SELDON, WANDA... Nel corso degli ultimi anni della sua vita, Hari Seldon sviluppò un forte attaccamento (alcuni la definiscono una vera e propria dipendenza) nei confronti della nipote Wanda. Rimasta orfana ancora adolescente, costei si consacrò totalmente al Progetto Psicostoria del nonno, colmando il vuoto lasciato da Yugo Amaryl...

Il contenuto del lavoro di Wanda rimane ancora ampiamente avvolto nel mistero, in quanto fu svolto in un isolamento pressoché totale. Le sole persone con libero accesso alle ricerche di Wanda furono lo stesso Hari e un giovane di nome Stettin Palver (un discendente del quale, Preem Palver, quattrocento anni dopo avrebbe contribuito alla rinascita di Trantor mentre il pianeta cercava di sollevarsi dalle ceneri del Grande Sacco [300 E.F.])...

Benché l’ampiezza del contributo portato da Wanda Seldon alla Fondazione rimanga sconosciuto, esso fu indubbiamente della massima importanza...

ENCICLOPEDIA GALATTICA

1

Hari Seldon entrò nella biblioteca galattica (zoppicando leggermente, come gli capitava sempre più spesso in quei giorni) e si diresse verso le file di parcheggio dei levitanti, i piccoli veicoli capaci di scivolare silenziosi lungo gli interminabili corridoi dell’enorme complesso di edifici.

Si bloccò, tuttavia, alla vista di tre giovanotti seduti in una delle nicchie dedicate alla galattografia, dinanzi a una rappresentazione tridimensionale della galassia con tutti i mondi che giravano lentamente intorno al nucleo galattico ruotando ad angoli retti.

Da dove si trovava, Seldon vide che la provincia periferica di Anacreon era evidenziata in rosso vivo. Costeggiava un bordo della galassia e occupava un grande volume di spazio, ma era scarsamente punteggiata di stelle. Anacreon non era un mondo straordinario né per ricchezza né per cultura, ma era straordinaria la sua distanza da Trantor: diecimila parsec.

Seldon, agendo d’impulso, si sedette alla tastiera di un computer accanto ai tre uomini e impostò una ricerca casuale che era sicuro avrebbe richiesto un tempo indefinito. Il suo istinto gli suggeriva che un interesse così intenso nei riguardi di Anacreon doveva avere radici politiche: la sua posizione nella galassia ne faceva uno dei possedimenti meno sicuri del presente regime imperiale. I suoi occhi rimasero fissi sullo schermo, ma le orecchie di Seldon si concentrarono sulla discussione vicino a lui. Di solito non si sentivano discussioni politiche nella biblioteca. Anzi, in teoria in quel luogo non si doveva parlare di politica.

Seldon non conosceva nessuno dei tre uomini. Non era poi così sorprendente. Alcune persone erano assidue frequentatrici della biblioteca e Seldon le conosceva quasi tutte di vista – aveva anche parlato con alcune di loro –, ma la biblioteca era aperta a ogni cittadino. Non era necessaria alcuna qualifica. Tutti potevano entrare e servirsi delle apparecchiature (naturalmente per un periodo di tempo limitato. Solo pochi eletti, come Seldon, avevano il permesso di “mettere su bottega” nella biblioteca; a Seldon era stata concessa la possibilità di usufruire di un ufficio privato chiuso a chiave e di accedere illimitatamente alle risorse della biblioteca).

Uno dei giovanotti (Seldon lo chiamò tra sé “Naso-a-becco” per ovvie ragioni) parlò a bassa voce ma con un tono urgente.

«Lasciamolo andare. Lasciamolo andare. Cercare di conservarlo ci costa una fortuna e, anche se ci riusciamo, durerà solo fino a quando loro resteranno là. Però non potranno rimanerci in eterno e, non appena se ne andranno, la situazione ritornerà quella che era.»

Seldon sapeva di cosa stavano parlando. La notizia che il governo imperiale aveva deciso una dimostrazione di forza per rimettere in riga il turbolento governatore di Anacreon risaliva ad appena tre giorni prima.

L’analisi psicostorica di Seldon aveva mostrato che sarebbe stata una mossa inutile, ma il governo di solito non ascoltava suggerimenti quando veniva punto sul vivo. Seldon sorrise leggermente e con aria piuttosto cupa nel sentire Naso-a-becco dire le stesse cose e senza poter contare sui benefici della psicostoria.

Naso-a-becco proseguì: «Se lasciamo in pace Anacreon, che cosa perdiamo? Il pianeta resterà dov’è sempre stato, proprio ai bordi dell’impero. Non potrà fare i bagagli e andarsene verso Andromeda, no? Quindi dovrà ancora commerciare con noi e la vita continuerà come prima. Che differenza fa se rendono omaggio all’imperatore o no? Non cambierebbe nulla in ogni caso».

Il secondo uomo, che Seldon aveva battezzato “Pelato” per ragioni ancora più ovvie, disse: «Però tutta questa storia non è un fenomeno isolato. Se Anacreon se ne va, anche gli altri prefetti di confine se ne andranno. L’impero si smembrerà».

«E allora?» sussurrò Naso-a-becco con tono quasi feroce. «L’impero non è più in grado di funzionare in modo efficiente. È troppo grande. Lascia che i mondi di confine se ne vadano e cerchino di cavarsela come possono. I Mondi interni risulteranno più ricchi e più forti. Non è necessario che il confine rimanga nostro politicamente; continuerà a esserlo economicamente.»

E a quel punto il terzo uomo (ovvero “Gote-rosse”) disse: «Vorrei proprio che voi due aveste ragione, ma non andrà così. Se le province di confine riescono a rendersi indipendenti, la prima cosa che faranno sarà quella di cercare con ogni mezzo di aumentare il loro potere a scapito dei vicini. Seguiranno guerre e conflitti e ogni governatore sognerà di diventare alla fine imperatore. Sarà come ai vecchi tempi prima del regno di Trantor... un’epoca oscura che durerà per migliaia di anni».

Pelato disse: «Sicuramente le cose non andranno così male. L’impero potrebbe anche disgregarsi, ma saprebbe guarire in fretta non appena la gente si accorgesse che la disgregazione porta soltanto guerra e impoverimento. Ricorderebbero con nostalgia i giorni dorati dell’impero unito e tutto ritornerebbe come prima. In fondo, non siamo dei barbari, lo sai. Troveremo un modo».

«Oh, certo» disse Naso-a-becco. «Dobbiamo ricordare che l’impero ha fronteggiato una crisi dopo l’altra nel corso della sua storia, ed è sempre riuscito a sopravvivere.»

Ma Gote-rosse scosse il capo dicendo: «Questa non è una delle solite crisi. È qualcosa di molto più grave. L’impero si va deteriorando da molte generazioni. Dieci anni di Giunta hanno distrutto l’economia e, dopo la caduta della Giunta e l’arrivo di questo nuovo “imperatore”, l’impero è diventato così debole che i viceré della periferia non sono obbligati a fare proprio nulla. L’impero cadrà da solo per il suo stesso peso».

«E il giuramento di fedeltà all’imperatore...» iniziò Naso-a-becco.

«Quale fedeltà?» fece Gote-rosse. «Abbiamo passato dieci anni senza imperatore dopo l’assassinio di Cleon e non sembrava importasse a nessuno. E questo nuovo imperatore è soltanto un simbolo. Non può fare niente. Nessuno può fare qualcosa. Questa non è una crisi. Questa è la fine

Gli altri due fissarono Gote-rosse aggrottando la fronte. Pelato disse: «Ma tu ci credi sul serio! Pensi davvero che l’impero se ne starà seduto a guardare senza fare niente».

«Sì! Proprio come voi due, nessuno vorrà credere che sta accadendo. O almeno, finché non sarà troppo tardi.»

«E secondo te cosa dovrebbero fare, se ci credessero?»

Gote-rosse fissò il galattografo, come se la risposta fosse là dentro. «Non lo so. Sentite, fra un po’ di tempo, spero parecchio, morirò; per allora le cose non andranno ancora troppo male. Dopo, quando la situazione peggiorerà, ci saranno altre persone che potranno preoccuparsi. Io sarò scomparso. E così pure i bei vecchi tempi. Magari per sempre. Fra l’altro, non sono il solo a pensarla così. Avete mai sentito parlare di uno che si chiama Hari Seldon?»

«Certo» rispose subito Naso-a-becco. «Non è stato primo ministro sotto Cleon?»

«Sì» confermò Gote-rosse. «È una specie di scienziato. L’ho sentito tenere un discorso qualche mese fa. Mi ha rincuorato sapere di non essere il solo a credere che l’impero stia crollando. Ha detto...»

«Ha detto che tutto andrà in rovina e che ci sarà un’epoca buia per sempre?» lo interruppe Pelato.

«Be’, no» rispose Gote-rosse. «È uno di quei tipi molto cauti. Ha detto che potrebbe accadere, ma si sbaglia. Accadrà di certo.»

Seldon aveva sentito abbastanza. Zoppicò verso il tavolo dove i tre uomini sedevano e toccò una spalla di Gote-rosse.

«Signore, potrei parlarle un istante?»

Sorpreso, Gote-rosse sollevò lo sguardo e poi disse: «Ehi, lei non è per caso il professor Seldon?».

«Lo sono sempre stato» rispose Seldon. Porse all’uomo una piastrina d’identificazione. «Vorrei vederla dopodomani nel mio ufficio qui alla biblioteca alle quattro del pomeriggio. Può venire?»

«Devo lavorare.»

«Se proprio deve, si dia malato. È importante.»

«Be’, non so se posso, professore.»

«Lo faccia. Se dovesse avere dei problemi, posso occuparmene io. E nel frattempo, signori, vi spiace se studio la simulazione della galassia per un istante? È da molto tempo che non ne vedo una.»

Annuirono, ammutoliti, apparentemente intimoriti dalla presenza di un ex primo ministro. Uno alla volta i tre uomini si spostarono indietro e fecero posto a Seldon ai controlli del galattografo.

Un dito di Seldon si mosse sul pannello, e il colore rosso che aveva individuato la provincia di Anacreon scomparve. La galassia era immacolata, una lucente spirale di foschia che si faceva più luminosa nel bagliore sferico al centro, dietro il quale c’era il buco nero galattico.

Naturalmente, non si potevano riconoscere le singole stelle, a meno che la visuale non fosse ingrandita, però così facendo solo una porzione dell’impero sarebbe comparsa sullo schermo mentre Seldon voleva vedere l’insieme, per guardare l’impero che stava svanendo.

Premette un contatto e sull’immagine galattica comparve una serie di puntini gialli. Indicavano i pianeti abitabili, venticinque milioni in tutto. Si riusciva a distinguerli come puntini isolati nella leggera nebbia che rappresentava la periferia della galassia, ma verso il centro erano sempre più ravvicinati. C’era una fascia quasi solida di colore giallo (ma che si sarebbe suddivisa in puntini separati se ingrandita) intorno al bagliore centrale, che naturalmente appariva candido e intatto. Non potevano esistere pianeti abitabili in mezzo alle energie turbolente del nucleo.

Malgrado la grande densità del giallo, Seldon sapeva che neppure una stella su diecimila disponeva di un pianeta abitabile intorno a sé. Questo, nonostante le capacità di manipolare i pianeti che l’umanità possedeva. Neppure tutta la tecnologia di terraformazione dell’intera galassia poteva trasformare certi mondi in qualcosa dove un essere umano avrebbe potuto camminare liberamente senza la protezione di una tuta spaziale.

Seldon chiuse un altro contatto. I puntini gialli scomparvero, ma una piccola regione si illuminò di blu: Trantor e i vari mondi che ne dipendevano direttamente. Quella zona era talmente vicina al nucleo – pur rimanendo fuori dalla portata dei suoi effetti mortali – che veniva comunemente ritenuta il “centro della galassia”, anche se ciò non era affatto vero. Come sempre, si rimaneva colpiti dalle ridotte dimensioni del mondo di Trantor, un angolo minuscolo nella vasta distesa della galassia, al cui interno tuttavia era stipata la più grande concentrazione di ricchezza, di cultura e di autorità governativa che l’umanità avesse mai visto.

E anche quello era destinato alla distruzione.

Fu come se i tre giovanotti gli avessero letto nel pensiero, o forse avevano interpretato l’espressione triste sul suo volto.

Pelato chiese con voce pacata: «L’impero verrà distrutto sul serio?».

Seldon rispose, ancora più pacatamente: «Potrebbe. Potrebbe accadere di tutto».

Si alzò, sorrise ai tre uomini e se ne andò, mentre la sua mente continuava a urlare: “Accadrà. Accadrà!”.

2

Seldon sospirò mentre saliva su uno dei levitanti che erano parcheggiati uno accanto all’altro nella grande alcova. C’era stato un tempo, solo qualche anno prima, in cui si beava di camminare a passo rapido lungo gli interminabili corridoi della biblioteca, dicendo a se stesso che anche dopo i sessant’anni ci sarebbe riuscito.

Ma ora, a settanta, le sue gambe cedevano fin troppo rapidamente e lui era costretto a servirsi di un levitante. Anche persone più giovani lo utilizzavano perché permetteva di risparmiare fatica, ma lui se ne serviva perché doveva, e la differenza stava tutta lì.

Dopo aver inserito la sua destinazione, chiuse un contatto e il levitante si alzò di poco meno di un centimetro sopra il pavimento. Il mezzo partì a una velocità piuttosto tranquilla, senza scossoni, in silenzio, e Seldon si mise comodo a osservare le mura del corridoio, gli altri levitanti, i pedoni occasionali.

Oltrepassò numerosi bibliotecari e, anche dopo tutti quegli anni, la loro vista lo faceva sorridere ancora. Erano la più antica gilda nell’impero, quella con le tradizioni più venerate, e si aggrappavano ancora a usi e costumi che sarebbero stati più appropriati secoli prima, forse millenni.

I loro abiti di seta, bianchissimi e abbastanza ampi da somigliare a tuniche abbondanti, si stringevano al collo e da quel punto in giù erano liberi di fluttuare a loro piacimento.

Trantor, come tutti i mondi, per ciò che riguardava le consuetudini maschili oscillava fra un estremo e l’altro, consentendo la crescita dei peli sul viso e una totale rasatura. Per la verità su Trantor, o almeno nella maggior parte dei suoi settori, erano più in voga i visi rasati, e così era sempre stato a memoria di Seldon... pur ammettendo anomalie come i baffi dei dahliti, di cui suo figlio adottivo, Raych, era un esempio.

I bibliotecari, comunque, rimanevano attaccati alle barbe delle epoche passate. Ogni bibliotecario aveva una barba corta, meticolosamente curata, che andava da un orecchio all’altro lasciando tuttavia scoperto il labbro superiore. Solamente questo particolare era sufficiente a identificarli per quello che erano e a mettere Seldon, sempre rasato a puntino, un po’ a disagio quando era circondato da loro in massiccia presenza.

A dire il vero, l’elemento più caratteristico era il berretto che indossavano (probabilmente anche a letto, pensò Seldon). Quadrati, di stoffa vellutata, con quattro parti che si riunivano per mezzo di un bottone sulla cima, i berretti ostentavano una varietà infinita di colori e, apparentemente, ogni colore aveva il proprio significato. Un esperto di usanze bibliotecarie avrebbe saputo capire da quanto tempo un bibliotecario era in servizio, la sua area di specializzazione, i gradi di perfezionamento e così via. Servivano a fissare una rigida gerarchia. Ogni bibliotecario poteva, con una semplice occhiata al berretto di un altro, sapere se doveva comportarsi in modo rispettoso (e fino a che punto) o da superiore (e fino a che punto).

La biblioteca galattica, che era la più grande costruzione singola su Trantor (forse in tutta la galassia), molto più vasta del palazzo imperiale, un tempo aveva scintillato e luccicato come per vantarsi della sua grandezza e magnificenza. Tuttavia, proprio come l’impero stesso, ora si era spenta ed era avvizzita. Era come una distinta vecchia signora, che indossava ancora i gioielli della sua gioventù ma su un corpo rinsecchito e maculato.

Il levitante si arrestò davanti alla porta scolpita dell’ufficio del bibliotecario capo e Seldon scese dal veicolo.

Las Zenow accolse Seldon sorridendo. «Benvenuto, amico mio» disse con la sua solita voce acuta. (Seldon si chiedeva spesso se non avesse mai cantato come tenore in gioventù, ma non aveva mai osato chiederglielo. Il bibliotecario capo era sempre una figura piena di dignità, e la domanda poteva essere ritenuta offensiva.)

«Salve» disse Seldon. Zenow aveva una barba grigia, tendente in gran parte al bianco, e indossava un berretto bianco immacolato. Seldon riusciva a capire il significato di quel berretto senza spiegazioni. Era un caso di ostentazione rovesciata. L’assenza totale di colore rappresentava il più alto grado.

Zenow si stropicciò le mani con quella che sembrava una gioia interiore. «L’ho chiamata, Hari, perché ho buone notizie per lei. L’abbiamo trovato!»

«Las, vorrebbe dire...»

«Un mondo adatto. Ne voleva uno lontano e credo che siamo riusciti a trovarne uno ideale.» Il suo sorriso si allargò. «Lasci fare alla biblioteca, Hari. Possiamo trovare di tutto.»

«Non ne dubitavo minimamente, Las. Mi dica qualcosa su questo mondo.»

«Prima, mi permetta di mostrarle la sua posizione.» Una sezione di muro scivolò di lato, le luci nella stanza si spensero e la galassia comparve in forma tridimensionale, mentre ruotava lentamente. Come prima, alcune linee rosse delimitavano la provincia di Anacreon, al punto che Seldon avrebbe giurato che l’episodio coi tre uomini altro non era che una prova generale di questa scena.

E poi, un luminoso punto azzurro comparve alla più remota estremità della provincia. «Eccolo» disse Zenow. «È un mondo ideale. Buona massa, buon rifornimento idrico, atmosfera perfettamente ossigenata e vegetazione, naturalmente. Molta vita marina. È pronto per essere preso. Non è necessario manipolarlo, né terraformarlo; o almeno, niente che non si possa fare una volta occupato.»

«È un mondo disabitato, Las?»

«Totalmente. Non c’è assolutamente nessuno.»

«Ma perché, se è così accogliente? Immagino che, visti tutti questi dettagli a disposizione, sia stato esplorato. Ma per quale ragione non lo hanno ancora colonizzato?»

«È stato esplorato, ma soltanto da sonde automatiche. E probabilmente non c’è stata alcuna colonizzazione perché si trova in una posizione così lontana da tutti gli altri sistemi. Il pianeta ruota attorno a una stella che è più distante dal buco nero centrale di qualunque altro pianeta abitato, molto più distante. Troppo, credo, per degli eventuali coloni, ma forse non troppo per le sue necessità. Aveva detto che più distante si trovava, meglio era.»

«Sì» disse Seldon annuendo. «E lo dico ancora. Ha un nome o è solo una combinazione di lettere e numeri?»

«Forse non lo crederà, ma ha un nome. Quelli che hanno inviato laggiù le sonde l’hanno chiamato “Terminus”, una parola arcaica che indica la fine di una linea. Cosa che sembrerebbe essere vera.»

«Il pianeta fa parte del territorio della provincia di Anacreon?»

«Non esattamente. Se osserva con attenzione la linea rossa e l’ombreggiatura, noterà che il puntino blu di Terminus si trova leggermente spostato all’esterno. Per la precisione, mancano cinquanta anni luce ai confini della provincia. Terminus non appartiene a nessuno; non fa nemmeno parte dell’impero.»

«Allora ha ragione, Las. Sembra proprio il mondo ideale che cercavo.»

«Naturalmente,» disse Zenow pensieroso «appena occuperete Terminus, immagino che il governatore di Anacreon lo considererà sotto la sua giurisdizione.»

«È possibile, ma ce ne occuperemo quando si presenterà il problema.»

Zenow si strofinò ancora le mani. «Che idea fantastica. Allestire un gigantesco progetto su un mondo vergine, lontanissimo e completamente isolato, in modo che anno per anno e decennio per decennio, una gigantesca Enciclopedia di tutto lo scibile umano possa essere preparata. Un’epitome di tutto ciò che è presente in questa biblioteca. Se solo fossi più giovane, mi unirei alla spedizione.»

«Lei ha quasi vent’anni meno di me» disse Seldon tristemente.»

“Quasi tutti sono più giovani di me” pensò, ancora più triste.

«Ah, sì, ho sentito che ha appena festeggiato il suo settantesimo compleanno. Spero se lo sia goduto, e che l’abbia festeggiato adeguatamente.»

Seldon ebbe un brivido. «Non festeggio mai i miei compleanni.»

«Ma se ricordo la famosa storia del sessantesimo!»

Seldon avvertì una fitta di dolore, come se la più grave perdita di tutto il mondo l’avesse colpito appena il giorno prima. «La prego, non parliamone.»

Imbarazzato, Zenow disse: «Mi spiace, parliamo di qualcos’altro. Se Terminus è davvero il mondo che le serve, immagino che il suo lavoro sui preliminari del Progetto Enciclopedia si troverà a essere almeno raddoppiato. Come sa, la biblioteca sarà lieta di aiutarla in ogni modo».

«Ne sono consapevole, Las, e gliene sono infinitamente grato. Continueremo a lavorare più di prima, questo è certo.»

Si alzò, non riuscendo ancora a sorridere dopo l’acuto dolore causato dall’accenno fatto alla sua festa di compleanno di dieci anni prima. «Adesso devo tornare alle mie fatiche.»

E mentre se ne andava, sentì, come sempre, una punta di rimorso per l’inganno che stava portando a termine. Las Zenow non aveva la benché minima idea delle vere intenzioni di Seldon.

3

Hari Seldon ammirò le comode stanze che avevano costituito il suo ufficio nella biblioteca galattica durante quegli ultimi anni. L’ufficio, come tutto il resto della biblioteca, trasudava una vaga aria di decadimento e una specie di stanchezza, come di qualcosa che fosse rimasto per troppo tempo allo stesso posto. Tuttavia Seldon sapeva che avrebbe potuto rimanerci per altri secoli: con accurate ristrutturazioni, anche per millenni.

Come era riuscito ad arrivarci?

Per l’ennesima volta sentì il passato scorrere nella mente che allungava i suoi tentacoli lungo la linea di sviluppo della vita. Senza dubbio, faceva parte dell’invecchiamento. C’era tanto nel passato, e così poco nel futuro, che la sua immaginazione rifuggiva dall’ombra incombente e minacciosa del domani per contemplare la sicurezza di quello che era già successo.

Nel suo caso, però, c’era stato quel cambiamento. Per più di trent’anni la psicostoria si era sviluppata lungo quella che poteva quasi essere considerata una linea retta... con progressi terribilmente lenti, ma continuando ad avanzare. Poi, sei anni prima, era sopravvenuta una svolta ad angolo retto, totalmente inaspettata.

E Seldon sapeva esattamente come era potuto capitare, in quale modo un susseguirsi di eventi si fosse intrecciato per renderlo possibile.

Era stata Wanda, naturalmente, la nipote di Seldon. Hari chiuse gli occhi e si accomodò sulla sua poltrona, per ripassare mentalmente gli eventi di sei anni prima.

La piccola Wanda dodicenne si sentiva trascurata. Sua madre, Manella, aveva avuto un figlio, un’altra bambina, Bellis, e per qualche tempo la piccolina era rimasta al centro delle sue attenzioni. Suo padre, Raych, dopo aver completato il libro su Dahl, il suo settore natale, aveva ottenuto un discreto successo e si era ritrovato a essere una celebrità, sia pure di rango minore. Veniva invitato a parlare dell’argomento, offerta che lui accettava con alacrità perché era fortemente coinvolto in prima persona e, come diceva a Hari, con un sorriso: «Quando parlo di Dahl non devo nascondere il mio accento dahlita. Anzi, da me si aspettano proprio quello».

Il risultato finale, comunque, era che rimaneva lontano da casa per una considerevole parte del suo tempo e, quando non era in giro, voleva vedere la neonata.

Dors se ne era andata e per Seldon era una ferita sempre aperta, sempre dolorosa, il che lo spingeva a reagire in maniera infelice. Era stato il sogno di Wanda a mettere in moto la serie di eventi che si era conclusa con la perdita di Dors.

Wanda non aveva assolutamente alcuna colpa, Seldon lo sapeva benissimo. Tuttavia, si ritrovò ad allontanarsi sempre più da lei, al punto che anche lui non seppe starle vicino durante la crisi causata dalla nascita della sorellina.

Così Wanda fu costretta a recarsi sconsolata dall’unica persona che sembrava sempre felice di vederla, la sola sulla quale poteva contare. Questa persona era Yugo Amaryl, secondo solo a Hari Seldon nello sviluppo della psicostoria, e primo fra tutti in quanto a devozione assoluta nei confronti di quella scienza. Hari aveva avuto Dors e Raych, ma la psicostoria era la vita di Yugo, che non aveva né moglie né figli. Eppure, ogni volta che Wanda gli si avvicinava, qualcosa dentro di lui la riconosceva come una figlia, e lui avvertiva in modo vago, ed esclusivamente in quei momenti, un senso di vuoto che pareva essere mitigato solo mostrando affetto alla bambina. A dire il vero, lui tendeva a trattarla come un adulto in miniatura, ma questo sembrava piacere a Wanda.

Era stato dunque sei anni prima che Wanda era capitata nell’ufficio di Yugo. Lui la guardò coi suoi occhi ricostruiti, da gufo, e come sempre gli ci volle un istante per riconoscerla.

«Ma guarda, la mia amica Wanda. Perché sei così triste? Sicuramente, una bella ragazzina come te non dovrebbe mai sentirsi così.»

E Wanda, mentre il labbro inferiore le tremava, disse: «Nessuno mi vuole bene».

«Oh, andiamo, non è vero.»

«Tutti vogliono bene solamente alla nuova bambina. Non si occupano più di me.»

«Io ti voglio bene, Wanda.»

«Be’, allora sei l’unico, zio Yugo.» E anche se non poteva più arrampicarsi sulle sue ginocchia come era solita fare da piccola, appoggiò la testa sulla sua spalla e si mise a piangere.

Amaryl, non sapendo minimamente come comportarsi, poté solo abbracciarla e dire: «Non piangere. Non piangere». Dopo di che, quasi per semplice simpatia e perché lui aveva così poco nella sua vita per cui piangere, pure lui si ritrovò con le lacrime che gli rigavano le guance.

Poi, con improvviso vigore, disse: «Wanda, vorresti vedere una cosa molto carina?».

«Che cosa?» fece Wanda tirando su con il naso.

Amaryl conosceva solamente una cosa in tutta la sua vita e in tutto l’universo che fosse carina. «Hai mai visto il radiante primario?».

«No. Che cos’è?»

«È quella cosa che tuo nonno e io usiamo per lavorare. Guarda, è proprio qui.»

Indicò il cubo nero sulla sua scrivania e Wanda lo guardò piena di tristezza. «Non è bello.»

«Non adesso» convenne Amaryl. «Ma aspetta che lo accenda.»

Lo fece. La stanza si oscurò e si riempì di puntini luminosi e lampi di diversi colori. «Guarda, adesso possiamo aumentare l’ingrandimento per far diventare simboli matematici tutti questi puntini.»

E così fecero. Fu come essere investiti da un’improvvisa ondata che li avviluppò, e là, sospesi a mezz’aria, comparvero simboli di ogni genere, lettere, numeri, frecce, e forme che Wanda non aveva mai visto in vita sua.

«Non è bello?» chiese Amaryl.

«Sì, è bello» rispose Wanda fissando attentamente le equazioni che (anche se non lo sapeva) rappresentavano possibili futuri. «Però non mi piace quella parte. Credo che sia sbagliata.» Indicò un’equazione colorata alla sua sinistra.

«Sbagliata? Perché dici che è sbagliata?» chiese Amaryl aggrottando la fronte.

«Perché non è bella. Io la farei in un altro modo.»

Amaryl si schiarì la voce. «Be’, proverò ad aggiustarla.» E si avvicinò all’equazione sospetta, fissandola col suo sguardo da gufo.

«Grazie tante, zio Yugo, per avermi mostrato le tue belle lucine. Forse un giorno capirò cosa vogliono dire.»

«Va bene. Spero comunque che tu ti senta meglio.»

«Un pochino, grazie.» E, dopo un sorriso rapido quanto un lampo, Wanda lasciò la stanza.

Amaryl rimase immobile, sentendosi un po’ ferito. Non gli andava che si criticasse il prodotto del radiante primario, neppure se a farlo era una bambina di dodici anni che non sapeva neppure che cosa fosse.

E mentre se ne stava là immobile, non aveva neppure lontanamente il sospetto che la rivoluzione psicostorica era iniziata.

4

Quello stesso pomeriggio Amaryl si recò nell’ufficio di Seldon all’Università di Streeling. Già questo, di per sé, era abbastanza strano, perché Amaryl non lasciava quasi mai il suo ufficio (nemmeno per parlare con un collega che si trovava alla fine del corridoio).

«Hari» disse Amaryl con la fronte corrucciata e l’aria sbalordita. «È successa una cosa molto strana. Davvero bizzarra.»

Seldon guardò Amaryl con una certa amarezza. L’amico aveva solo cinquantatré anni, ma sembrava molto più anziano, curvo, consumato fino a sembrare trasparente. Quando vi era costretto, si sottoponeva a dei controlli medici e tutti gli consigliavano di smettere di lavorare per un po’ (alcuni dicevano per sempre) e di riposarsi. Solo questo, avevano detto i medici, poteva migliorare la sua salute. Seldon aveva scosso la testa. «Allontanatelo dal suo lavoro, e morirà ancora prima, per di più infelice. Non abbiamo scelta.»

