CLEON I ... Benché sia oggetto di continui panegirici per essere stato l’ultimo regnante sotto il quale il Primo impero fu ancora prospero e ragionevolmente unito, non si può dimenticare che i cinque lustri del regno di Cleon furono contraddistinti da una progressiva decadenza. Questo non può essere attribuito alla sua diretta responsabilità, in quanto il declino si basava su fattori politici ed economici troppo forti perché chiunque all’epoca potesse contrastarli. Cleon fu fortunato nella scelta dei suoi primi ministri – dapprima Eto Demerzel e in seguito Hari Seldon – e l’imperatore nutrì costante fiducia nello sviluppo della psicostoria da parte di quest’ultimo. Cleon e Seldon, oggetto della cospirazione finale dei joranumiti destinata a concludersi in modo così bizzarro, possono...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
1
Mandell Gruber era un uomo felice, o almeno così sembrava a Hari Seldon che un giorno interruppe la sua passeggiata quotidiana per fermarsi a osservarlo.
Gruber, che doveva essere prossimo ai cinquanta e quindi era di qualche anno più giovane di Seldon, aveva un aspetto un po’ grinzoso per tutte le ore che trascorreva nei giardini del palazzo imperiale, ma aveva altresì un viso allegro e sempre ben rasato, nonché un cranio roseo celato solo in parte dai radi capelli biondo-rossicci. Fischiettava sottovoce, ispezionando le foglie dei cespugli alla ricerca di eccessive proliferazioni di insetti.
Non era il giardiniere capo, naturalmente. Il giardiniere capo del palazzo imperiale era un alto funzionario che possedeva un ufficio lussuoso in uno degli edifici dell’enorme complesso imperiale, con un esercito di uomini e donne ai suoi ordini. Era probabile che non mettesse piede di persona nei giardini più di una volta o due all’anno.
Gruber era un membro di quell’esercito. La sua qualifica, si era informato Seldon, era quella di giardiniere di prima classe, ed era stata meritatamente conquistata dopo trent’anni di fedele servizio.
Seldon lo salutò mentre si fermava accanto a lui sul sentiero inghiaiato in modo perfetto: «Un’altra giornata splendida, Gruber».
Gruber sollevò la testa e i suoi occhi scintillarono. «Sì, non c’è dubbio, primo ministro, e mi spiace un po’ per quelli che devono starsene rinchiusi fra quattro pareti.»
«Allora le spiace anche per me.»
«Quando si tratta di lei, primo ministro, ci sono ben poche cose che causano dispiacere alla gente. Però, se sta per rinchiudersi in uno di quegli edifici con una giornata simile, noi fortunati possiamo sentirci un po’ addolorati per lei.»
«La ringrazio per la sua comprensione, Gruber, ma come sa abbiamo quaranta miliardi di trantoriani sotto la cupola. Si sente addolorato per tutti?»
«In realtà, sì. Sono lieto di non essere trantoriano anch’io e di aver potuto superare così gli esami di giardiniere. Su questo mondo siamo in pochi a lavorare all’aperto e, fra quei pochi, io sono uno dei più fortunati.»
«Il tempo non è sempre così delizioso.»
«È vero. E spesso mi sono trovato qui fuori tra piogge scroscianti e venti che fischiavano, ma una volta che ci si veste in modo adatto, guardi» e Gruber spalancò le braccia fino a farle sembrare larghe come il suo sorriso, quasi a voler abbracciare l’ampia area dei giardini. «Qui ho i miei amici, gli alberi e i prati e ogni forma di vita animale a tenermi compagnia, e la loro crescita da incoraggiare in forme geometriche, perfino in inverno. Ha mai visto la geometria dei giardini, primo ministro?»
«La vedo in questo momento, no?»
«Parlo dei progetti dispiegati su un tavolo per vederli nella loro interezza, in tutta la loro meraviglia. Li preparò Tapper Savand, più di un secolo fa, e da allora ben poco è stato cambiato. Tapper era un grande orticoltore, il più grande, e anche lui proveniva dal mio pianeta.»
«Che sarebbe Anacreon, non è vero?»
«Esatto. Un mondo lontano, sull’orlo della galassia, dove esistono ancora ampie aree allo stato selvaggio e la vita può essere dolce. Sono arrivato qui che ero ancora un ragazzo inesperto, quando l’attuale giardiniere capo è salito in carica sotto il vecchio imperatore. Naturalmente, adesso parlano di ridisegnare i giardini.» Gruber emise un profondo sospiro e scosse il capo. «Sarebbe un errore. Sono perfetti così come sono. Ma è anche vero che nel corso della storia i giardini sono già stati modificati altre volte. Gli imperatori si stancano del vecchio e cercano sempre il nuovo, come se il nuovo fosse in qualche modo migliore. Il nostro sovrano attuale, possa vivere a lungo, progetta di modificare il disegno dei giardini con il giardiniere capo. Almeno, questa è la voce che circola fra i miei colleghi.» Aggiunse l’ultima frase frettolosamente, come se si vergognasse di riferire chiacchiere di palazzo.
«Potrebbe non succedere.»
«Lo spero di cuore, primo ministro. La prego, se ha la possibilità di trovare un po’ di tempo fra le gravose incombenze che di certo l’assillano, studi i progetti dei giardini. Sono di rara bellezza e, se posso permettermi di esprimere un’opinione personale, non si dovrebbero spostare neppure una foglia, un fiore, un coniglio in centinaia di chilometri quadrati.»
Seldon sorrise. «Lei è un uomo scrupoloso, Gruber. Non mi sorprenderei se un giorno diventasse giardiniere capo.»
«Possa il destino proteggermi da una simile eventualità. Il giardiniere capo non respira aria fresca, non vede il paesaggio naturale e dimentica tutto ciò che ha imparato sulla natura. Vive laggiù» Gruber indicò con un dito, immusonito «e io credo che non sappia più distinguere un cespuglio da un ruscello, a meno che uno dei suoi tirapiedi lo porti a fare un giro qui fuori e posi la sua mano su una siepe o gliela infili nell’acqua.»
