ch'io sappia» rispose Due.

«A distanza ravvicinata» continuò Tre, rivolto al gioviano, «riusciamo a vedere attraverso un altro tipo di radiazione per definire la quale non esistono parole in codice.»

«Di che cosa è fatto il vostro corpo?» domandò il gioviano.

«Probabilmente chiede questo» sussurrò Due, «perché la sua sensibilità alla massa non gli permette di penetrare oltre la nostra pelle. Colpa dell'alta densità, capisci. Dobbiamo dirglielo?»

«I nostri padroni umani non ci hanno raccomandato di mantenere alcun tipo di segreto» rispose Tre, incerto. In codice disse al gioviano: «Siamo composti per lo più di iridio, e poi di rame, stagno, una minima percentuale di berillio e una piccola quantità di altre sostanze».

I gioviani si ritirarono un attimo, e dallo strano modo di agitarsi dei loro corpi e delle loro indescrivibili membra si poteva arguire che erano intenti a un'animata conversazione, anche se non emettevano alcun suono.

Dopo un po' il funzionario del governo gioviano tornò. «Creature di Ganimede!» disse. «Abbiamo deciso di accompagnarvi a vedere alcune delle nostre fabbriche, in modo che abbiate direttamente davanti agli occhi un piccolo saggio delle nostre enormi capacità. Poi vi consentiremo di tornare sul vostro mondo, così che possiate gettare nella disperazione gli altri parassi... gli altri esseri che vivono al di fuori di Giove.»

«Visto come funziona la loro psicologia?» disse Tre a Due. «Continuano a battere il chiodo della loro superiorità. È sempre il problema del salvare la faccia.» In codice disse al gioviano: «Vi ringraziamo per l'opportunità che ci date».

Ma la faccia i gioviani in certo modo la salvarono sul serio, come constatarono ben presto i robot. Il giro delle fabbriche diventò un giro molto più lungo, una sorta di Grande Esibizione. I gioviani mostrarono tutto, spiegarono tutto, risposero prontamente a ogni domanda, e ZZ Uno prese centinaia di sconfortanti appunti.

Il potenziale bellico della cosiddetta "cittadina insignificante" superava di parecchie volte quello di tutto quanto Ganimede. Altre dieci "cittadine" così erano in grado di produrre più armi dell'intero Impero Terrestre. E tuttavia altre dieci città come quella non rappresentavano che una minima percentuale del potenziale bellico complessivo di Giove.

«Cosa c'è?» disse ZZ Tre a ZZ Uno, che lo stava toccando col gomito per richiamare la sua attenzione.

ZZ Uno disse, serio: «Se i gioviani hanno i campi di forza, i padroni umani sono perduti, vero?».

«Temo di sì. Perché me lo chiedi?»

«Perché non ci hanno mostrato l'ala destra della fabbrica che stiamo visitando. Forse è lì che mettono a punto i campi di forza. Se così fosse, sarebbe logico che cercassero di mantenere il segreto. Sarà meglio che scopriamo come stanno le cose. È questo il nostro compito principale, lo sai.»

Tre guardò Uno con aria cupa. «Forse hai ragione. Non bisogna trascurare niente.»

Si trovavano adesso in un'enorme acciaieria e osservavano travi lunghe una trentina di metri, di una lega di acciaio-silicio resistente all'ammoniaca, che venivano fabbricate al ritmo di venti al secondo. Tre chiese, tranquillo: «Cosa c'è in quell'ala?».

Il funzionario del governo chiese informazioni ai responsabili della fabbrica e poi spiegò: «Lì si producono altissime temperature che gli esseri viventi non sono in grado di sopportare e che sono necessarie in varie fasi di lavorazione, fasi in cui occorre seguire procedimenti indiretti».

Li accompagnò in un reparto da cui si sentiva irradiarsi il calore e indicò una piccola area circolare di materiale trasparente. Si trattava del primo di una serie di oblò attraverso i quali si riusciva a distinguere la luce rossa e nebbiosa proveniente da varie fornaci che brillavano nell'atmosfera densa.