Poi Seldon si accorse che, perso in quei pensieri, non aveva prestato attenzione a ciò che Amaryl gli stava dicendo.

«Mi spiace, Yugo. Sono un po’ distratto. Potresti ripetere?»

«Ti sto dicendo che è successa una cosa molto strana. Davvero bizzarra.»

«Cos’è successo?»

«È stata Wanda. È venuta a trovarmi, molto triste e preoccupata.»

«Perché?»

«A quanto pare, a causa della nuova bambina.»

«Ah, sì» fece Hari, con ben più di una sfumatura di colpevolezza nella voce.

«Ha detto così e si è messa a piangere sulla mia spalla. A dire il vero, Hari, ho pianto un po’ anch’io. Poi mi è venuto in mente di tirarle su il morale mostrandole il radiante primario.» Amaryl esitò, come se stesse scegliendo con molta cura le sue prossime parole.

«Vai avanti, Yugo. Cos’è successo?»

«Be’, ha ammirato tutte le luci e io ne ho ingrandita una parte, per essere precisi la Sezione 42R254. La conosci?»

Seldon sorrise. «No, Yugo. Non ho memorizzato tutte le equazioni come fai tu.»

«Dovresti» disse Amaryl severamente. «Come puoi fare un buon lavoro se... Ma non importa. Ciò che sto tentando di dirti è che Wanda ne ha indicata una parte e ha detto che non era giusta. Non era bella.»

«Perché no? Tutti abbiamo i nostri gusti personali.»

«Sì, certo, ma io sono rimasto a pensarci e ho passato un po’ di tempo a rivederla. Hari, c’era davvero qualcosa che non andava. La programmazione era inesatta e l’area indicata da Wanda non serviva a nulla. E a dire il vero, non era affatto bella.»

Seldon si raddrizzò piuttosto rigidamente, aggrottando la fronte. «Fammi capire bene, Yugo. Ha indicato qualcosa, a caso, ha detto che non era giusto e aveva ragione?»

«Sì. Ha indicato, ma non a caso: è stata molto selettiva.»

«Ma è impossibile.»

«Ma è successo. Ero presente.»

«Non sto dicendo che non è vero. Sto dicendo che è stata solo una fortunata coincidenza.»

«Ne sei sicuro? Credi che, pur con tutta la tua conoscenza della psicostoria, saresti capace di dare una sola occhiata a una nuova serie di equazioni e di dirmi che una piccola parte non è esatta?»

«Be’, allora, Yugo, come mai hai ingrandito quella particolare sezione delle equazioni? Che cosa ti ha spinto a scegliere quel pezzo da ingrandire?»

Amaryl alzò le spalle. «Questa è stata una coincidenza, se la vuoi definire così. Ho solo armeggiato con i controlli.»

«Non può essere stata una coincidenza» bofonchiò Seldon. Per qualche istante rimase immerso nei suoi pensieri, poi pose la domanda che fece fare un passo in avanti alla rivoluzione psicostorica iniziata da Wanda.

«Yugo, non avevi mai avuto dubbi su quelle equazioni prima di allora? Avevi qualche motivo per credere che ci fosse qualcosa di sbagliato?»

Amaryl torturò la cintura del suo abito monopezzo con aria imbarazzata. «Be’, credo di sì. Vedi...»

«Credi di sì?»

«Ne sono certo. Ricordo che quando le stavo impostando, sai, era una nuova sezione, le mie dita sembravano incepparsi sul programmatore. Allora mi sembrava tutto esatto, ma immagino di aver continuato a rimuginarci preoccupato. Ricordo anche di aver pensato che non aveva un aspetto del tutto soddisfacente, ma avevo altre cose da fare e ho lasciato perdere. Però dopo, quando Wanda ha indicato esattamente l’area in questione, ho deciso di controllarla. In caso contrario, avrei attribuito tutto a una fantasia infantile.»

«E hai ingrandito quel frammento delle equazioni da mostrare a Wanda. Come se il tuo inconscio continuasse a perseguitarti.»

Amaryl alzò le spalle. «Chi lo sa.»

«Poco prima eravate a contatto ravvicinato, vi stavate abbracciando e piangevate tutti e due.»

Amaryl alzò di nuovo le spalle, con l’aria di essere ancora più imbarazzato.

«Credo di sapere cos’è successo, Yugo. Wanda ha letto nella tua mente.»

Amaryl sobbalzò come se fosse stato morso. «Questo è impossibile!»

Lentamente Seldon disse: «Un tempo conoscevo una persona che possedeva strani poteri mentali di questo tipo» (e pensò tristemente a Eto Demerzel o, come era stato conosciuto per migliaia di anni, R. Daneel). «Solo che, in un certo senso, era un essere più che umano. Ma la sua abilità di leggere nella mente, percepire i pensieri degli altri e persuadere la gente ad agire in un certo modo, non aveva niente a che fare con la sua natura pseudo-umana. Credo che, in qualche modo, anche Wanda possieda questa capacità».

«Non posso crederci» disse testardamente Amaryl.

«Io sì, ma non so proprio cosa farne.»

Udì il fragore di una rivoluzione in atto nella ricerca psicostorica, ma molto vagamente.

5

«Papà, sembri stanco» osservò Raych leggermente preoccupato.

«Proprio così,» disse Hari Seldon «mi sento stanco. Ma, tu, come stai?»

Raych aveva quarantaquattro anni e i suoi capelli iniziavano a ingrigire, ma i baffi rimanevano folti e scuri e conservavano un aspetto molto dahlita. A volte Seldon si domandava se non si ritoccasse i baffi con qualche tintura, ma sarebbe stata la cosa sbagliata da chiedere.

«Hai finito per un po’ di tenere conferenze?» gli chiese Seldon.

«Per un po’, non per molto. E sono felice di essere a casa per poter vedere la bambina, Manella, Wanda e anche te, papà.»

«Grazie, ma ho delle novità per te. Raych, niente più conferenze. Avrò bisogno di te qui.»

Raych si rabbuiò. «Per cosa?» In due diverse occasioni era stato incaricato di compiere missioni delicate, ma quelli erano i tempi della minaccia joranumita. Per quanto ne sapeva, ora la situazione era calma, specialmente con il tracollo della Giunta e l’insediamento di un insipido imperatore.

«Si tratta di Wanda.»

«Wanda? Cosa c’è che non va in Wanda?»

«Niente, ma dovremo estrapolare il suo genoma completo, questo vale anche per te e Manella, ed eventualmente per la nuova bambina.»

«Anche per Bellis? Cosa sta succedendo?»

Seldon esitò. «Raych, sai che tua madre e io abbiamo sempre pensato che ci fosse qualcosa di adorabile in te, qualcosa che ispirava affetto e fiducia.»

«So che lo pensavate. Lo ripetevate abbastanza spesso quando tentavate di farmi fare qualcosa di difficile. Ma sarò franco con te. Io non l’ho mai sentito.»

«No, però hai saputo conquistare me e Dors.» (Aveva difficoltà a pronunciare quel nome anche se erano passati quattro anni dalla sua distruzione.) «Hai conquistato Rachelle di Wye. Hai conquistato Joranum. Hai conquistato Manella. Come spieghi tutto questo?»

«Intelligenza e fascino» rispose Raych sogghignando.

«Non hai mai pensato di poter essere in contatto con le loro... voglio dire, le nostre menti?»

«No, non ci ho mai pensato. E ora che lo dici, penso che sia un’ipotesi ridicola. Naturalmente con tutto il rispetto, papà.»

«Cosa faresti se ti dicessi che Wanda sembra aver letto nella mente di Yugo in un momento di crisi?»

«Una coincidenza, direi, o una fantasia.»

«Raych, io conoscevo una persona che poteva manipolare le menti con la stessa facilità con la quale tu e io sappiamo parlare.»

«Chi era?»

«Non posso parlartene. Però credimi sulla parola.»

«Mah» fece Raych dubbioso.

«Sono andato alla biblioteca galattica, a controllare casi simili. C’è una storia curiosa, che risale a circa ventimila anni fa e pertanto al nebbioso periodo delle origini dei viaggi iperspaziali. Riguarda una giovane donna, non molto più anziana di Wanda, capace di comunicare con un intero pianeta che ruotava intorno a un sole chiamato Nemesis.»

«Certo è una fiaba.»

«Certo. Ed è anche incompleta. Ma le somiglianze con Wanda sono stupefacenti.»

«Papà, cos’hai in mente?» chiese Raych.

«Non ne sono sicuro, Raych. Devo conoscere il genoma e trovare altre persone come Wanda. Ho idea che alcuni giovani, non spesso, ma occasionalmente, nascano con simili poteri mentali, ma poi per questo motivo finiscano col trovarsi nei guai e allora imparino a mascherarli. E mentre crescono, la loro abilità, il loro talento, viene sepolto nelle profondità delle loro menti... come in un gesto inconscio di autoconservazione. Senza dubbio nell’impero, o anche solo fra i quaranta miliardi di persone che vivono su Trantor, devono esserci altri individui simili, come Wanda, e, se conosco il genoma che cerco, posso confrontarlo con quello dei potenziali candidati.»

«E cosa ne faresti di loro se li trovassi, papà?»

«Ho idea che siano ciò di cui ho bisogno per l’ulteriore sviluppo della psicostoria.»

«E siccome Wanda è la prima di quel tipo che conosci, tu vorresti farne una psicostorica?»

«Forse.»

«Come Yugo. Papà, no!»

«Perché no?»

«Perché voglio che cresca come una ragazza normale e diventi una donna normale. Non permetterò che tu la metta davanti al radiante primario o a come chiami quello strumento, per trasformarla in una sorta di un monumento vivente alla matematica psicostorica.»

«Può anche darsi che non si arrivi a questo, Raych, ma dobbiamo avere il suo genoma. Tu sai che da migliaia di anni si propone che ogni essere umano faccia registrare il proprio genoma. È solo il costo che impedisce a questa pratica di diventare generalizzata; nessuno ne mette in dubbio l’utilità. Di sicuro ne vedrai anche tu i vantaggi. Se non altro, conosceremo le tendenze di Wanda nei confronti di svariati disordini fisiologici. Se avessimo avuto il genoma di Yugo, sono certo che ora non sarebbe quasi moribondo. Sicuramente possiamo arrivare fino a questo punto.»

«Be’, forse, papà, ma non oltre. Sono pronto a scommettere che Manella sarà molto più decisa di me.»

«Bene. Ma, ricordati, basta con le conferenze. Ho bisogno di te qui a casa.»

«Vedremo» disse Raych e se ne andò.

Seldon rimase seduto, dubbioso sul da farsi. Eto Demerzel, l’unica persona che a sua conoscenza potesse manipolare le menti, avrebbe saputo cosa fare. Dors, con la sua conoscenza non-umana, avrebbe potuto saperlo a sua volta.

Lui, invece, aveva solo la vaga visione di una nuova psicostoria e nulla di più.

6

Non fu un’impresa facile ottenere il genoma completo di Wanda. Tanto per cominciare, il numero di biofisici attrezzati per quel tipo di operazione era piuttosto ridotto, e quelli che esistevano erano sempre impegnati.

Seldon non poteva nemmeno parlare apertamente delle sue necessità, per poter attirare l’attenzione dei i biofisici. Era assolutamente essenziale, riteneva Seldon, che la vera ragione del suo interesse per i poteri mentali di Wanda venisse tenuta segreta a tutta la galassia.

E se occorreva per caso un’altra difficoltà: il processo era tremendamente dispendioso.

Seldon scosse il capo e disse a Mian Endelecki, il biofisico che stava consultando: «Perché è così costoso, dottoressa Endelecki? Non sono un esperto del campo, ma a quanto ne so il processo è del tutto computerizzato e, una volta ottenuto un frammento di cellule dell’epidermide, il genoma può essere completamente ricostruito e analizzato in pochi giorni».

«Questo è vero. Ma fare in modo che una molecola di acido desossiribonucleico si dipani per tutti i suoi miliardi di nucleotidi, con ogni purina e pirimidina al proprio posto, è davvero la parte meno difficile, professor Seldon. Poi segue il problema di studiarli uno alla volta e di confrontarli con un campione generale.

«Ora, in primo luogo bisogna tenere presente che, per quanto si abbiano registrazioni di genomi completi, essi rappresentano una minuscola frazione di tutti i genomi esistenti, quindi non possiamo sapere esattamente fino a che punto siano generali.»

«Perché ne possedete così pochi?»

«Per diversi motivi. Il costo, per esempio. Poche persone sono disposte a spendere denaro a questo scopo, a meno che non abbiano fondate ragioni per credere che vi sia qualche aberrazione nel loro genoma. E se non hanno più che valide ragioni, sono riluttanti a farsi analizzare per paura di trovare qualcosa di anomalo. Allora, è proprio deciso a far analizzare il genoma di sua nipote?»

«Sì, senz’altro. È incredibilmente importante.»

«Perché? Mostra segni di anomalie metaboliche?»

«No, non ne mostra nessuna; casomai il contrario, se conoscessi l’opposto di “anomalia”. La considero una persona alquanto insolita e voglio sapere che cosa esattamente la rende tale.»

«Insolita in che senso?»

«Mentalmente, ma mi è impossibile scendere nei dettagli, poiché io stesso non comprendo del tutto il fenomeno. Forse ci riuscirò dopo aver ottenuto il suo genoma.»

«Quanti anni ha?»

«Dodici. Tra poco ne avrà tredici.»

«In questo caso, avrò bisogno del permesso dei genitori.»

Seldon si schiarì la voce. «Potrebbe essere difficile ottenerlo. Sono suo nonno. Non basterebbe il mio?»

«Per quanto mi riguarda, non ci sarebbe alcun problema. Ma sa, ci sono anche delle leggi. Non vorrei perdere la mia licenza a esercitare.»

Seldon dovette allora avvicinare di nuovo Raych. Anche questa volta fu un’impresa difficile, perché Raych protestò di nuovo che lui e sua moglie Manella volevano che Wanda vivesse un’esistenza normale: cosa sarebbe successo se il suo genoma fosse risultato anormale? L’avrebbero isolata per esaminarla e studiarla come un animale da laboratorio? Hari, nella sua fanatica dedizione al progetto psicostorico, l’avrebbe costretta a una vita consacrata solo al lavoro e priva di qualsiasi divertimento, isolandola dalle altre persone della sua età? Ma Seldon era insistente.

«Fidati di me, Raych. Non farei mai niente per danneggiare Wanda. Ma dobbiamo farlo. Devo conoscere il genoma di Wanda. Se ciò che sospetto è vero, potremmo essere sul punto di alterare il corso della psicostoria, del futuro della galassia stessa!»

E così, Raych fu convinto, e in qualche modo ottenne anche il permesso di Manella. E, insieme, i tre adulti condussero Wanda nell’ufficio della dottoressa Endelecki.

Mian Endelecki li accolse sulla porta del suo ufficio. I suoi capelli erano candidi, ma il viso non mostrava tracce di anzianità.

Guardò la bambina, che entrò con un’aria incuriosita, ma senza alcun segno di paura o preoccupazione. Poi rivolse lo sguardo ai tre adulti che l’avevano accompagnata.

«Mamma, papà e nonno, ho ragione?» chiese sorridendo.

«Pienamente ragione» rispose Seldon.

Raych aveva un’aria scontrosa e Manella, con il viso leggermente gonfio e gli occhi rossi, appariva stanca.

«Wanda,» iniziò la dottoressa «ti chiami così, non è vero?»

«Sì, signora» rispose Wanda con la sua voce cristallina.

«Ti dirò esattamente quello che sto per farti. Usi la mano destra, immagino.»

«Sì, signora.»

«Bene. Allora, spruzzerò su una piccola parte del tuo avambraccio sinistro un po’ di anestetico. Sembrerà una ventata di aria fresca, nient’altro. Poi ti gratterò via un po’ di pelle, solo un pezzettino. Non sentirai male, non ci sarà sangue, non resterà alcun segno. Quando avrò finito, ci spruzzerò sopra un po’ di disinfettante. Ci vorranno solo pochi minuti, sei d’accordo?»

«Certo» disse Wanda tendendo il braccio.

Quando ebbe finito, Mian Endelecki disse: «Inserirò il frammento sotto il microscopio, sceglierò una cellula adatta e metterò al lavoro il mio genoanalizzatore computerizzato. Registrerà ogni nucleotide, ma ce ne sono miliardi. Ci vorrà quasi tutta la giornata. È tutto automatico, naturalmente, così non dovrò stare seduta a guardare, ed è inutile che anche voi lo facciate.

«Una volta preparato il genoma, ci vorrà ancora più tempo per analizzarlo. Se volete un lavoro completo, ci vorranno due settimane. È per questo che si tratta di una procedura costosa. Il lavoro è difficile e lungo. Vi chiamerò quando avrò finito». Si girò come se con la famiglia avesse finito e si mise a lavorare alla macchina luccicante sul tavolo di fronte a lei.

«Se dovesse scoprire qualcosa di strano, mi avvertirà immediatamente? Voglio dire, se scoprisse qualcosa nella prima ora non aspetti di finire l’analisi. Non mi tenga col fiato sospeso.»

«Le possibilità di trovare qualcosa nella prima ora sono molto scarse, professor Seldon, ma le prometto che mi metterò subito in contatto con lei se sarà necessario.»

Manella agguantò Wanda per il braccio e la condusse fuori trionfalmente; Raych li seguì trascinando i piedi. Seldon rimase indietro e disse: «È più importante di quanto pensi, dottoressa Endelecki».

Mian Endelecki annuì dicendo: «Qualunque sia il motivo, professore, farò del mio meglio».

Seldon uscì, le labbra serrate. Perché mai avesse pensato che in qualche modo il genoma potesse essere estratto in cinque minuti e che una semplice occhiata sarebbe bastata a trovare la soluzione proprio non riusciva a capirlo. Adesso avrebbe dovuto aspettare per settimane, senza sapere nemmeno cosa avrebbe potuto scoprire.

Strinse i denti. La nuova creatura appena nata dal suo cervello, la Seconda Fondazione, si sarebbe mai realizzata, o era solo un’illusione destinata a restare per sempre tale?

7

Hari Seldon entrò nell’ufficio della dottoressa Endelecki con un sorriso nervoso stampato sul volto.

«Dottoressa, mi aveva detto un paio di settimane. Ormai è trascorso più di un mese.»

Mian Endelecki annuì. «Mi spiace, professor Seldon, ma voleva un esame accurato ed è proprio quello che ho cercato di ottenere.»

«E allora?» L’ansia sul volto di Seldon non scomparve. «Cosa ha trovato?»

«Circa un centinaio di geni difettosi.»

«Cosa? Geni difettosi. Dice sul serio, dottoressa?»

«Certo. Cosa c’è di strano? Non esistono genomi che non contengano almeno un centinaio di geni difettosi; di solito, anzi, sono molto più numerosi. Sa, non è affatto così grave come sembra.»

«No, non lo so. È lei l’esperta, dottoressa, non io.»

La dottoressa Endelecki sospirò e si spostò sulla sedia. «Non sa nulla di genetica, vero, professore?»

«No, non ne so nulla. Non si può sapere tutto.»

«Ha perfettamente ragione. Io, per esempio, non so nulla di questa... come la chiama? Questa sua psicostoria.»

Mian Endelecki alzò le spalle, poi proseguì: «Se volesse spiegarmi qualcosa dovrebbe cominciare dal principio e io, probabilmente, non capirei nulla lo stesso. Quanto alla genetica...».

«Sì?»

«Solitamente un gene imperfetto non implica niente. Esistono dei geni imperfetti, così imperfetti e così cruciali, che sono all’origine di terribili malattie. Tuttavia sono molto rari. La maggior parte dei geni imperfetti, semplicemente, non lavora con una assoluta precisione. Sono come delle ruote leggermente fuori asse. Un veicolo continuerebbe a funzionare, ondeggiando un poco, ma continuerebbe a marciare.»

«È questo che ha Wanda?»

«Sì. Più o meno. Dopotutto, se ogni gene fosse perfetto, noi tutti avremmo lo stesso identico aspetto e ci comporteremmo nello stesso identico modo. Sono le differenze tra i geni che producono persone diverse.»

«Ma non peggiorerà con l’età?»

«Sì. Noi tutti peggioriamo con l’età. Ho notato che zoppicava quando è entrato. Come mai?»

«Un po’ di sciatica» bofonchiò Seldon.

«L’ha avuta per tutta la vita?»

«No di certo.»

«Ecco, alcuni dei suoi geni si sono deteriorati col tempo e ora lei zoppica.»

«E cosa succederà a Wanda col tempo?»

«Non lo so. Non sono in grado di prevedere il futuro, professore; credo che si tratti del suo campo. Comunque, se dovessi cercare di indovinare, direi che non le accadrà niente di strano, almeno geneticamente, tranne l’avanzare dell’età.»

«Ne è sicura?»

«Deve credermi sulla parola. Voleva conoscere il genoma di Wanda e ha corso il rischio di scoprire cose che forse è meglio ignorare. Ma posso dirle che, a mio parere, non esistono i presupposti perché le possa accadere qualcosa di terribile.»

«Dovremmo riparare i geni imperfetti? Possiamo riuscirci?»

«No. In primo luogo, sarebbe molto costoso. E poi, è probabile che non rimarrebbero corretti. E infine, la gente è contraria.»

«Ma perché?»

«Perché è contraria alla scienza in generale. Questo dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, professore. Temo che la situazione attuale, specialmente dopo la morte di Cleon, favorisca la rinascita del misticismo. La gente non crede alla riparazione dei geni con metodi scientifici. Preferirebbe curare le malattie imponendo le mani o con qualche tipo di cerimoniale oscuro. Francamente, mi è piuttosto difficile continuare il mio lavoro. Guadagno molto poco.»

Seldon annuì. «A dire il vero, comprendo benissimo questa situazione. La psicostoria è in grado di spiegarla, ma, onestamente, non credevo che la situazione stesse peggiorando così in fretta. Sono stato troppo preso dal mio lavoro per notare le difficoltà che mi si accumulano intorno.» Sospirò. «Da più di trent’anni assisto al lento sgretolarsi dell’impero galattico e, adesso che ha iniziato a crollare così rapidamente, non riesco a immaginare come potremo fermarlo in tempo.»

«Sta tentando di fare questo?» Mian Endelecki sembrava divertita.

«Sì, ci sto provando.»

«Buona fortuna e torniamo alla sua sciatica. Sa, cinquant’anni fa avremmo potuto curarla. Ora non più.»

«Come mai?»

«Be’, gli strumenti necessari sono scomparsi da tempo; le persone in grado di usarli sono occupate in altri campi. La medicina è in declino.»

“Come tutto il resto” rifletté Seldon. «Ora torniamo a Wanda: ho la sensazione che sia una ragazza con un cervello diverso dagli altri. Cosa le dicono i geni del suo cervello?»

Mian Endelecki si appoggiò allo schienale della sedia. «Professore, sa quanti geni sono coinvolti nel funzionamento del cervello?»

«No.»

«Le ricordo che fra tutti gli aspetti del corpo umano, le funzioni cerebrali sono le più complesse. A dire il vero, per quanto ne sappiamo, non esiste nulla in tutto l’universo che sia più complicato del cervello umano. Quindi, non sarà sorpreso se le dico che ci sono migliaia di geni che hanno un ruolo ben preciso nel funzionamento del cervello.»

«Migliaia?»

«Esattamente. Ed è possibile esaminare questi geni senza trovare niente di strano. La prendo in parola per quanto riguarda Wanda. È una bambina insolita con un cervello fuori dal comune, ma non vedo niente nei suoi geni che mi possa dire qualcosa del suo cervello, tranne, ovviamente, che è normale.»

«Saprebbe individuare altre persone i cui geni incaricati delle funzioni mentali siano uguali a quelli di Wanda, che abbiano per così dire lo stesso “schema mentale”?»

«Ne dubito fortemente. Anche se un altro cervello fosse molto simile al suo, ci sarebbero sempre enormi differenze nei geni. È inutile cercare somiglianze. Mi dica, professore, cosa le fa pensare che Wanda abbia una mente così particolare?»

Seldon scosse il capo. «Mi dispiace. È una cosa di cui non posso parlare.»

«In questo caso, sono sicura di non poter trovare niente per lei. Come ha scoperto che c’era qualcosa di insolito nel suo cervello, se di questo può parlare?»

«Per caso» mormorò Seldon. «Per un semplice caso.»

«Allora, dovrà trovare altri cervelli come il suo affidandosi ancora al caso. Non si può fare altro.»

Su entrambi scese il silenzio. Infine Seldon disse: «Non c’è altro che può dirmi?».

«Temo di no. Tranne che le spedirò la mia parcella.»

Seldon si alzò con uno sforzo. La sua sciatica lo faceva soffrire parecchio. «Be’, allora grazie, dottoressa. Mi mandi la parcella e la pagherò.»

Hari Seldon lasciò l’ufficio della dottoressa, chiedendosi cos’altro poteva fare ora.

8

Come ogni intellettuale, Hari Seldon aveva sempre utilizzato liberamente la biblioteca galattica. La maggior parte delle volte ne aveva usufruito a distanza, grazie al computer, ma a volte l’aveva visitata, più per sottrarsi alle pressioni del Progetto Psicostoria che per altro. Negli ultimi due anni, da quando aveva formulato per la prima volta il piano di trovare altre persone come Wanda, aveva ottenuto un ufficio privato nell’edificio, in modo da poter accedere prontamente al vasto agglomerato di dati presente nella biblioteca. Aveva anche preso in affitto un piccolo appartamento in un settore adiacente, sotto la cupola, per poter raggiungere a piedi la biblioteca quando le sue continue ricerche laggiù gli impedivano di tornare nel settore di Streeling.

Ora, tuttavia, le cose erano cambiate, e voleva incontrare Las Zenow. Era la prima volta che lo incontrava faccia a faccia.

Non era cosa facile organizzare un incontro personale con il bibliotecario capo della biblioteca galattica. L’idea che lui stesso aveva della natura e del valore del suo incarico era piuttosto alta e si diceva frequentemente che, quando l’imperatore stesso voleva consultare il bibliotecario capo, doveva andare in visita alla biblioteca e aspettare il suo turno.

Seldon, comunque, non ebbe problemi. Zenow lo conosceva bene, anche se non l’aveva mai visto di persona. «È un onore, primo ministro» lo salutò.

Seldon sorrise. «Certo lei sa che non occupo più questa carica da sedici anni.»

«L’onore del titolo è ancora suo. Inoltre, il suo contributo è stato decisivo per liberarci dalla brutale tirannia della Giunta. La Giunta, in numerose occasioni, aveva violato la sacra regola di neutralità e di disponibilità universale della biblioteca.»

“Ah,” pensò Seldon “questo spiega la prontezza con cui mi ha ricevuto.”

«Semplici dicerie» disse ad alta voce.

«E ora mi dica, professore,» chiese Zenow che non seppe trattenersi dal lanciare uno sguardo alla cronofascia al polso «cosa posso fare per lei?»

«Bibliotecario capo,» esordì Seldon «non sono venuto a chiederle una cosa facile. Ciò che desidero è uno spazio maggiore nella biblioteca. Vorrei il permesso di far entrare alcuni miei colleghi. Vorrei il permesso di iniziare un lungo e complicato progetto della massima importanza.»

La faccia di Las Zenow assunse un’espressione preoccupata. «Mi chiede molto. Può spiegarmi l’importanza di questo progetto?»

«Sì. L’impero si sta disintegrando.»

Ci fu una lunga pausa. Poi Zenow disse: «Ho sentito parlare delle sue ricerche sulla psicostoria. Mi è stato detto che promette di poter rivelare il futuro. Sta parlando di previsioni psicostoriche?».

«No. Non abbiamo ancora perfezionato la psicostoria a tal punto da poter parlare del futuro con sicurezza. Ma non ha bisogno della psicostoria per sapere che l’impero si sta disgregando. Può vederne le prove lei stesso.»

Zenow sospirò. «Il mio lavoro mi assorbe totalmente, professor Seldon. Sono come un bambino quando si tratta di affrontare questioni politiche e sociali.»

«Può consultare le informazioni contenute nella biblioteca, se vuole. Guardi il suo ufficio, è pieno all’inverosimile di ogni genere di informazioni provenienti da tutto l’impero.»

«Ho paura di essere sempre l’ultimo a essere aggiornato su questi fatti» e qui Zenow sorrise tristemente. «Conosce il vecchio proverbio: il figlio del ciabattino non ha scarpe. Tuttavia, mi sembra che l’impero sia stato ricostituito. Abbiamo ancora un imperatore.»

«Solo di nome, bibliotecario capo. Nella maggior parte delle province esterne, il nome dell’imperatore viene pronunciato solo di quando in quando, e per banali motivi di protocollo. I Mondi esterni hanno il totale controllo dei loro programmi e, cosa più importante, controllano le forze armate locali che sono fuori dalla portata dell’autorità centrale. Se l’imperatore dovesse cercare di esercitare il suo potere al di fuori dei Mondi interni, fallirebbe. Dubito che passeranno più di vent’anni, alla periferia, prima che qualcuno dei Mondi esterni dichiari la propria indipendenza.»