Per un attimo sembrò che Gruber volesse sottolineare il suo disprezzo con una espettorazione, ma non riuscì a trovare un solo angolo sul quale avrebbe avuto il coraggio di sputare.
Seldon ridacchiò divertito. «Gruber, è bello chiacchierare con lei. Quando sono sopraffatto dai miei doveri quotidiani, è molto piacevole dedicare qualche minuto all’ascolto della sua filosofia di vita.»
«Ah, primo ministro, io non so niente di filosofia. La mia istruzione è stata piuttosto approssimativa.»
«Non è necessaria l’istruzione per essere filosofi. Bastano una mente attiva e le esperienze di vita. Sia prudente, Gruber. Ho la tentazione di farla promuovere.»
«Se vorrà lasciarmi come sono, primo ministro, avrà la mia eterna gratitudine.»
Seldon sorrideva ancora quando passò oltre, ma il sorriso svanì mentre la sua mente tornava di nuovo ai suoi problemi attuali. Ormai era primo ministro da dieci anni e, se Gruber avesse saputo fino a che punto lui era nauseato e stanco della carica, la sua comprensione sarebbe salita alle stelle. Ma un giardiniere avrebbe potuto rendersi conto che i progressi di Seldon nelle tecniche della psicostoria minacciavano di porlo dinanzi a un dilemma insolubile?
2
La pensierosa passeggiata di Seldon nei giardini fu un distillato di serenità. Lì, in mezzo ai possedimenti più immediati dell’imperatore, gli riusciva difficile credere di trovarsi su un mondo totalmente rinchiuso sotto una cupola, a parte quella zona. Nell’oasi incontaminata poteva illudersi di essere ancora su Helicon, il suo mondo natale, o magari su quello di Gruber, Anacreon.
Naturalmente il senso di pace e isolamento era un’illusione. I giardini erano attentamente sorvegliati e pullulavano di sistemi di sicurezza.
Un tempo, mille anni prima, i giardini del palazzo imperiale – che all’epoca era assai meno imponente – non si differenziavano poi tanto dal resto di un mondo che iniziava soltanto allora a costruire cupole sopra le singole regioni; anzi, erano aperti a tutti i cittadini, che potevano incontrare lo stesso imperatore a passeggio lungo i suoi sentieri, un imperatore privo di guardie disposto a salutare cortesemente con un cenno del capo i sudditi in cui si imbatteva.
Adesso non era più così. Adesso erano in vigore le misure di sicurezza, e nemmeno i cittadini di Trantor potevano violare i giardini. Questo, tuttavia, non eliminava il rischio che un pericolo potesse presentarsi a opera di funzionari imperiali scontenti o di militari corrotti allo scopo. In simili casi era proprio all’interno dei giardini che l’imperatore e i suoi ministri correvano i maggiori pericoli. Che cosa sarebbe successo se dieci anni prima, in una simile circostanza, Seldon non si fosse fatto accompagnare da Dors Venabili?
Era il suo primo anno come primo ministro ed era naturale, anche secondo lo stesso Seldon (ma questo lo pensò dopo il fatto), che in seno alla corte serpeggiasse un certo malcontento per la scelta inattesa che lo aveva innalzato a quella carica. Molti altri funzionari, più qualificati per addestramento e anzianità, più convinti di meritare l’incarico (soprattutto ai loro stessi occhi), potevano essere rimasti irritati dalla nomina. Loro non conoscevano l’esistenza della psicostoria o l’importanza che l’imperatore attribuiva a essa, e il modo più semplice per correggere la situazione consisteva nel corrompere qualcuno di coloro che avevano giurato di proteggere la vita del primo ministro.
Fin dall’inizio Dors si era sempre mostrata più sospettosa dello stesso Seldon. Oppure, con la scomparsa di Demerzel dalla scena, le sue istruzioni di proteggere Seldon avevano acquistato una maggiore urgenza. Con il risultato che, durante i primi anni dell’alto incarico di Seldon, Dors rimase quanto più possibile al suo fianco.
E quel tardo pomeriggio di una calda giornata estiva, Dors notò il luccichio del sole – un sole mai visto sotto la cupola di Trantor – sul metallo di un fulminatore.
«Giù, Hari!» urlò di colpo, e le sue gambe divorarono il prato erboso mentre lei correva verso il sergente.
«Mi dia quel fulminatore, sergente» gli intimò con voce dura.
Il potenziale assassino, momentaneamente immobilizzato dalla vista di una donna che correva verso di lui, tentò di reagire in fretta sollevando l’arma appena tolta dal fodero.
Ma lei gli era già addosso e con una mano gli strinse il polso destro in una morsa d’acciaio, sollevando in alto il braccio. «Lasci l’arma» gli disse attraverso i denti serrati.
Il viso del sergente si contorse mentre cercava di liberare il braccio.
«Non ci provi, sergente. Il mio ginocchio è a dieci centimetri dal suo inguine e, se fa solo il gesto di sbattere le palpebre, il suo apparato genitale passerà alla storia. Quindi resti immobile... così, lentamente. Bene, adesso apra la mano. Se non lascia cadere il fulminatore subito, le spezzo il braccio.»
Un giardiniere arrivò di corsa con un rastrello. Dors gli fece segno di allontanarsi. Il fulminatore cadde sull’erba.
Seldon era arrivato. «Me ne occupo io, Dors.»
«Per nulla al mondo. Mettiti al coperto fra quegli alberi e prendi con te il fulminatore. Possono essere coinvolte altre persone, pronte a colpire.»
Dors non aveva allentato la stretta sul sergente. «Ora, sergente, voglio il nome di chi l’ha persuasa ad attentare alla vita del primo ministro e quello di ogni suo complice.»
Il sergente rimase in silenzio.
