Parte Prima: L'AVVENTO DEI ROBOT
Il robot scomparso
Titolo originale: Robot Al-76 Goes Astray (1941)
Stringendo preoccupato gli occhi dietro gli occhiali non cerchiati, Jonathan Quell aprì precipitosamente la porta su cui era affissa la targhetta Direttore generale. Sbatté sul tavolo il foglio di carta ripiegato che teneva in mano e disse, ansimando: «Leggete qui, capo!».
Sam Tobe spostò il sigaro da un angolo all'altro della bocca e lesse. Si passò una mano sulla mascella non rasata, grattandosi la barba appena spuntata. «Perdio!» sbottò. «Cosa cavolo dicono?»
«Dicono che abbiamo inviato cinque robot Al» spiegò Quell, anche se non ce n'era nessun bisogno.
«Ne abbiamo spediti sei» disse Tobe.
«Già, sei. Ma loro ne hanno ricevuti solo cinque. Ci hanno mandato i numeri di serie e risulta che manca Al-76.»
Rovesciando la sedia Tobe si alzò di scatto con tutta la pesante massa del suo corpo e corse fuori dell'ufficio come se ai piedi avesse ruote ben oliate. Cinque ore dopo che la fabbrica era stata setacciata dalle sale di montaggio fino alle camere a vuoto, cinque ore dopo che ciascuno dei duecento dipendenti era stato sottoposto a un terzo grado, un Sam Tobe sudato e scarmigliato spedì un messaggio di emergenza agli impianti centrali di Schenectady.
E a Schenectady l'impressione che fece quel messaggio rasentò il panico. Per la prima volta nella storia della United States Robots and Mechanical Men Corporation, un robot era fuggito all'esterno. Il guaio non stava tanto nel fatto che la legge proibisse a qualsiasi robot di uscire dai confini delle fabbriche della compagnia - le leggi possono sempre essere aggirate - quanto nel fatto che uno dei matematici ricercatori aveva dichiarato, asciugandosi il sudore dalla fronte col dorso della mano: «Quel robot è stato creato per installare un Disinto sulla Luna. Il suo cervello positronico è progettato per l'ambiente lunare, unicamente per l'ambiente lunare. Sulla Terra è destinato a captare settantacinque fantastilioni di impressioni sensorie che non è assolutamente preparato ad accogliere. Non c'è modo di sapere quali potranno essere le sue reazioni. Davvero non c'è proprio modo di saperlo!».
Di lì a un'ora uno stratoplano partì per la fabbrica della Virginia. Le istruzioni erano semplici.
«Trovate quel robot, e trovatelo in fretta!»
Al-76 era confuso, anzi la confusione era l'unico dato che il suo delicato cervello positronico registrasse da quando il robot si trovava in quello strano ambiente. Che cosa fosse successo non sapeva dirselo: era un vero rebus.
Il suolo era verde e intorno si ergevano fusti scuri sormontati da altro verde. E il cielo era azzurro, mentre sarebbe dovuto essere nero. Il sole non aveva niente che non quadrasse, era tondo, giallo e infocato, ma dov'erano la polvere di pietra pomice sotto i piedi e gli enormi crateri che si aprivano in cima a pareti scoscese?
C'erano solo il verde sotto e l'azzurro sopra. I suoni, intorno ad Al-76, sembravano tutti strani. Il robot aveva guadato un corso d'acqua che gli arrivava alla vita e l'aveva trovato freddo, chiaro, irrequieto. E quando, ogni tanto, era passato davanti ad alcune persone, queste non indossavano la tuta spaziale che avrebbero dovuto avere, e alla sua vista si erano messe a urlare ed erano corse via.
Un uomo gli aveva puntato contro la pistola, prima di darsi alla fuga come gli altri, e una pallottola aveva fischiato sopra la testa di Al-76.
Al-76 vagò per un tempo indefinito prima di imbattersi nella capanna di Randolph Payne, sperduta nei boschi a due miglia dalla città di Hannaford. Accovacciato fuori della porta c'era lui, Randolph Payne, con un cacciavite in mano, la pipa nell'altra e un aspirapolvere scassato tra le ginocchia.