Zenow sospirò ancora. «Se ha ragione, viviamo nel periodo peggiore che l’impero abbia mai visto. Ma cosa ha a che fare tutto questo col suo desiderio di un ufficio e di un gruppo di lavoro qui nella biblioteca?»

«Se l’impero si sgretola, la biblioteca galattica potrebbe non sfuggire alla catastrofe generale.»

«Oh, ma deve riuscirci» disse ansiosamente Zenow. «Abbiamo vissuto tempi difficili anche prima, ed è sempre stato implicito per tutti che la biblioteca galattica su Trantor, in quanto deposito di tutta la conoscenza umana, dovesse rimanere intatta. E così sarà anche in futuro.»

«Potrebbe non essere così. Ha detto lei stesso che la Giunta ha violato la sua neutralità.»

«Non gravemente.»

«Potrebbe essere più grave la prossima volta, e non possiamo permettere che questo deposito di tutta la conoscenza umana sia danneggiato.»

«Come potrebbe impedirlo una sua maggiore presenza fra queste mura?»

«Non potrebbe. Ma il progetto che mi interessa sarà in grado di farlo. Voglio creare una grande Enciclopedia che raccolga tutte le conoscenze di cui l’umanità avrà bisogno per ricostruire se stessa, nel caso avvenga il peggio. Un’Enciclopedia galattica, se così vogliamo chiamarla. Non abbiamo bisogno di tutto ciò che la biblioteca contiene. Molte informazioni sono banali, le biblioteche provinciali sparse nella galassia potrebbero essere a loro volta distrutte; ma anche se sopravvivessero, le informazioni (tranne quelle locali) sono ottenute tramite un collegamento computerizzato con la biblioteca galattica. Ciò che intendo creare, allora, è un’opera completamente autonoma e che contenga, nella forma più concisa possibile, le informazioni essenziali di cui l’umanità ha bisogno.»

«E se anche la sua opera finisse con l’essere distrutta?»

«Spero che non accada. È mia intenzione trovare un pianeta lontano, ai confini della galassia, un pianeta dove potrò trasferire i miei enciclopedisti per farli lavorare in pace. Fino a quando non troverò un luogo simile, vorrei che il nucleo del gruppo lavorasse qui e potesse usufruire delle risorse della biblioteca, per decidere cosa sarà necessario al progetto.»

Zenow fece una smorfia. «Comprendo le sue intenzioni, professor Seldon, ma non sono sicuro che si possa fare.»

«Perché no, bibliotecario capo?»

«Perché essere bibliotecario capo non mi rende un monarca assoluto. Ho un Consiglio direttivo piuttosto numeroso, una specie di corpo legislativo al quale non credo di riuscire a far approvare questo progetto.»

«Sono sbalordito.»

«Non è il caso. Vede, non sono un bibliotecario capo molto popolare. Il Consiglio si batte, da qualche anno, per un accesso limitato alla biblioteca; finora ho resistito. Il Consiglio non digerisce il fatto che io le abbia concesso l’uso di un piccolo ufficio privato.»

«Accesso limitato?»

«Esattamente. L’idea è che, se qualcuno ha bisogno di informazioni, dovrebbe mettersi in contatto con un bibliotecario e questi provvederà a trovare ciò che è stato richiesto. Il Consiglio non vuole che la gente abbia libero accesso alla biblioteca e utilizzi i computer direttamente. Dicono che le spese necessarie per la manutenzione dei computer e delle altre attrezzature della biblioteca stanno diventando proibitive.»

«Ma è impossibile. Esiste la tradizione millenaria di una biblioteca galattica aperta a chiunque.»

«È vero, ma negli ultimi anni i fondi destinati alla biblioteca sono stati ridotti numerose volte, e non riceviamo più tutto il denaro che un tempo avevamo. Sta diventando molto difficile mantenere in buono stato le nostre attrezzature.»

Seldon si strofinò il mento. «Ma se i vostri stanziamenti stanno diminuendo, immagino che dovrete diminuire i salari e licenziare qualcuno, o almeno non assumere nuovi dipendenti.»

«Ha capito perfettamente.»

«Ma in questo caso come potrete assegnare nuovi compiti a un personale già in diminuzione, chiedendo loro di ottenere tutte le informazioni che il pubblico richiederebbe?»

«L’idea del Consiglio è che non dovremmo cercare tutte le informazioni richieste dal pubblico, ma solo quelle che noi reputeremo importanti.»

«Così non solo abbandonereste l’idea di una biblioteca aperta, ma anche di una biblioteca universale.»

«Temo di sì.»

«Non posso credere che un bibliotecario sia capace di tanto.»

«Non conosce Gennaro Mummery, professor Seldon.» Dinanzi allo sguardo vacuo di Seldon, Zenow continuò: «Si domanda chi sia, non è vero? È il capo della fazione del Consiglio che vuole chiudere la biblioteca. Un numero sempre maggiore di membri del Consiglio si schiera dalla sua parte. Se permettessi a lei e ai suoi colleghi di insediarvi nella biblioteca come gruppo indipendente, alcuni membri del Consiglio che attualmente non sono schierati con Mummery, ma che sono contrari al controllo di una benché minima parte della biblioteca da parte di non-bibliotecari, potrebbero decidere di schierarsi con lui. In tal caso sarei costretto a lasciare l’incarico di bibliotecario capo».

«Ora mi ascolti» disse Seldon con improvviso fervore. «Tutta questa faccenda di chiudere la biblioteca, di renderla meno accessibile, di rifiutare le informazioni e l’intera questione degli stanziamenti in declino non è che un segno della disgregazione imperiale. Non è d’accordo?»

«Mettendola così, forse ha ragione.»

«Allora mi permetta di parlare al Consiglio. Mi lasci spiegare che cosa potrebbe riservarci il futuro, e quello che voglio fare. Forse riuscirò a convincerli, così come spero di aver convinto lei.»

Zenow rifletté per un istante. «Sono disposto a lasciarla tentare, ma certo sa che potrebbe anche non funzionare.»

«Devo correre questo rischio. La prego di occuparsi di tutto il necessario e di informarmi quando e dove potrò incontrare il Consiglio.»

Seldon lasciò l’ufficio di Zenow infastidito. Tutto quello che aveva detto al bibliotecario capo era vero e di ben scarsa importanza. Il reale motivo per cui aveva bisogno di servirsi della biblioteca rimaneva però nascosto.

In parte, quel motivo restava nascosto perché lui stesso non comprendeva chiaramente come se ne sarebbe servito.

9

Hari Seldon sedeva pazientemente e con tristezza accanto al letto di Yugo Amaryl. Yugo era fortemente deperito e la medicina, anche se lui avesse acconsentito a ricorrervi, non poteva offrirgli alcun aiuto; del resto, non l’avrebbe mai voluto.

Aveva solo cinquantacinque anni. Seldon stesso ne aveva sessantasei ed era ancora in buona salute, tranne per le stoccate della sciatica, o qualunque altra cosa fosse, che occasionalmente lo rendevano zoppo.

Gli occhi di Amaryl si aprirono. «Sei ancora qui, Hari?»

Seldon annuì. «Non ti lascio.»

«Finché non morirò?»

«Sì.» Poi, con un sussulto di dolore, disse: «Perché l’hai fatto, Yugo? Se tu avessi vissuto con più buon senso, adesso avresti ancora altri venti, trent’anni da vivere».

Amaryl sorrise debolmente. «Vivere con più buon senso? Vuoi dire fare delle pause? Viaggiare? Divertirmi con cose inutili?»

«Sì. Sì.»

«Così avrei continuato a desiderare di ritornare al mio lavoro, o avrei imparato a godere nello sprecare il mio tempo, e negli altri venti o trent’anni di cui stai parlando non avrei compiuto alcun progresso. Guardati.»

«Cosa c’è che non va?»

«Per dieci anni sei stato primo ministro sotto Cleon. Quanto ti sei occupato della scienza allora?»

«Ho passato circa un quarto del mio tempo con la psicostoria» rispose cordialmente Seldon.

«Esageri sempre. Se non fosse stato per me, che continuavo a picchiare duro, i progressi della psicostoria si sarebbero arrestati di colpo.»

Seldon annuì. «Hai ragione, Yugo. Di questo ti sono grato.»

«E prima e dopo, quando hai cominciato a dedicare metà del tuo tempo ai doveri amministrativi, chi era che faceva, e ha fatto, tutto il lavoro? Eh?»

«Tu, Yugo.»

«Esatto.» I suoi occhi si chiusero ancora.

«Però ti sei sempre mostrato disposto ad assumerti quei doveri amministrativi se fossi vissuto più a lungo di me.»

«No! Volevo essere a capo del progetto per continuare a spingerlo nella direzione giusta, ma avrei delegato a qualcuno tutte le cartacce.»

Amaryl respirava sempre più affannosamente, ma poi lui si scosse e i suoi occhi si aprirono fissando Hari. «Cosa succederà alla psicostoria quando non ci sarò più? Ci hai pensato?»

«Sì. E voglio parlartene. Potrebbe farti piacere. Yugo, credo che la psicostoria stia per subire una rivoluzione.»

Amaryl corrugò leggermente la fronte: «E in che modo? Come idea non mi piace».

«Ascoltami, l’idea è stata tua. Anni fa, mi hai detto che avremmo dovuto creare due Fondazioni. Separate... isolate e sicure, e disposte in modo tale da formare i nuclei di un eventuale Secondo impero galattico. Ricordi che è stata una tua idea?»

«Le equazioni psicostoriche...»

«Lo so. Suggerivano una simile possibilità. Ci sto lavorando proprio adesso, Yugo. Sono riuscito a scavarmi una nicchia nella biblioteca galattica.»

«La biblioteca galattica.» La fronte di Amaryl si corrugò ancora di più. «Quella gente non mi piace. Sono un branco di idioti tronfi e pomposi.»

«Il bibliotecario capo, Las Zenow, non è così male, Yugo.»

«Hai mai incontrato un bibliotecario di nome Mummery, Gennaro Mummery?»

«No, ma ne ho sentito parlare.»

«Un essere umano miserabile. Una volta abbiamo litigato, perché lui aveva detto che io non avevo rimesso al posto giusto qualcosa. Non avevo fatto niente del genere, Hari, e mi infuriai sul serio. All’improvviso, fu come se fossi tornato a Dahl. C’è da dire una cosa sulla cultura dahlita, Hari, ed è che come fonte di invettive è un’autentica miniera. Ne ho usata qualcuna contro di lui, poi gli ho detto che stava interferendo con la psicostoria e che sui libri di storia sarebbe stato indicato come un infame farabutto. Però non ho detto proprio “farabutto”.» Amaryl ridacchiò debolmente. «L’ho lasciato senza parole.»

Di colpo Seldon comprese quale poteva essere l’origine dell’astio di Mummery nei confronti degli estranei e, più probabilmente, della psicostoria, ma non disse nulla.

«Il fatto è, Yugo, che tu volevi due Fondazioni in modo che, se una fosse fallita, l’altra avrebbe potuto continuare, ma noi siamo andati oltre.»

«In che modo?»

«Ricordi che Wanda è riuscita a leggere nella tua mente e a notare che c’era qualcosa di sbagliato nelle equazioni del radiante primario?»

«Sì, certo.»

«Be’, troveremo altri come lei. Avremo una Fondazione che sarà composta in massima parte da scienziati fisici, che custodiranno il sapere dell’umanità e serviranno da nucleo del Secondo impero. E ci sarà una Seconda Fondazione formata solo da psicostorici, da mentalisti psicostorici in grado di toccare le menti, che potranno lavorare sulla psicostoria in modo pluri-mentale, facendola avanzare più rapidamente di quanto potrebbero dei pensatori individuali. Sarà il gruppo che introdurrà gli ultimi aggiustamenti mano a mano che passerà il tempo, capisci? Sempre sullo sfondo, a osservare. Saranno i guardiani dell’impero.»

«Meraviglioso!» disse Amaryl debolmente. «Meraviglioso! Vedi che ho scelto il momento giusto per morire? Non mi rimane altro da fare.»

«Non dire così, Yugo.»

«Non farne un dramma, Hari. Sono troppo stanco per lavorare ancora. Grazie, grazie per avermi parlato della rivoluzione.»

La sua voce diventava sempre più debole «Mi rende felice... felice.»

Furono le sue ultime parole.

Seldon si piegò sopra il letto. Le lacrime gli pungevano gli occhi e scivolavano lungo le guance.

Un altro vecchio amico si aggiungeva alla lista delle persone care scomparse: prima Demerzel, Cleon, Dors e adesso Yugo lo avevano lasciato sempre più vuoto e solo mano a mano che la vecchiaia avanzava.

E la rivoluzione che aveva permesso ad Amaryl di morire felice poteva anche non avverarsi. Seldon sarebbe riuscito a utilizzare la biblioteca galattica? Sarebbe stato in grado di trovare altre persone come Wanda? E, fattore più importante, quanto ci sarebbe voluto?

Seldon aveva sessantasei anni. Se solo avesse potuto cominciare la sua rivoluzione quando ne aveva trentadue, all’arrivo su Trantor...

Ora poteva essere troppo tardi.

10

Gennaro Mummery lo stava facendo aspettare. Era una scortesia premeditata, addirittura un’insolenza, ma Hari Seldon rimase calmo.

Dopotutto Seldon aveva un grande bisogno di Mummery e irritandosi con lui avrebbe solo fatto del male a se stesso. Anzi, Mummery sarebbe stato deliziato dall’ira di Seldon.

Così Seldon mantenne la calma e attese, e finalmente Mummery entrò. Seldon l’aveva già visto, ma solo da lontano. Quella era la prima volta che si ritrovavano insieme da soli.

Mummery era basso e paffuto, con un viso rotondo e una barbetta scura. Aveva sempre un sorriso stampato sul viso, ma dall’assenza di pieghe divertite intorno alle labbra, Seldon sospettava che fosse soltanto una maschera fissa priva di significato. Tutt’al più serviva a rivelare i denti ingialliti, e l’inevitabile berretto di Mummery era di un giallo simile, con una linea marrone che serpeggiava tutt’intorno.

Seldon avvertì un accenno di nausea. Ebbe la netta impressione che Mummery gli sarebbe riuscito antipatico, anche in assenza di altri eventuali motivi.

Mummery disse senza alcun preliminare: «Bene, professore, che cosa posso fare per lei?». Guardò la cronofascia alla parete, ma non si scusò affatto per essere arrivato in ritardo.

«Vorrei chiederle, signore,» disse Seldon «di porre fine alla sua ostilità in merito alla mia presenza nella biblioteca.»

Mummery allargò le braccia. «Lei è qui da due anni. Di quale ostilità sta parlando?»

«Finora, la parte del Consiglio che lei rappresenta e i membri con le sue stesse opinioni non sono riusciti a mettere in minoranza il bibliotecario capo, ma ci sarà un’altra riunione il mese prossimo e Zenow mi ha detto di essere incerto sul risultato.»

Mummery alzò le spalle. «Anch’io sono incerto. Il suo contratto d’affitto, se si può chiamare così, potrebbe essere rinnovato.»

«Ma ho bisogno di ben altro, bibliotecario Mummery. Vorrei portare con me alcuni colleghi. Il progetto che attualmente mi sta impegnando, ovvero la preparazione di tutto il materiale che sarà necessario alla compilazione di un’Enciclopedia veramente speciale, non è qualcosa di cui mi posso occupare da solo.»

«Di sicuro i suoi colleghi possono lavorare dove vogliono. Trantor è grande.»

«Dobbiamo lavorare nella biblioteca. Sono una persona anziana, signore, e ho fretta.»

«Chi può resistere all’avanzata del tempo? Non credo che il Consiglio le permetterà di portare qui dei colleghi. Un tentativo di mettere radici, professore?»

“Sì, è proprio questo” pensò Seldon, ma non disse una parola.

«Fino a questo momento non sono riuscito a impedirle di rimanere qui dentro, professore. Fino a questo momento. Ma credo che riuscirò a tenere fuori i suoi colleghi.»

Seldon capì che non stava approdando a nulla. Aprì di una tacca il rubinetto della franchezza. «Bibliotecario Mummery, sicuramente il suo astio nei miei confronti non è qualcosa di personale. Certamente lei comprende l’importanza del lavoro che sto svolgendo.»

«Vuole dire la psicostoria? Via, ci lavora da tanto tempo; più di trent’anni, e cosa ha ottenuto?»

«Il punto è questo. Ora si potrebbe ottenere qualcosa.»

«Allora lasci che sia l’università a ottenerla. Perché dovrebbe essere la biblioteca?»

«Bibliotecario Mummery. Mi ascolti. Lei vuole chiudere la biblioteca al pubblico. Vuole infrangere una lunga tradizione. Come può avere il coraggio di fare una cosa simile?»

«Non è il coraggio che ci serve. Sono i fondi. Di sicuro il bibliotecario capo è venuto a piangere sulla sua spalla raccontandole i nostri guai. Gli stanziamenti sono in diminuzione, i salari ridotti, la manutenzione necessaria è assente. Cosa possiamo fare? Dobbiamo tagliare i servizi, e non possiamo certo permetterci di fornire a lei e ai suoi colleghi uffici e attrezzature.»

«La situazione è stata riferita all’imperatore?»

«Suvvia, professore, sta sognando. Non è forse vero che la sua psicostoria le dice che l’impero si sta deteriorando? Ho sentito dire che ormai la chiamano “Corvo” Seldon, qualcosa che, se non vado errato, si riferisce a un mitico uccello del malaugurio.»

«È vero che stiamo entrando in un periodo buio.»

«E crede che la biblioteca sia immune da questi tempi calamitosi? Professore, la biblioteca è tutta la mia vita e voglio che continui, ma non sarà in grado di farlo se non riusciamo a trovare qualche modo per far bastare i nostri fondi in diminuzione. E adesso viene qui aspettandosi una biblioteca accogliente con lei come semplice beneficiario. No, professore, così non può andare.»

Seldon disse disperatamente: «E se trovassi io i fondi che le servono?».

«Davvero? E come?»

«Potrei parlare all’imperatore. Sono stato primo ministro. Mi riceverà e mi darà ascolto.»

«E vorrebbe ottenere dei fondi da lui?» Mummery rise.

«Se ci riesco, se aumento gli stanziamenti, potrò far entrare i miei colleghi?»

«Innanzitutto ci procuri i fondi, dopo vedremo, anche se non credo proprio che ci riuscirà.»

Sembrava essere molto sicuro di sé e Seldon si chiese quante altre volte, e quanto inutilmente, la biblioteca si fosse già appellata all’imperatore.

Si chiese pure se la sua richiesta sarebbe stata accolta.

11

L’imperatore Agis XIV non aveva alcun diritto di fregiarsi di quel nome.

Lo aveva adottato quando era salito al trono con la deliberata intenzione di collegarsi alla dinastia Agis che aveva regnato duemila anni prima, in particolare ad Agis VI che durante un regno durato quarantadue anni aveva saputo mantenere l’ordine in un impero prospero con mano ferma ma non tirannica.

Agis XIV non somigliava a nessuno dei vecchi imperatori della dinastia, sempre che le registrazioni olografiche dell’epoca fossero degne di fiducia. D’altra parte, non somigliava neppure al suo ologramma ufficiale che veniva fatto circolare fra la popolazione.

Con una punta di nostalgia Hari Seldon pensava spesso che il suo vecchio imperatore, Cleon I, nonostante tutti i suoi difetti e le sue debolezze, aveva certamente avuto un aspetto imperiale.

Agis XIV non ne possedeva neppure l’ombra. Seldon non lo aveva mai visto a distanza ravvicinata, ma i pochi ologrammi che gli erano capitati sotto gli occhi erano scandalosamente manipolati. L’ologrammatore imperiale conosceva il suo mestiere e lo svolgeva bene, pensò tristemente Seldon.

Agis XIV era basso, con un viso poco attraente e occhi leggermente sporgenti che non brillavano di intelligenza. La sua sola qualifica per il trono era una parentela collaterale con Cleon.

A suo merito, tuttavia, bisognava riconoscere che non tentava di recitare il ruolo del possente imperatore. Circolava voce che gradisse farsi chiamare “cittadino imperatore”, e che solo la decisa – nonché oltraggiata – opposizione dell’intero personale del palazzo e della guardia imperiale gli impedisse di entrare nella cupola e di andarsene a zonzo per le strade di Trantor. A quanto pareva, dicevano le stesse voci, lui avrebbe voluto stringere la mano ai cittadini e udire, in prima persona, le loro lamentele.

“Un punto a suo favore,” pensò Seldon “anche se non glielo permetteranno mai.”

Con un vago mormorio e un inchino, Seldon disse: «Vi ringrazio, sire, per aver acconsentito a ricevermi».

Agis XIV possedeva una voce limpida e forte, piuttosto bella, che contrastava totalmente con il suo aspetto. «Un ex primo ministro merita certo alcuni privilegi, anche se devo complimentarmi con me stesso per il sorprendente coraggio di cui sto dando prova accettando di incontrarla.»

C’era una sfumatura divertita in quelle parole, e Seldon si rese bruscamente conto che un uomo poteva non sembrare intelligente e tuttavia esserlo ugualmente.

«Coraggio, sire?»

«Ma certo. Non la chiamano forse “Corvo” Seldon?»

«Ho sentito per la prima volta questa associazione, sire, solo l’altro giorno.»

«Sembra che il riferimento riguardi la sua psicostoria, che stando alle voci predice la caduta dell’impero.»

«Ne indica soltanto la possibilità, sire.»

«Così hanno abbinato il suo nome a quello di un mitico uccello del malaugurio. Tuttavia, io penso che l’uccello del malaugurio sia lei.»

«Spero vivamente di no, sire.»

«Andiamo, andiamo. Le registrazioni negli archivi parlano chiaro. Eto Demerzel, il vecchio primo ministro di Cleon, rimase colpito dal suo lavoro e guardi cosa gli è successo: ha dovuto abbandonare il suo incarico e andarsene in esilio. Lo stesso imperatore Cleon rimase impressionato dal suo lavoro, e cosa gli successe? Fu assassinato. La Giunta militare rimase colpita a sua volta e indovini cosa accadde? Furono spazzati via. Si dice che perfino i joranumiti fossero impressionati dal suo lavoro e, guarda un po’, vennero distrutti. Adesso, Corvo Seldon, lei viene a far visita a me. Cosa posso aspettarmi?»

«Nulla di male, sire.»

«Lo penso anch’io, poiché a differenza di tutti quelli che ho menzionato, io non sono affatto colpito dal suo lavoro. Ora mi dica perché è qui.»

Agis XIV ascoltò attentamente e, senza interrompere, mentre Seldon spiegava l’importanza di creare un progetto destinato a preparare un’Enciclopedia che preservasse il sapere umano nel caso che le peggiori prospettive si avverassero.

«Ecco, ecco,» disse infine Agis XIV «quindi lei è davvero convinto che l’impero cadrà.»

«È una possibilità fondata, sire, e sarebbe imprudente rifiutarsi di prenderla in considerazione. Da un lato vorrei impedirne la caduta se mi fosse possibile, dall’altro attutirne gli effetti se ciò risultasse superiore alle mie forze.»

«Corvo Seldon, se lei continuerà a ficcare il naso in queste faccende, sono convinto che l’impero cadrà e che nulla potrà salvarlo.»

«Le cose non stanno in questi termini, sire. Chiedo solo il permesso di lavorare.»

«Oh, questo ce l’ha, ma non riesco a capire che altro vuole da me. Perché mi ha raccontato la storia dell’Enciclopedia?»

«Perché vorrei lavorare nella biblioteca galattica, sire, o meglio, per essere più preciso, vorrei che altri ci lavorassero insieme a me.»

«Stia pur certo che non farò nulla per sbarrarle il passo.»

«Questo non basta, sire. Voglio che ci aiutiate.»

«In quale modo, ex primo ministro?»

«Con fondi. La biblioteca deve ricevere sovvenzioni, altrimenti chiuderà i battenti al pubblico e mi sfratterà.»

«Crediti!» Una nota di stupore si insinuò nella voce dell’imperatore. «È venuto a chiedermi crediti?»

«Sì, sire.»

Agis XIV si alzò con una certa agitazione. Seldon si alzò subito a sua volta, ma Agis gli fece cenno di tornare a sedersi.

«Comodo, e non mi tratti come un imperatore. Non volevo questo compito, mi hanno costretto ad accettarlo. Ero il parente più prossimo alla famiglia imperiale e tutti hanno cominciato a riempirmi la testa con il fatto che un impero ha bisogno dell’imperatore. Adesso sono qui e non conto un bel nulla.

«Crediti! Lei pensa che io abbia crediti! Parla sempre della disintegrazione dell’impero. Sta pensando a come accadrà? Pensa a ribellioni? A una guerra civile? A disordini qua e là?

«No. Lei pensa ai crediti. Si rende conto che non riesco a riscuotere tasse da almeno metà delle nostre province? Fanno ancora parte dell’impero – viva l’impero e lunga vita all’imperatore –, ma non pagano le tasse e io non ho la forza necessaria per riscuoterle. E se da queste province non riesco a ottenere crediti, allora non fanno veramente parte dell’impero, no?

«Crediti! L’impero ha un deficit cronico di dimensioni impressionanti. Non riesco a pagare più nulla. Crede che ci siano fondi per la manutenzione dei giardini imperiali? A malapena. Sono costretto a tagliare continuamente le spese. Devo lasciare che il palazzo vada in rovina. Devo lasciare che il numero dei dignitari diminuisca a causa dell’età.

«Professor Seldon, se da me vuole fondi non ho nulla da darle. Dove posso trovare crediti per la biblioteca? Dovrebbero essermi grati se ogni anno, nonostante tutte queste difficoltà, riesco ancora a spremere qualcosa per loro.» Finendo di parlare, l’imperatore sollevò le mani con i palmi in su, come a sottolineare il vuoto desolante dei forzieri imperiali.

Hari Seldon era sbalordito e disse: «Tuttavia, sire, se anche mancano i fondi avete pur sempre il prestigio imperiale. Non potreste ordinare alla biblioteca di permettermi di conservare il mio ufficio e di consentire l’accesso ai miei colleghi che collaborano a un’opera di importanza vitale?».

Al che Agis XIV tornò a sedersi, come se, scampato l’argomento crediti, non fosse più così agitato.

«Lei saprà che per lunga tradizione la biblioteca galattica è autonoma dallo stato almeno quanto lo è il suo autogoverno. La biblioteca segue le proprie regole fin dai tempi di Agis VI, mio illustre omonimo,» sorrise «che tentò di assumere il controllo dell’istituzione e fallì. Se il grande Agis VI non è riuscito nel suo tentativo, lei crede che io avrei migliore fortuna?»

«Non vi chiedo di usare la forza, sire, ma semplicemente di esprimere un cortese desiderio. Sono certo che saranno lieti di fare cosa gradita all’imperatore e di accettare, purché le funzioni vitali della biblioteca non vengano sfiorate.»

«Ahimè, professore, quanto poco sa della biblioteca. Non devo far altro che esprimere un desiderio, per quanto cortese e innocente, per essere certo che loro procederanno, con il massimo sdegno, nella direzione opposta. Sono molto sensibili al più piccolo segno di controllo imperiale.»

«Allora cosa posso fare?»

«Be’, forse posso darle una mano. Mi è appena venuta in mente una cosa. Sono pur sempre un membro del pubblico e, se lo desidero, posso visitare la biblioteca galattica. Si trova sui terreni del palazzo, quindi una mia visita non violerà il protocollo. Ebbene, lei verrà con me e ci comporteremo ostentatamente come due ottimi amici. Non chiederò nulla, ma, se noteranno che ce ne andiamo in giro a braccetto, forse qualche membro del loro prezioso Consiglio direttivo potrà sentirsi meglio disposto nei suoi riguardi. Questo, purtroppo, è tutto ciò che posso fare.»

Un Seldon profondamente deluso si domandò se sarebbe bastato.

12

Las Zenow disse con una sfumatura di rispetto quasi reverente nella voce: «Non sapevo che fosse così intimo amico dell’imperatore, professor Seldon».

«Perché non dovrei? Come imperatore è un uomo molto democratico, ed era interessato alle mie esperienze di primo ministro ai tempi di Cleon.»

«Ha provocato una forte impressione su tutti noi. Erano parecchi anni che un imperatore non entrava nelle nostre sale. Di solito quando al sovrano serve qualcosa dalla biblioteca...»

«Posso immaginarlo. La chiede a gran voce e deve essergli portata immediatamente, come se fosse una cosa dovuta.»

«Una volta venne suggerito» disse Zenow ormai in vena di chiacchierare «di fornire all’imperatore un sistema computerizzato nel suo palazzo, collegato direttamente con il sistema della biblioteca, per evitargli di dover attendere la risposta alle sue richieste. Fu ai vecchi tempi, quando i fondi non mancavano, ma la proposta non venne approvata.»

«Davvero?»

«Oh, certo. Quasi all’unanimità il Consiglio convenne che questo avrebbe permesso all’imperatore di entrare in modo eccessivo nel cuore della biblioteca, minacciando la nostra autonomia.»

«E adesso questo Consiglio, che non è disposto a piegarsi nemmeno per onorare un imperatore, acconsente a lasciarmi restare nella biblioteca?»

«Per il momento, sì. Circola la sensazione, e io ho fatto del mio meglio per incoraggiarla, che, se non ci mostriamo gentili verso un amico personale dell’imperatore, le probabilità di un aumento negli stanziamenti potrebbero svanire del tutto, e così...»