«Non sia stupido. Parli!» Gli torse il braccio e, quando lui cadde in ginocchio, gli appoggiò un piede sul collo. «Se pensa che il silenzio sia la scelta migliore, posso fracassarle la laringe e resterà in silenzio per sempre. Ma prima la ridurrò in uno stato tale da non lasciarle un solo osso intatto. Farà meglio a parlare.»
Il sergente parlò.
Più tardi Seldon le aveva detto: «Come hai potuto farlo, Dors? Cos’è successo alle Tre Leggi?».
Dors rispose con freddezza: «Non gli ho poi fatto tanto male, Hari. La minaccia è bastata. In ogni caso, la tua salvezza era prioritaria».
«Avresti dovuto lasciare che me ne occupassi io.»
«Perché? Per salvaguardare il tuo orgoglio maschile? Prima di tutto, non saresti stato abbastanza veloce. E poi, a prescindere da ciò che avresti saputo fare, tu sei un uomo e la tua reazione sarebbe stata prevedibile. Io sono una donna, e le donne, nell’opinione popolare, non sono feroci come gli uomini e non possiedono quel genere di forza necessario per fare ciò che ho fatto. La storia si accrescerà a furia di raccontarla e tutti saranno terrorizzati da me. Nessuno oserà tentare di farti del male nel timore di ciò che io potrei fare loro.»
«Nel timore di ciò che potresti fare tu e anche nel timore di un’esecuzione sommaria. Il sergente e i suoi complici saranno giustiziati.»
A questa notizia, un’espressione d’angoscia velò il viso solitamente impenetrabile di Dors, come se lei non sopportasse l’idea del sergente traditore che veniva messo a morte anche se lui avrebbe ucciso il suo amato Hari senza pensarci due volte.
«Ma non c’è alcun bisogno di giustiziare i cospiratori. L’esilio può bastare» esclamò Dors.
«E invece no. È troppo tardi. Cleon non è disposto ad accettare qualcosa di diverso da un’esecuzione. Posso citarti le sue esatte parole, se lo desideri.»
«Vuoi dire che ha già preso la sua decisione?»
«L’ha presa subito. Gli ho detto che l’esilio o il carcere sarebbero stati sufficienti, ma lui ha risposto: “No”. E ha aggiunto: “Ogni volta che cerco di risolvere un problema con un atto di forza diretto, prima Demerzel e poi lei mi parlate di dispotismo e tirannia. Ma questo è il mio palazzo. Questi sono i miei giardini. Queste sono le mie guardie. La mia vita dipende dalla sicurezza di questo luogo e dalla lealtà della mia gente. Crede che qualsiasi deviazione dalla lealtà assoluta possa meritare qualcosa di diverso da una morte immediata? Come potrei sentirmi al sicuro altrimenti? Me lo dica, di quale sicurezza potrei godere io?”.
«Gli ho detto che avrebbe dovuto esserci un processo. “Certo,” ha replicato lui “una rapida corte marziale, e non mi aspetto di vedere un solo voto a favore di qualcosa che non sia una condanna a morte. Lo metterò bene in chiaro.”»
Dors sembrava sconvolta. «Sembri prenderla con molta calma. Sei d’accordo con l’imperatore?»
Benché riluttante, Seldon annuì. «Sì.»
«Perché hanno attentato alla tua vita. Hai abbandonato i tuoi principi per la vendetta?»
«Oh, andiamo, Dors. Non sono una persona vendicativa. Tuttavia, il rischio non riguardava solo la mia persona, né ancora meno l’imperatore... Se c’è una cosa che la storia recente dell’impero ci insegna è che gli imperatori vanno e vengono. È la psicostoria che deve essere protetta. Indubbiamente, anche se mi accadesse qualcosa, prima o poi la psicostoria verrebbe completata, ma l’impero sta collassando rapidamente e noi non possiamo aspettare, perché solo io ho compiuto i progressi indispensabili per sviluppare in tempo le tecniche necessarie.»
«Forse dovresti insegnare ad altri ciò che sai, allora» disse Dors cupa.
«È quello che sto facendo. Yugo Amaryl sarebbe un discreto successore e ho già radunato un gruppo di tecnici che un giorno si riveleranno utili, ma non saranno mai...» fece una pausa.
«Non saranno mai bravi come te, altrettanto saggi o capaci? Sul serio?»
«Mi capita di pensarlo» ammise Seldon. «E mi capita di essere umano. La psicostoria è mia e, se sarà possibile, voglio che il merito mi venga riconosciuto.»
«Gli esseri umani!» sospirò Dors scuotendo tristemente il capo.
Le esecuzioni ebbero luogo. Da più di un secolo non si assisteva a una simile epurazione. Vennero messi a morte due consiglieri anziani, cinque ufficiali dei ranghi inferiori e quattro soldati, incluso lo sfortunato sergente. Ogni guardia addetta ai servizi di sicurezza che non fu in grado di superare a testa alta una severissima indagine fu esonerata dal servizio e trasferita in qualche distaccamento sui Mondi esterni.
Da allora non c’era più stato il benché minimo sussurro di malcontento, e la cura con la quale la vita del primo ministro veniva protetta era diventata così risaputa – per non parlare della donna terrorizzante che lo custodiva, da molti chiamata la “Donna Tigre” – che ben presto Dors non fu più obbligata ad accompagnarlo dappertutto. La sua presenza invisibile era uno scudo adeguato e l’imperatore Cleon poté godersi dieci anni di tranquilla e assoluta sicurezza.
Adesso, però, la psicostoria stava raggiungendo finalmente la fase nella quale alcune previsioni – sia pure approssimative – potevano essere formulate e, attraversando i giardini per andare dal suo ufficio (di primo ministro) al suo laboratorio (di psicostorico), Seldon era amaramente consapevole della possibilità che quell’era di pace fosse prossima alla fine.
3
Nonostante tutto, Hari Seldon provò una punta di soddisfazione entrando nel laboratorio.
Come erano cambiate le cose!