Payne in quel momento stava canticchiando perché per natura era un'anima semplice e serena, soprattutto quando si trovava nella sua capanna. A Hannaford possedeva un'abitazione più decorosa, ma era un'abitazione in gran parte occupata da sua moglie, un fatto, questo, che lui deplorava in silenzio ma di tutto cuore. Era dunque con un certo senso di sollievo e di libertà che si ritirava a volte nella sua baracca speciale "tipo lusso", dove poteva fumare in pace e dedicarsi all'hobby di riparare elettrodomestici e cose affini.
Non era un granché come hobby, ma a volte qualcuno gli portava una radio, o una sveglia, e il denaro che lui si guadagnava armeggiando dentro quegli oggetti era l'unico che non passasse fino all'ultimo centesimo per le mani tirchie della sua consorte.
Quell'aspirapolvere, ad esempio, gli avrebbe fatto intascare in men che non si dica tre quarti di dollaro.
A quel pensiero Payne si lasciò andare ad un canto a voce spiegata, alzò gli occhi, e di colpo fu invaso dai sudori freddi. Il canto gli morì in gola, gli occhi si strabuzzarono, e il sudore diventò più copioso. Cercò di tirarsi in piedi come indispensabile premessa a una corsa furibonda, ma non riuscì a ottenere collaborazione dalle gambe.
Fu allora che Al-76 si accovacciò accanto a lui e disse: «Ehi, ma perché tutti gli altri scappano?».
Payne sapeva benissimo perché scappavano, ma dal gorgoglio che gli uscì dal diaframma non lo si sarebbe detto. Tentò di allontanarsi un pochino dal robot.
Al-76 continuò, con tono risentito: «Uno di loro mi ha addirittura sparato. Se il proiettile fosse volato solo di qualche centimetro più basso, mi avrebbe graffiato il metallo della spalla».
«S-sarà s-stato matto» balbettò Payne.
«Può darsi.» Il tono del robot si fece più confidenziale. «Sentite, come mai non c'è niente che vada per il verso giusto, qui intorno?»
Payne diede una rapida occhiata in giro. Gli era parso positivo il fatto che il robot, pur essendo un gigante di metallo dall'aria bruta, parlasse in tono così dolce. Gli venne in mente anche di avere udito da qualche parte che i robot erano mentalmente incapaci di far del male agli esseri umani, e si distese un po'.
«Non c'è niente che non vada per il verso giusto.»
«Ah davvero?» fece Al-76, con sguardo accusatore. «E voi, allora? Dov'è la vostra tuta spaziale?»
«Non ce l'ho mica.»
«Be', e come mai non siete morto?»
Payne ebbe un attimo d'incertezza. «Veramente... non lo so.»
«Vedete?» fece il robot, trionfante. «Le cose non quadrano. Dov'è il Monte Copernico? Dov'è la Base Lunare 17? E dov'è il mio Disinto? Voglio mettermi al lavoro, io.» Sembrava turbato e quando continuò il discorso la sua voce tremava. «Sono ore che giro di qua e di là cercando di farmi dire da qualcuno dove sia il mio Disinto, ma la gente si limita a scappare. Ormai sarò probabilmente indietro col piano di lavoro, e il direttore di sezione farà fuoco e fiamme. È una situazione delicata, questa.»
A poco a poco Payne dipanò la matassa imbrogliata delle sue idee e disse: «Senti, che nome ti hanno dato?».
«Il mio numero di serie è Al-76.»
«Va bene, Al mi basta. Allora, Al, tu cerchi la Base Lunare 17, ma quella base è sulla Luna, sai?»
Al-76 annuì gravemente. «Certo. Però l'ho cercata e non....»
«Se ti dico che è sulla Luna! Questa non è la Luna.»
Questa volta fu il robot a restare perplesso. Guardò Payne con aria meditabonda, poi disse, lentamente: «Come sarebbe a dire che non è la Luna? È la Luna sì. Perché se non è la Luna che cos'è, eh? Rispondete un po' a questo!».
Payne emise uno strano suono strozzato e ansimò. Puntò l'indice contro il robot e agitandolo disse: «Senti...». Poi però gli venne un'idea brillantissima, e biascicò un "Wow!" soffocato.
Al-76 lo squadrò con occhio critico. «Non è mica una risposta. Se faccio una domanda civile credo di aver diritto a una risposta civile.»