ZZ Uno fissò con sospettò il gioviano e gli trasmise un messaggio. «Vi spiace se entro a dare un'occhiata? Sono molto interessato a questo tipo di cose.»

«Ti comporti in modo puerile, Uno» disse Tre. «Dicono la verità. E va be', se proprio vuoi va' pure a ficcare il naso, ma non perdere troppo tempo, dobbiamo proseguire.»

Il gioviano disse: «Non avete idea della temperatura che c'è là dentro. Morirete».

«Oh, no» lo rassicurò Uno, tranquillo. «Il calore non ci fa niente.»

I gioviani si consultarono fra loro, poi cominciarono a correre di qua e di là come matti, perché l'insolita emergenza richiedeva una serie di interventi. Furono installati diversi schermi di materiale termo-assorbente, e infine venne aperta una porta che prima d'allora non era mai stata neanche socchiusa, almeno finché le fornaci erano in funzione. ZZ Uno entrò e la porta si richiuse alle sue spalle. I funzionari gioviani si radunarono intorno agli oblò, a guardare.

ZZ Uno andò alla fornace più vicina e batté la mano sulla parete esterna. Poiché era troppo piccolo per riuscire a vedere bene dentro, inclinò la fornace finché il metallo fuso arrivò fin sull'orlo del contenitore. Uno guardò incuriosito il liquido, poi vi immerse una mano e rimestò un po' per verificarne la consistenza. Ritrasse quindi la mano, la scosse per liberarla dalle goccioline di metallo incandescenti e finì di pulirsi su una delle sue sei cosce. Passò lentamente accanto a tutte le fornaci, quindi comunicò che desiderava uscire.

I giovani si ritirarono a grande distanza quando lui emerse dal reparto, e lo inondarono con un fiotto di ammoniaca che sibilò, ribollì e fumò finché il corpo del robot non fu tornato a una temperatura tollerabile.

ZZ Uno non badò alla pioggia di ammoniaca e osservò: «Dicevano la verità. Non ci sono campi di forza».

«Vedi...» iniziò Tre, ma Uno lo interruppe spazientito. «Non ha proprio senso tergiversare» disse. «I padroni umani ci hanno ordinato di scoprire tutto quello che potevamo scoprire, e noi è giusto che obbediamo.»

Si rivolse verso il gioviano e senza la minima esitazione spedì un messaggio in codice. «Sentite, la scienza gioviana ha messo a punto i campi di forza?»

Una certa rozzezza e ottusità erano la conseguenza naturale del fatto che il cervello di Uno era meno perfezionato di quello degli altri. Due e Tre erano consapevoli del difetto del loro compagno, per cui si trattennero dal rimproverarlo per il suo comportamento.

Il funzionario gioviano, che fino allora era rimasto stranamente rigido a fissare con espressione stupita la mano che Uno aveva immerso nel metallo fuso, si sciolse un po' e disse, lentamente: «Campi di forza? È dunque soprattutto ad essi che siete interessati?».

«Sì» rispose Uno, convinto.

I gioviani sembrarono di colpo riacquistare fiducia, perché il "clic" del congegno di comunicazione si fece più forte. «Allora venite, parassiti!» esclamò l'esperto.

«Hai visto?» disse Tre a Due. «Ci chiamano di nuovo parassiti. Probabilmente quindi ci aspettano brutte notizie.» Due annuì, tetro.

Furono condotti dai gioviani fino all'estremo limite della città, in quella zona che sulla Terra si sarebbe definita periferia. Lì entrarono in una struttura che faceva parte di un complesso vagamente simile a quello di un'università terrestre.

Ma non furono date spiegazioni e nessuno le chiese. Il funzionario gioviano avanzava con passo veloce; i robot lo seguivano con la cupa convinzione che stesse per succedere il peggio.