Tutto era iniziato su Helicon vent’anni prima con alcuni appunti frettolosi sul suo computer di seconda mano. Era stato allora che la prima intuizione di quella che doveva diventare la matematica paracaotica si era presentata in maniera nebulosa alla sua mente.
Poi c’erano stati gli anni all’Università di Streeling, quando lui e Yugo Amaryl avevano lavorato insieme tentando di rinormalizzare le equazioni, di liberarsi degli scomodi infiniti e di trovare un modo per aggirare i peggiori effetti caotici. Avevano compiuto ben pochi progressi.
Ma ora, dopo dieci anni come primo ministro, aveva un’intera sala piena dei più moderni computer e tutta una squadra di persone che lavoravano su una varietà di problemi.
Necessariamente, nessun membro della squadra – tranne lui e Yugo, era ovvio – poteva accedere a molte altre informazioni oltre a quelle riguardanti il problema specifico che stava affrontando. Ognuno di loro lavorava soltanto a una piccola gola o leggera asperità della gigantesca catena montuosa formata dalla psicostoria... catena montuosa che solo Seldon e Amaryl vedevano nella sua totale complessità, e anche loro in modo offuscato, con le vette nascoste fra le nubi e i fianchi ricoperti di nebbia.
Dors Venabili aveva ragione, naturalmente. Doveva cominciare l’opera di iniziazione dei suoi assistenti, schiudere loro le porte dell’intero mistero. La tecnica psicostorica stava ormai diventando una cosa che due uomini non potevano gestire da soli. E Seldon invecchiava. Anche se poteva aspettarsi qualche altro decennio di vita, ormai aveva alle spalle il suo periodo più produttivo.
Lo stesso Amaryl avrebbe compiuto trentanove anni il mese seguente e, pur essendo ancora giovane come uomo, non lo era come matematico, e inoltre stava lavorando al problema dallo stesso tempo di Seldon. Anche la sua capacità di produrre intuizioni originali e capaci di aggirare gli ostacoli doveva essere agli sgoccioli.
Amaryl lo aveva visto entrare e si stava avvicinando. Seldon lo osservò con affetto. Yugo non era meno dahlita di Raych, il figlio adottivo di Seldon, eppure non ne aveva l’aspetto. Nonostante il fisico muscoloso e la bassa statura, gli mancavano i baffi, l’accento e, a quanto pareva, ogni coscienza del suo essere originario di Dahl. Si era anche dimostrato insensibile al fascino di Jo-Jo Joranum, che pure aveva saputo esercitare tanta presa sulla popolazione di quel settore.
Era come se Amaryl non riconoscesse alcun patriottismo settoriale, alcun patriottismo planetario, addirittura alcun patriottismo imperiale. Apparteneva, completamente e visceralmente, alla psicostoria.
Seldon provò un senso di inadeguatezza. Lui, invece, conservava la coscienza dei suoi primi vent’anni passati su Helicon e per nessun motivo avrebbe mai smesso di considerarsi prima di tutto un heliconiano. Si domandò se questa coscienza non avrebbe finito prima o poi col tradirlo, distorcendo i suoi pensieri sulla psicostoria. In linea di principio, per usare la psicostoria, una persona doveva situarsi al di sopra dei settori e dei mondi, considerando l’umanità solo come un’astrazione anonima, e questo era appunto ciò che Amaryl faceva.
Ma lui no, confessò Seldon a se stesso, con un sospiro silenzioso.
«Credo che stiamo facendo progressi, Hari» disse Amaryl.
«Lo credi, Yugo? Lo credi soltanto?»
«Non sono il tipo che si tuffa da un’astronave in volo senza una tuta spaziale» ribatté l’altro con estrema serietà (Seldon sapeva bene che Yugo era privo di senso dell’umorismo), e insieme si diressero verso il loro ufficio privato. Era piccolo, ma rigorosamente schermato.
Amaryl sedette e accavallò le gambe. «La tua ultima idea per aggirare il caos sembra funzionare in parte... a scapito dell’accuratezza, ovviamente.»
«Ovviamente. Ciò che guadagniamo sui rettilinei, lo perdiamo nei tornanti. È così che l’universo funziona. Dobbiamo riuscire a ingannarlo in qualche modo.»
«Lo abbiamo già fatto, anche se in minima parte. È come guardare attraverso un vetro smerigliato.»
«Meglio di tutti gli anni che abbiamo passato cercando di vedere attraverso uno schermo di piombo.»
Amaryl mormorò qualcosa fra sé, poi disse: «Riusciamo a scorgere sprazzi di luce e ondate di buio».
«Spiegati!»
«Non posso, ma ho finito il radiante primario, per il quale ho faticato come un... un...»
«Lamecco? È una bestia da soma che abbiamo su Helicon. Non esiste su Trantor.»
«Se il lamecco lavora sodo, forse può conoscere la fatica che mi è costata il radiante primario.»
Premette sul tastierino di sicurezza sopra la sua scrivania: un cassetto si sbloccò e si aprì silenziosamente. Ne tolse un cilindro scuro e opaco che Seldon esaminò con interesse. Lui stesso aveva progettato i circuiti del radiante primario, ma era stato Amaryl a costruirli... Yugo era in gamba con i lavori manuali.
La stanza si oscurò e nell’aria cominciarono a luccicare equazioni e correlazioni. Sotto di esse si allungarono file di numeri, galleggianti sopra la scrivania come se fossero appesi a invisibili fili per marionette.
«Meraviglioso» disse Seldon. «Un giorno, se vivremo abbastanza, riusciremo a far produrre al radiante primario un fiume di simboli matematici che registreranno tutta la storia passata e futura. In questo fiume potremo individuare correnti e flussi, ed elaborare i modi per cambiarli, per indirizzarli verso quelle altre correnti che noi preferiremmo.»
«Già,» replicò secco Amaryl «se riusciremo a vivere sapendo che le nostre scelte, fatte con tutte le migliori intenzioni, potrebbero avere gli effetti peggiori.»