Payne non lo ascoltava; era ancora stupito di se stesso. Ma certo, si disse, era chiaro come il giorno. Quello era un robot costruito per la Luna e perdutosi per qualche motivo sulla Terra. Era logico che fosse confuso e che considerasse l'ambiente terrestre del tutto assurdo, visto che il suo cervello positronico era stato messo a punto tenendo conto esclusivamente delle condizioni esistenti sulla Luna.
E adesso, se solo fosse riuscito a tenere il robot lì fino al momento in cui si fosse potuto mettere in contatto con gli uomini della fabbrica di Petersboro... Eh sì, i robot valevano un mucchio di soldi. Aveva sentito dire che i più a buon mercato costavano cinquantamila dollari e che alcuni arrivavano a costare qualche milione. Chissà che ricompensa gli avrebbero dato!
Oh sì, chissà che ricompensa! E sarebbe stata tutta sua, fino all'ultimo centesimo. Neanche un quarto dell'ombra di un nichelino bucato sarebbe andato a Mirandy. Neanche un quarto, corpo di mille diavoli fiammeggianti!
Finalmente si alzò in piedi. «Al» disse, «tu ed io siamo amici. Amiconi! Ti voglio bene come a un fratello.» Tese la destra. «Qua la mano!»
Il robot catturò nella sua zampa metallica la mano che gli veniva offerta e la strinse piano. Non capiva proprio. «Cosa significa questo, che mi direte come arrivare alla Base Lunare 17?»
Payne era leggermente imbarazzato. «No-no, non esattamente. Il fatto è che mi piaci tanto che vorrei che tu stessi qui con me per un po'.»
«Oh no, non posso. Devo cominciare a lavorare.» Scosse la testa. «A voi piacerebbe forse restare indietro col lavoro ora dopo ora, minuto dopo minuto? Voglio mettermi all'opera. Devo mettermi all'opera.»
Payne pensò con una punta di stizza che tutti i gusti eran gusti e disse: «Va bene, allora, siccome vedo dalla tua faccia che sei una persona intelligente, ti spiegherò una cosa. Ho ricevuto ordini dal tuo direttore di sezione, il quale vuole che ti tenga qui per un po'. Anzi, che ti tenga qui finché non ti manderanno a prendere».
«A che scopo dovrei restare qui?» chiese Al-76 con sospetto.
«Non posso dirtelo. È roba segreta, del governo.» In cuor suo Payne pregò con fervore che il robot bevesse la balla. Sapeva che alcuni robot erano furbi, ma quello lì sembrava un modello antiquato.
Mentre Payne pregava, Al-76 fece le sue riflessioni. Il suo cervello, regolato per occuparsi del Disinto sulla Luna, non rendeva il massimo quando era impegnato nel pensiero astratto; tuttavia, da quando si era perso, il robot si era accorto che c'era stato uno strano cambiamento nei suoi processi intellettivi. L'ambiente sconosciuto aveva prodotto su di lui alcuni effetti.
L'osservazione che fece fu quasi acuta. Disse infatti, con malizia: «Come si chiama il mio direttore di sezione?».
Payne inghiottì a vuoto e pensò in fretta. «Al» disse, con aria afflitta, «questi tuoi sospetti mi feriscono. Non posso dirti come si chiama. Gli alberi hanno orecchie.»
Al-76 ispezionò impassibile l'albero vicino a sé e disse: «No, non le hanno».
«Lo so. Intendevo dire che in giro ci sono un sacco di spie.»
«Spie?»
«Sì. Sai, persone cattive che vogliono distruggere la Base Lunare 17.»
«E perché?»
«Perché sono cattive. E vogliono distruggere anche te. Ecco perché devi restare qui per un po'. Non devono trovarti.»
«Ma... ma io devo avere un Disinto. Non posso rimanere indietro col lavoro.»
«L'avrai, l'avrai» promise Payne, convinto, e con altrettanta convinzione maledì la monomania del robot. «Ne spediranno uno domani. Sì, domani.» Ci sarebbe stato tutto il tempo, pensò, di far venire quelli della fabbrica e di raccogliere così dei bei mucchietti verdi di banconote da cento dollari.