Fu ZZ Uno a fermarsi davanti a una camera aperta, dopo che gli altri erano passati oltre. «Questa cos'è?» chiese.

Nella stanza erano visibili alcuni banchi bassi e stretti, sui quali c'erano file di strani congegni, soprattutto forti elettromagneti lunghi due o tre centimetri, intorno a cui armeggiavano alcuni gioviani.

«Questa cos'è?» chiese di nuovo Uno.

Il gioviano che li guidava si voltò indietro con aria spazientita. «È un laboratorio di biologia per gli studenti. Non c'è niente che possa interessarvi.»

«Ma che cosa stanno facendo?»

«Studiano la vita microscopica. Non avevate mai visto un microscopio?»

Tre intervenne nella conversazione per spiegare il comportamento di Uno. «Sì che ne ha visti, ma non di questo tipo. I nostri microscopi sono destinati allo studio di organi sensibili all'energia e funzionano attraverso la rifrazione dell'energia raggiante. I vostri microscopi evidentemente funzionano attraverso l'espansione della massa. Piuttosto ingegnoso, devo dire.»

«Vi spiace se esamino qualcuno dei vostri campioni?» domandò Uno.

«A che vi servirebbe? Non potete usare i nostri microscopi causa i limiti che vi impone il vostro sistema sensoriale e a noi toccherebbe disfarci dei campioni contaminati, se vi avvicinaste senza alcun valido motivo.»

«Ma non ho bisogno del microscopio» spiegò Uno, sorpreso. «Posso benissimo regolare la vista per analizzare l'infinitamente piccolo.»

Si diresse deciso al banco più vicino, mentre gli studenti gioviani si radunavano in un angolo sperando di evitare la contaminazione. ZZ Uno spinse da parte un microscopio ed esaminò attentamente il vetrino. Indietreggiò, perplesso, poi esaminò un secondo vetrino, quindi un terzo e un quarto.

Tornò indietro e si rivolse al gioviano esperto di codice radio. «Quei campioni dovrebbero essere vivi, no? Voglio dire quei cosi che sembrano vermiciattoli...»

«Certo che sono vivi» disse il gioviano.

«È strano... Quando li guardo, muoiono!»

Tre ruppe in un'esclamazione di disappunto e disse ai suoi due compagni: «Ci siamo dimenticati dei nostri raggi gamma. Usciamo di qui, Uno, o finiremo per uccidere tutte le forme di vita microscopiche della stanza».

Rivolto al gioviano disse: «Temo che la nostra presenza sia fatale agli organismi viventi più deboli. Sarà meglio che ce ne andiamo. Spero che non vi sia troppo difficoltoso rimpiazzare i campioni morti con altri. Ah, visto che siamo in argomento, forse è meglio che non ci stiate troppo vicino, perché le nostre radiazioni potrebbero avere effetti nocivi su di voi. Finora però vi sentite bene, vero?».

Il gioviano proseguì il cammino chiuso in un orgoglioso silenzio, ma da quel momento in poi raddoppiò la distanza tra sé e i robot.

Nessuno disse più niente finché i robot si ritrovarono in una grande sala, al centro della quale enormi lingotti di metallo erano sospesi a mezz'aria senza nessun sostegno, o meglio, senza nessun sostegno visibile.

«Ecco il campo di forza nella sua forma più evoluta e perfezionata. All'interno di quella bolla c'è il vuoto, per cui essa può sopportare l'intero peso della nostra atmosfera, più una quantità di metallo pari a quella impiegata per costruire due grandi astronavi. Che ne dite?»

«Che i viaggi spaziali ora diventano una realtà, per voi» disse Tre.

«Indubbiamente. Nessun oggetto di metallo o di plastica avrebbe la capacità di resistere alla forte gravità del nostro pianeta, ma un campo di forza sì. E le nostre astronavi saranno appunto bolle costituite da campi di forza. Entro l'anno ne produrremo a centinaia di migliaia. Poi invaderemo Ganimede e distruggeremo le pidocchiose forme di vita intelligenti, se intelligenti si possono dire, che vorrebbero contestarci il diritto di dominare l'universo.»