«Credimi, Yugo, la sera non riesco mai a prendere sonno senza che questo pensiero mi rosicchi la mente. Tuttavia, non siamo ancora a tale punto. Abbiamo soltanto questo, il che, come tu dici, non è altro che vedere luce e buio attraverso un vetro smerigliato.»
«Qualcosa di simile.»
«E tu cosa pensi di vedere, Yugo?» Seldon osservò attentamente Amaryl, con sguardo severo. L’amico stava ingrassando. Trascorreva troppo tempo chino sui computer (e adesso sul radiante primario) e non faceva abbastanza attività fisica. Inoltre, anche se ogni tanto usciva con qualche donna – Seldon ne era al corrente –, non si era mai sposato. Un errore! Anche un fanatico del lavoro doveva staccarsi dalla sua droga, trovare il tempo necessario per soddisfare una compagna, per occuparsi dei bisogni dei figli.
Seldon pensò alla propria figura asciutta e al modo in cui Dors lo assillava per costringerlo a conservare quella forma fisica.
«Che cosa vedo? L’impero è nei guai.»
«L’impero è sempre nei guai.»
«Sì, ma è qualcosa di più specifico. Esiste la possibilità che possano esserci guai al centro.»
«Qui su Trantor?»
«Penso di sì. O alla periferia. In entrambi i casi qui la situazione si farà grave; forse una guerra civile, o magari i Mondi esterni più lontani cominceranno a staccarsi dall’impero.»
«Certo non serve la psicostoria per delineare possibilità di questo genere.»
«Il lato interessante è che sembra esistere un’esclusività reciproca. L’una o l’altra. Le probabilità che possano verificarsi entrambe sono minime. Ecco! Guarda! Queste sono le tue equazioni. Osserva!»
Rimasero chinati sulle equazioni visualizzate dal radiante primario per parecchio tempo. Infine Seldon disse: «Non riesco a capire perché le due possibilità debbano escludersi a vicenda».
«Neanch’io, Hari, ma quale sarebbe il valore della psicostoria se ci mostrasse solo quello che vedremmo anche da soli? Qui ci mostra qualcosa che noi non vedremmo. Quello che non ci mostra, purtroppo, è in primo luogo quale sia l’alternativa migliore, e in secondo luogo cosa fare per agevolare l’avverarsi di quella migliore e diminuire le probabilità di quella peggiore.»
Seldon increspò le labbra, poi disse lentamente: «Posso dirti io qual è l’alternativa preferibile. Lasciare andare la periferia e conservare Trantor».
«Dici sul serio?»
«Senza il minimo dubbio. Dobbiamo mantenere Trantor stabile non fosse altro perché noi siamo qui.»
«Ma certo il nostro benessere non è il punto decisivo.»
«Il nostro benessere no, ma la psicostoria sì. Di quale utilità ci sarebbe conservare intatta la periferia, se le condizioni su Trantor ci obbligassero a interrompere il lavoro sulla psicostoria? Non dico che verremmo tutti uccisi, ma potrebbe risultarci impossibile lavorare. Il nostro destino dipenderà dallo sviluppo della psicostoria. Quanto all’impero, se la periferia dovesse scegliere una secessione sarebbe solo l’inizio di una disgregazione che potrebbe impiegare molto tempo per raggiungere il nucleo.»
«Supponiamo che tu abbia ragione, Hari: cosa possiamo fare per mantenere stabile Trantor?»
«Tanto per cominciare, dovremo rifletterci.»
Un cupo silenzio calò fra i due, poi Seldon disse: «Riflettere non mi conforta per nulla. E se l’impero fosse completamente sulla strada sbagliata, e ci fosse stato per tutta la sua storia? Penso a questo ogni volta che parlo con Gruber».
«Chi è Gruber?»
«Mandell Gruber. Un giardiniere.»
«Ah. Quello che è arrivato di corsa in tuo aiuto con il rastrello il giorno dell’attentato?»
«Sì. Gliene sarò sempre grato. Aveva solo un rastrello contro eventuali altri attentatori armati di fulminatori. Questa è lealtà. Comunque, parlare con lui è come respirare una boccata d’aria fresca. Non posso trascorrere tutto il mio tempo a parlare con funzionari di corte e psicostorici.»
«Ti ringrazio.»
«Andiamo, Yugo! Sai benissimo cosa intendo dire. Gruber ama la vita all’aperto. Vuole il vento, la pioggia, il gelo e qualsiasi altra cosa il clima possa regalargli. A volte ne sento la mancanza anch’io.»
«Io no. Non mi peserebbe per nulla se non potessi mai uscire all’aperto.»
«Perché sei cresciuto sotto una cupola, ma immagina se l’impero fosse costituito da semplici mondi preindustriali, capaci di sostentarsi con l’agricoltura e l’allevamento, con una popolazione ridotta e ampi spazi. Non vivremmo meglio tutti quanti?»
«Mi sembra una prospettiva orribile.»
«Durante un po’ di tempo libero ho analizzato come meglio potevo questa situazione. A me pare che si tratti di un caso di equilibrio instabile. Un mondo scarsamente popolato del tipo che ho descritto finisce con l’impoverirsi e diventare agonizzante, scivolando verso l’ignoranza e un livello di vita quasi animalesco. L’alternativa è industrializzarsi. Viene a trovarsi a un punto critico, sul bordo sottile di un dirupo, e cade in una delle due direzioni: in pratica quasi tutti i mondi della galassia sono caduti nell’industrializzazione.»
«Perché era la scelta migliore.»
«Può darsi, ma non può continuare in eterno. Oggi osserviamo i risultati di un’altra situazione giunta al punto critico. L’impero non può esistere ancora per molto perché si è “surriscaldato”, non riesco a trovare nessun’altra espressione. Noi ignoriamo quello che seguirà. Se, grazie alla psicostoria, riusciremo a impedire la caduta o, com’è più probabile, a stimolare la ricostruzione successiva, sarà soltanto per dare avvio a un altro periodo di surriscaldamento? È questo l’unico futuro per l’umanità, quello di spingere come Sisifo il suo macigno fino in cima alla collina per poi vederlo rotolare di nuovo a valle?»