«E così i crediti, o addirittura la vaga prospettiva di crediti futuri, ha fatto sentire il suo peso.»

«Temo proprio di sì.»

«E posso portare dentro i miei colleghi?»

Zenow assunse un’aria imbarazzata.

«Temo di no. L’imperatore è stato visto mentre camminava con lei, non con i suoi colleghi. Mi dispiace, professore.»

Seldon alzò le spalle e si sentì avvolgere da un’ondata di cupa malinconia. In ogni caso, non aveva colleghi da portare con sé. Per un certo periodo aveva sperato di individuare altre persone come Wanda, ma aveva fallito. Anche a lui sarebbero serviti fondi per organizzare una ricerca adeguata. E anche lui, purtroppo, non aveva un soldo.

13

Trantor, la capitale dell’impero, era cambiata notevolmente dal giorno in cui Hari vi aveva posto piede per la prima volta, arrivando da Helicon. Hari si chiese se a rendere così eccitante il ricordo dell’antica Trantor non fosse la sua offuscata memoria di vecchio. O forse era stata l’esuberanza giovanile. Come avrebbe potuto un giovanotto appena arrivato da un mondo provinciale come Helicon non lasciarsi impressionare dalle torri e dalle cupole luccicanti, dalle pittoresche masse di persone che sembravano affollare Trantor giorno e notte?

Ora, pensò tristemente Hari, le strade erano quasi deserte, anche alla piena luce del giorno. Bande girovaghe di delinquenti controllavano diverse zone della città, lottando fra di loro per la conquista di nuovi territori. Il servizio di sicurezza si era ridotto ai minimi termini; le scarse forze rimaste avevano il loro da fare a custodire il palazzo e i suoi dintorni, nonché a trasmettere ripetute lamentele all’ufficio centrale. Naturalmente all’arrivo delle chiamate di emergenza venivano inviati agenti, ma arrivavano sulla scena solo dopo che il crimine era stato commesso e ormai non erano più in grado di proteggere i cittadini di Trantor. Una persona usciva a proprio rischio e pericolo, e il rischio era senz’altro considerevole. Eppure Hari Seldon correva ancora quel rischio, sotto forma di una passeggiata quotidiana, come se sfidasse le forze che distruggevano il suo amato impero a distruggere lui.

E così Hari Seldon camminava, zoppicante e pensieroso.

Nulla aveva funzionato. Nulla. Non era riuscito a isolare lo schema genetico che rendeva Wanda unica e, senza di quello, non poteva individuare altri come lei.

La capacità di Wanda di leggere nella mente si era affinata considerevolmente nei sei anni trascorsi da quando aveva identificato il difetto nel radiante primario di Yugo Amaryl. Wanda era speciale in più di un modo. Era come se, dopo essersi accorta che la sua capacità mentale la separava dalle altre persone, la bambina avesse deciso di comprenderla, di imbrigliare la sua energia, di indirizzarla. Entrando nell’adolescenza era maturata, abbandonando le risatine infantili che l’avevano resa tanto cara a Hari, e al tempo stesso gli era diventata ancora più cara per la sua determinazione nel volerlo aiutare nel suo lavoro con i poteri del suo “dono”. Perché Hari Seldon aveva parlato a Wanda dei suoi piani per una Seconda Fondazione e lei si era impegnata a realizzare quel progetto con lui.

Oggi, però, Seldon era di pessimo umore. Stava giungendo alla conclusione che l’abilità mentale di Wanda non lo avrebbe portato da nessuna parte. Non aveva fondi per proseguire il suo lavoro, niente soldi per individuare altri come Wanda, né per pagare i suoi collaboratori del Progetto Psicostoria a Streeling. Non parliamo dell’importantissimo progetto enciclopedico alla biblioteca galattica.

E adesso?

Continuò a camminare verso la biblioteca. Avrebbe fatto meglio a prendere un gravitaxi, ma voleva camminare, zoppicante o meno. Gli serviva tempo per pensare.

Udì un grido – «Eccolo!» –, ma non vi prestò attenzione.

Si levò di nuovo: «È lui! Psicostoria!».

Quella parola lo costrinse a sollevare lo sguardo. Psicostoria?

Un gruppo di giovinastri si stava avvicinando a lui.

Istintivamente Seldon appoggiò la schiena al muro e sollevò il suo bastone. «Cosa volete?»

Loro scoppiarono a ridere. «Crediti, vecchio. Hai dei crediti?»

«Può darsi, ma perché li volete da me? Avete detto “psicostoria”. Sapete chi sono?»

«Certo, sei Corvo Seldon» rispose il giovane alla testa del gruppo. Sembrava soddisfatto e a proprio agio.

«Sei un bastardo» gridò un altro.

«Cosa farete se non vi consegno i crediti?»

«Ti pesteremo» disse il capo. «E ce li prenderemo.»

«E se vi consegno i miei crediti?»

«Ti pesteremo lo stesso!» E tutti si misero a ridere.

Hari Seldon levò più alto il suo bastone. «State lontani. Tutti quanti.»

Ormai era riuscito a contarli. Erano in otto.

Si sentì leggermente soffocare. Una volta, lui e Dors Venabili erano stati attaccati da dieci teppisti e non avevano avuto problemi a liberarsene. A quell’epoca lui aveva solo trentadue anni e Dors era Dors.

Adesso era diverso. Fece ondeggiare il bastone.

Il capo dei teppisti disse: «Ehi, il vecchio vuole attaccarci. Cosa facciamo?».

Seldon si guardò rapidamente attorno. Non c’erano agenti della sicurezza in vista. Anche quello faceva parte del deterioramento sociale. Qualche sporadica persona passava sull’altro lato del viale, ma era inutile chiamare aiuto. Tutti affrettavano il passo e giravano al largo. Nessuno avrebbe corso il rischio di farsi coinvolgere in un pasticcio simile.

«Il primo che si avvicina si ritrova con la testa rotta» minacciò Seldon.

«Davvero?» Il capo si avvicinò rapido e afferrò il bastone. Ci fu una breve colluttazione e il bastone venne strappato dalla mano di Seldon. Il capo lo gettò da un lato.

«E adesso, vecchio?»

Seldon si rattrappì contro il muro. Poteva solo aspettare i loro colpi. Gli si affollarono intorno, tutti ansiosi di colpirlo almeno una volta o due. Seldon sollevò le braccia per cercare di proteggersi. Era ancora capace di effettuare qualche torsione, in certe condizioni. Se avesse avuto di fronte un avversario, o anche due, forse sarebbe riuscito a torcere il proprio corpo, evitando i loro colpi e rispondendo. Ma non contro otto, di sicuro non contro otto aggressori.

Tentò, a ogni buon conto, di spostarsi in fretta da un lato per scansare i colpi e la sua gamba destra, quella con la sciatica, cedette. Seldon cadde e capì di essere del tutto impotente.

Allora udì una voce stentorea che gridava: «Cosa succede qui? State indietro, banda di teppisti! Indietro o vi ammazzo tutti!».

«Bene, un altro vecchio» disse il capo.

«Non tanto vecchio» disse il nuovo venuto e mollò al giovinastro un manrovescio che gli imporporò metà del viso.

«Raych, sei tu» disse Seldon sorpreso.

Raych fece un cenno con la mano. «Restane fuori, papà. Pensa solo ad alzarti e ad allontanarti.»

Il capo della banda, strofinandosi la guancia, disse: «Ti ammazzeremo per questo».

«No, non ammazzerete nessuno» disse Raych estraendo un coltello di fattura dahlita, lungo e scintillante. Un secondo coltello lo seguì e Raych si ritrovò con una lama in ogni mano.

«Porti ancora i tuoi coltelli, Raych?» chiese Seldon debolmente.

«Sempre. Nulla mi farà mai perdere questa abitudine.»

«Te la faccio perdere io» disse il capo estraendo un fulminatore.

Troppo veloce perché l’occhio potesse coglierne il guizzo, uno dei coltelli volò nell’aria e colpì la gola del capo. Lui emise un suono ansimante, poi una specie di gorgoglio e piombò a terra, mentre gli altri sette guardavano con occhi spalancati.

Raych gli andò vicino e disse: «Rivoglio il mio coltello». Lo estrasse dalla gola del teppista, tagliando la carne nell’operazione, e lo asciugò sulla camicia del giovane. Mentre lo faceva, mise un piede sul suo polso, si chinò e raccolse il fulminatore.

Raych infilò l’arma in una delle sue tasche capaci e disse: «Non mi piace usare un fulminatore, branco di buoni a nulla, perché a volte manco il bersaglio. Però non sbaglio mai con un coltello. Mai! Il vostro compare è morto. Voi ve ne state lì fermi. Intendete restarci ancora, o volete squagliarvela?».

«Prendiamolo!» urlò uno dei teppisti e i sette si lanciarono in avanti.

Raych fece un passo indietro. Un coltello lampeggiò e poi anche l’altro, e due teppisti si arrestarono di colpo, entrambi con una lama piantata nell’addome.

«Ridatemi i miei coltelli» disse Raych estraendoli sempre con quel movimento di taglio e asciugandoli sugli abiti delle vittime.

«Questi due sono ancora vivi, ma non dureranno a lungo. Restate solo voi cinque ancora in piedi. Volete attaccare di nuovo, o preferite andarvene?»

I cinque superstiti si voltarono e Raych gridò loro: «Raccogliete il vostro compagno morto e i moribondi. Io non li voglio».

I teppisti si caricarono frettolosamente i tre corpi sulle spalle, poi fecero dietrofront e se la diedero a gambe.

Raych si chinò a raccogliere il bastone di Seldon. «Ce la fai a camminare, papà?»

«Non molto bene. Mi sono slogato una caviglia.»

«Be’, allora monta sulla mia auto. Che cosa ci facevi a piedi da queste parti, comunque?»

«Cosa c’è di strano? Mi piace passeggiare. Non mi è mai successo nulla.»

«Così hai aspettato finché qualcuno si è fatto coraggio. Monta in auto, ti darò un passaggio fino a Streeling.»

Raych programmò i comandi della terramobile, poi disse: «Peccato non aver avuto Dors con noi. La mamma li avrebbe attaccati a mani nude, si sarebbero ritrovati tutti e otto morti stecchiti nel giro di cinque minuti».

Seldon sentì le lacrime pungergli le palpebre.

«Lo so, Raych, lo so. Credi che io non senta la sua mancanza ogni giorno?»

«Scusami» disse Raych sottovoce.

«Come hai saputo che ero nei guai?»

«Me lo ha detto Wanda. Mi ha detto che parecchie persone malvagie ti stavano tendendo un agguato, mi ha detto dov’erano, e così sono partito subito.»

«Non hai avuto dubbi su quello che ti diceva?»

«Nemmeno uno. Ormai su di lei ne sappiamo abbastanza per capire che ha stabilito una specie di contatto con la tua mente e con tutto ciò che ti riguarda.»

«Ti ha detto quante persone volevano aggredirmi?»

«No. Ha detto solo “parecchie”.»

«E tu sei venuto completamente solo, Raych?»

«Non avevo il tempo di radunare una squadra di emergenza, papà. E poi, uno come me era più che sufficiente.»

«Sì, lo è stato. Grazie, Raych.»

14

Adesso erano a Streeling e la gamba di Seldon era allungata su un poggiapiedi.

Raych lo fissò con occhi cupi. «Papà, d’ora in poi non devi più camminare da solo per le strade di Trantor.»

Seldon aggrottò la fronte. «E perché, a causa di un singolo incidente?»

«Chiamalo incidente! Non sei più in grado di badare a te stesso. Hai settant’anni e la gamba destra non riesce più a sostenerti, nemmeno in caso di emergenza. Inoltre hai dei nemici.»

«Nemici?»

«Sì, papà, e lo sai. Quei topi di fogna non stavano aspettando una persona qualsiasi. Non cercavano un semplice passante da derubare. Si sono assicurati che fossi tu, gridando “psicostoria”. E ti hanno chiamato bastardo. Perché credi che lo abbiano fatto?»

«Non lo so.»

«Questo perché vivi in un mondo tutto tuo, papà, e non ti rendi conto di quello che succede a Trantor. Credi che i trantoriani non sappiano che il loro mondo sta scendendo la china molto rapidamente? Credi che non sappiano che la tua psicostoria predice questo declino da anni? Non ti passa mai per la mente che potrebbero imputare al messaggero il contenuto del suo messaggio? Se le cose vanno male, e stanno andando male, molti possono pensare che tu ne sia il responsabile.»

«Questo non posso crederlo.»

«Secondo te, perché alla biblioteca galattica esiste una fazione decisa a sbatterti fuori? Non vogliono trovarsi in mezzo quando sarai linciato da una folla inferocita. Così devi badare a quello che fai. Non puoi andartene in giro da solo. Dovrò accompagnarti io, oppure dovremo assumere delle guardie del corpo. Sarà necessario, papà.»

Seldon aveva un’aria tremendamente infelice.

Il tono di Raych si ammorbidì. «Ma non per molto, papà. Ho trovato un nuovo lavoro.»

Seldon sollevò lo sguardo. «Un nuovo lavoro. Di che genere?»

«Insegnante. In una università.»

«Quale?»

«Santanni.»

Le labbra di Seldon tremarono. «Santanni! Ma è a novemila parsec da Trantor. È un mondo provinciale all’altro capo della galassia.»

«Esattamente. È per questo che voglio andare là. Ho passato tutta la mia vita su Trantor, papà, e ormai mi sono stancato. Nessun altro mondo in tutto l’impero si sta deteriorando con la stessa rapidità di questo pianeta. È diventato un gigantesco covo di criminali e non c’è più nessuno che ci protegga. L’economia perde colpi, la tecnologia cade a pezzi. Santanni, invece, è un mondo ancora prospero, e voglio trasferirmi là per costruirmi una nuova vita insieme a Manella, Wanda e Bellis. Partiremo tutti fra circa due mesi.»

«Tutti quanti!»

«Anche tu, papà. Anche tu. Non ti lasceremmo mai da solo su Trantor. Verrai con noi su Santanni.»

Seldon scosse il capo. «Questo è impossibile, Raych. Lo sai.»

«Perché è impossibile?»

«Lo sai perché. Il progetto. La mia psicostoria. Mi stai chiedendo di abbandonare il lavoro di tutta la mia vita?»

«Perché no? Il lavoro ti ha abbandonato.»

«Sei pazzo.»

«No, niente affatto. Dove vorresti arrivare? Non hai fondi e non riesci a trovarne. Su Trantor non c’è più nessuno disposto ad aiutarti.»

«Per quasi quarant’anni...»

«Sì, lo riconosco. Ma dopo quasi quarant’anni hai fallito, papà. Fallire non è un delitto. Hai tentato con tutte le tue forze e ti sei spinto molto avanti, ma adesso devi affrontare un’economia in disfacimento, un impero in declino. È proprio quello che predici da tanto tempo che alla fine ti blocca. Quindi...»

«Non mi fermerò. In qualche modo riuscirò ad andare avanti.»

«Senti cosa si può fare, papà. Se vuoi davvero fare il testardo, allora porta con te la psicostoria. Ricomincia su Santanni. Forse là troverai finanziamenti ed entusiasmo per continuare il tuo lavoro.»

«E gli uomini e le donne che hanno lavorato a lungo e così fedelmente per me?»

«Oh, sciocchezze, papà. Loro ti lasciano perché non puoi più pagarli. Rimani qui un altro paio d’anni e ti ritroverai solo. Andiamo, credi che mi faccia piacere parlarti in questo modo? È perché nessuno ha mai voluto farlo, perché nessuno ha mai avuto il coraggio di farlo, se adesso ti trovi in questa situazione. Cerchiamo di essere onesti l’uno con l’altro. Quando cammini per le strade di Trantor e vieni aggredito per il solo fatto di essere Hari Seldon, non credi che sia venuto il momento di accettare almeno una briciola di verità?»

«Lascia perdere la verità. Non ho intenzione di lasciare Trantor.»

Il figlio scosse il capo. «Ero strasicuro che ti saresti impuntato, papà. Hai due mesi di tempo per cambiare idea. Pensaci, d’accordo?»

15

Da parecchio tempo Hari Seldon non sorrideva più. Continuava a occuparsi del progetto come aveva sempre fatto, spingendo al massimo lo sviluppo della psicostoria, facendo piani per la Fondazione, studiando il radiante primario.

Ma non sorrideva e badava solo a concentrarsi sul suo lavoro senza provare alcuna sensazione di un successo imminente. Anzi, tutto gli sembrava circonfuso da un alone di ormai prossimo fallimento.

Quel giorno era seduto nel suo ufficio all’Università di Streeling, quando entrò Wanda. Lui alzò lo sguardo e si sentì allargare il cuore. Lei era sempre stata speciale. Seldon non avrebbe saputo dire in quale momento esatto lui e gli altri avessero cominciato ad accettare le sue dichiarazioni con qualcosa di più del solito entusiasmo: gli sembrava che fosse sempre stato così. Da bambina gli aveva salvato la vita con la sua sorprendente scoperta della “morte alla limonata” e durante tutta l’infanzia aveva dimostrato che, in chissà quale modo, lei sapeva certe cose.

Benché la dottoressa Endelecki avesse dichiarato che il genoma di Wanda era normale sotto ogni aspetto, Seldon era ancora persuaso che sua nipote possedesse capacità mentali di gran lunga superiori a quelle dei comuni esseri umani. Era anche convinto che nella galassia, o addirittura su Trantor, dovessero esistere altri come lei. Se solo fosse riuscito a individuarli, a scoprire questi “mentalisti” (come lui li definiva nell’intimità dei suoi pensieri), quale grandioso contributo avrebbero potuto dare alla Fondazione. E il potenziale di una tale grandezza era interamente imperniato sulla sua bellissima nipote. Seldon la fissò, incorniciata dal vano della porta, e si sentì spezzare il cuore. Fra pochi giorni lei se ne sarebbe andata.

Come avrebbe fatto a sopportare la sua assenza? A diciotto anni compiuti era una splendida ragazza. Lunghi capelli biondi, un viso leggermente largo, ma con la tendenza a sorridere. Sorrideva anche adesso e Seldon non se ne stupì. Era sul punto di partire per Santanni e verso una nuova vita.

«Allora, Wanda, ormai mancano pochi giorni alla tua partenza.»

«No. Non lo credo proprio, nonno.»

Lui la fissò. «Come?»

Wanda si avvicinò e lo abbracciò. «Non vado su Santanni.»

«Tuo padre e tua madre hanno per caso cambiato idea?»

«No, loro partiranno.»

«E tu non parti con loro? Perché? Dove andrai?»

«Resterò qui, nonno. Con te.» Lo strinse affettuosamente. «Povero nonno!»

«Ma non capisco. Perché? Loro te lo permettono?»

«Vuoi dire mamma e papà? Non esattamente. Ne abbiamo discusso per settimane e settimane, ma alla fine ho vinto io. Cosa c’è di male, nonno? Loro andranno su Santanni, potranno stare insieme e avranno con loro anche la piccola Bellis. Ma se io parto e ti lascio qui, tu non avrai nessuno. Non credo che riuscirei a sopportarlo.»

«Ma come sei riuscita a convincerli?»

«Be’, ho dato una spinta.»

«Cosa significa?»

«È la mia mente. Posso vedere cosa c’è nella tua e nelle loro, e con il passare del tempo riesco a vederlo sempre più chiaramente. E poi riesco a spingerle a fare ciò che voglio.»

«Come riesci a farlo?»

«Non lo so. Ma dopo un po’ loro si stancano di essere spinte e accettano di lasciarmi fare a modo mio. Così resterò con te.»

Seldon la fissò con una specie di amore impotente. «È magnifico, Wanda, ma Bellis...»

«Non preoccuparti di lei. Non ha una mente come la mia.»

«Ne sei certa?» Seldon si mordicchiò il labbro inferiore.

«Certissima. E poi, anche mamma e papà devono avere qualcuno.»

Seldon avrebbe voluto rallegrarsi, ma sentiva di non poterlo fare apertamente. C’erano anche Raych e Manella. Che cosa sarebbe stato di loro?

«Wanda, e i tuoi genitori? Come puoi essere così spietata con loro?»

«Non sono spietata. Mi capiscono. Si rendono conto che devo rimanere con te.»

«Come ci sei riuscita?»

«Ho spinto» rispose lei semplicemente «e alla fine hanno visto le cose a modo mio.»

«Puoi arrivare a tanto?»

«Non è stato facile.»

«E lo hai fatto perché...» Seldon fece una pausa.

«Perché ti voglio bene. Certo. E perché...»

«Avanti.»

«Devo imparare la psicostoria. Ormai ne conosco già le basi.»

«E come?»

«Dalla tua mente. Dalle menti di altri che lavorano al progetto e, soprattutto, da quella dello zio Yugo prima che morisse. Ma fino a questo momento sono soltanto nozioni sfilacciate. Voglio imparare tutto, nonno, e voglio un radiante primario tutto per me.» Il suo viso si illuminò e le parole si susseguirono rapide, con tono appassionato. «Voglio studiare la psicostoria in ogni suo dettaglio. Nonno, tu sei piuttosto vecchio e stanco. Io sono giovane e ansiosa di mettermi al lavoro. Voglio imparare tutto quello che mi è possibile, per poter continuare quando...»

«Sarebbe splendido se riuscissi a farlo, ma non abbiamo più fondi. Ti insegnerò tutto quello che posso ma non potremo fare nulla.»

«Questo lo vedremo, nonno. Questo lo vedremo.»

16

Raych, Manella e la piccola Bellis erano nella sala partenze dello spazioporto.

L’ipernave si preparava al decollo e i tre avevano già consegnato il loro bagaglio.

«Papà, vieni con noi» disse Raych.

Seldon scosse il capo. «Non posso.»

«Se cambi idea, avremo sempre un posto per te.»

«Lo so, Raych. Siamo stati insieme per quasi quarant’anni e sono stati anni bellissimi. Siamo stati fortunati a incontrarti.»

«Il fortunato sono io.» Raych aveva gli occhi pieni di lacrime. «Non credere che io non pensi alla mamma ogni giorno.»

«Sì» mormorò Seldon distogliendo addolorato lo sguardo. Quando suonò il campanello dell’imbarco, Wanda stava ancora giocando con Bellis. Salirono tutti a bordo, dopo un ultimo straziante abbraccio tra Wanda e i suoi genitori. Raych si girò un’ultima volta per salutare Seldon e cercò di ostentare un sorriso tirato.

Seldon lo salutò e con un braccio cercò a tentoni le spalle di Wanda.

Lei era la sola persona che gli era rimasta. A uno a uno, nel corso della sua lunga vita, aveva perso tutti i suoi amici e tutti coloro che aveva amato. Demerzel se ne era andato, per non fare più ritorno; il vecchio imperatore, Cleon, se ne era andato; la sua adorata Dors se ne era andata; il suo fedele amico Yugo Amaryl se ne era andato; e adesso Raych, il suo unico figlio, se ne era andato pure lui.

Gli rimaneva soltanto Wanda.

17

«Fuori è una serata splendida» disse Seldon. Vivendo sotto una cupola, chiunque si aspetterebbe un tempo così bello tutte le sere.»

«Se il tempo fosse sempre bello, nonno,» disse Wanda con tono indifferente «alla fine ci stancheremmo. Qualche cambiamento fra una notte e l’altra non può che farci bene.»

«Forse a te, Wanda, perché sei giovane. Hai ancora molte, moltissime notti davanti a te. Io no. Voglio che tutte le sere siano splendide come questa.»

«Oh, nonno, non sei poi così vecchio. La tua gamba è migliorata e la tua mente è lucidissima come sempre. Io lo so.»

«Certo. Continua pure. Fammi sentire meglio.» Poi aggiunse con tono sconsolato: «Voglio fare quattro passi. Voglio uscire di qui, andare alla biblioteca e godermi questa splendida serata».

«Cosa ti serve alla biblioteca?»

«Al momento nulla, voglio solo camminare. Ma...»

«D’accordo. Continua.»

«Ho promesso a Raych che non mi sarei avventurato in città senza una guardia del corpo.»

«Raych non è più qui.»

«Lo so,» borbottò Seldon «ma una promessa è una promessa.»

«Non ha specificato chi doveva essere la guardia del corpo, vero? Andiamo a fare una passeggiata e io sarò la tua guardia del corpo.»

«Tu?» Seldon sogghignò.

«Sì, io. Mi offro seduta stante volontaria per il servizio. Preparati, e andremo a fare una passeggiata.»

Seldon ne fu divertito. Visto che il dolore alla gamba ultimamente era diminuito, per un attimo pensò di fare a meno del suo bastone, ma d’altro canto ne aveva uno nuovo, con l’impugnatura riempita di piombo. Come bastone sarebbe risultato più robusto e più pesante del vecchio e, se la sua unica guardia del corpo doveva essere Wanda, pensò che avrebbe fatto meglio a portarlo con sé.

La passeggiata si rivelò deliziosa e lui fu soddisfatto di aver ceduto alla tentazione, finché non arrivarono a un certo luogo.

Seldon sollevò il bastone con un misto di ira e rassegnazione, dicendo: «Guarda lassù!».

Wanda sollevò lo sguardo. La cupola era illuminata come tutte le altre sere, per creare un effetto da tramonto appena iniziato. Naturalmente, con il procedere della sera, diventava sempre più scura.

Ciò che Seldon stava indicando, comunque, era una striscia buia nella cupola. Un’intera sezione di luci era spenta.

«Quando sono arrivato su Trantor,» disse Seldon «una cosa del genere sarebbe stata impensabile. C’erano operai che lavoravano in qualsiasi momento, occupandosi delle luci. Allora la città funzionava, ma adesso sta crollando a pezzi in tanti minuscoli modi e quello che mi angustia soprattutto è che a nessuno sembra importare. Perché non vengono inviate petizioni al palazzo imperiale? Perché non ci sono adunanze di cittadini indignati? È come se l’intera popolazione di Trantor se ne stesse a guardare il crollo della città senza fare nulla, salvo poi prendersela con me perché io dico che sta succedendo proprio questo.»

«Nonno,» disse Wanda sottovoce «ci sono due uomini dietro di noi.»

Avevano raggiunto l’area in ombra sotto la sezione spenta della cupola e Seldon chiese: «Stanno solo passeggiando?».

«No.» Wanda non li guardò neppure. Non era necessario. «Seguono te.»

«Non puoi fermarli o spingere sulle loro menti?»

«Ci provo, ma sono in due e ben decisi. È come spingere contro un muro.»

«Quanto sono distanti?»

«Circa tre metri.»

«Si avvicinano?»

«Sì, nonno.»

«Avvertimi quando saranno a un metro da me.» Fece scivolare la mano lungo il bastone fino a impugnarlo per l’estremità più sottile, lasciando oscillare libera quella appesantita con il piombo.

«Ora, nonno!» sibilò Wanda.

E Seldon si girò, mulinando il bastone. Colpì con la forza di un maglio la spalla di uno degli uomini dietro di lui, che cadde con un urlo sul marciapiede contorcendosi.

«Dov’è l’altro uomo?» chiese Seldon.

«È fuggito.»

Seldon chinò lo sguardo sull’uomo a terra e gli posò un piede sul petto. «Frugagli nelle tasche, Wanda. Qualcuno deve averlo pagato e mi piacerebbe trovare la sua tessera di credito. Forse riuscirò a individuare da dove vengono.» Poi aggiunse pensieroso: «Volevo colpirlo alla testa».

«Lo avresti ucciso, nonno.»

Seldon annuì. «Era quello che volevo. Per questo mi vergogno della mia intenzione. Fortunatamente l’ho mancato.»

Una voce severa disse: «Cosa succede?». Una figura in uniforme arrivò di corsa, sudando. «Lei, mi dia quel bastone!»

«Oh, agente» disse Seldon mite.

«Potrà raccontarmi la sua versione più tardi. Ora dobbiamo chiamare un’ambulanza per questo poveretto.»

«Questo poveretto» disse Seldon con tono iroso «stava per aggredirmi. Ho agito per legittima difesa.»

«Vi guardavo» ribatté l’agente. «Ho visto tutto. Questo tipo non l’ha sfiorata neppure con un dito. Lei si è girato e l’ha colpito senza alcuna provocazione. Qui non si tratta di autodifesa, ma di aggressione e percosse.»

«Agente, le dico che...»

Wanda intervenne con voce dolce: «Agente, se vuole avere la cortesia di ascoltarci».

«Lei può andare a casa, signorina» replicò l’agente.

Wanda raddrizzò le spalle. «Se lo può togliere dalla testa, dove va mio nonno vado anch’io.» I suoi occhi lampeggiarono e l’agente borbottò: «Bene, allora, venga anche lei».

18

Seldon era furioso. «In tutta la mia vita non sono mai stato arrestato. Un paio di mesi fa otto uomini mi hanno aggredito. Sono riuscito a cavarmela solo grazie all’aiuto di mio figlio, ma nel frattempo si è fatto vivo qualche agente della sicurezza? Qualche passante si è fermato per aiutarmi? No. Questa volta sono meglio preparato e stendo a terra un uomo che stava per assalirmi. C’era qualche agente nei paraggi? Certo, e ha arrestato me. Anche questa volta dei passanti osservavano la scena e si sono divertiti un mondo a vedere un vecchio che veniva portato in cella per aggressione e percosse. In che razza di mondo viviamo?»