Ma l'influenza stressante di quello strano mondo sui suoi meccanismi intellettivi rese ancora più ostinato Al-76.
«No» disse il robot. «Devo avere un Disinto ora.» Drizzò rigidamente le giunture e scattò in posizione eretta. «Sarà meglio che continui a cercarlo.»
Payne gli si precipitò dietro e lo afferrò per un gomito duro e freddo. «Senti» piagnucolò, «devi restare...»
A quel punto successe qualcosa nella mente del robot. L'influenza dello strano ambiente circostante si condensò in un globulo, esplose, e lasciò un cervello che pulsava di un'efficienza notevolmente superiore. Al-76 si girò verso Payne. «Ve lo dico io cosa facciamo. Costruisco un Disinto qui, così posso mettermi subito al lavoro.»
Payne rimase un attimo in silenzio, dubbioso. «Io credo di non saperlo costruire proprio, un Disinto.» Si chiese se non gli fosse convenuto dire invece il contrario.
«Non è niente» lo consolò Al-76, cui pareva quasi di sentire i circuiti positronici del cervello disporsi in un nuovo assetto che gli dava un curioso senso di esaltazione. «Basta che lo sappia costruire io.» Diede un'occhiata dentro la baracca di Payne e disse: «Qui avete tutto il materiale di cui ho bisogno».
Randolph Payne osservò i rottami di cui era piena la capanna: radio sventrate, un frigorifero senza la parete superiore, motori arrugginiti di automobili, un fornello a gas rotto, grosse matasse di filo logoro, nel complesso circa cinquanta tonnellate della più eterogenea massa di ferrovecchio che abbia mai indotto rigattiere ad arricciare il naso sdegnato.
«Davvero?» disse, poco convinto.
Due ore dopo accaddero quasi simultaneamente due cose. La prima fu che Sam Tobe, della United States Robots and Mechanical Men Corporation, sede distaccata di Petersboro, ricevette una chiamata al videofono da un certo Randolph Payne di Hannaford, che gli parlò del robot scomparso. Con un ringhio gutturale Tobe interruppe a metà la conversazione e ordinò che tutte le chiamate successive venissero smistate al sesto vice-vicepresidente, che aveva l'incarico di sorbirsi i mitomani attaccabottoni.
Non era una decisione immotivata, da parte di Tobe. Nel corso della settimana, benché il robot Al-76 fosse definitivamente scomparso dalla circolazione, erano piovuti rapporti da tutti gli stati dell'Unione in merito alla presunta ubicazione del robot. Ne arrivavano fino a quattordici al giorno, di solito da quattordici stati diversi.
Tobe non ne poteva più della faccenda, senza contare che in generale, da quando Al-76 mancava, stava diventando mezzo matto. Si ventilava perfino l'ipotesi di un'indagine parlamentare, sebbene tutti i robotologi e i fisici matematici degni di stima esistenti sulla Terra assicurassero che il robot era innocuo.
Data la situazione, quindi, non fu strano se solo dopo tre ore il direttore generale cominciò a domandarsi come mai quel tale Randolph Payne sapesse che il robot era destinato alla Base Lunare 17, e anche che il suo numero di serie era Al-76. Quei particolari non erano stati resi noti dalla compagnia.
Tobe rifletté qualche minuto sulla cosa, poi scattò in azione.
Tuttavia, durante le tre ore intercorse fra la chiamata e l'entrata in azione di Tobe, aveva avuto luogo il secondo avvenimento. Randolph Payne, avendo concluso giustamente che il funzionario che gli aveva risposto doveva avere interrotto bruscamente la comunicazione perché scettico e incredulo, era tornato alla propria capanna con in mano una macchina fotografica. Davanti a una fotografia non avrebbero potuto opporre dei "ma", e lui col cavolo che gli avrebbe mostrato il robot vero, se prima non gli avessero riempito le tasche di grana.
Al-76 era tutto preso dal suo lavoro. Metà contenuto della capanna era sparpagliato su circa due acri di terreno, e il robot, accovacciato in mezzo ai rottami, armeggiava con valvole termoioniche, pezzi di ferro, fili di rame, robe varie. Non prestava alcuna attenzione a Payne, il quale, sdraiatosi a pancia in giù, mise a fuoco per scattare una bella fotografia.