«Chi è Sisifo?»
«Il personaggio di un mito primitivo. Yugo, devi deciderti ad ampliare le tue letture.»
Amaryl fece spallucce. «Per imparare chi era Sisifo? Non è importante. Forse la psicostoria ci mostrerà la strada verso una società interamente nuova, completamente diversa da tutte quelle che conosciamo, stabile e desiderabile.»
«Lo spero proprio» sospirò Seldon. «Lo spero di cuore, ma per ora non ne vedo traccia. Nel prossimo futuro, dovremo solo lavorare per consentire alla periferia di staccarsi da noi. Questo segnerà l’inizio della caduta dell’impero galattico.»
4
«E così» disse Hari Seldon «ho affermato che questo segnerà l’inizio della caduta dell’impero galattico. Si verificherà proprio in questo modo, Dors.»
Lei ascoltava a labbra serrate. Accettava con tranquillità l’incarico di primo ministro del compagno, come accettava ogni altra cosa. La sua missione consisteva nel proteggere lui e la psicostoria, ma sapeva bene che l’incarico era reso più arduo dalla posizione di Hari. La migliore forma di sicurezza consisteva nel passare inosservati e, finché su Seldon fosse brillata la luce dell’Astronave e del Sole, il simbolo dell’impero, tutte le barriere fisiche di questo mondo sarebbero state insoddisfacenti o insufficienti.
Il lusso nel quale vivevano – l’accurata schermatura contro ogni tipo di raggi-spia, nonché la protezione dalle interferenze fisiche e i fondi quasi illimitati che lei aveva a disposizione per le sue ricerche storiche – non la soddisfaceva. Avrebbe volentieri barattato tutto con il loro vecchio alloggio all’Università di Streeling. Oppure, meglio ancora, con un anonimo appartamento in un anonimo settore dove nessuno li conoscesse.
«Va bene, caro Hari,» disse lei «ma non bastano.»
«Che cosa non basta?»
«Le informazioni che mi fornisci. Dici che potremmo perdere la periferia. Come? Perché?»
Seldon abbozzò un rapido sorriso. «Sarebbe bello saperlo, Dors, ma la psicostoria non è ancora allo stadio nel quale potrebbe dircelo.»
«Secondo una tua opinione, allora. È l’ambizione di governatori locali e fuori mano che li spinge a dichiararsi indipendenti?»
«Questo è uno dei fattori, certo. È già successo in passato, come sai meglio di me, ma non è mai durato a lungo. Forse, questa volta, sarà permanente.»
«Perché l’impero è più debole?»
«Sì, perché gli scambi commerciali scorrono meno liberamente di un tempo, perché le comunicazioni risultano più difficili e laboriose, perché i governatori della periferia si trovano, in pratica, molto più vicini all’indipendenza di quanto lo siano mai stati. Se uno di loro volesse dar libero corso ad ambizioni particolari...»
«Puoi stabilire quale sarebbe il candidato più probabile?»
«Assolutamente no. A questo stadio la psicostoria può fornirci soltanto la conoscenza precisa secondo cui, se un governatore dotato di un’abilità e di un’ambizione fuori dal comune dovesse decidere di agire, troverebbe al momento attuale condizioni molto favorevoli ai suoi progetti. Potrebbe anche trattarsi di altro: qualche grande disastro naturale, o un’improvvisa guerra civile fra due lontani Mondi esterni. Per ora non possiamo prevedere nulla di preciso, ma sappiamo che qualsiasi evento di questo genere dovesse verificarsi oggi, avrebbe conseguenze molto più gravi che non un secolo fa.»
«Ma se non sai in modo più preciso quello che succederà nella periferia, come puoi agire in modo da assicurarti che sia la periferia ad andarsene, invece di Trantor?»
«Tenendo attentamente d’occhio entrambi e cercando di stabilizzare Trantor senza cercare di stabilizzare la periferia. Non possiamo aspettarci che la psicostoria ordini automaticamente gli eventi quando ci manca una maggiore comprensione del modo in cui funziona, quindi dobbiamo continuamente far uso di controlli manuali, per così dire. Nei giorni a venire, la tecnica verrà raffinata e il bisogno di controlli manuali diminuirà.»
«Ma questo riguarda i giorni a venire. È esatto?»
«Esatto. E anche per allora si tratta solo di una speranza.»
«E quale genere di instabilità potrebbe minacciare Trantor, se restassimo attaccati alla periferia?»
«La stessa di sempre: fattori economici e sociali, disastri naturali, rivalità fomentate dall’ambizione tra alti funzionari. E qualcosa di più. Parlando con Yugo ho detto che l’impero si era surriscaldato: se questo è vero, Trantor è la sua parte più calda. Pare che stia cadendo a pezzi. Le infrastrutture – forniture d’acqua, riscaldamento, eliminazione dei rifiuti, condotte del carburante, ogni cosa – sembrano avere problemi insoliti, ed è un aspetto al quale di recente ho dovuto rivolgere sempre più spesso la mia attenzione.»
«E la morte dell’imperatore?»
Seldon allargò le braccia. «Questo è un fattore che di solito si verifica inevitabilmente, ma Cleon gode di ottima salute. Ha solo la mia età, che io vorrei fosse minore, ma non è troppo vecchio. I suoi due figli sono del tutto inadatti alla successione, ma ci saranno anche troppi pretendenti. Più che sufficienti a provocare problemi e a rendere piuttosto fastidiosa la sua morte, ma forse non causerà una totale catastrofe, almeno in senso storico.»
«Diciamo il suo assassinio, allora.»
Seldon sollevò lo guardo nervosamente. «Non dire così. Anche se siamo schermati, non usare quella parola.»