Civ Novker, l’avvocato di Seldon, sospirò e disse pacato: «Un mondo corrotto, ma non preoccuparti. Non ti succederà nulla. Ti farò uscire dietro cauzione e, naturalmente, in seguito dovrai comparire dinanzi a una giuria di tuoi pari, ma il massimo che rischi, nella peggiore delle ipotesi, sono alcune parole di rimprovero da parte della corte. La tua età e la tua reputazione...».

«Lasciamo perdere la mia reputazione» disse Seldon ancora irritato. «Sono uno psicostorico e, al momento, questa è una parola oscena. Saranno lieti di vedermi finire in prigione.»

«Niente affatto» ribatté Novker. «Può anche darsi che alcuni imbecilli ce l’abbiano con te, ma farò in modo che nessuno di loro venga incluso nella giuria.»

«Dobbiamo sul serio sottoporre mio nonno a tutto questo?» chiese Wanda. «Non è più un giovanotto. Non possiamo semplicemente presentarci davanti al magistrato ed evitare un processo con una giuria?»

L’avvocato si voltò verso di lei. «Certo, è possibile. Ma solo un pazzo lo farebbe. Oggigiorno i magistrati sono persone con poca pazienza, assettati di potere, che preferirebbero sbattere in carcere per un anno una persona piuttosto di doverla ascoltare. Nessuno si presenta spontaneamente dinanzi a un magistrato.»

«Io credo che invece dovremmo farlo» disse Wanda.

«Be’, Wanda, credo che dovremmo dare retta a Civ.» Ma mentre pronunciava queste parole, avvertì una forte agitazione all’addome. Era la “spinta” di Wanda. «D’accordo, se insisti.»

«Non può insistere» disse l’avvocato. «Non lo permetterò.»

«Mio nonno è suo cliente. Se lui vuole che lei faccia qualcosa a modo suo, deve seguire i suoi desideri.»

«Posso sempre rifiutarmi di rappresentarlo.»

«Bene, allora se ne vada» ribatté Wanda bruscamente «e noi affronteremo il magistrato da soli.»

Novker rifletté, poi disse: «E sta bene, visto che siete così decisi. Rappresento Hari da anni e penso che non l’abbandonerò proprio ora, ma l’avverto: è probabile che Hari sarà condannato alla pena di reclusione e dovrò faticare come un matto per fargliela togliere. Ammesso che questo sia possibile».

«Io non ho paura» disse Wanda.

Seldon si morse un labbro e l’avvocato si voltò verso di lui. «Che ne pensi? Vuoi lasciare che sia tua nipote a decidere per te?»

Seldon rifletté per qualche istante, poi ammise con sorpresa dell’anziano avvocato: «Sì. Sì, lo voglio».

19

Il magistrato osservò arcigno Seldon mentre lui raccontava la sua storia.

Poi il magistrato disse: «Cosa le fa pensare che quell’uomo avesse intenzione di aggredirla? L’ha colpita? L’ha minacciata? Le ha forse fatto temere in qualche modo per la sua incolumità fisica?».

«Mia nipote si è accorta che si stava avvicinando ed era certa che intendesse aggredirmi.»

«Ma questo, signore, non può certo bastare. Non c’è altro che sia in grado di dirmi prima che io emetta la sentenza?»

«Be’, insomma, aspetti un momento» disse Seldon indignato. «Non passi alla sentenza così in fretta. Pochi mesi fa sono stato aggredito da otto uomini che sono riuscito a respingere solo con l’aiuto di mio figlio. Quindi, come vede, avevo motivo di pensare che potevo essere aggredito di nuovo.»

Il magistrato sfogliò i suoi incartamenti. «Aggredito da otto uomini. Ha denunciato il fatto?»

«Non c’erano agenti della sicurezza nei dintorni. Nemmeno uno.»

«Questo è irrilevante. Lo ha denunciato?»

«No, signore.»

«E perché?»

«Prima di tutto, perché temevo di invischiarmi in lunghe procedure legali. Visto che avevamo respinto quegli otto teppisti ed eravamo sani e salvi, mi è sembrato inutile andare in cerca di altri guai.»

«Come siete riusciti a respingere otto uomini, solo lei e suo figlio?»

Seldon esitò. «Mio figlio si trova ormai su Santanni, quindi è al di fuori della giurisdizione trantoriana. Posso dirle che aveva due coltelli dahliti ed era esperto nel loro uso. Ha ucciso un uomo e ne ha feriti gravemente altri due. Gli altri sono fuggiti, portandosi via il morto e i feriti.»

«Ma non avete denunciato la morte di un uomo e il ferimento di altri due?»

«No, signore. Per la stessa ragione di prima. E abbiamo lottato per difenderci. Comunque, se può rintracciare il morto e i feriti, avrà le prove che siamo stati aggrediti.»

«Rintracciare un morto e due feriti anonimi e senza volto?» fece il magistrato. «È al corrente che su Trantor vengono trovate morte più di duemila persone ogni giorno, e solo per ferite da coltello? A meno che questi casi non ci vengano segnalati subito, non possiamo fare nulla. La sua storia di una precedente aggressione non ha alcun valore. Ciò che dobbiamo fare è valutare gli eventi di oggi, che sono stati denunciati e che hanno avuto un agente della sicurezza come testimone.

«Quindi, esaminiamo la situazione. Perché pensa che quell’uomo stesse per aggredirla? Solo perché le stava passando vicino? Perché lei sembrava vecchio e indifeso? Perché aveva l’aria di portare addosso una grande quantità di crediti? Cosa pensa?»

«Io penso, magistrato, che il motivo fosse il mio nome.»

Il magistrato lanciò un’occhiata ai suoi documenti. «Lei è Hari Seldon, professore all’Università di Streeling. Per quale motivo la sua identità dovrebbe indurre qualcuno ad aggredirla?»

«A causa delle mie opinioni.»

«Le sue opinioni. Bene.» Il magistrato sfogliò automaticamente alcune carte. Di colpo si fermò e alzò gli occhi, fissando Seldon. «Un momento, lei è Hari Seldon.» Un lampo di riconoscimento gli illuminò il viso. «Il fanatico della psicostoria, vero?»

«Sì, magistrato.»

«Mi dispiace. Non ne so nulla, tranne il nome e il fatto che lei se ne va in giro predicendo la fine dell’impero o qualcosa del genere.»

«Non è esattamente così, magistrato. Ma le mie opinioni sono diventate impopolari perché si stanno rivelando vere. Io credo che sia per questa ragione che ci sono persone che vogliono aggredirmi, o, com’è più probabile, che sono pagate per farlo.»

Il magistrato fissò Seldon, poi chiamò al tavolo l’agente che aveva eseguito l’arresto. «Ha controllato l’identità dell’uomo che è rimasto ferito? Ha precedenti?»

L’agente si schiarì la voce. «Sì, signore. È stato in carcere parecchie volte. Per aggressione e rapina.»

«Oh, è un recidivo, allora? E il professore ha precedenti?»

«No, signore.»

«Così qui abbiamo un uomo vecchio e incensurato che riesce a respingere un noto criminale, e lei arresta il vecchio incensurato. È così?»

L’agente rimase in silenzio.

«Può andare, professore» disse il magistrato.

«La ringrazio, signore. Posso riavere il mio bastone?»

Il magistrato schioccò le dita e l’agente consegnò a Seldon il bastone.

«Ma ricordi una cosa, professore» disse il magistrato. «Se userà di nuovo quel bastone, sarà meglio che sia assolutamente certo di poter dimostrare che si è trattato di legittima difesa. Altrimenti...»

«Sì, signore.» E Hari Seldon lasciò la stanza del magistrato appoggiandosi pesantemente al suo bastone, ma a testa alta.

20

Wanda singhiozzava amaramente, con il viso rigato di lacrime e gli occhi rossi e gonfi.

Hari Seldon le era accanto e le dava pacchette affettuose sulle spalle, senza sapere con esattezza come confortarla.

«Nonno, sono un miserabile fallimento. Credevo di poter spingere la gente e ci riuscivo quando a loro non importava essere spinti troppo, come mamma e papà, e anche allora ci mettevo molto tempo. Avevo perfino escogitato una specie di sistema di valutazione, basato su una scala da uno a dieci: una sorta di misuratore della potenza di spinta mentale. Ma sono stata troppo presuntuosa. Credevo di essere un dieci, o almeno un nove. E invece mi accorgo che, al massimo, merito un sette.»

Il pianto di Wanda era cessato e ora tirava su col naso ogni tanto mentre Hari le accarezzava una mano. «Di solito non incontro difficoltà! Se mi concentro, posso sentire i pensieri della gente e, quando voglio, posso spingerli. Ma quei due farabutti... li ho sentiti e non sono riuscita a fare nulla per spingerli via.»

«Avevo l’impressione che te la fossi cavata molto bene, Wanda.»

«E invece no. Avevo una fantasia: pensavo che qualcuno sarebbe potuto arrivarti alle spalle e che con una poderosa spinta sarei riuscita a metterlo in fuga. In questo modo sarei diventata la tua guardia del corpo. Ecco perché mi sono offerta di accompagnarti. Solo che non è andata così. Quei due uomini si sono avvicinati e non ho saputo fare nulla.»

«Ma sì, lo hai fatto. Hai costretto il primo uomo a esitare. Ciò mi ha fornito l’occasione di voltarmi e colpirlo.»

«No, no. Io non c’entro. Ho potuto solo avvertirti che era là e tu hai fatto il resto.»

«Però il secondo uomo è scappato.»

«Perché tu hai abbattuto il primo. Io non ho fatto nulla.» Scoppiò di nuovo in un pianto di frustrazione. «E poi il magistrato. Mi sono concentrata su di lui, pensavo che sarei riuscita a spingerlo e che ti avrebbe lasciato libero subito.»

«Infatti mi ha lasciato libero, e praticamente quasi subito.»

«No. Ti ha sottoposto a quell’umiliante interrogatorio e ha visto la luce solo quando si è accorto chi eri. Io non ho alcun merito, ho sbagliato tutto. Potevo davvero farti finire in un mare di guai.»

«No, mi rifiuto di accettarlo, Wanda. Se le tue spinte mentali non hanno funzionato così bene come ti saresti aspettato, è stato soltanto perché operavi in condizioni di emergenza. Non avresti potuto evitarlo. Comunque, Wanda, ora ascolta. Mi è venuta un’idea.»

Notando il suo tono eccitato, lei sollevò lo sguardo: «Che idea, nonno?».

«Probabilmente ti sarai resa conto che dobbiamo trovare dei fondi. La psicostoria non può continuare senza crediti e io non sopporto l’idea che tutto finisca nel nulla dopo tanti anni di duro lavoro.»

«Anch’io non la sopporto. Ma come possiamo trovare i crediti necessari?»

«Ecco, voglio chiedere di nuovo udienza all’imperatore. L’ho già incontrato una volta ed è un brav’uomo, mi piace. Ma non sta, come si suol dire, nuotando nell’oro. Tuttavia, se ti porto con me e se tu provi a spingerlo, delicatamente, può darsi che lui riesca a trovare una fonte di finanziamenti da qualche parte, quel tanto che basti a farmi continuare finché non avrò pensato a qualcosa d’altro.»

«Credi davvero che funzionerà, nonno?»

«Non senza di te ma con te, forse. Avanti, non vale la pena di tentare?»

Wanda sorrise. «Lo sai che farò qualunque cosa tu mi chieda, nonno. E poi, è la nostra sola speranza.»

21

Non fu difficile vedere l’imperatore. Gli occhi di Agis XIV brillavano divertiti mentre salutava Hari Seldon. «Salve, vecchio amico. È venuto a portarmi un po’ di sfortuna?»

«Spero di no» disse Seldon.

Agis aprì la fibbia del pesante manto ricamato e con un grugnito di stanchezza lo gettò in un angolo della stanza, dicendo: «Tu resta lì».

Sbirciò Seldon scuotendo il capo. «Odio quell’affare, è pesante come il peccato e caldo come una fornace. Devo sempre indossarlo quando mi sommergono di parole senza senso, standomene piantato là come un’immagine scolpita. È semplicemente orribile. Cleon era nato per portarlo e aveva il fisico adatto. Io non lo sono e non ce l’ho. Ma la sfortuna ha voluto che fossi suo terzo cugino da parte di mia madre, quindi avevo i titoli per diventare imperatore. Sarei lieto di vendere la mia parentela per una modica cifra. Le interessa diventare imperatore, Hari?»

«No, no, nemmeno per sogno» rispose Seldon ridendo.

«Ma mi dica, chi è la magnifica ragazza che oggi ha portato con sé?»

Wanda arrossì e l’imperatore disse divertito: «Non deve sentirsi imbarazzata per le mie parole, cara. Una delle poche prerogative che possiede l’imperatore è il diritto di dire tutto ciò che vuole. Nessuno può obiettare o discutere. Possono dire soltanto: “Sire”. Comunque, non voglio sentirlo da lei. Odio quella parola. Mi chiami Agis, non è nemmeno il mio vero nome. È un’etichetta imperiale e devo ancora abituarmici. Ora mi dica come vanno le cose, Hari. Cosa le è successo dall’ultima volta che ci siamo visti?».

Seldon rispose succinto: «Sono stato aggredito due volte».

L’imperatore sembrò esitare, indeciso se fosse uno scherzo oppure no. «Due volte?» ripeté. «Sul serio?»

Il viso dell’imperatore si incupì mentre Seldon gli raccontava la storia delle aggressioni. «Immagino che non ci fosse un agente nei dintorni quando quegli otto uomini l’hanno minacciata, vero?»

«Neppure uno.»

L’imperatore si alzò dal suo scranno e fece segno ai suoi ospiti di restare seduti. Cominciò a camminare avanti e indietro come se cercasse di sbollire la sua irritazione. Poi si girò e fissò Seldon.

«Per migliaia di anni» cominciò «quando succedeva qualcosa di simile, la gente diceva: “Perché non facciamo appello all’imperatore?” o magari: “Perché l’imperatore non fa qualcosa?”. E alla fine l’imperatore pensava di fare qualcosa o la faceva davvero, anche se non sempre era la cosa più intelligente. Ma io, Hari, sono impotente. Del tutto impotente.

«Certo, c’è il cosiddetto Comitato per la sicurezza pubblica, ma loro si preoccupano più per la mia incolumità che per quella della gente. È un vero miracolo se ora possiamo permetterci questa udienza, poiché lei non è affatto popolare presso il Comitato.

«Non c’è nulla che io possa fare per nessuno. Sa cos’è successo alle prerogative dell’imperatore dopo la caduta della Giunta e la restaurazione del cosiddetto potere imperiale?»

«Credo di averne un’idea.»

«Invece scommetto che non ce l’ha in senso pieno. Adesso abbiamo la democrazia, sa cos’è?»

«Certo.»

Agis aggrottò la fronte, poi disse: «Scommetto che la ritiene un’ottima cosa».

«Penso che possa essere un’ottima cosa.»

«Ecco, ci siamo. Non lo è. Ha completamente stravolto l’impero.

«Supponiamo che io voglia ordinare la presenza di più agenti per le strade di Trantor. Ai vecchi tempi avrei preso un foglio di carta preparato per me dal segretario imperiale e l’avrei firmato con uno svolazzo. E ci sarebbero stati più agenti.

«Ora non posso fare nulla del genere. Devo sottoporre ogni desiderio all’Assemblea legislativa. Cioè, a settemilacinquecento fra uomini e donne che cominciano subito a starnazzare in gruppi separati come altrettanti branchi di oche non appena viene proposto un suggerimento. Prima di tutto, dove trovare i fondi? Non si possono avere, diciamo, altri diecimila agenti senza dover pagare altri diecimila salari. E poi, supponendo anche di accettare in qualche modo l’idea, a quel punto chi sceglierà i nuovi agenti? Chi li controllerà?

«Ogni membro dell’Assemblea insulta un suo collega, lo aggredisce, discute, tuona, si rasserena e alla fine non si conclude nulla. Non potrei intervenire neppure per una cosa insignificante come la riparazione delle luci nel settore di cupola danneggiato che avete notato. Quanto costerà la riparazione? Chi se ne occuperà? Oh, le luci saranno riparate, certo, ma potranno volerci dei mesi. Questa è la democrazia.»

«Da quanto ricordo, l’imperatore Cleon si lamentava sempre di non poter fare ciò che voleva.»

«L’imperatore Cleon» ribatté Agis spazientito «ha avuto due ottimi primi ministri, prima Demerzel e poi lei stesso, ed entrambi vi siete dati da fare per impedirgli di commettere qualche follia. Io dispongo di settemilacinquecento primi ministri, ognuno dei quali è folle dalla testa ai piedi. Ma certo, Hari, lei non è venuto qui a lamentarsi delle aggressioni.»

«No, è vero, sono venuto per qualcosa di molto peggio. Sire, volevo dire Agis, mi servono fondi.»

L’imperatore lo fissò. «Dopo tutto quello che ho detto, Hari? Non ho fondi. Certo, ci sono quelli che servono a coprire le spese del palazzo, ma per ottenerli devo fronteggiare i miei settemilacinquecento legislatori. Se crede che possa andare lì e dire: “Voglio fondi per il mio amico Hari Seldon”, e se pensa che ne otterrei un quarto nell’arco di almeno due anni, è impazzito. Non succederà.»

Alzò le spalle e disse, più dolcemente: «Non mi fraintenda, Hari. Vorrei aiutarla, se solo potessi. In particolare vorrei aiutare sua nipote. Guardandola, provo l’impulso di concederle tutti i fondi di cui ha bisogno, ma non è possibile».

«Agis, se non trovo altri crediti la psicostoria finirà in niente dopo quarant’anni di duro lavoro.»

«In quarant’anni non è approdata a nulla, quindi perché preoccuparsi?»

«Agis,» insistette Seldon «in questo momento non posso più lavorare. Sono stato aggredito proprio perché sono uno psicostorico. La gente mi considera un profeta di distruzione.»

L’imperatore annuì. «Lei è un uccello di malaugurio, Corvo Seldon. Glielo avevo già detto, ricorda?»

Seldon si alzò faticosamente. «Sono finito, allora.»

Anche Wanda si alzò a fianco di Seldon, arrivando appena alla spalla del nonno. Continuava a fissare senza tregua l’imperatore.

Mentre Hari si voltava per andarsene, l’imperatore disse: «Un momento, aspetti. Ho appena ricordato dei versi che un tempo ho imparato a memoria:

“Male incoglie alla terra e di incalzanti mali è preda / là dove la ricchezza s’accumuli e il popolo decada”.»1

«Cosa significa?» chiese Seldon abbattuto.

«Significa che l’impero si deteriora continuamente e sta crollando a pezzi, ma ciò non impedisce a certe persone di arricchirsi. Perché non si rivolge a qualcuno dei nostri facoltosi imprenditori? Loro non devono affrontare legislatori e possono, se vogliono, firmarle semplicemente un assegno.»

Seldon spalancò gli occhi. «Ci proverò.»

22

«Signor Bindris» disse Hari Seldon allungando una mano per stringere quella dell’uomo che gli stava davanti. «Sono veramente lieto di poter fare la sua conoscenza. È stato gentile da parte sua acconsentire a ricevermi.»

«Perché no?» disse cordialmente Terep Bindris. «Io la conosco bene. O meglio, conosco molte cose su di lei.»

«Fa piacere saperlo. Ne deduco che saprà anche della psicostoria, allora.»

«Oh, certo, quale persona intelligente non ne ha sentito parlare? Non che io ne capisca qualcosa, ovviamente. E chi è questa graziosa ragazza che l’accompagna?»

«Mia nipote, Wanda Seldon.»

«Una bellissima signorina» disse Bindris radioso. «Per qualche strano motivo sento che non riuscirei a dire di no a qualsiasi suo desiderio.»

«Credo che lei stia esagerando, signor Bindris» disse Wanda.

«No, dico sul serio. Prego, accomodatevi e ditemi cosa posso fare per voi.» Fece un ampio gesto con il braccio indicando che potevano sedersi su due enormi poltrone, rivestite di broccato e fin troppo imbottite, di fronte alla sua scrivania. Le poltrone, come pure la scrivania decorata, la porta con i due battenti scolpiti che aprendosi erano scivolati silenziosamente nelle pareti e il lucente pavimento di ossidiana dell’ufficio erano di eccellente fattura. Tuttavia, anche se l’ambiente appariva imponente e in grado senz’altro di fare colpo, Bindris non aveva affatto la stessa aria. A prima vista, quell’ometto cordiale non sarebbe mai sembrato una delle principali potenze finanziarie di Trantor.

«Siamo qui, signor Bindris, dietro suggerimento dell’imperatore.»

«L’imperatore?»

«Sì. Lui non era in grado di aiutarci, ma ha pensato che un uomo come lei potesse farlo. Il problema, ovviamente, sono i crediti.»

Il sorriso di Bindris si smorzò. «Crediti? Non capisco.»

«Ebbene, per quasi quarant’anni la psicostoria è stata finanziata dal governo. Tuttavia, i tempi cambiano e l’impero non è più quello di una volta.»

«Sì, questo lo so.»

«L’imperatore non dispone dei fondi necessari per finanziarci, oppure, anche se li trovasse, non riuscirebbe a farli approvare dall’Assemblea legislativa. Pertanto, mi ha suggerito di rivolgermi a uomini d’affari che, in primo luogo, dispongono ancora di una certa ricchezza e, in secondo luogo, possono semplicemente firmare un assegno.»

Ci fu una pausa abbastanza lunga, poi finalmente Bindris disse: «Temo che l’imperatore non sappia molto del mondo degli affari. Quanti crediti vuole?».

«Signor Bindris, stiamo parlando di un’impresa enorme. Avrò bisogno di diversi milioni.»

«Diversi milioni?»

«Proprio così.»

Bindris aggrottò la fronte. «Ma stiamo parlando di un prestito? Quando conta di poterli restituire?»

«In tutta sincerità, signor Bindris, credo che non riuscirei mai a restituire una somma del genere. Sto cercando una donazione.»

«Anche se volessi darle questi crediti, e badi, per qualche strana ragione vorrei proprio farlo, non potrei. L’imperatore può avere il suo corpo legislativo, ma io ho i membri del mio Consiglio di amministrazione. Non posso concedere una donazione di questa entità senza il permesso del mio Consiglio, e loro non mi autorizzeranno mai.»

«Perché no? La sua società è enormemente ricca. Per lei, pochi milioni non significherebbero nulla.»

«Così sembrerebbe, ma temo che al momento la nostra società stia affrontando un periodo di recessione. Non così grave da provocarci problemi seri, ma sufficiente a renderci piuttosto infelici. Se l’impero è in piena decadenza, anche le sue singole parti non versano in condizioni molto migliori. Non siamo in grado di donarle quei milioni. Mi dispiace veramente.»

Seldon rimase seduto in silenzio e Bindris sembrava sulle spine. Alla fine scosse il capo e disse: «Senta, professor Seldon... vorrei davvero aiutarla, non fosse altro che per la giovane signora che l’accompagna, ma proprio non è possibile. Tuttavia, non siamo l’unica grossa impresa di Trantor. Provi da qualcun altro, professore. Forse avrà maggior fortuna altrove».

«Va bene» disse Seldon alzandosi in piedi con uno sforzo. «Proveremo.»

23

Gli occhi di Wanda erano pieni di lacrime, ma l’emozione che le provocava non era il dolore, bensì la furia.

«Nonno, non riesco a capire. Non ce la faccio proprio. Negli ultimi giorni siamo stati da quattro diverse società. Ognuna si è comportata con noi in modo più brusco e scostante di quella precedente. La quarta ci ha praticamente sbattuti fuori. E da allora non siamo più riusciti a farci ricevere da nessuno. Non vogliono più lasciarci entrare.»

«Non è poi un mistero così grande, Wanda» disse Seldon gentilmente. «Quando siamo stati da Bindris, lui non conosceva il motivo della nostra visita e si è mostrato amichevole finché non gli ho chiesto una donazione di qualche milione di crediti. Allora è diventato molto meno amichevole. Immagino che si sia sparsa la voce sulle nostre intenzioni, così ogni volta il trattamento è stato sempre meno amichevole, al punto che ora non vogliono nemmeno riceverci. Perché dovrebbero? Non hanno intenzione di darci i fondi, quindi perché sprecare tempo con noi?»

L’irritazione di Wanda si ritorse contro sé stessa. «E io cos’ho fatto? Me ne sono rimasta seduta al tuo fianco. Senza combinare nulla.»

«Non direi proprio. Bindris è rimasto colpito da te. Io credo che volesse davvero darmi quei crediti, soprattutto a causa tua. Lo stavi spingendo e hai ottenuto un risultato.»

«Un risultato insufficiente. E poi, l’unica cosa che gli interessava era il fatto che ero carina.»

«Non carina» mormorò Seldon. «Bella. Molto bella.»

«E adesso cosa facciamo, nonno? Dopo tutti questi anni, la psicostoria crollerà.»

«Immagino che in un certo senso sia una conseguenza inevitabile. Da quasi quarant’anni predico il crollo dell’impero, e ora che ciò si sta verificando la psicostoria crollerà insieme all’impero.»

«Ma la psicostoria salverà l’impero, almeno in parte.»

«Io so che ne è capace, ma non posso costringere il mondo a credermi.»

«Vuoi lasciarla crollare così, senza reagire?»

Seldon scosse il capo.

«Cercherò di impedire che ciò accada, ma ti confesso che non so davvero in quale modo.»

«Mi eserciterò. Deve esistere un sistema per rendere più forte la mia spinta, un modo che mi renda più facile costringere la gente a fare quello che voglio.»

«Se solo fosse possibile!»

«Adesso cosa farai, nonno?»

«Be’, non molto. Un paio di giorni fa, mentre mi stavo recando dal bibliotecario capo, ho incontrato tre uomini che discutevano della psicostoria e per qualche ragione ho trovato molto simpatico uno di loro. L’ho invitato a venirmi a trovare e lui ha accettato. L’appuntamento è per questo pomeriggio nel mio ufficio.»

«Lo farai lavorare per te?»

«Mi piacerebbe, se avessi i crediti per pagarlo. Può avere delle pretese superiori alle mie possibilità, ma parlargli non mi costerà nulla. Dopotutto, cos’altro posso perdere?»

24

Il giovanotto arrivò esattamente alle quattro OTS (ora trantoriana standard) e Seldon sorrise. Amava le persone puntuali. Posò le mani sulla scrivania e si preparò ad alzarsi, ma il giovanotto disse: «La prego, professore, so che ha una gamba malandata. Non è necessario che si alzi».

«Grazie, giovanotto. Comunque, questo non significa che non può sedersi anche lei. Si accomodi, prego.»

Il giovanotto si tolse la giacca e sedette.

«Mi deve scusare,» disse Seldon «ma quando abbiamo fissato questo appuntamento ho dimenticato di chiedere il suo nome, che sarebbe?»

«Stettin Palver» rispose l’altro.

«Ah. Palver. Palver! È un nome che mi suona familiare.»

«Dovrebbe, professore. Mio nonno si vantava spesso di averla conosciuta.»

«Suo nonno, certo. Joramis Palmer. Era di due anni più giovane di me, ricordo. Ho cercato di convincerlo a unirsi a me nello sviluppo della psicostoria, ma ha rifiutato. Diceva che non sarebbe mai riuscito a imparare abbastanza matematica per essere utile. Peccato! Come sta il vecchio Joramis, a proposito?»

Palver rispose in tono solenne: «Temo che il vecchio Joramis abbia seguito la sorte che in genere è comune ai vecchi. È morto».

Seldon provò una fitta. Di due anni più giovane di lui ed era morto. Joramis era stato un vecchio amico, ma i loro contatti si erano talmente diradati da consentire alla morte di farsi avanti senza che Seldon ne sapesse nulla.

Hari rimase immobile e silenzioso per qualche istante, poi mormorò: «Mi dispiace».

Il giovanotto alzò le spalle. «Ha avuto una vita piena.»

«E lei, giovanotto, dove ha studiato?»

«All’Università di Langano.»

Seldon corrugò la fronte. «Langano? Mi corregga se sbaglio, ma non è su Trantor, vero?»

«No. Volevo provare a vivere su un mondo diverso. Le università su Trantor, come indubbiamente saprà benissimo, sono tutte troppo affollate. Volevo trovare un posto dove poter studiare in pace.»

«E cosa ha studiato?»

«Niente di speciale. Storia. Ma come storico è piuttosto difficile trovare un buon lavoro.»

(Un’altra fitta, anche peggiore della prima. Dors Venabili era stata una storica.)

«Ma è tornato su Trantor. Come mai?»

«Crediti. Un lavoro.»

«Come storico?»

Palver rise. «Neanche per sogno. Manovro una specie di palanchino meccanico. Non è esattamente un’occupazione qualificata.»

Seldon osservò Palver con una punta di invidia. I contorni delle braccia e del torace del giovanotto erano messi in risalto dalla stoffa sottile della camicia. Possedeva dei buoni muscoli. Seldon non aveva mai potuto fare sfoggio di una muscolatura del genere.

«Immagino che all’università sia stato membro della squadra di pugilato.»

«Chi, io? Mai. Sono un torcitore.»

«Un torcitore!» Seldon avvertì un gioioso tuffo al cuore. «Lei è originario di Helicon?»

Palver rispose con un certo disprezzo. «Non occorre venire da Helicon per essere un buon torcitore.»

“No,” pensò Seldon “ma è da Helicon che vengono i migliori.”

Comunque, non disse nulla in merito.

Invece disse: «Bene, suo nonno non si è unito a me. Lei che ne dice?».