Fu a questo punto che Lemuel Oliver Cooper, emergendo dalla curva, vide la scena e si fermò di botto. La ragione della sua venuta lì era un tostapane elettrico che aveva assunto la bizzarra e irritante abitudine di buttar fuori con forza pezzi di pane senza tostarli affatto. La ragione della sua partenza, adesso, fu più ovvia. Era arrivato camminando lemme lemme, con quel passo allegro e noncurante che si può avere in una mattina di primavera. Ripartì con uno scatto che avrebbe indotto qualsiasi allenatore di corsa campestre ad alzare le sopracciglia e increspare le labbra in segno di approvazione.
Cooper non rallentò finché non piombò, senza cappello e senza tostapane, nell'ufficio dello sceriffo Saunders, dove finalmente una parete lo fermò.
Mani premurose lo sollevarono e lui per mezzo minuto tentò di spiccicar parola, inutilmente, visto che non era riuscito ancora a calmarsi quel tanto da poter respirare.
Gli diedero del whisky, gli fecero vento con le mani, e quando Cooper riuscì a parlare, disse frasi sconnesse del genere: «... mostro ... alto due metri... capanna tutta sottosopra povero Rannie Payne...». E altri discorsi sconnessi.
A poco a poco gli altri gli fecero raccontare la storia per filo e per segno, e seppero come davanti alla capanna di Randolph Payne ci fosse un mostro di metallo alto due metri-due metri e mezzo, come Randolph Payne giacesse ventre a terra, "povero cadavere maciullato e sanguinante", come il mostro fosse intento a distruggere la capanna per il puro gusto di distruggere, come, infine, si fosse rivoltato contro Lemuel Oliver Cooper e questi fosse riuscito a cavarsela per il rotto della cuffia.
Lo sceriffo Saunders strinse più forte la cintura intorno alla pancia prominente e disse: «È quell'uomo meccanico che è scappato dalla fabbrica di Petersboro. Ci hanno avvertito sabato scorso. Ehi Jake, raccogli tutti gli uomini della contea di Hannaford che sanno sparare e schiaffa loro sul petto la stella di vicesceriffo. Falli venire qui per mezzogiorno. Ah senti, Jake, prima però fa' un salto a casa della vedova Payne e comunicale la notizia con più garbo che puoi».
Appresa la notizia Mirandy Payne, a quanto si dice, aspettò di accertarsi che la polizza sulla vita del marito fosse al sicuro e di darsi con convinzione della scema per non averlo indotto a firmarne una il doppio più remunerativa, prima di scoppiare negli alti ululati strazianti che si convenivano a una vedova rispettabile.
Alcune ore dopo Randolph Payne, ignaro della propria orribile fine, contemplava soddisfatto le negative della sua foto. Come ritratti di un robot al lavoro non lasciavano niente all'immaginazione. Li si sarebbe potuti intitolare: "Robot che fissa pensieroso una valvola termoionica", "Robot che collega due fili", "Robot che maneggia cacciavite", "Robot che smantella frigorifero con grande violenza", e così via.
Poiché ormai non restava che il banale lavoro di stampa, Payne uscì dalla sua camera oscura improvvisata con l'intenzione di farsi una fumatina e una chiacchierata con Al-76.
Uscì dunque, beatamente ignaro che i boschi intorno brulicavano di agricoltori nervosi muniti delle armi più disparate, dai vecchi archibugi di coloniale memoria fino alla mitragliatrice portatile che. aveva con sé lo sceriffo. Né, d'altra parte, Payne aveva il più pallido sentore che sei o sette robotologi, guidati da Sam Tobe, viaggiassero in quel momento a centonovanta chilometri all'ora sulla superstrada di Petersboro con l'unico scopo di avere il piacere e l'onore di conoscerlo.
Così, mentre gli eventi stavano per arrivare al punto cruciale, Randolph Payne sospirò di soddisfazione, accese un fiammifero strofinandolo sul fondo dei pantaloni, tirò una boccata dalla sua pipa e guardò divertito Al-76.