«Hari, non essere sciocco. È un’eventualità che deve essere presa in considerazione. C’è stato un tempo in cui i joranumiti avrebbero potuto impadronirsi del potere e, se fosse stato così, in un modo o nell’altro l’imperatore...»
«Probabilmente no. Sarebbe stato loro più utile come marionetta. In ogni caso, scordatelo. Joranum è morto l’anno scorso a Nishaya, ridotto a una figura quasi patetica.»
«Aveva seguaci.»
«Certo, chiunque ne ha. Nei tuoi studi sull’antica storia dell’impero galattico e del regno di Trantor, non hai trovato menzione del Partito Globalista su Helicon, il mio pianeta natale?»
«No, Hari. Non voglio urtare i tuoi sentimenti, ma non ricordo di essermi mai imbattuta in un periodo storico nel quale Helicon abbia giocato un ruolo di qualche importanza.»
«La cosa non mi ferisce minimamente, Dors. Felice il mondo privo di storia, come dico sempre. Comunque, all’incirca duemilaquattrocento anni fa, sul mio pianeta si costituì un gruppo di persone fermamente convinte che Helicon fosse il solo globo abitato dell’universo. Per loro Helicon era l’universo e al di là della sua atmosfera c’era soltanto una sfera solida di cielo cosparsa di minuscole stelle.»
«Ma come potevano credere a un’idiozia simile? Facevano già parte dell’impero, immagino.»
«Sì, ma i globalisti insistevano che tutte le prove dell’esistenza dell’impero erano illusioni o il frutto di un inganno deliberato; sostenevano che gli emissari e i funzionari imperiali erano heliconiani che recitavano quella parte per qualche oscuro motivo. Erano completamente refrattari alla ragione e al buon senso.»
«E cosa successe?»
«Immagino che sia sempre piacevole pensare che il proprio mondo è il mondo, l’unico sul mercato. Al culmine della loro popolarità, i globalisti avevano convinto almeno il dieci per cento della popolazione del pianeta a unirsi al loro movimento. Solo il dieci per cento, ma si trattava di una minoranza aggressiva e veemente capace di ridurre al silenzio la maggioranza indifferente, al punto di minacciare di impadronirsi del potere.»
«Ma non ci riuscirono, vero?»
«No, non ci riuscirono. Quello che successe fu che il globalismo provocò una diminuzione degli scambi commerciali con il resto dell’impero, e l’economia di Helicon scivolò verso una gravissima crisi. Quando il credo dei globalisti cominciò a intaccare il portafogli della popolazione, il movimento perse rapidamente la sua popolarità. All’epoca molti rimasero sbalorditi dalla rapidità di quell’ascesa e della caduta successiva, ma la psicostoria, ne sono certo, avrebbe mostrato che quel risultato era inevitabile e quindi avrebbe reso inutile lo stare a preoccuparsi troppo.»
«Capisco. Però, Hari, qual è la morale di questa storia? Presumo che ci sia qualche connessione con ciò di cui stavamo discutendo.»
«La connessione sta nel fatto che movimenti di questo genere non muoiono mai completamente, per quanto ridicoli i loro principi possano apparire alle persone sane di mente. Proprio ora su Helicon esistono ancora dei globalisti. Non sono numerosi, ma di quando in quando settanta o magari ottanta di loro si radunano in quello che definiscono un Congresso globale e se la spassano un mondo a discutere della teoria. Ebbene, sono trascorsi solo dieci anni da quando sembrava che i joranumiti rappresentassero una spaventosa minaccia su questo pianeta, quindi non sarebbe affatto sorprendente se vi fossero ancora dei superstiti di quel movimento. Potrebbero esisterne anche fra un migliaio di anni.»
«Ma non è possibile che questi superstiti si rivelino pericolosi?»
«Ne dubito. Era il carisma di Jo-Jo a rendere pericoloso il movimento, e lui è morto. Non è stata nemmeno una morte eroica o in qualche modo sospetta; si è semplicemente avvizzito e spento nel suo esilio, da quell’uomo finito che era.»
Dors si alzò e percorse a passo svelto tutta la stanza, le braccia oscillanti lungo i fianchi e le mani strette a pugno. Poi tornò indietro e rimase in piedi davanti a Seldon che era seduto.
«Hari, lascia che ti dica come la penso. Se la psicostoria indica la possibilità di gravi disordini su Trantor e se rimangono dei joranumiti, può darsi che il loro obiettivo sia ancora la morte dell’imperatore.»
Seldon rise nervosamente. «Ti spaventi per qualche ombra, Dors. Rilassati.»
Ma, dal canto suo, Seldon si accorse che non gli era possibile liquidare con altrettanta facilità i timori espressi da Dors.
5
Il settore di Wye vantava una tradizione di opposizione alla dinastia Entun di Cleon I, che ormai governava l’impero da più di due secoli. L’opposizione risaliva all’epoca in cui la casata dei sindaci di Wye aveva fornito rappresentanti che erano saliti al trono imperiale. La dinastia daciana di Wye non era durata a lungo e non aveva neppure spiccato per una gestione dell’impero particolarmente fortunata, ma il popolo e i governanti di Wye trovavano difficile dimenticare che un tempo erano stati – sia pure temporaneamente e in modo imperfetto – al vertice della piramide imperiale. Il breve periodo nel quale Rashelle, in qualità di sindaco di Wye, aveva sfidato l’impero, diciotto anni prima, aveva accresciuto tanto l’orgoglio di Wye quanto la sua frustrazione.
Era quindi comprensibile che una piccola banda di cospiratori si sentisse più al sicuro dentro i confini di Wye che in ogni altro angolo di Trantor.
Erano in cinque, seduti intorno a un tavolo in un quartiere fatiscente del settore. La stanza era arredata poveramente ma ben schermata.
Su una sedia che, in fatto di qualità, era forse leggermente superiore alle altre, sedeva l’uomo che poteva essere ritenuto il capo. Aveva un viso magro, la carnagione smunta, un’ampia bocca con labbra talmente pallide da risultare quasi invisibili. Fra i capelli c’erano tracce di grigio, ma nei suoi occhi bruciava un’ira inestinguibile.