«Gli esseri umani di Ganimede non hanno mai tentato...» iniziò Tre, azzardando una moderata protesta.

«Silenzio!» ringhiò il gioviano. «Ora tornate al vostro pianeta e raccontate ciò che avete visto. I vostri deboli campi di forza, come quello di cui è dotato la vostra nave, non possono reggere il confronto con i nostri, perché la nostra astronave più piccola sarà cento volte più grande e cento volte più potente di quelle che avete voi.»

«Allora non c'è altro da fare. Torneremo, come suggerite voi, per riferire ciò che abbiamo visto» disse Tre. «Se ci potete riaccompagnare alla nave, partiremo al più presto. Ma a proposito, giusto per la cronaca, credo che non abbiate capito bene una cosa. Gli esseri umani di Ganimede hanno i campi di forza, naturalmente, ma la nostra nave ne è completamente sprovvista. Non abbiamo alcun bisogno di essi.»

Il robot voltò le spalle e fece cenno ai suoi compagni di seguirlo. Per un po' i tre rimasero in silenzio, poi ZZ Uno sussurrò, demoralizzato: «Ma non potremmo distruggerlo, questo posto?».

«Non servirebbe a niente» disse Tre. «Vincerebbero comunque loro, perché sono troppo numerosi. Non servirebbe. Nell'arco di un decennio terrestre dei padroni umani non resterebbe traccia. È impossibile farcela, contro Giove, è un pianeta troppo grande. Finché i gioviani erano costretti a restare sulla superficie del pianeta, gli umani erano al sicuro. Ma adesso che hanno i campi di forza... Niente, non ci resta altro che portare la brutta notizia. Forse, costruendo nascondigli adeguati, qualche umano potrebbe riuscire a sopravvivere, almeno per un certo tempo.»

Ormai si erano lasciati la città alle spalle. Erano in aperta pianura, vicino al lago, con la loro nave che appariva come un puntolino scuro all'orizzonte, quando il gioviano all'improvviso disse: «Esseri di Ganimede, avete detto che la vostra nave non ha un campo di forza?».

«Non ne ha bisogno» rispose Tre, distratto.

«Come fa allora a sopportare il vuoto dello spazio senza che la pressione atmosferica all'interno la faccia esplodere?» E mosse un tentacolo come a indicare l'atmosfera di Giove, che gravava su di loro con una forza di nove milioni di chili per pollice quadrato.

«Be'» spiegò Tre, «è semplice. Non è a tenuta d'aria. Così la pressione all'interno e quella all'esterno si equivalgono.»

«Anche nello spazio? Ci sarebbe dunque il vuoto sulla vostra nave? Non è vero, mentite!»

«Perché non la ispezionate? Non ha campi di forza e non è ermetica. Che cosa c'è di tanto straordinario? Noi non respiriamo. L'energia la ricaviamo direttamente dagli atomi. Che ci sia o no la pressione dell'aria non ci tocca minimamente, e ci troviamo perfettamente a nostro agio nel vuoto.»

«Ma... e lo zero assoluto?»

«Non importa. Regoliamo il calore del nostro corpo in modo autonomo. Le temperature esterne non ci interessano.» Fece una pausa. «Bene, adesso possiamo tornare alla nave. Addio. Porteremo agli umani di Ganimede il vostro messaggio: guerra senza quartiere!»

Ma il gioviano disse: «Un attimo che torno subito». Girò le spalle e si diresse verso la città.

I robot lo guardarono allontanarsi, poi attesero in silenzio.

Quando tornò, dopo tre ore, il gioviano era trafelato. Si fermò come sempre a circa tre metri dai robot, poi cominciò ad avanzare piano piano in modo curioso, come se si stesse prosternando. Rimase zitto finché la sua pelle grigia e gommosa non arrivò quasi a toccare i loro corpi, quindi mise in funzione il codice radio.