Ormai era evidente che al robot mancava più di una rotella. Randolph Payne aveva costruito lui stesso vari aggeggi fatti in casa, molti dei quali non avrebbero potuto essere esposti alla luce del sole senza far strabuzzare gli occhi a tutti gli astanti, ma non aveva mai nemmeno concepito con la fantasia qualcosa che si avvicinasse alla mostruosità che Al-76 stava mettendo insieme.
Avrebbe potuto far crepare di invidia artisti come Rube Goldberg, stella dell'epoca moderna. E se Picasso fosse vissuto tanto da poterla vedere, sicuramente avrebbe abbandonato la pittura, conscio di essere stato irrimediabilmente superato. Quella roba avrebbe fatto andare a male il latte di una mucca fino a mezzo miglio di distanza.
Sì, perché era veramente raccapricciante.
Da una base di ferro arrugginita e massiccia che somigliava vagamente a qualcosa che Payne aveva visto un tempo attaccato a un trattore di seconda mano, la scultura si levava verso l'alto seguendo ardite curve da ubriaco, e dopo essersi espressa in uno sconcertante intrico di fili, ruote, tubi e altri indescrivibili e innumerevoli orrori, terminava con un aggeggio tipo megafono, dall'aria decisamente sinistra.
Payne provò la tentazione di dare una sbirciata al megafono, ma si trattenne. Aveva visto macchine di concezione assai più razionale esplodere di colpo e con violenza.
«Ehilà, Al» disse.
Il robot alzò gli occhi. Era sdraiato a pancia in giù e stava cercando di mettere al suo posto un pezzetto sottile di metallo. «Che volete. Payne?»
«Che mostro è questo?» disse lui, col tono di chi si riferisse a qualcosa di immondo e putrescente, tenuto con cautela fra due aste lunghe tre metri.
«Sto costruendo il Disinto, così posso mettermi al lavoro. Ho migliorato il modello standard.» Il robot si alzò, si spolverò le ginocchia con clangore metallico e guardò orgoglioso la propria opera.
Payne rabbrividì. L'aveva "migliorato"! Ora capiva perché nascondessero l'originale nelle caverne della Luna. Povero satellite. Povero satellite morto! Si era sempre chiesto quale destino fosse peggiore della morte, e adesso sapeva la risposta.
«Funzionerà?» chiese.
«Certo.»
«Come lo sai?»
«Deve. L'ho fatto io, no? A questo punto mi manca solo una cosa. Avete una torcia elettrica?»
«Credo di sì, da qualche parte.» Payne sparì nella baracca e tornò quasi subito.
Il robot svitò il fondo della torcia e si mise al lavoro. Dopo cinque minuti aveva finito. Fece un passo indietro e disse: «Tutto a posto. Posso cominciare a lavorare. Potete starmi a guardare, se volete».
Payne rimase un attimo in silenzio, a valutare la magnanimità di quell'offerta. «È sicuro?»
«Potrebbe maneggiarlo anche un bambino.»
«Ah!» Payne abbozzò un sorriso e si rifugiò dietro l'albero più grosso che si trovasse nelle vicinanze. «Fa' pure» disse. «Ho la massima fiducia in te.»
Al-76 indicò la spaventosa scultura di rottami e disse: «Guardate!». Poi si mise al lavoro...
Schierati in ordine di battaglia, gli agricoltori della contea di Hannaford, in Virginia, si avvicinarono piano alla capanna di Payne, stringendola in una morsa. Col sangue degli eroici coloni loro antenati che pulsava nelle loro vene e la pelle d'oca che gli informicoliva la schiena, strisciarono carponi da un albero all'altro.
Lo sceriffo Saunders passò parola. «Sparate quando darò il segnale e mirate agli occhi.»
Jacob Linker, Lank Jake per gli amici, vicesceriffo per se stesso, si avvicinò al suo capo. «Non pensi che quell'uomo meccanico se la possa esser svignata?» disse, senza riuscire a nascondere un tono di ansiosa aspettazione.
«Boh» fece lo sceriffo. «Credo di no, però. Ci saremmo imbattuti in lui nel bosco, se fosse scappato, e invece non è successo.»
«Ma non si sente volare una mosca e mi pare che ormai siamo vicini alla capanna di Payne.»