«Della psicostoria?»

«Quando ci siamo incontrati, l’ho sentita parlare con gli altri e ho apprezzato il suo modo intelligente di discutere della psicostoria. Allora, vuole unirsi a me?»

«Come ho detto, professore, ho già un lavoro.»

«A manovrare un palanchino. Andiamo, andiamo.»

«Rende bene.»

«I crediti non sono tutto.»

«Però sono abbastanza. Mentre lei, d’altro canto, non può pagarmi molto. Sono quasi sicuro che è a corto di fondi.»

«Cosa glielo fa pensare?»

«Sto tirando a indovinare, certo, ma mi sbaglio?»

Seldon serrò le labbra, poi disse: «No, non sbaglia e non posso pagarla molto. Mi dispiace. Immagino che questo ponga fine al nostro colloquio».

«Un momento, un momento.» Palver sollevò le mani. «Non così in fretta, la prego. Stiamo ancora parlando della psicostoria. Se lavoro per lei mi insegnerà tutto in proposito, esatto?»

«Naturalmente.»

«In tal caso i crediti non sono tutto, sono d’accordo. Facciamo un patto. Lei mi insegna tutta la psicostoria che può e mi paga quello che le è possibile, e io cercherò di cavarmela in qualche modo. Che gliene pare?»

«Splendido» disse Seldon gioioso. «Mi sembra un’ottima idea. C’è un’altra cosa, però.»

«Ah?»

«Sì. Negli ultimi mesi sono stato aggredito due volte. La prima volta mio figlio è accorso a difendermi, ma adesso lui è emigrato su Santanni. La seconda volta mi sono difeso con il mio bastone dall’impugnatura riempita di piombo. Ha funzionato, ma mi hanno trascinato dinanzi a un magistrato con l’accusa di aggressione e percosse.»

«Perché queste aggressioni?» lo interruppe Palver.

«Non sono popolare. Da parecchio tempo predico la caduta dell’impero, e adesso che si sta verificando ne sono considerato il principale responsabile.»

«Capisco. Ora, che c’entra questo con l’altra cosa che ha menzionato?»

«Voglio che lei sia la mia guardia del corpo. È giovane, robusto e, quel che più conta, è un torcitore. Esattamente ciò di cui ho bisogno.»

«Credo che si possa fare» disse Palver con un sorriso.

25

«Guardi qui, Stettin» disse Seldon mentre insieme facevano una passeggiata nelle prime ore della sera in uno dei quartieri residenziali di Trantor, nelle vicinanze di Streeling. Il vecchio indicò dei detriti, rifiuti assortiti gettati da terramobili di passaggio, o lasciati cadere da passanti sbadati, che costeggiavano il marciapiede. «Ai vecchi tempi» continuò Seldon «non avrebbe mai visto tanta sporcizia. La sicurezza civile era sempre vigile, le squadre della manutenzione municipale si occupavano ventiquattr’ore al giorno di tutte le aree pubbliche. Ma, cosa ben più importante, nessuno avrebbe mai pensato di scaricare in giro i suoi rifiuti in questo modo. Trantor era la nostra casa e ne andavamo fieri. Oggi, invece...» Seldon scosse il capo tristemente con rassegnazione e sospirò. «È...» Si interruppe bruscamente.

«Tu laggiù, giovanotto!» gridò Seldon a un ragazzo dall’aria trasandata che pochi istanti prima li aveva superati andando in direzione opposta. Stava masticando una caramella che aveva appena infilato in bocca e la carta era stata gettata a terra senza neppure un’occhiata verso il basso. «Raccogli quella carta e gettala in un cestino» lo ammonì Seldon mentre il giovane lo fissava con occhi astiosi.

«Raccoglila tu» ringhiò il ragazzo, poi si voltò per proseguire lungo la sua strada.

«È un altro segno del crollo di questa società, come aveva previsto la sua psicostoria, professor Seldon» disse Palver.

«Sì, Stettin. Tutt’intorno a noi l’impero sta crollando, un pezzo dopo l’altro. Anzi è già crollato, non c’è più modo di tornare indietro. Apatia, decadenza e avidità hanno tutte giocato un ruolo nel distruggere questa organizzazione un tempo gloriosa. Cosa prenderà il suo posto?»

Qui Seldon si interruppe, notando l’espressione sul viso di Palver. Il giovanotto sembrava ascoltare attentamente... ma non le parole di Seldon. Aveva la testa inclinata da un lato e un’espressione assente. Era come se Palver aguzzasse l’udito per sentire qualche suono che lui solo poteva percepire.

Ritornò di colpo alla realtà. Con una rapida occhiata tutt’intorno, Palver prese Seldon per un braccio. «Svelto, Hari, dobbiamo andarcene. Stanno arrivando.» Poi il silenzio della sera fu spezzato dal suono secco di passi che si avvicinavano veloci. Seldon e Palver si girarono ma era già troppo tardi: una banda di aggressori era già loro addosso. Questa volta, però, Hari Seldon era preparato. Mulinò subito il suo bastone facendogli compiere un lungo arco intorno a sé e a Palver. A questa mossa i tre attaccanti, due ragazzi e una ragazza, tutti teppisti adolescenti, scoppiarono a ridere.

«Dunque non hai voglia di renderci le cose più facili, eh, vecchio?» sbuffò il ragazzo che sembrava essere il capo. «Non importa, io e i miei amici vi faremo secchi in un paio di secondi. Vi...» All’improvviso il capo si ritrovò a terra, vittima di un torci-calcio piazzato magistralmente al suo addome. I due teppisti rimasti cambiarono posa, preparandosi all’attacco, ma Palver fu più rapido. Anche loro vennero abbattuti prima ancora di capire che cosa li avesse colpiti. E tutto finì con la stessa rapidità con cui era iniziato. Seldon se ne stava leggermente da un lato, appoggiandosi pesantemente al bastone e tremando al pensiero di essersela cavata per un soffio. Palver, ansimando appena per l’attività fisica, osservava la scena. I tre aggressori erano stesi immobili sul marciapiede deserto sotto la cupola che si andava pian piano oscurando.

«Forza, allontaniamoci alla svelta!» ripeté Palver, solo che questa volta non sarebbero dovuti fuggire da un branco di aggressori.

«Stettin, non possiamo andarcene» protestò Seldon. Indicò i tre potenziali rapinatori privi di conoscenza. «In pratica sono poco più che bambini. Forse stanno morendo. Come possiamo lasciarli in queste condizioni? Sarebbe disumano e l’umanità è esattamente quella che ho tentato di proteggere con il mio lavoro di tutti questi anni.» Seldon batté il bastone a terra per enfatizzare le sue parole, nei suoi occhi brillava una profonda convinzione.

«Sciocchezze» ribatté Palver. «Ciò che è veramente disumano è il modo in cui farabutti come questi depredano cittadini innocenti come lei. Crede che loro ci avrebbero pensato due volte? Le avrebbero infilato un coltello in pancia per rubarle fino all’ultimo credito e prima di scappare le avrebbero mollato qualche calcio! Si riprenderanno anche fin troppo presto e strisceranno via per leccarsi le ferite. Oppure, qualcuno li troverà e chiamerà a quel punto la sicurezza.

«Insomma, Hari, cerchi di riflettere. Dopo quello che è successo l’ultima volta, se si troverà coinvolto in un altro pestaggio correrà il rischio di perdere ogni cosa. La prego, Hari, dobbiamo fuggire!» Dopo di che Palver afferrò Seldon per un braccio e Seldon, dopo un’ultima occhiata alle sue spalle, si lasciò condurre via.

Mentre i passi dei due fuggiaschi sfumavano in lontananza, un’altra figura sbucò dal suo nascondiglio dietro alcuni alberi. Ridacchiando fra sé, il ragazzo dagli occhi astiosi mormorò: «E poi vieni a dire a me che cosa è giusto o sbagliato, professore». Girò sui tacchi e corse a chiamare un agente della sicurezza.

26

«Ordine, voglio ordine in aula!» ringhiò con voce assai poco femminile il giudice Tejan Popjens Lih. L’udienza pubblica preliminare che riguardava il professor “Corvo” Seldon e il suo giovane complice, Stettin Palver, aveva suscitato scalpore e interesse fra la popolazione di Trantor. Quello era l’uomo che aveva predetto la caduta dell’impero, il crollo della civiltà, che esortava gli altri a ritornare all’età d’oro della giustizia e dell’ordine. Lo stesso uomo che, secondo un testimone oculare, aveva ordinato il brutale pestaggio di tre giovani trantoriani senza alcuna provocazione apparente. Ah, certo, prometteva di rivelarsi un’udienza spettacolare, che avrebbe senza dubbio portato a un processo ancora più spettacolare.

Il giudice premette un contatto su un pannello incassato nel suo banco e un sonoro gong echeggiò nell’aula gremita. «Voglio ordine» ripeté il giudice alla folla ormai silenziosa. «Se necessario farò sgombrare l’aula. È un avvertimento che non sarà ripetuto.»

Il giudice era una figura imponente nella sua toga scarlatta di magistrato. Originaria di Lystena, uno dei Mondi esterni, il giudice Lih possedeva una carnagione caratterizzata da un lieve colorito azzurrognolo, che diventava più scuro quando lei si animava e praticamente purpureo quando era davvero irritata. Circolava voce che, perfino dopo tutti gli anni passati in tribunale, nonostante la sua reputazione di grande esperta giudiziaria e la fama di essere una delle più qualificate interpreti del Diritto imperiale, Lih sfoggiasse con una certa vanità il suo aspetto colorito, con il rosso vivo della toga che faceva risaltare il turchese pallido della sua pelle.

Non di meno, il giudice Lih aveva la reputazione di non essere affatto tenera con coloro che infrangevano le leggi dell’impero; era uno dei pochi magistrati rimasti che sapevano far applicare il codice civile senza tentennamenti.

«Ho sentito parlare di lei, professor Seldon, e delle sue teorie circa la nostra prossima distruzione. Ho anche parlato con un collega magistrato che recentemente si è occupato di un altro caso in cui lei è stato coinvolto, quello nel quale ha colpito un uomo con il suo bastone dall’impugnatura riempita di piombo. Anche in quel caso ha sostenuto di essere vittima di un’aggressione. Le sue motivazioni traevano spunto, a quanto pare, da un precedente episodio analogo, non denunciato, nel quale lei e suo figlio sareste stati aggrediti da otto teppisti. Con la sua dichiarazione di autodifesa, professor Seldon, è riuscito a convincere il mio stimato collega, anche se un testimone oculare ha fornito una versione differente. Questa volta, professore, dovrà cercare di essere molto più convincente.»

I tre teppisti che accusavano Seldon ridacchiarono sulle loro sedie al tavolo della parte civile. Quel giorno esibivano un aspetto molto diverso da quello che avevano la sera dell’aggressione. I due ragazzi indossavano vestiti sportivi monopezzo, puliti e ampi; la ragazza portava una tunica finemente pieghettata. Tutto sommato, se non si guardava (o ascoltava) troppo da vicino, i tre fornivano un quadretto rassicurante della gioventù trantoriana.

L’avvocato di Seldon, Civ Novker (che rappresentava anche Stettin Palver), si avvicinò al banco della corte. «Vostro onore, il mio cliente è uno stimato membro della comunità trantoriana. È stato un primo ministro la cui reputazione è ancora viva in tutta la galassia. Conosce personalmente il nostro imperatore Agis XIV. Quale possibile beneficio poteva trarre il professor Seldon da un’aggressione a tre giovani innocenti? Egli è uno dei più attivi sostenitori di tutto ciò che può servire a stimolare la creatività intellettuale della gioventù trantoriana. Il suo progetto psicostorico accoglie numerosi studenti volontari; è anche un membro amato e stimato del corpo docente dell’Università di Streeling.

«Inoltre...» e qui Novker fece una pausa con un rapido movimento degli occhi all’aula stracolma quasi a voler dire: “Aspettate di sentire questo, poi vi vergognerete di aver dubitato anche per un solo istante della sincerità del mio cliente” «il professor Seldon è uno dei rarissimi privati legati ufficialmente alla prestigiosa biblioteca galattica. Ha ottenuto un accesso illimitato alle risorse della biblioteca per la preparazione di quella che lui definisce l’Enciclopedia galattica, un autentico peana alla civiltà imperiale.

«Ora io vi chiedo: come può l’integrità di un uomo simile essere messa in discussione in questo modo?»

Con un ampio gesto del braccio Novker indicò Seldon che, seduto al tavolo degli imputati con Stettin Palver, sembrava decisamente a disagio. Le sue guance erano rosse per quelle lodi così insolite (dopotutto, negli ultimi tempi il suo nome era stato oggetto più spesso di risatine derisorie che di lodi sperticate), e la sua mano tremava leggermente sull’impugnatura scolpita del suo fidato bastone.

Il giudice Lih osservò Seldon, per nulla impressionata dalle parole dell’avvocato. «Già, quale beneficio l’imputato potrebbe trarne, signor Novker? Anch’io mi sono posta questa domanda. Nelle ultime notti sono rimasta sveglia a tormentarmi il cervello in cerca di un movente plausibile. Perché un uomo della levatura del professor Seldon sarebbe dovuto incorrere, senza alcuna provocazione, nel reato di aggressione e percosse quando lui stesso è uno dei nostri più accaniti critici del cosiddetto “crollo” dell’ordine civile?

«Ma poi ho avuto un’intuizione. Forse, nella sua frustrazione per non essere creduto, il professor Seldon sente di dover provare ai mondi dell’impero che le sue funeste predizioni si stanno veramente avverando. Dopotutto, ecco qui un uomo che ha trascorso la sua intera carriera prevedendo la caduta dell’impero, e gli unici esempi che può addurre sono alcune lampade bruciate nella cupola, qualche inconveniente occasionale nei trasporti pubblici, un taglio nei finanziamenti pubblici qua e là, nulla di veramente drammatico. Ma un’aggressione diretta contro la sua persona, magari due o addirittura tre, quelle sarebbero prove!»

Il giudice Lih si appoggiò allo schienale della sua poltrona e incrociò le mani dinanzi a sé, un’espressione soddisfatta sul viso. Seldon si alzò, appoggiandosi al tavolo come sostegno. Con grande sforzo si avvicinò al banco della corte, allontanando con un gesto il suo avvocato e avanzando a fatica sotto lo sguardo impassibile del giudice.

«Vostro onore, la prego di consentirmi di dire poche parole in mia difesa.»

«Certo, professor Seldon. Dopotutto, questo non è un processo, ma un’udienza preliminare per ascoltare tutti i fatti, le accuse e le teorie pertinenti al caso, prima di decidere se sia necessario procedere con un processo. Ho semplicemente espresso una mia teoria; ora sono davvero interessata a sentire quel che ha da dire.»

Seldon si schiarì la voce prima di iniziare. «Ho dedicato tutta la mia vita all’impero. Ho servito fedelmente ogni imperatore fin dai tempi di Cleon I. La mia scienza della psicostoria, ben lungi dall’essere portatrice di distruzione, è stata creata con il solo scopo di servire come mezzo di salvezza. Attraverso il suo uso noi possiamo prepararci a qualsiasi corso la nostra civiltà voglia prendere. Se, come io credo, l’impero continuerà a crollare, la psicostoria ci aiuterà a porre le fondamenta di una civiltà nuova e migliore, fondata su tutto ciò che di buono esiste nella vecchia. Amo i nostri mondi, i nostri popoli, il nostro impero. Quale interesse avrei a contribuire all’illegalità che diminuisce ogni giorno la sua forza?

«Non so dire altro, deve credermi. Io, un uomo di intelletto, di equazioni, di scienza, le parlo col cuore.» Seldon si girò e fece lentamente ritorno alla sua sedia accanto a quella di Palver. Prima di sedersi cercò con gli occhi Wanda, seduta nell’ala del pubblico. Lei fece un debole sorriso e gli strizzò l’occhio.

«Col cuore o meno, professor Seldon, questa decisione richiederà molta riflessione da parte mia. Abbiamo ascoltato i suoi accusatori, abbiamo ascoltato lei e il signor Palver. Ora mi serve la testimonianza di un’altra parte in causa. Vorrei sentire Rial Nevas, che si è presentato come testimone oculare di questo incidente.»

Mentre Nevas si avvicinava al banco dei testimoni, Seldon e Palver si scambiarono uno sguardo allarmato. Era il ragazzo che Hari aveva ammonito appena prima dell’aggressione.

Lih stava ponendo al giovane una domanda. «Vuole descriverci con esattezza, signor Nevas, ciò a cui ha assistito la sera in questione?»

«Be’,» cominciò Nevas fissando Seldon con i suoi occhi cupi «me ne andavo in giro per i fatti miei quando ho visto quei due» si girò e indicò Seldon e Palver «sull’altro lato del marciapiede, che venivano verso di me. Poi ho visto quei tre ragazzi.» (Un altro cenno col dito, stavolta verso i tre seduti al tavolo della parte civile.) «Il vecchio e l’altro stavano seguendo i ragazzi. Però non mi hanno visto, perché io ero sul marciapiede opposto e loro erano tutti concentrati sulle vittime. E poi, bang! Di colpo, il vecchio comincia a colpirli col suo bastone, poi quello più giovane salta loro addosso e li prende a calci, e in un batter d’occhio i tre ragazzi sono stesi a terra. Poi il vecchio e il suo amico se ne sono andati, come se niente fosse. Non riuscivo a crederci.»

«È una menzogna» esplose Seldon. «Ragazzo, qui stai giocando con la mia vita!» Nevas si accontentò di fissare Seldon impassibile.

«Giudice,» implorò Seldon «non vede che sta mentendo? Ricordo questo tipo; l’ho rimproverato per aver sporcato il marciapiede pochi minuti prima che fossimo aggrediti. L’ho indicato a Palver come ulteriore esempio del crollo della nostra società, dell’apatia dei cittadini, del...»

«Basta così, professor Seldon» ordinò il giudice. «Un’altra interruzione del genere e la farò espellere dall’aula. Ora, signor Nevas,» disse rivolgendosi al testimone «cosa ha fatto durante la sequenza di fatti che ha appena descritto?»

«Io, ehm, mi sono nascosto. Dietro alcuni alberi. Me ne stavo nascosto. Avevo paura che se la sarebbero presa anche con me, se mi avessero visto, così mi sono nascosto. E quando se ne sono andati, be’, sono corso a chiamare la sicurezza.»

Nevas aveva cominciato a sudare e infilò un dito nel colletto dell’abito monopezzo. Si agitava, spostando il peso del corpo da un piede all’altro mentre se ne stava sulla pedana dei testimoni. Era chiaramente a disagio sotto gli sguardi di tutta quella folla di spettatori; cercava di evitare di guardare il pubblico, ma ogni volta si sentiva attratto dallo sguardo fisso di una bella ragazza bionda seduta in prima fila. Era come se lei gli stesse ponendo una domanda, incalzandolo a rispondere, premendo per farlo parlare.

«Signor Nevas, cos’ha da dire in merito alla dichiarazione del professor Seldon secondo la quale lui e il signor Palver l’avrebbero incontrata prima dell’aggressione, e il professore avrebbe scambiato qualche parola con lei?»

«Be’, vede, è andata come ho detto. Me ne andavo per i fatti miei.» A questo punto Nevas guardò verso il tavolo degli imputati. Seldon lo fissava tristemente, come se si rendesse conto che tutto era perduto. Ma il compagno di Seldon, Stettin Palver, fissò duramente Nevas e il ragazzo sussultò, sorpreso, alle parole che rimbombarono nella sua mente: “Di’ la verità!”. Fu come se Palver avesse parlato, ma le sue labbra non si erano mosse. Allora Nevas, confuso, girò la testa verso la ragazza bionda che gli era sembrato di sentir pronunciare: “Di’ la verità!”. Ma anche le sue labbra erano immobili.

«Signor Nevas» la voce del giudice fece irruzione nei pensieri confusi del giovane. «Se il professor Seldon e il signor Palver camminavano verso di lei, dietro i tre querelanti, come mai ha notato prima Seldon e Palver? È così che ha dichiarato nella sua prima deposizione, vero?»

Gli occhi di Nevas percorsero frenetici l’intera aula. Non riusciva a sfuggire a quegli sguardi, a tutti quegli occhi che gli urlavano: “Di’ la verità!”. Guardando Hari Seldon, Rial Nevas disse semplicemente: «Mi dispiace» e fra lo sbalordimento di tutti i presenti nell’aula il ragazzo quattordicenne cominciò a piangere.

27

Era una splendida giornata, né troppo calda né troppo fredda, non troppo luminosa e non troppo grigia. Anche se i fondi per la manutenzione dei terreni si erano esauriti anni prima, le scarse e striminzite piante perenni che fiancheggiavano la gradinata di accesso alla biblioteca galattica aggiungevano una nota allegra alla mattinata. (La biblioteca, essendo stata costruita nello stile classico dei tempi antichi, possedeva una delle più imponenti scalinate di tutto l’impero, seconda in maestosità solo alla scalinata dello stesso palazzo imperiale; quasi tutti i visitatori della biblioteca, tuttavia, preferivano entrare usando la scala mobile.) Seldon nutriva grandi speranze per quel giorno.

Dopo che lui e Stettin Palver erano stati pienamente assolti da ogni accusa nel recente caso di aggressione, Hari Seldon si sentiva un uomo nuovo. Benché l’esperienza fosse risultata dolorosa, il fatto stesso che fosse pubblica aveva favorito la causa di Seldon. Il giudice Tejan Popjens Lih, considerato uno dei più influenti magistrati, se non il più influente, della corte imperiale, era stato piuttosto esplicito nel presentare la sua opinione, resa pubblica il giorno successivo alla convulsa testimonianza di Rial Nevas.

«Quando si giunge a un punto cruciale della nostra cosiddetta società “civile”» aveva intonato il giudice dal suo banco «nel quale un uomo della levatura del professor Seldon viene costretto a subire l’umiliazione, gli abusi e le menzogne dei suoi simili solo a causa di ciò che lui è e rappresenta, significa che sono veramente tempi bui per l’impero. Riconosco che anch’io, sulle prime, mi sono ingannata. Perché il professor Seldon, pensavo, non dovrebbe fare ricorso a simili astuzie nel tentativo di dimostrare le sue previsioni? Ma mi sono resa conto che gli stavo facendo un grave torto.» Qui il giudice aveva corrugato la fronte, mentre una vampata blu scuro le saliva lungo il collo fino alle guance. «Perché attribuivo al professor Seldon moventi scaturiti dalla nostra nuova società, una società nella quale vivere in modo onesto, sincero e altruista può significare una morte violenta, una società nella quale sembra necessario ricorrere alla disonestà e alla sopraffazione solo per sopravvivere.

«Quanto ci siamo allontanati dai principi sui quali avevamo fondato questa società! Questa volta abbiamo avuto fortuna, cittadini di Trantor. Dobbiamo essere profondamente riconoscenti al professor Hari Seldon per averci rivelato la nostra vera natura; cerchiamo di imparare a memoria questo esempio e di mostrarci più vigili in futuro contro le forze più spregevoli della nostra natura umana.»

Dopo l’udienza l’imperatore aveva inviato a Seldon un olodisco di congratulazioni dove, accanto ai complimenti, esprimeva la speranza che adesso Seldon sarebbe riuscito a trovare nuovi fondi per il suo progetto.

Scivolando su per la scala mobile della biblioteca, Seldon rifletteva sullo stato attuale del suo Progetto Psicostoria. Il suo buon amico, l’ex bibliotecario capo Las Zenow, era andato in pensione. Durante la sua gestione Zenow era stato un accanito sostenitore di Seldon e della sua opera, anche se spesso si era trovato con le mani legate a causa del Consiglio direttivo. Tuttavia, aveva assicurato Zenow a Seldon, il nuovo bibliotecario capo, Tryma Acarnio, non era meno progressista di lui. Inoltre, a causa della sua natura cordiale e affabile, Acarnio godeva di una notevole popolarità fra le varie fazioni del Consiglio.

«Hari, amico mio,» aveva detto Zenow prima di lasciare Trantor per il suo mondo natale di Wenkory «Acarnio è un’ottima persona, un uomo di grande intelletto e mente aperta. Sono certo che farà il possibile per aiutare lei e il progetto. Gli ho lasciato nell’archivio del computer tutti i dati che riguardano lei e la sua Enciclopedia; so che il contributo che essa costituisce per l’intero genere umano lo ecciterà almeno quanto eccitava me. Abbia cura di sé, amico mio, la ricorderò sempre con affetto.»

E così quel giorno Hari Seldon doveva avere il suo primo incontro ufficiale con il nuovo bibliotecario capo. Si sentiva rassicurato dalle parole di Zenow e non vedeva l’ora di poter condividere con Acarnio i suoi piani per il futuro del progetto e dell’Enciclopedia.

Tryma Acarnio si alzò quando Hari fece il suo ingresso nell’ufficio del bibliotecario capo. La nuova gestione aveva già impresso la sua impronta; là dove Zenow aveva riempito ogni angolo e spazio libero della stanza con olodischi e tridigiornali dai differenti settori di Trantor, sotto un turbinoso insieme di videoglobi che rappresentavano i vari mondi dell’impero roteanti a mezz’aria, Acarnio aveva fatto piazza pulita di tutti i dati e le immagini che Zenow aveva voluto conservare a portata di mano. Su una parete spiccava un enorme oloschermo con il quale, pensò Seldon, Acarnio avrebbe potuto visionare ogni pubblicazione o trasmissione desiderata.

Acarnio era un uomo basso e tozzo, con un’espressione perennemente distratta a causa di un malriuscito intervento correttivo alle cornee in età infantile, espressione che tuttavia mascherava un’intelligenza prodigiosa e una consapevolezza costante di tutto ciò che accadeva intorno a lui.

«Bene, bene. Il professor Seldon. Venga avanti, si accomodi.» Acarnio indicò una sedia dallo schienale rigido di fronte alla scrivania, dietro alla quale tornò a sedersi. «È stata una vera coincidenza che abbia richiesto questo incontro; vede, contavo di mettermi in contatto con lei non appena avessi sistemato le mie cose.»

Seldon annuì, lieto di constatare che il nuovo bibliotecario capo lo considerava importante al punto da progettare già un incontro nei primi caotici giorni della sua gestione.

«Ma prima di tutto, professore, mi dica perché voleva vedermi, poi avremo modo di passare alle mie questioni, certamente più prosaiche.»

Seldon si schiarì la voce chinandosi in avanti. «Bibliotecario capo, Las Zenow le avrà senz’altro parlato del mio lavoro qui, e della mia idea per un’Enciclopedia galattica. Las ne era entusiasta e mi è stato di grande aiuto fornendomi un ufficio privato all’interno della biblioteca e accesso illimitato alle sue ampie risorse. Anzi, è stato proprio lui a individuare l’eventuale sede del Progetto Enciclopedia, un remoto Mondo esterno chiamato Terminus.

«C’è stata una cosa, tuttavia, che Las non ha potuto fornirmi. Per mantenere il progetto entro i tempi previsti, è necessario che io disponga di un ufficio più spazioso e di un accesso illimitato alle risorse della biblioteca anche per un gruppo di miei collaboratori. Già a questo stadio è un’impresa enorme, dobbiamo raccogliere i dischi con tutti i dati e le informazioni indispensabili per poterli copiare e trasferire su Terminus, prima di poter cominciare la vera e propria opera di compilazione dell’Enciclopedia.

«Las non godeva di molta popolarità all’interno del Consiglio direttivo della biblioteca, come senza dubbio saprà. Lei, invece, è piuttosto popolare. Per questo le chiedo, bibliotecario capo: vuole fare in modo che ai miei colleghi siano consentiti i privilegi dei ricercatori interni, dandoci così la possibilità di proseguire il nostro lavoro vitale?»

Qui Hari si fermò quasi senza fiato. Era certo che il suo discorso, che la notte prima aveva ripassato mentalmente più volte, finché la stanchezza non l’aveva sopraffatto, avrebbe sortito l’effetto desiderato. Attese fiducioso la risposta di Acarnio.

«Professor Seldon» cominciò Acarnio. Il sorriso fiducioso di Seldon si affievolì. Nella voce del bibliotecario capo vibrava un tono tagliente che lui non si era per nulla aspettato. «Il mio stimato predecessore mi ha fornito, con abbondanza di dettagli, una spiegazione del suo lavoro qui alla biblioteca. Era entusiasta delle sue ricerche e senz’altro favorevole all’idea che alcuni suoi colleghi si unissero a lei. Come lo ero io al principio, professor Seldon.» Alla pausa di Acarnio, Seldon sollevò di scatto lo guardo. «Ero pronto a convocare una riunione speciale del Consiglio per proporre che una serie più ampia di uffici venisse messa a disposizione dei suoi enciclopedisti. Ma adesso tutto questo è cambiato, professore.»

«Cambiato! Perché?»

«Professor Seldon, lei è appena reduce da un sensazionale caso di aggressione e percosse che l’ha vista nei panni del principale imputato.»

«Ma sono stato prosciolto da ogni accusa. Il caso non è neppure diventato un processo.»

«Tuttavia, professore, la sua ultima incursione sotto lo sguardo dell’opinione pubblica le ha guadagnato un’innegabile, come definirla?, sfumatura di cattiva reputazione. Oh, certo, lei è stato prosciolto da tutte le accuse. Ma per ottenere questo proscioglimento il suo nome, il suo passato, le sue idee, il suo lavoro sono stati sbandierati davanti agli occhi di tutti i mondi. E anche se un magistrato progressista e illuminato l’ha dichiarata innocente, che mi dice dei milioni, forse miliardi, di altri cittadini comuni che non vedono un pioniere psicostorico in lotta per conservare le glorie della sua civiltà, bensì un lunatico delirante intento solo a predire rovina e distruzione per il grande e potente impero?