La sua voce suonò particolarmente pacata e rispettosa. «Onorevoli signori, mi sono messo in contatto con il capo del nostro governo centrale, che è ora al corrente di tutti i fatti, e posso assicurarvi che Giove desidera soltanto la pace.»

«Come dite?» fece Tre, senza capire.

Il gioviano proseguì veloce il suo discorso. «Siamo pronti a riprendere le comunicazioni con Ganimede e ci impegniamo volentieri a non avventurarci affatto nello spazio. Il nostro campo di forza verrà usato soltanto sulla superficie di Giove.»

«Ma...» cominciò Tre.

«Il nostro governo sarà felice di ricevere qualsiasi altro rappresentante i nostri onorevoli fratelli umani di Ganimede vorranno inviarci. Se adesso voi, onorevoli ambasciatori, vi degnerete di stipulare con noi un accordo di pace...» Il gioviano allungò verso i robot un tentacolo squamoso e Tre, stupefatto, lo strinse. Due e Uno fecero lo stesso quando altri due tentacoli si protesero verso di loro.

«Allora, che ci sia pace in eterno tra Giove e Ganimede» disse il gioviano.

 

L'astronave che pareva un setaccio era di nuovo nello spazio. La pressione e la temperatura erano ancora una volta sullo zero, e i robot guardavano l'enorme sfera di Giove rimpicciolirsi sempre più con la distanza.

«Sono sinceri, su questo non v'è dubbio» osservò ZZ Due. «Ed è una gran fortuna, questo completo voltafaccia. Però non me lo spiego.»

«Secondo me» disse ZZ Uno, «i gioviani all'ultimo momento sono rinsaviti e hanno capito che è semplicemente orribile pensare di fare del male ai padroni umani. È naturale che si siano ravveduti.»

«No vedi, è solo questione di psicologia» disse ZZ Tre, con un sospiro. «Quei gioviani avevano un complesso di superiorità spesso un miglio, e quando hanno visto che non riuscivano a distruggerci, hanno sentito il bisogno di salvare la faccia. Tutto quel mostrarci le loro cose, tutte le loro spiegazioni erano solo il mezzo attraverso il quale si esprimeva la loro millanteria. Volevano impressionarci e umiliarci, farci capire chiaramente quanto si ritenessero superiori.»

«Sì, questo è vero» interruppe Due, «però...»

«Ma non ha funzionato» continuò Tre, «perché è venuto fuori che eravamo noi i più forti; noi che non annegavamo, che non mangiavamo né dormivamo, che potevamo tranquillamente immergere una mano nel metallo fuso senza farci male. La nostra stessa presenza si è rivelata fatale per certe forme di vita gioviane. La loro ultima carta era il campo di forza. E quando hanno scoperto che noi non avevamo affatto bisogno di campi di forza, che potevamo vivere nel vuoto allo zero assoluto, hanno ceduto.» Fece una pausa, poi aggiunse una riflessione filosofica. «Quando un complesso di superiorità come quello s'incrina, l'incrinatura fa presto a diventare uno squarcio.»

Gli altri due meditarono sulle sue parole. «Però» disse ZZ Due dopo un po', «la faccenda continua a non essere chiara. Cosa importa a loro di quello che noi sappiamo o non sappiamo fare? Siamo soltanto dei robot. Non saremmo stati noi i loro diretti avversari.»

«È proprio quello il punto, Due» disse Tre, pacato. «È stato solo dopo che siamo partiti che ho capito cos'era successo. Sapete che per una dimenticanza del tutto involontaria abbiamo tralasciato di dire loro che eravamo solo dei robot?»

«Non ce l'hanno mai chiesto» disse Uno.

«Infatti. Così hanno pensato che fossimo esseri umani e che tutti gli altri esseri umani fossero come noi.»

Guardò ancora una volta Giove, con aria pensierosa. «Non mi stupisco che abbiano deciso di lasciar perdere...»