Era un'osservazione superflua. Lo sceriffo Saunders aveva un nodo così grande in gola, che riuscì a mandarlo via solo deglutendo tre volte di seguito. «State indietro» ordinò, «e tenete il dito sul grilletto.»
Ora si trovavano verso l'orlo della radura; lo sceriffo Saunders chiuse gli occhi, poi ne riaprì un attimo uno per sbirciare oltre l'albero dietro il quale stava nascosto. Non vedendo niente fece una pausa, poi provò ancora, questa volta aprendo entrambi gli occhi.
Il risultato, ovviamente, fu migliore.
Per l'esattezza Saunders vide un enorme uomo meccanico che gli voltava le spalle e che stava curvo sopra un aggeggio contorto e spaventevole, di origine incerta e scopo ancora più incerto. L'unica cosa che lo sceriffo non vide fu la figura tremebonda di Randolph Payne, allacciata a un albero vicino ma leggermente spostata verso nord-nordovest.
Saunders uscì allo scoperto e sollevò la mitragliatrice. Il robot, che continuava a mostrargli l'ampia schiena di metallo, disse a voce alta, a persona o persone sconosciute: «Guardate!». E mentre lo sceriffo apriva la bocca per dare l'ordine di far fuoco, dita di metallo premettero un bottone.
Non esiste descrizione adeguata di quel che accadde dopo nonostante la presenza di settanta testimoni oculari. Nei giorni, mesi, anni che seguirono nessuno di quei settanta si pronunciò mai su cosa successe nel momento in cui lo sceriffo aprì la bocca per dare l'ordine di sparare. Se interrogati in merito, i testimoni si limitavano a diventare verdi e ad allontanarsi barcollando.
Risulta però chiaro da prove indiziarie che accadde grosso modo quanto segue.
Lo sceriffo Saunders aprì la bocca; Al-76 premette un bottone. Il Disinto entrò in azione e settantacinque alberi, due granai, tre mucche e i tre quarti superiori del Monte Duckbill svanirono nell'atmosfera, diventando per così dire tutt'uno con le nevi dell'anno prima.
La bocca dello sceriffo Saunders rimase successivamente aperta per un tempo indefinito, ma non ne uscì nulla, né ordini di fare fuoco, né alcun'altra parola. E poi...
E poi qualcosa si mosse nell'aria, producendo un suono intenso, come di risucchio, mentre una corona di strisce purpuree s'irradiava nell'atmosfera partendo dalla capanna di Randolph Payne. E di colpo del drappello di uomini armati non vi fu più traccia.
Nei dintorni rimasero sparse parecchie pistole, nonché la mitragliatrice portatile dello sceriffo, nichelata, ultra-rapida e a prova d'inceppamento. C'erano anche una cinquantina di cappelli, sigari mezzo masticati e alcune cianfrusaglie perse nel trambusto; ma nemmeno l'ombra degli esseri umani.
Per tre giorni nessuno di quegli esseri umani fu visto in giro, a parte Lank Jake, che lo fu solo perché interrotto nella sua fuga supersonica dagli uomini provenienti dalla fabbrica di Petersboro, che correvano verso l'interno del bosco anche loro a velocità ragguardevole.
Fu Sam Tobe a fermare il vicesceriffo, catturando abilmente con la bocca dello stomaco la sua zucca in corsa. Quando riuscì a riprendere fiato, Tobe chiese: «Dov'è la capanna di Randolph Payne?».
Lank Jake mise a fuoco con gli occhi e dopo un attimo disse: «Fratello, basta che tu segua la direzione opposta alla mia».
Detto questo era già scomparso, come per magia. Si vedeva all'orizzonte un puntolino che scansava gli alberi e che sarebbe potuto essere lui, ma Sam Tobe non se la sarebbe sentita di giurare che fosse davvero lui.
Questo per quanto riguarda il drappello di armati; venendo invece a Randolph Payne, bisogna dire che la sua reazione fu un po' diversa.
Nella mente di Payne c'era il buio assoluto, per quanto riguardava i cinque secondi seguiti all'entrata in azione del Disinto e alla scomparsa del Monte Duckbill. All'inizio si era trovato a sbirciare, protetto dal tronco degli alberi, il fitto sottobosco; alla fine si era trovato a penzolare come un frutto da uno dei rami più alti. Lo stesso impulso che aveva sospinto il drappello dello sceriffo lungo una traiettoria orizzontale aveva spinto lui lungo una traiettoria verticale.