«Lei, per la natura stessa del suo lavoro, sta minacciando il tessuto essenziale dell’impero. Non mi riferisco all’enorme impero monolitico, senza nome e senza volto. No, intendo l’anima e il cuore dell’impero, la sua gente. Quando lei dice loro che l’impero sta decadendo, in pratica dice che loro stanno decadendo. E questo, mio caro professore, il cittadino medio non può sopportarlo.

«Seldon, che le piaccia o no, lei è diventato un oggetto di derisione, una figura degna di ridicolo, uno zimbello.»

«Mi scusi, bibliotecario capo, ma ormai sono anni che in certi ambienti vengo considerato uno zimbello.»

«Sì, ma solo in alcuni. Quest’ultimo incidente, però, con la risonanza pubblica che ha avuto, l’ha esposta al ridicolo non solo qui su Trantor, ma su tutti i mondi. Quindi, professore, se fornendole un ufficio noi, la biblioteca galattica, approviamo tacitamente il suo lavoro, ne consegue che anche noi, la biblioteca galattica, diventeremo lo zimbello di tutti i mondi. E per quanto io possa credere personalmente nelle sue teorie e nella sua Enciclopedia, come bibliotecario capo della biblioteca galattica di Trantor devo pensare prima di tutto alla biblioteca.

«Di conseguenza, professore, la richiesta di introdurre i suoi colleghi nella biblioteca è respinta.»

Hari Seldon boccheggiò con un sussulto all’indietro, come se fosse stato colpito.

«Inoltre» proseguì Acarnio «devo comunicarle una sospensione temporanea di due settimane di tutti i suoi privilegi bibliotecari, con effetto immediato. È stato il Consiglio a convocare quella riunione speciale, professor Seldon. Fra due settimane le comunicheremo se la sua associazione con la biblioteca dovrà avere termine.»

A questo punto Acarnio smise di parlare e, appoggiate le mani sulla superficie lucida e immacolata della scrivania, si alzò in piedi. «Per ora è tutto, professor Seldon.»

Anche Hari Seldon si alzò, benché il suo movimento verso l’alto non risultasse altrettanto rapido e fluido come quello di Tryma Acarnio.

«Potrei avere il permesso di rivolgermi al Consiglio?» chiese Seldon. «Forse, se riuscissi a spiegare loro l’importanza vitale della psicostoria e dell’Enciclopedia...»

«Temo che non sia possibile, professore» rispose Acarnio gentilmente, e nel tono di quella frase Seldon colse un barlume dell’uomo che Las Zenow gli aveva descritto. Ma, con la stessa rapidità, il gelido burocrate riprese il sopravvento mentre accompagnava Seldon alla porta.

Quando i battenti si aprirono, Acarnio disse: «Due settimane, professor Seldon. Ci risentiremo allora». Hari uscì dirigendosi verso il suo levitante in attesa, e i battenti si richiusero.

“E adesso cosa faccio?” si domandò Seldon sconsolato. “È questa la fine di tutta la mia opera?”

28

«Wanda, mia cara, cos’è che ti assorbe tanto?» chiese Hari Seldon entrando nell’ufficio di sua nipote all’Università di Streeling. In realtà quella stanza era stata l’ufficio di un altro brillante matematico, Yugo Amaryl, la cui morte aveva lasciato un vuoto spaventoso nel Progetto Psicostoria. In anni più recenti, fortunatamente, Wanda aveva preso via via il ruolo di Yugo, perfezionando sempre più il radiante primario.

«Be’, sto lavorando a un’equazione nel quadrante 33A2D17. Vedi, ho ricalibrato questa sezione prendendo in considerazione il quoziente standard I.» Indicò una macchia violetta e lucente sospesa a mezz’aria davanti al suo viso «Ecco! Proprio come pensavo, o almeno credo.» Fece un passo indietro e si stropicciò gli occhi.

«Che cos’è, Wanda?» Hari si avvicinò per studiare i calcoli. «Si direbbe l’equazione di Terminus eppure è il suo inverso, non è vero?»

«Sì, nonno. Vedi, nell’equazione di Terminus i numeri non funzionavano molto bene. Stai a guardare.» Wanda toccò un contatto in una nicchia sul muro e un’altra macchia si illuminò di rosso vivo sul lato opposto della stanza. Seldon e Wanda si avvicinarono per esaminarla. «Vedi come adesso tutto si incastra perfettamente, nonno? Ho impiegato settimane per farla diventare così.»

«Come ci sei riuscita?» chiese Hari, ammirando le linee dell’equazione, la sua logica, la sua eleganza.

«Da principio mi sono concentrata sull’equazione solo da questo capo. Ho escluso tutto il resto. Per riuscire a far funzionare Terminus, concentrati su Terminus: sembra la cosa più logica, non trovi? Poi però mi sono resa conto che non potevo semplicemente introdurre questa equazione nel sistema del radiante primario e aspettarmi che si amalgamasse da sola con il resto, come se non fosse successo nulla. Un inserimento in un punto comporta uno spostamento da qualche altra parte. Un peso ha bisogno di un contrappeso.»

«Credo che il concetto al quale ti riferisci sia ciò che gli antichi chiamavano yin e yang.»

«Sì, più o meno. Yin e yang. Così, vedi, mi sono accorta che per perfezionare lo yin di Terminus dovevo individuare il suo yang. E l’ho fatto laggiù.» Tornò alla macchia violetta, situata sul bordo opposto della sfera formata dal radiante primario. «Non appena ho aggiustato le cifre qui, anche l’equazione di Terminus si è inserita perfettamente. Armonia!» Wanda appariva molto soddisfatta di sé, come se avesse appena risolto tutti i problemi della galassia.

«Affascinante, Wanda. Più tardi devi dirmi che cosa significa questo per il progetto, ma adesso bisogna che tu venga con me all’oloschermo. Pochi minuti fa ho ricevuto un messaggio urgente da Santanni. Tuo padre vuole che ci mettiamo in contatto con lui al più presto.»

Il sorriso di Wanda si spense. I recenti rapporti di combattimenti su Santanni l’avevano già allarmata. Quando erano divenuti esecutivi i tagli al bilancio imperiale, i cittadini dei Mondi esterni avevano sofferto più di chiunque altro. Avendo un accesso limitato ai Mondi interni più ricchi e più popolosi, era diventato sempre più difficile scambiare i loro prodotti con le merci di importazione vitale. I contatti commerciali con Santanni si erano andati via via rarefacendo e il minuscolo mondo si era sentito isolato dal resto dell’impero. Sacche di ribellione si erano create su tutto il pianeta.

«Nonno, spero che vada tutto bene» disse Wanda, e dalla sua voce traspariva la paura.

«Non preoccuparti, cara. Dopotutto, devono essere al sicuro se Raych è riuscito a mettersi in contatto con noi.»

Nell’ufficio di Seldon si misero entrambi di fronte all’oloschermo mentre veniva attivato. Seldon compose un codice sul tastierino a fianco dello schermo, poi attesero per alcuni secondi che si stabilisse il collegamento intragalattico. Lentamente lo schermo sembrò sprofondare dentro la parete come se fosse l’ingresso di una galleria e da essa, in modo dapprima indistinto, uscì la figura familiare di un uomo basso e muscoloso. Con l’affinarsi del collegamento, i lineamenti dell’uomo divennero più chiari. Quando Seldon e Wanda riuscirono a distinguere i folti baffi da dahlita di Raych, la figura prese vita.

«Papà, Wanda!» disse l’ologramma tridimensionale di Raych proiettato su Trantor da Santanni. «Ascoltate, non ho molto tempo.» Fece una smorfia, come colto di sorpresa da un forte rumore. «Qui le cose si sono messe piuttosto male. Il governo provinciale è caduto e un nuovo organismo provvisorio ha preso il potere. Va tutto in rovina, come potete immaginare. Ho appena caricato Manella e Bellis su una ipernave in partenza per Anacreon. Ho detto loro di mettersi in contatto con voi non appena sarebbero arrivate là. Il nome dell’astronave è Arcadia VII.

«Avresti dovuto vedere Manella, papà. Furiosa come non so cosa per il fatto di doversene andare. Sono riuscito a convincerla solo dicendole che era necessario per la sicurezza di Bellis.

«So cosa state pensando, tutti e due. È naturale che sarei andato con loro, se solo avessi potuto. Ma non c’era abbastanza spazio. Non sto a raccontarvi quello che ho dovuto fare per trovare posto per loro.» Qui Raych abbozzò uno di quei suoi sogghigni sghembi che Seldon e Wanda amavano tanto, poi continuò: «Inoltre, visto che sono qui, devo dare una mano a proteggere l’università. Faremo anche parte del sistema universitario imperiale, ma siamo un luogo di studio e di apprendimento, non di distruzione. Ve lo garantisco, se uno solo di quei ribelli fanatici osa avvicinarsi alle nostre apparecchiature...»

«Raych,» lo interruppe Hari «la situazione è davvero così grave? Ti trovi vicino ai combattimenti?»

«Papà, sei in pericolo?» chiese Wanda.

Attesero qualche secondo mentre il loro messaggio attraversava i novemila parsec che li separavano da Raych.

«Non sono riuscito a capire bene quello che avete detto» rispose l’ologramma. «Qui sono in corso degli scontri. È quasi eccitante, per la verità» disse Raych tornando a sogghignare. «Quindi adesso tolgo il contatto. Ricordate, informatevi su cosa è successo all’Arcadia VII diretta verso Anacreon. Mi rifarò vivo appena potrò. Ricordate, io...» ma la trasmissione si interruppe e l’ologramma svanì. La galleria dell’oloschermo si richiuse, lasciando Seldon e Wanda a fissare con occhi vacui una parete nuda.

«Nonno,» disse Wanda «cosa credi che stesse per dire?»

«Non ne ho idea, cara. Ma c’è una cosa che so, ed è che tuo padre sa badare molto bene a se stesso. Non invidio i ribelli che si avvicineranno abbastanza per beccarsi un torci-calcio ben piazzato da tuo padre. Vieni, torniamo all’equazione e fra poche ore ci informeremo sull’Arcadia VII

«Comandante, non ha idea di cosa sia accaduto all’ipernave?» Hari Seldon era di nuovo impegnato in una comunicazione intragalattica, ma questa volta il suo interlocutore era un ufficiale della Marina imperiale di stanza su Anacreon. Per questa comunicazione Seldon si serviva del videoschermo, molto meno realistico della visualizzazione olografica tridimensionale ma assai più semplice.

«Le ripeto, professore, che non ci risulta che questa ipernave abbia chiesto il permesso di entrare nell’atmosfera di Anacreon. Naturalmente le comunicazioni con Santanni sono interrotte da parecchie ore, e anche nell’ultima settimana sono state tutt’al più sporadiche. È possibile che l’astronave abbia cercato di contattarci su un canale controllato da Santanni e non ci sia riuscita, ma ne dubito.

«No, è più probabile che l’Arcadia VII abbia cambiato destinazione. Voreg, forse, o Sarip. Ha provato su uno di questi mondi, professore?»

«No,» rispose Seldon stancamente «ma non vedo perché un’astronave diretta verso Anacreon dovrebbe dirigersi da un’altra parte. Comandante, è della massima importanza che io riesca a localizzare quell’ipernave.»

«Naturalmente,» azzardò l’ufficiale «l’Arcadia VII potrebbe non avercela fatta. A decollare sana e salva, voglio dire. Sul pianeta sono in corso vere e proprie battaglie. Quei ribelli se ne infischiano dei bersagli a cui sparano. Puntano semplicemente i loro laser e si illudono di fare a pezzi l’imperatore Agis. Le assicuro, professore, che qui sull’orlo dell’impero si gioca una partita veramente dura.»

«Mia nuora e mia nipote sono a bordo di quell’ipernave, comandante» disse Seldon con voce tesa.

«Oh, mi dispiace, professore» disse l’ufficiale imbarazzato. «La informerò non appena avrò saputo qualcosa.»

Abbattuto, Seldon spense il videoschermo. Quel militare aveva pensato di poter stupire Seldon, forse di impressionarlo con la sua descrizione della vita “sull’orlo”. Ma Seldon sapeva tutto dell’orlo. E quando l’orlo si staccava, come in un indumento di maglia con un filo sciolto, l’intero indumento avrebbe continuato a disfarsi fino al suo nucleo: Trantor.

Seldon prese coscienza di un tenue suono ronzante. Era il segnale della porta. «Sì?»

«Nonno,» disse Wanda entrando nell’ufficio «ho paura.»

«Perché, tesoro?» chiese Seldon preoccupato. Non voleva ancora dirle ciò che aveva saputo, o non aveva saputo, dall’ufficiale di stanza su Anacreon.

«Di solito, anche se sono molto lontani, io riesco a sentire mamma, papà e Bellis. Li sento qui dentro» indicò la testa «e qui dentro» e mise una mano sul cuore. «Ma adesso, oggi, non li sento. O meglio, li sento meno, quasi si stessero spegnendo, come una delle lampade della cupola. E voglio impedirlo, voglio farli tornare indietro, ma non ci riesco.»

«Wanda, credo che sia solo il frutto della tua preoccupazione per la tua famiglia alla luce dei recenti eventi. Sai che rivolte simili si verificano continuamente in tutto l’impero; piccole eruzioni che servono a scaricare una pressione eccessiva. Ora, se rifletti, ti renderai conto che le probabilità che succeda qualcosa a Raych, Manella o Bellis sono davvero minime. Tuo padre potrebbe chiamare da un giorno all’altro per dirci che tutto va bene; tua madre e Bellis possono atterrare su Anacreon in qualsiasi momento e godersi una breve vacanza. Siamo noi quelli che dovrebbero commiserare, sprofondati fino alle orecchie nel lavoro! Quindi, tesoro, vattene a letto e pensa solo a cose belle. Ti prometto che domani, sotto la cupola soleggiata, le cose ti appariranno molto migliori.»

«Va bene, nonno» disse Wanda, anche se non interamente persuasa. «Ma se domani non avremo notizie, dovremo...»

«Wanda, cosa possiamo fare se non restare in attesa?» chiese Seldon con voce dolce.

Wanda si girò e uscì, le spalle curve che rivelavano il peso delle sue preoccupazioni. Seldon la guardò uscire, consentendo finalmente alle sue preoccupazioni di ritornare a galla.

Erano trascorsi tre giorni dalla trasmissione olografica di Raych. Da allora, più nulla. E oggi, l’ufficiale della Marina su Anacreon negava di aver mai sentito parlare di una ipernave chiamata Arcadia VII.

Seldon aveva già tentato di mettersi in contatto con Raych su Santanni, ma tutti i fasci subeterici erano interrotti. Pareva che Santanni e l’Arcadia VII si fossero semplicemente staccati dall’impero, come due petali da un fiore.

Seldon sapeva cosa gli restava da fare. L’impero poteva essere in declino, ma non era ancora finito. La sua potenza, se controllata da mani esperte, era sempre spaventosa. Seldon inoltrò una chiamata di emergenza all’imperatore Agis XIV.

29

«Che sorpresa, il mio amico Hari!» Il viso di Agis sorrise cordiale a Seldon dall’oloschermo. «Sono lieto di sentirla, anche se di solito lei preferisce un genere di colloquio più personale. Mi dica, ha pungolato il mio interesse. Perché tanta urgenza?»

«Sire,» cominciò Seldon senza preamboli «mio figlio Raych, sua moglie e sua figlia vivono su Santanni.»

«Ah, Santanni» disse l’imperatore mentre il sorriso svaniva. «Il più ottuso branco di malconsigliati incoscienti che abbia mai...»

«Sire, vi prego» lo interruppe Seldon sorprendendo l’imperatore e se stesso con quella flagrante infrazione del protocollo imperiale. «Mio figlio è riuscito a imbarcare Manella e Bellis su una ipernave, l’Arcadia VII, diretta ad Anacreon. Lui, invece, è stato costretto a rimanere. Questo è successo tre giorni fa. L’ipernave non è atterrata su Anacreon e mio figlio sembra essere scomparso; le mie chiamate per Santanni sono rimaste senza risposta, e adesso i fasci subeterici sono interrotti. Vi prego, sire, potete aiutarmi?»

«Hari, come lei senz’altro sa, in via ufficiale tutti i legami fra Santanni e Trantor sono stati recisi. Tuttavia sono ancora in grado di esercitare una certa influenza in alcune aree del pianeta. Vale a dire, esistono tuttora sparuti gruppi di persone che mi sono fedeli e che non sono ancora stati scoperti. Anche se non posso entrare in contatto diretto con i miei agenti su Santanni, posso tuttavia metterla al corrente dei rapporti che ricevo da loro. Ovviamente, si tratta di materiale estremamente confidenziale, ma tenuto conto della sua situazione e dei nostri rapporti, le consentirò l’accesso alle informazioni che potrebbero essere di suo interesse.

«Attendo un altro dispaccio entro un’ora. Se vuole, posso richiamarla dopo il suo arrivo. Nel frattempo chiederò a uno dei miei segretari di spulciare tutti i messaggi giunti da Santanni negli ultimi tre giorni, cercando ogni possibile riferimento a Raych, Manella e Bellis Seldon.»

«Vi ringrazio, sire. Vi ringrazio con tutto il cuore.» E Hari Seldon chinò il capo mentre l’immagine dell’imperatore svaniva dallo schermo.

Sessanta minuti più tardi Hari Seldon era di nuovo seduto alla sua scrivania, in attesa di notizie da parte dell’imperatore. L’ora appena trascorsa era stata una delle più difficili di tutta la sua vita, seconda solo a quelle che avevano seguito la distruzione di Dors. Era il non sapere che lo annientava. Aveva fatto della conoscenza una ragione di vita e questo riguardava sia il futuro sia il presente. Ma in quel momento non sapeva nulla delle tre persone che erano fra le più care.

L’oloschermo ronzò debolmente e Seldon rispose premendo un contatto. Apparve Agis.

«Hari» cominciò l’imperatore, e dal tono lento e triste della sua voce capì che erano in arrivo brutte notizie.

«Mio figlio.»

«Sì. Raych è rimasto ucciso, nelle prime ore di oggi, sotto un bombardamento che ha colpito l’Università di Santanni. Secondo le mie fonti, lui sapeva che l’attacco era imminente ma ha rifiutato di lasciare il suo posto. A quanto pare, molti di questi ribelli sono studenti e lui ha pensato che se loro avessero saputo che era ancora là non avrebbero mai... Ma l’odio ha superato ogni forma di ragione.

«L’università, vede, è una università imperiale. I ribelli sono convinti di dover distruggere tutto ciò che è imperiale, prima di ricostruire ogni cosa da capo. Quei pazzi!» Ma qui Agis si interruppe, rendendosi conto che a Seldon non interessavano né l’Università di Santanni né i piani dei rivoltosi, almeno non in quel momento.

«Hari, se questo può servire ad alleviare il suo dolore, ricordi che suo figlio è morto in difesa della conoscenza. Non è stato per l’impero che Raych ha combattuto ed è morto, ma per l’umanità stessa.»

Seldon sollevò gli occhi pieni di lacrime. Con un filo di voce chiese: «E Manella, e la piccola Bellis? Che ne è stato di loro? Avete trovato l’Arcadia VII?».

«Ogni ricerca è risultata vana, Hari. L’Arcadia VII ha lasciato Santanni, come le era stato detto. Ma sembra essere scomparsa. Può essere stata dirottata da ribelli, può aver deviato dalla sua rotta per qualche emergenza. A questo punto non lo sappiamo ancora.»

Seldon annuì in silenzio, come schiacciato da quel fardello eccessivo. «Vi ringrazio, Agis. Anche se mi avete portato notizie tragiche, se non altro avete fatto un po’ di luce: non sapere era molto peggio. Siete un vero amico.»

«Ora, amico mio, la lascerò tranquillo... con i suoi ricordi.» L’immagine dell’imperatore svanì dallo schermo. Hari Seldon piegò le braccia davanti a sé sulla scrivania, vi chinò sopra il capo e pianse.

30

Wanda Seldon aggiustò la cintura del suo vestito monopezzo, stringendola leggermente in vita. Poi raccolse una zappa manuale e si lanciò all’attacco di alcune erbacce spuntate nel suo piccolo giardino fiorito davanti all’Istituto di psicostoria all’Università di Streeling. Di solito Wanda trascorreva quasi tutto il suo tempo in ufficio, lavorando con il radiante primario. Trovava sollievo nell’elegante precisione statistica della macchina. Le equazioni immutabili apparivano in qualche modo rassicuranti in quell’impero ormai impazzito.

Tuttavia, quando il pensiero dei suoi cari – il padre, la madre e la sorellina – diventava troppo doloroso, quando perfino le sue ricerche non bastavano a distogliere la mente dalla perdita spaventosa che aveva appena subito, Wanda finiva sempre col ritrovarsi là fuori, a grattare il suolo terraformato, come se costringere alcune piantine a fiorire potesse, anche in minima parte, alleviare il suo dolore.

Dopo la morte del padre avvenuta un mese prima e la scomparsa della madre e della sorellina, Wanda, che era sempre stata piuttosto snella, aveva cominciato a dimagrire. E se solo pochi mesi prima Hari Seldon avrebbe scatenato un pandemonio per la perdita di appetito dell’adorata nipote, adesso, immerso lui pure nella sua angoscia, non sembrava neppure accorgersene.

Un profondo cambiamento era sopravvenuto in Hari e Wanda Seldon, e nei pochi membri superstiti del Progetto Psicostoria. Lui sembrava essersi arreso: ormai trascorreva gran parte delle sue giornate seduto nel solarium di Streeling, fissando i terreni dell’università e lasciandosi riscaldare dalle lampade lucenti sul soffitto. Ogni tanto, riferivano i membri del progetto a Wanda, la sua guardia del corpo, un uomo di nome Stettin Palver, lo obbligava quasi con la forza a fare una passeggiata sotto la cupola, o tentava di impegnarlo in una discussione sul futuro orientamento del progetto.

Dal canto suo, Wanda si rifugiò sempre più profondamente nello studio del radiante primario. Le sue equazioni erano affascinanti. La ragazza percepiva che quel futuro per cui suo nonno aveva lavorato così tanto stava finalmente prendendo forma. Hari Seldon aveva visto giusto: gli enciclopedisti dovevano stabilirsi su Terminus a costituire la Fondazione. E nella sezione 33A2D17 Wanda vedeva quel che Seldon aveva progettato come Seconda Fondazione, la più segreta. Ma in che modo? Senza la partecipazione attiva di Seldon, Wanda non sapeva come procedere. E il dolore per la distruzione della sua famiglia era ancora così bruciante, sul momento, da impedirle di trovare la forza per scoprirlo da sola.

I membri del progetto, quella cinquantina di anime coraggiose ancora rimaste, continuavano nel loro lavoro come meglio potevano. In massima parte si trattava di enciclopedisti, intenti a reperire le fonti del materiale che avrebbero dovuto copiare e catalogare in vista del loro eventuale trasferimento su Terminus, se e quando avessero ottenuto il completo accesso alle risorse della biblioteca galattica.

Ormai lavoravano spinti soltanto dalla fede; il professor Seldon aveva perso il suo ufficio privato alla biblioteca, quindi le prospettive per un altro membro del progetto di conquistarsi un accesso speciale a quegli archivi erano davvero minime.

I restanti membri del progetto (esclusi gli enciclopedisti) erano analisti storici e matematici. Gli storici interpretavano i fatti passati e presenti, passandoli poi ai matematici, che a loro volta adattavano quei frammenti all’interno della grandiosa Equazione psicostorica. Era un lavoro lungo e meticoloso.

Molti membri del progetto se ne erano andati perché le gratificazioni erano veramente scarse, senza contare che gli psicostorici erano ormai oggetto di molte barzellette su Trantor, e che i fondi limitati avevano costretto Seldon a operare tagli drastici nelle retribuzioni. Tuttavia, la costante e rassicurante presenza di Hari Seldon era riuscita, fino a quel momento, ad avere la meglio sulle difficili condizioni in cui si trovavano a lavorare i ricercatori del progetto. Anzi, in pratica, i membri superstiti avevano deciso dal primo all’ultimo di restare solo per il rispetto e la devozione per il professor Seldon.

“Ma adesso” pensò amareggiata Wanda Seldon “che motivo hanno per restare ancora?” Una brezza leggera le spostò una ciocca di capelli biondi sugli occhi; lei la spinse indietro automaticamente, continuando nella sua opera di eliminazione delle erbacce.

«Signorina Seldon, posso chiederle qualche minuto del suo tempo?» Wanda si girò sollevando lo sguardo. Un giovanotto che doveva aver passato da poco la ventina si trovava sul sentiero di ghiaia accanto a lei. Wanda avvertì subito che era forte e spaventosamente intelligente. Suo nonno aveva scelto in modo saggio. Wanda si alzò per parlargli.

«La riconosco. Lei è la guardia del corpo di mio nonno, non è vero? Stettin Palver, mi pare.»

«Sì, è esatto, signorina Seldon» disse Palver, e le sue guance arrossirono leggermente come se fosse compiaciuto che una ragazza così bella lo avesse notato. «Signorina, è di suo nonno che vorrei parlarle. Sono molto preoccupato per lui. Dobbiamo fare qualcosa.»

«Fare cosa, signor Palver? Non so più dove sbattere la testa. Da quando mio padre» deglutì a fatica, come se le riuscisse difficile parlare «è morto, e mia madre e mia sorella sono scomparse, il massimo che riesco a ottenere è farlo alzare dal letto la mattina. E, a dirle la verità, anch’io sono rimasta molto sconvolta. Mi capisce, non è vero?» Lo fissò negli occhi e vide che lui capiva.

«Signorina Seldon,» mormorò Palver dolcemente «sono terribilmente spiaciuto per la vostra perdita. Ma lei e il professore siete vivi, e dovete continuare a lavorare alla psicostoria. Il professore sembra essersi arreso. Speravo che forse lei, noi, avremmo saputo trovare qualcosa per ridargli speranza. Capisce, una ragione per continuare.»

“Ah, signor Palver,” pensò Wanda “forse il nonno ha ragione. Mi domando anch’io se esiste davvero una ragione per continuare.” Ma ad alta voce disse: «Mi dispiace, signor Palver, ma non riesco a pensare a nulla». Indicò il terreno con la sua zappa. «E adesso, come può vedere, devo tornare a queste pestifere erbacce.»

«Io non credo che suo nonno abbia ragione. Penso che una ragione per continuare esista davvero. Dobbiamo solo trovarla.»

Quelle parole la colpirono come una bomba. Come faceva a sapere ciò che lei stava pensando? A meno che... «Lei sa leggere la mente, non è vero?» chiese Wanda trattenendo il respiro come se avesse paura della risposta di Palver.

«Sì» rispose il giovanotto. «È sempre stato così, credo. Almeno, non ricordo una sola occasione in cui non sia riuscito a farlo. Per metà del tempo non ne sono nemmeno del tutto cosciente. Riesco soltanto a sapere quello che la gente pensa, o ha pensato.

«A volte» proseguì incoraggiato dalla comprensione che sentiva emanare da Wanda «ricevo come dei lampi da un’altra persona che fa la mia stessa cosa. Tuttavia succede sempre in mezzo a parecchia gente e non riesco a individuare di chi si tratta. Ma so che esistono altri come me, come noi, in giro.»

Wanda strinse tutta eccitata la mano di Palver, facendo cadere a terra l’utensile da giardinaggio ormai dimenticato. «Ha idea di che cosa potrebbe significare questo per il nonno, per la psicostoria? Uno solo di noi non può fare molto, ma insieme...» Wanda cominciò a camminare verso l’Istituto di psicostoria, lasciando Palver sul sentiero di ghiaia. Arrivata quasi all’ingresso, si fermò per voltarsi. “Venga, signor Palver, dobbiamo dirlo subito al nonno” disse Wanda senza aprire le labbra. “Sì, immagino che sia necessario” replicò Palver raggiungendola.

31

«Vorresti dire che ho svolto ricerche su tutta Trantor per trovare qualcun altro con i tuoi poteri, Wanda, e che in questi ultimi mesi l’avevamo qui accanto a noi senza che ce ne accorgessimo?» Hari Seldon era incredulo. Stava sonnecchiando nel solarium quando Wanda e Palver lo avevano svegliato per comunicargli la loro incredibile notizia.

«Sì, nonno. Prova a rifletterci. Non ho mai avuto occasione di incontrare personalmente Stettin; quasi tutto il tempo che tu passi in sua compagnia lo trascorri fuori o in giro, lontano dai laboratori del progetto, mentre io trascorro quasi tutte le mie giornate chiusa in ufficio a lavorare con il radiante primario. Quando avremmo potuto incontrarci? Anzi, l’unica volta che le nostre strade si sono incrociate, i risultati sono stati significativi.»

«Questo quando sarebbe successo?» chiese Seldon frugando nella memoria.