Come poi fosse riuscito a percorrere i quindici metri che separavano le radici dalla cima, ovvero se avesse scalato, saltato o volato, non lo sapeva proprio, né gli importava di saperlo.
Quello che invece sapeva anche troppo bene era che la sua proprietà e buona parte del territorio erano stati distrutti da un robot temporaneamente in suo possesso. Ogni fantasia di laute ricompense svanì, rimpiazzata da paurosi incubi popolati di cittadini ostili, folle urlanti in vena di linciaggio, processi, imputazioni di omicidio, reazioni furibonde di Mirandy Payne. Soprattutto reazioni furibonde di Mirandy Payne.
Urlò come un pazzo, con la voce rauca: «Ehi, tu, robot, distruggi quell'affare, hai capito? Fallo a pezzettini! Dimentica che io ci abbia mai avuto a che fare. Io non ti conosco, chiaro? Non farti scappare neanche una parola su questa faccenda. Dimentica tutto, va bene?».
Non si aspettava di ottenere qualcosa; la sua reazione era solo istintiva. Quello che ignorava però era che un robot obbedisce sempre agli ordini di un essere umano, a meno che eseguirli non comporti pericolo per un altro essere umano.
Al-76 procedette quindi con calma e con metodo a demolire il Disinto e a ridurlo in mille pezzi.
Proprio mentre il robot stava pestando sotto i piedi l'ultimo centimetro cubico della sua opera, arrivarono Sam Tobe e i suoi, e Randolph Payne, intuendo che quelli erano i veri proprietari di Al-76, si lasciò cadere in tutta fretta dall'albero e, ali ai piedi, fuggì verso regioni lontane, senza aspettare la sua ricompensa.
Austin Wilde, ingegnere robotico, si rivolse a Sam Tobe e disse: «Siete riusciti a sapere niente dal robot?».
Tobe scosse la testa e rispose, con un ringhio gutturale: «Macché. Niente di niente. Ha dimenticato tutto quello che gli è accaduto da quando ha lasciato la fabbrica. Deve avere ricevuto l'ordine di dimenticare, altrimenti non avrebbe un'amnesia così totale. Che cos'era quell'ammasso di rottami con cui armeggiava?».
«Un ammasso di rottami, appunto. Ma prima che lo demolisse doveva essere un Disinto, e mi piacerebbe fare fuori il tizio che gli ha ordinato di demolirlo. Farlo fuori lentamente, se possibile, con una bella tortura. Guardate qui!»
Erano sul pendio di quello che un tempo era stato il Monte Duckbill, e per l'esattezza nel punto dove la cima era stata divelta; Wilde passò la mano sulla superficie perfettamente piatta che suolo e roccia formavano ora.
«Che razza di Disinto» disse. «Ha fatto saltar via la montagna di netto dalla sua base.»
«Che cosa l'avrà spinto a costruirlo?»
Wilde alzò le spalle. «Non so. Qualche fattore presente nell'ambiente, impossibile capire quale, ha influito sul suo cervello positronico programmato per la Luna e l'ha indotto a costruire un Disinto con i rottami. C'è una probabilità su un miliardo che possiamo incappare di nuovo in quel fattore, adesso che il robot si è dimenticato tutto. Non riavremo mai più un Disinto come quello.»
«Non importa. L'essenziale è che abbiamo il robot.»
«Col cappero, invece.» C'era un cocente rammarico, nel tono di Wilde. «Avete mai avuto a che fare con i Disinto che abbiamo sulla Luna? Bevono energia come spugne elettroniche e non si sognano nemmeno di cominciare a funzionare se prima non si riesce ad accumulare un potenziale di più di un milione di volt. Ma quel Disinto funzionava in modo diverso. Ho esaminato i rottami col microscopio; volete vedere qual è l'unica fonte di energia, in assoluto, che sia stato capace di trovare?»
«Sì. Qual è.»
«Questa! Non sapremo mai come ci sia riuscito.»
E Austin Wilde mostrò la fonte di energia che aveva permesso al Disinto di papparsi una montagna in mezzo secondo: due batterie per torcia elettrica...