«Alla tua ultima udienza, quella di fronte al giudice Lih» rispose subito Wanda. «Ricordi quel testimone oculare che ha giurato che tu e Stettin avevate aggredito quei tre teppisti? Ricordi come è crollato e ha raccontato la verità, mentre lui stesso non sembrava capirne il motivo? Ebbene, Stettin e io ne abbiamo scoperto la ragione. Stavamo spingendo entrambi Rial Nevas a dire la verità. Nella sua prima dichiarazione si era mostrato molto deciso e sicuro di sé; dubito che uno solo di noi due sarebbe riuscito a spingerlo. Ma insieme» lanciò una timida occhiata a Palver che se ne stava in piedi di lato «il nostro potere è terrificante!»

Hari Seldon digerì tutto quanto, poi fece per parlare. Ma Wanda continuò: «Anzi, ora passeremo il pomeriggio a mettere alla prova le nostre capacità mentaliche, separatamente e insieme. Da quel poco che abbiamo discusso finora, sembra che il potere di Stettin sia leggermente inferiore al mio. Forse un cinque sulla mia scala di misurazione, ma il suo cinque unito al mio sette darebbe un dodici. Pensaci, nonno, terrificante!».

«Non vede, professore?» intervenne Palver. «Wanda e io rappresentiamo quella svolta che stava cercando. Possiamo aiutarla a convincere i mondi della validità della psicostoria, a trovare altri come noi, a dare un nuovo impulso alla psicostoria.»

Hari Seldon sollevò lo sguardo verso i due giovani che aveva davanti. I loro volti scintillavano di giovinezza, vigore ed entusiasmo, e quella vista fece sentire un po’ meglio il suo vecchio cuore. Probabilmente non tutto era perduto. Aveva pensato che non sarebbe sopravvissuto a quell’ultima tragedia, alla morte di suo figlio, ma adesso vedeva che Raych continuava a vivere in Wanda. E in quel momento capì che in Wanda e in Stettin viveva il futuro della Fondazione.

«Sì, sì» disse Seldon annuendo con vigore. «Avanti, voi due, aiutatemi ad alzarmi. Devo tornare in ufficio per preparare la nostra prossima mossa.»

32

«Entri, professor Seldon» disse il bibliotecario capo Tryma Acarnio con un tono di voce gelido. Hari Seldon, accompagnato da Wanda e da Palver, entrò nel maestoso ufficio.

«La ringrazio, bibliotecario capo» disse Seldon sedendosi di fronte ad Acarnio che lo fissava da dietro l’enorme scrivania. «Posso presentarle mia nipote Wanda e il mio amico Stettin Palver? Wanda è un validissimo membro del Progetto Psicostoria, e la sua specializzazione è nel campo della matematica. Invece Stettin sta diventando un eccellente psicostorico generale, beninteso quando non è impegnato a farmi da guardia del corpo.» Seldon ridacchiò amabilmente.

«Bene, professore, sono molto lieto di saperlo» disse Acarnio, colto di sorpresa dall’ottimo umore di Seldon. Si era aspettato che il professore entrasse con atteggiamento umile, implorando una nuova opportunità di approfittare dei privilegi speciali della biblioteca.

«Tuttavia non capisco per quale motivo abbia voluto vedermi. Immagino si renda conto che la nostra posizione è estremamente ferma: non possiamo consentire che la biblioteca venga associata a una persona così ampiamente impopolare presso l’opinione pubblica. Noi siamo, dopotutto, una biblioteca pubblica e dobbiamo tenere in debito conto i sentimenti della gente.» Acarnio si appoggiò allo schienale della poltrona; forse adesso sarebbero cominciate le suppliche.

«Mi rendo semplicemente conto» disse Seldon «che io non sono stato in grado di convincerla. Tuttavia, ho pensato che se avesse ascoltato un paio dei membri più giovani del progetto, gli psicostorici di domani, in un certo senso, forse avrebbe compreso meglio il ruolo vitale che il progetto, e l’Enciclopedia in particolare, avrà nel nostro futuro. La prego quindi di ascoltare Wanda e Stettin.»

Acarnio lanciò un’occhiata gelida ai due giovani che fiancheggiavano Seldon. «E va bene» disse sbirciando la cronofascia alla parete. «Cinque minuti e non uno di più. Ho una biblioteca da dirigere.»

«Bibliotecario capo,» cominciò Wanda «come indubbiamente mio nonno le avrà spiegato, la psicostoria è uno strumento che può rivelarsi utilissimo per la conservazione della nostra cultura. Sì, per la sua conservazione» ripeté notando che Acarnio spalancava gli occhi a quella parola. «È stata data troppa enfasi alla distruzione dell’impero. Così facendo, la reale natura della psicostoria è passata inosservata. Infatti con la psicostoria, così come siamo in grado di prevedere l’inevitabile declino della nostra civiltà, possiamo anche compiere i passi necessari per preservarla. Questo è lo scopo finale dell’Enciclopedia galattica. Ed è per questo che ci serve il suo aiuto, e l’aiuto della sua grande biblioteca.»

Acarnio non poté fare a meno di sorridere. Quella fanciulla possedeva un fascino innegabile. Era così seria e convinta, così educata. Osservò la sua figura seduta davanti a lui, i capelli biondi raccolti sulla nuca in una pettinatura un po’ severa, da studiosa, che tuttavia non sminuiva i tratti deliziosi del viso ma semmai ne accentuava il fascino. Quello che diceva stava cominciando ad avere un senso.

Forse Wanda Seldon aveva ragione, lui aveva guardato il problema da una prospettiva sbagliata. Se si fosse trattato veramente di conservazione, invece che di distruzione...

«Bibliotecario capo» attaccò Stettin Palver. «Questa grande biblioteca si erge da millenni. Più ancora del palazzo imperiale, essa rappresenta l’enorme potere dell’impero. Perché il palazzo ospita soltanto il capo dell’impero, mentre la biblioteca la somma totale della conoscenza, della cultura e della storia di questo impero. Il suo valore è incalcolabile.

«Non è dunque sensato preparare un tributo a una così grande istituzione? L’Enciclopedia galattica sarà appunto questo: una gigantesca sintesi di tutta la conoscenza ospitata all’interno di queste stesse mura. Ci pensi!»

All’improvviso tutto gli sembrò molto chiaro. Come aveva potuto permettere al Consiglio (e specialmente a quell’acido idiota di Gennaro Mummery) di convincerlo a rescindere i privilegi di Seldon? Las Zenow, una persona di cui lui stimava moltissimo il giudizio, non era forse stato un ardente sostenitore dell’Enciclopedia di Seldon?

Osservò di nuovo i tre che aveva di fronte, in attesa della sua decisione. Se quei due giovani nel suo ufficio erano un campione rappresentativo del genere di persone che lavoravano con Seldon, il Consiglio avrebbe faticato parecchio a trovare qualche motivo per lamentarsi dei membri del progetto.

Acarnio si alzò e attraversò l’ufficio, la fronte corrugata quasi a incorniciare i suoi pensieri. Raccolse una sfera di cristallo latteo da un tavolo e la soppesò sul palmo.

«Trantor,» cominciò Acarnio pensieroso «sede dell’impero, centro di tutta la galassia. È davvero sorprendente, a pensarci bene. Forse, professor Seldon, siamo stati un po’ troppo frettolosi nel giudicare. Ora che il suo progetto, questa Enciclopedia galattica, mi è stato presentato sotto una simile luce» fece un breve cenno con il capo in direzione di Wanda e Palver «mi rendo conto di quanto sarebbe importante concederle di proseguire il suo lavoro qui. Permettendo l’accesso, naturalmente, anche ai suoi colleghi.»

Seldon sorrise pieno di gratitudine e diede una strizzata alla mano di Wanda.

«Non è solo per la maggiore gloria dell’impero che approvo il suo progetto» proseguì Acarnio che in apparenza si stava infervorando all’idea (e al suono della propria voce). «Lei è famoso, professor Seldon. Sia che la gente la giudichi un genio o un folle, quel che conta è che ognuno sembra avere un’opinione in merito. Se un accademico della sua levatura si alleasse con la biblioteca, ciò potrebbe soltanto accrescere il nostro prestigio di roccaforte della ricerca intellettuale. Inoltre, il lustro derivante dalla sua presenza potrebbe aiutarci a ottenere quei sospirati finanziamenti necessari per aggiornare le nostre collezioni, aumentare il personale, tenere aperte più a lungo le nostre porte al pubblico.

«Quanto alla prospettiva dell’Enciclopedia galattica, che progetto monumentale! Immagini la reazione del pubblico quando si verrà a sapere che la biblioteca partecipa a una simile impresa destinata a illustrare lo splendore della nostra civiltà, la storia gloriosa, i brillanti risultati che abbiamo ottenuto in ogni campo e le magnifiche culture. E pensare che sarò proprio io, il bibliotecario capo Tryma Acarnio, ad avere l’onore di dare inizio a un progetto così grandioso.» Acarnio continuava a fissare la sfera di cristallo, perso nei suoi sogni a occhi aperti.

«Sì, professor Seldon.» Acarnio ritornò al presente con uno sforzo. «Lei e i suoi colleghi avrete tutti i privilegi dei ricercatori interni e una serie di uffici nei quali lavorare.» Rimise la sfera di cristallo sul tavolo e, con uno svolazzo della lunga toga, tornò alla scrivania.

«Naturalmente, per convincere il Consiglio potrà volerci un po’ di tempo, ma sono sicuro di riuscirci. Lasci fare a me.»

Seldon, Wanda e Palver si scambiarono uno sguardo di trionfo, ognuno con l’ombra di un sorriso che aleggiava agli angoli delle labbra. Tryma Acarnio li congedò con un gesto e loro uscirono, lasciando il bibliotecario capo seduto sulla sua poltrona a sognare la gloria e gli onori di cui si sarebbe ammantata la biblioteca sotto la sua egida.

«Sorprendente» disse Seldon quando furono tutti al sicuro sulla loro terramobile. «Se solo aveste potuto vederlo durante il nostro ultimo incontro! Mi ha detto che stavo “minacciando il tessuto essenziale dell’impero” o qualche altra idiozia del genere. Mentre oggi, solo dopo pochi minuti insieme a voi due...»

«Non è stato troppo difficile, nonno» disse Wanda accendendo il motore e spostando il veicolo in mezzo al traffico. Poi si rilassò contro lo schienale mentre gli automatismi si occupavano della guida; Wanda aveva già inserito le coordinate della loro destinazione sul pannello di comando. «È un uomo dotato di un forte senso della propria importanza. Noi abbiamo dovuto semplicemente mettere in risalto gli aspetti positivi dell’Enciclopedia, e il suo ego si è occupato del resto.»

«Un minuto dopo il nostro ingresso nel suo ufficio, aveva già perso la partita» intervenne Palver dal sedile posteriore. «Con noi due a spingerlo, è stato un gioco da ragazzi.» Palver allungò un braccio e strinse affettuosamente la spalla di Wanda, e lei gli accarezzò la mano.

«Devo avvertire al più presto gli enciclopedisti» disse Seldon. «Ormai ne rimangono solo trentadue, ma è tutta gente capace e coscienziosa. Li farò sistemare nella biblioteca, poi affronterò il prossimo problema, cioè i fondi. Forse questa alleanza con la biblioteca è proprio ciò che mi serve per convincere certe persone a concederci gli stanziamenti necessari. Vediamo: farò visita di nuovo a Terep Bindris: sembrava abbastanza ben disposto, almeno all’inizio.»

La terramobile si fermò davanti all’Istituto di psicostoria a Streeling. I pannelli laterali si aprirono, ma Seldon non si mosse subito per scendere. Si girò invece verso Wanda.

«Wanda, vorrei che tu e Stettin veniste con me. Ormai abbiamo visto cosa siete riusciti a fare con Acarnio; sono sicuro che riuscirete anche a scucire qualche credito ad alcuni benefattori potenziali che operano nel campo finanziario.

«So quanto ti dispiace lasciare il tuo adorato radiante primario, ma queste visite forniranno a voi due l’opportunità per fare pratica, per affinare le vostre capacità, per scoprire di cosa siete veramente capaci.»

«D’accordo, nonno, anche se ora che hai l’appoggio della biblioteca scoprirai che la resistenza alle tue richieste è alquanto diminuita.»

Seldon annuì. «C’è un altro motivo per cui penso che sia importante che voi due usciate e andiate in giro insieme. Stettin, mi pare che tu abbia detto che in certe occasioni hai “sentito” un’altra mente simile alla tua, ma senza riuscire a identificarla.»

«Sì. Ho avuto dei lampi, ma ogni volta ero in mezzo alla folla. E in tutti i miei ventiquattro anni, ricordo di aver sentito questi lampi solo quattro o cinque volte.»

«Eppure, Stettin,» disse Seldon con voce bassa e vibrante «ogni lampo era, potenzialmente, la mente di un’altra persona come te e Wanda, un altro mentalista. Wanda non ha mai sentito questi lampi perché, in tutta franchezza, ha sempre vissuto come una specie di reclusa. Le poche volte che è uscita in mezzo alla gente, probabilmente non dovevano esserci altri mentalisti nei dintorni.

«Questa è la ragione, forse la più importante, che dovrebbe spingere voi due a uscire insieme, con o senza di me. Dobbiamo trovare altri mentalisti. Voi due da soli siete abbastanza forti per spingere una singola persona. Ma un folto gruppo di individui come voi, spingendo tutti insieme, avranno il potere di muovere un impero!»

Dopo di che Hari Seldon spostò le gambe di lato e uscì faticosamente dalla terramobile. Wanda e Palver lo guardarono zoppicare lungo il sentiero che portava all’Istituto di psicostoria, ignari dell’enorme responsabilità che Seldon aveva appena scaricato sulle loro giovani spalle.

33

Era pomeriggio inoltrato e il sole di Trantor scintillava sullo strato metallico che ricopriva il grande pianeta. Hari Seldon si trovava sul bordo della terrazza d’osservazione dell’Università di Streeling e tentava di proteggersi con una mano gli occhi da quel vivido chiarore. Erano anni che non usciva dalla cupola, eccettuate le sue rare visite al palazzo, e in qualche modo quelle non contavano: ci si sentiva sempre molto rinchiusi anche nei terreni imperiali.

Ormai Seldon non andava più in giro soltanto se accompagnato. Prima di tutto, Palver trascorreva quasi tutto il suo tempo con Wanda, o a lavorare con il radiante primario, entrambi assorbiti dagli studi mentalisti, o alla ricerca di altri come loro. Ma, se lo avesse voluto, Seldon avrebbe potuto trovare un altro giovanotto, uno studente dell’università o un membro del progetto, più che disposto a fungere da sua guardia del corpo.

Comunque, Seldon sapeva che una guardia del corpo non era più necessaria. Dopo la tanto pubblicizzata udienza e il ristabilirsi dei contatti con la biblioteca galattica, il Comitato per la sicurezza pubblica aveva preso a interessarsi da vicino a Seldon. Sapeva di essere seguito: diverse volte era riuscito a scorgere la sua “ombra” negli ultimi mesi. Era inoltre certo che nella sua casa e nel suo ufficio fossero state nascoste delle microspie, ma a sua volta lui attivava un campo di disturbo quando doveva impegnarsi in comunicazioni delicate.

Seldon non sapeva con certezza cosa pensasse di lui il Comitato; forse neanche loro lo sapevano. Potevano considerarlo un profeta o un folle, ma sembravano ben decisi a sapere dove lui si trovasse in ogni momento, e questo significava che finché il Comitato non avesse cambiato idea, Seldon sarebbe sempre stato al sicuro.

Una brezza leggera gonfiò il mantello blu scuro che si era avvolto sull’abito monopezzo, scompigliando i pochi capelli bianchi che gli erano rimasti in testa. Si affacciò alla balaustra e guardò in basso, lasciandosi riempire gli occhi dalla coltre di acciaio apparentemente priva di saldature che si estendeva in basso. Al di sotto della coltre, Seldon lo sapeva, rombavano i macchinari di un mondo incredibilmente complesso. Se la cupola fosse stata trasparente, avrebbe potuto veder sfrecciare le terramobili, i gravitaxi che si tuffavano attraverso l’intricata rete di gallerie comunicanti, le ipernavi da trasporto intente a caricare o scaricare grano, sostanze chimiche e gioielli in arrivo o in partenza praticamente per ogni mondo dell’impero.

Sotto la scintillante distesa metallica si consumavano le esistenze di quaranta miliardi di persone con gli inevitabili drammi, gioie e dolori della vita umana. Amava molto quel panorama del progresso umano e gli spezzava il cuore sapere che nel giro di pochi secoli tutto quel che vedeva sarebbe finito in rovina. La grande cupola sarebbe stata squarciata e sfregiata, divelta per rivelare la vista desolata di quella che un tempo era stata la capitale di una fiorente civiltà. Scosse tristemente il capo, perché sapeva di non poter fare nulla per impedire una simile tragedia. Ma, così come Seldon prevedeva la cupola rovinata, sapeva anche che dal terreno spogliato dalle ultime battaglie dell’impero sarebbero sorti teneri virgulti, e che in qualche modo Trantor sarebbe risorto tornando a essere un membro vitale del nuovo impero. Il Piano comprendeva anche questo.

Seldon sedette su una delle panchine che costeggiavano il perimetro della terrazza. La gamba gli pulsava dolorosamente; lo sforzo della salita era stato eccessivo. Ma valeva la pena poter ammirare ancora una volta Trantor dall’alto, sentire l’aria aperta intorno a sé e vedere il cielo così ampio sopra la testa.

Seldon pensò malinconicamente a Wanda. Ormai vedeva di rado la nipote e, quando ciò accadeva, era sempre presente anche Stettin Palver. Nei tre mesi trascorsi da quando Wanda e Palver si erano incontrati, sembravano essere diventati inseparabili. Wanda aveva assicurato a Seldon che la loro assidua frequentazione era necessaria al progetto, ma Seldon sospettava che ci fosse sotto qualcosa di molto più profondo del semplice attaccamento al lavoro.

Ricordava i segni premonitori che risalivano ai suoi primi giorni vissuti con Dors. Erano chiaramente visibili nel modo in cui i due giovani si guardavano, con una intensità nata non solo dalla stimolazione intellettuale, ma altresì da una spinta emotiva.

Inoltre, per la loro stessa natura Wanda e Palver sembravano più a loro agio l’uno in compagnia dell’altra che insieme ad altre persone. Anzi, Seldon aveva scoperto che quando erano soli Wanda e Palver non si parlavano neppure; i loro poteri mentali erano sufficientemente avanzati per eliminare la necessità delle parole in qualsiasi forma di comunicazione.

Gli altri membri del progetto non erano al corrente delle doti uniche di Wanda e Palver. Seldon aveva ritenuto più prudente passare sotto silenzio il lavoro dei mentalisti, almeno fino a quando il loro ruolo in seno al Piano non si fosse definito meglio. Per la verità, il Piano in sé era già definito con chiarezza, ma solamente nella mente di Seldon. Quando qualche altro pezzo sarebbe finito al suo posto, lui lo avrebbe rivelato a Wanda e a Palver, e forse un giorno, per necessità, a un altro paio di persone fidate.

Seldon si alzò lentamente, le membra irrigidite. Entro un’ora doveva essere di ritorno sotto la cupola, a Streeling, per incontrarsi con Wanda e Palver. Lo avevano avvertito che gli avrebbero portato una grossa sorpresa. Un altro pezzo da incastrare nel suo Piano, sperava Seldon. Contemplò un’ultima volta Trantor e, prima di voltarsi per tornare all’ascensore gravitazionale, sorrise e disse sottovoce: «Fondazione».

34

Entrando nel suo ufficio, Hari Seldon vide che Wanda e Palver erano già arrivati e si erano seduti al tavolo delle riunioni in fondo alla stanza. Come sempre quando erano presenti quei due, la stanza era immersa in un profondo silenzio. Ma poi Seldon si fermò di colpo, perché con loro sedeva un’altra persona. Che strano! Di solito, in segno di cortesia, Wanda e Palver facevano ricorso alla comunicazione verbale quando si trovavano in compagnia di altre persone, eppure nessuno dei tre stava parlando.

Seldon esaminò lo sconosciuto. Era un uomo dall’aria strana, sui trentacinque anni, con lo sguardo miope di chi era rimasto troppo a lungo concentrato sui propri studi. Se non fosse stato per la piega piuttosto decisa della sua mascella, Seldon avrebbe pensato di trovarsi di fronte a una persona insignificante, ma sarebbe stato un errore. Da quel viso emanava forza e dolcezza al tempo stesso. Il viso di una persona di cui ci si poteva fidare, decise Seldon.

«Nonno» disse Wanda alzandosi con eleganza. Il cuore di Seldon prese a battere più forte mentre guardava la nipote. Era cambiata moltissimo negli ultimi mesi, dopo la perdita della sua famiglia. In passato non aveva sempre saputo trattenersi da smorfie e risatine, ma di recente il suo sguardo sereno era alleggerito solo occasionalmente da un sorriso beato. Ora come prima, tuttavia, era bellissima, e quella bellezza era superata solo dalla sua intelligenza sbalorditiva.

«Wanda, Stettin» disse Seldon baciando la prima sulla guancia e battendo sulla spalla del secondo.

«Salve» disse Seldon allo sconosciuto, che si era alzato a sua volta. «Sono Hari Seldon.»

«Onoratissimo di fare la sua conoscenza, professore» disse l’uomo. «Sono Bor Alurin.» Offrì la mano a Seldon nel saluto ormai antiquato e, di conseguenza, più formale.

«Bor è uno psicologo, Hari,» disse Palver «e un grande ammiratore del tuo lavoro.»

«Ma, cosa ben più importante, nonno,» disse Wanda «Bor è uno di noi.»

«Uno di voi?» Seldon scrutò interrogativo i tre volti che aveva davanti. «Vuoi dire...?» Gli occhi di Seldon sfavillarono.

«Sì, nonno. Ieri Stettin e io stavamo passeggiando nel settore di Ery, andandocene in giro come avevi suggerito tu, in cerca di altri come noi. E, a un tratto, wham!, eccolo là.»

«Abbiamo riconosciuto subito gli schemi mentali, così abbiamo cominciato a guardarci intorno cercando di stabilire un contatto» disse Palver continuando il resoconto. «Eravamo nella zona commerciale, vicini allo spazioporto, quindi i marciapiedi erano affollati di clienti, turisti e commercianti dei Mondi esterni. Sembrava un’impresa disperata, ma poi Wanda si è semplicemente fermata e ha segnalato: “Vieni qui”, e Bor è sbucato dalla folla. Si è avvicinato a noi e ha segnalato: “Sì?”.»

«Sorprendente» disse Seldon fissando con occhi raggianti la nipote. «E lei, dottor Alurin (perché è laureato, vero?), che cosa pensa di tutto questo?»

«Ebbene,» rispose pensieroso lo psicologo «ne sono compiaciuto. Mi sono sempre sentito in un certo senso diverso dagli altri e ora ne comprendo il motivo. E se posso esserle di qualche aiuto, ecco...» Abbassò gli occhi, come se pensasse a un tratto di mostrarsi troppo presuntuoso. «Insomma, Wanda e Stettin mi hanno detto che forse avrei potuto contribuire in qualche modo al suo Progetto Psicostoria. Professore, niente al mondo mi riuscirebbe più gradito.»

«Sì, sì. Questo è proprio vero, dottor Alurin. Anzi, ritengo che potrà offrire un grande contributo al progetto se si unirà a noi. Naturalmente, questo la obbligherà ad abbandonare ogni altra attività, sia che si tratti di insegnamento sia di uno studio privato. È in grado di farlo?»

«Sì, professore, certo. Forse mi servirà un po’ di aiuto per convincere mia moglie.» Qui fece una risatina, sbirciando furbescamente ognuno dei tre presenti. «Ma credo che questo non costituirà un problema.»

«Allora siamo d’accordo» disse Seldon secco. «Si unirà al Progetto Psicostoria. Le prometto, dottor Alurin, che non rimpiangerà di aver preso questa decisione.»

«Wanda, Stettin,» disse Seldon più tardi, dopo che Bor Alurin se ne era andato. «È stato un notevole passo avanti. In quanto tempo pensate di poter trovare altri mentalisti?»

«Nonno, abbiamo impiegato quasi un mese per trovare Bor. Non possiamo prevedere con quale ritmo ne scopriremo altri.

«A dirti la verità, tutto questo “andarcene in giro” ci distoglie dal nostro lavoro sul radiante primario, e risulta anche fastidioso. Ora che ho Stettin con cui “parlare”, la comunicazione verbale risulta troppo rigida, troppo forte.»

Il sorriso di Seldon si spense. Era ciò che aveva temuto. Con l’affinarsi delle capacità mentaliche di Wanda e Palver, la loro tolleranza alla vita “ordinaria” era diminuita. Era logico, in fondo; le loro capacità mentaliche li rendevano una specie a parte.

«Wanda, Stettin, credo che per me sia giunto il momento di dirvi qualcosa di più sull’idea che Yugo Amaryl ebbe molti anni fa, e sul Piano che io ho elaborato basandomi su tale idea. Fino a oggi non ero pronto a parlarvene, perché fino a oggi tutti i pezzi del Piano non erano ancora al loro posto.

«Come sapete, Yugo pensava che avremmo dovuto creare due Fondazioni, ognuna intesa come misura di sicurezza per l’altra. Era un’idea brillante, che purtroppo Yugo non ha mai potuto veder realizzata.» Qui Seldon fece una pausa, facendo un sospiro di rimpianto.

«Ma sto divagando. Sei anni fa, quando ebbi la certezza che Wanda possedesse facoltà telepatiche, pensai che non sarebbero dovute esistere semplicemente due Fondazioni, ma che dovessero possedere due nature ben distinte. Una doveva essere composta di esperti nelle scienze fisiche: gli enciclopedisti saranno i loro pionieri su Terminus. La seconda doveva essere formata da autentici psicostorici, i mentalisti come voi. Ecco perché ero così ansioso che scopriste altri vostri simili.

«Il fattore più importante, tuttavia, è questo: la Seconda Fondazione dev’essere segreta. La sua forza risiederà nel suo stesso isolamento, nella sua onnipresenza e onnipotenza telepatica.

«Vedete, alcuni anni fa, quando è apparso chiaro che avrei avuto bisogno dei servigi di una guardia del corpo, mi sono reso conto che la Seconda Fondazione doveva essere la forte, silenziosa, segreta guardia del corpo della Fondazione primaria.

«La psicostoria non è infallibile, tuttavia le sue previsioni sono altamente probabili. La Fondazione, specialmente nella sua infanzia, avrà molti nemici, come io ne ho oggi.

«Wanda, tu e Palver siete i pionieri della Seconda Fondazione, i guardiani della Fondazione di Terminus.»

«Ma come faremo, nonno?» domandò Wanda. «Siamo solo in due, tre contando Bor. Per proteggere l’intera Fondazione ci servirebbero...»

«Centinaia? Migliaia? Scopri tu quanti mentalisti ti serviranno, nipote. Sei in grado di farlo. E sai come riuscirci.

«Prima, mentre raccontava come avete scoperto il dottor Alurin, Stettin ha detto che ti sei semplicemente fermata e che hai lanciato un richiamo alla presenza mentalista che avvertivi, e lui si è fatto avanti. Non capisci? Per tutto questo tempo vi ho chiesto di andare in giro e di trovare altri come voi. Ma questo vi riesce sempre più difficile, quasi doloroso. Adesso mi rendo conto che tu e Stettin dovete isolarvi per formare il nucleo della Seconda Fondazione. Dal vostro rifugio getterete le reti nell’oceano dell’umanità.»

«Nonno, che cosa stai dicendo?» chiese Wanda in un sussurro. Aveva lasciato la sua sedia e si era inginocchiata accanto a Seldon. «Vuoi che me ne vada?»

«No, Wanda» rispose Seldon con voce rotta per la commozione. «Non voglio che tu te ne vada, ma questa è l’unica via. Tu e Stettin dovete isolarvi dalla rozza fisicità dei nostri mondi. Quando le tue capacità mentaliche diventeranno più forti, saprai attirare gli altri a te. La Fondazione silenziosa e segreta crescerà.

«Ci terremo in contatto, di quando in quando, naturalmente. E ognuno di noi possiede il suo radiante primario. Tu capisci la verità e l’assoluta necessità di quello che sto dicendo, non è vero?»

«Sì, lo capisco, nonno. E quel che più conta, io ne sento la genialità. Stai tranquillo; non ti deluderemo.»

«So che non succederà, mia cara» disse Seldon stancamente.

Come poteva fare una cosa simile? Come poteva allontanare da sé la sua adorata nipote? Era il suo ultimo collegamento con i giorni più felici, con Dors, Yugo e Raych. Lei era l’unica altra Seldon in tutta la galassia.

«Mi mancherai terribilmente, Wanda» disse Seldon, mentre una lacrima gli rigava la guancia rugosa.

«Ma nonno» disse Wanda mettendosi accanto a Palver e preparandosi a uscire. «Dove andremo? Dov’è la Seconda Fondazione?»

Seldon sollevò lo sguardo e disse: «Il radiante primario te lo ha già detto, Wanda».

Wanda fissò Seldon con occhi vacui, frugando nella memoria.

Seldon allungò un braccio e strinse la mano della nipote.

«Tocca la mia mente, Wanda. È là.»

Wanda spalancò gli occhi mentre sondava la mente di Seldon.

«Capisco» sussurrò Wanda a Seldon.

Sezione 33A2D17: Fine di Stella.

1. I versi sono tratti da The Deserted Village di Oliver Goldsmith. Pubblicato a Londra nel 1770, il componimento condanna lo spopolamento delle campagne e la ricerca di un benessere eccessivo. (NdR)