Stava fissando l’uomo seduto di fronte a lui, chiaramente più anziano e in carne, con i capelli quasi bianchi e le guance paffute che tendevano a tremolare quando parlava.
Il capo disse bruscamente: «Allora? È fin troppo chiaro che non hai fatto nulla. Spiegami perché!».
L’uomo più anziano ribatté: «Sono un vecchio joranumita, Namarti. Perché devo spiegarti le mie azioni?».
Gambol Deen Namarti, un tempo braccio destro di Laskin “Jo-Jo” Joranum, disse: «Ci sono molti vecchi joranumiti. Alcuni sono incompetenti, altri si sono rammolliti, altri ancora hanno dimenticato. Essere un vecchio joranumita può anche voler dire essere soltanto un vecchio rimbambito».
L’uomo più anziano si appoggiò allo schienale della sua sedia. «Mi stai dando del vecchio rimbambito? A me? A Kaspal Kaspalov? Ero con Jo-Jo quando tu non eri ancora entrato nel partito, quando eri una nullità alla ricerca di una causa.»
«Non ti sto dando del rimbambito» replicò Namarti secco. «Dico soltanto che alcuni vecchi joranumiti sono rimbambiti. Ora hai l’opportunità di dimostrarmi che non sei uno di loro.»
«La mia associazione con Jo-Jo...»
«Scordatelo. È morto.»
«Tuttavia il suo spirito vive ancora.»
«Se questo pensiero può aiutarci nella nostra lotta, allora il suo spirito vive ancora. Ma per gli altri, non per noi. Sappiamo che ha commesso degli errori.»
«È falso.»
«Non insistere a trasformare in eroe un semplice uomo che ha commesso degli errori. Pensava di poter muovere il mondo con la sola forza dell’oratoria, con le parole.»
«La storia dimostra che in passato le parole hanno mosso le montagne.»
«Non le parole di Joranum, ovviamente, perché lui ha commesso degli errori. Ha tenuto nascosta la sua origine di micogenese, e lo ha fatto in modo goffo. Quel che è peggio, è caduto nel tranello di accusare il primo ministro di essere un robot. Lo avevo avvertito di non farlo, ma non ha voluto ascoltarmi e quell’accusa lo ha distrutto. Adesso ricominciamo dall’inizio, d’accordo? Qualunque sia il modo in cui utilizzeremo la memoria di Joranum per il mondo esterno, evitiamo di caderne vittime noi stessi.»
Kaspalov rimase seduto in silenzio. Gli altri tre spostavano i loro occhi da Namarti a Kaspalov e viceversa, contenti di lasciare che fosse Namarti a sostenere il peso della discussione.
«Con l’esilio di Joranum su Nishaya il suo movimento è crollato ed è sembrato svanire» proseguì Namarti duramente. «E così, se non fosse stato per me, sarebbe accaduto veramente. Un pezzo dopo l’altro, scavando fra le rovine, l’ho ricostruito fino a trasformarlo di nuovo in un gruppo le cui ramificazioni si estendono su tutto Trantor. Questo lo sai, immagino.»
«Lo so, capo» borbottò Kaspalov. L’uso di quel titolo rivelava che ora cercava una riconciliazione.
Namarti fece un sorrisetto tirato. Non insisteva mai sul titolo, ma gli faceva sempre piacere sentirlo usare. «Tu fai parte di questo gruppo e hai i tuoi doveri.»
Kaspalov si agitò sulla sedia. Era chiaro che stava discutendo con se stesso, e alla fine disse lentamente: «Tu dici, capo, di aver messo in guardia Joranum dall’accusare il vecchio primo ministro di essere un robot. Dici che non ti ha ascoltato, ma almeno hai potuto dire ciò che pensavi. Posso avere lo stesso privilegio di farti notare ciò che io ritengo un errore? Posso farmi ascoltare così come Joranum ha ascoltato te, anche se poi tu, come lui, non accetterai il consiglio che ti verrà dato?».
«Ma certo che puoi dire quello che pensi, Kaspalov. Siete tutti qui appunto per farlo. Cos’è che non ti soddisfa?»
«La nostra nuova tattica, capo, è un errore. Crea solo confusione e danni.»
«Sicuramente! È progettata per questo scopo.» Namarti si agitò a sua volta sulla sedia controllando a fatica la propria ira. «Joranum ha tentato la via della persuasione. Non ha funzionato. Noi useremo l’azione per far crollare Trantor.»
«Per quanto tempo? E a quale prezzo?»
«Per tutto il tempo che sarà necessario e a un prezzo molto basso, in realtà. Un arresto nell’erogazione di energia qui, un incidente alle condutture dell’acqua là, rigurgiti dalle fognature, un blocco degli impianti di condizionamento. Disagi e inconvenienti: non significa altro che questo.»
Kaspalov scosse il capo. «Queste cose si accumulano.»
«Sicuro, Kaspalov, e noi vogliamo che anche l’insoddisfazione e il risentimento dell’opinione pubblica si accumulino. Ascolta, Kaspalov. L’impero è in piena decadenza. Lo sanno tutti. Chiunque sappia ragionare in modo intelligente lo sa. La tecnologia si guasterebbe qua e là anche se noi non facessimo nulla. Noi le diamo solamente una spintarella.»
«È pericoloso, capo. Le infrastrutture di Trantor sono incredibilmente complicate. Una spinta avventata potrebbe danneggiarle in modo irreparabile. Se tiriamo il filo sbagliato, Trantor può crollare come un castello di carte.»
«Fino a questo momento non è successo.»
«Ma può succedere in futuro. E se poi la gente scoprisse che siamo noi i responsabili? Ci farebbero a pezzi. Non ci sarebbe bisogno di chiamare la sicurezza o l’esercito. Le folle inferocite ci distruggerebbero.»
«Come potrebbero scoprire, però, che siamo stati noi? Il bersaglio naturale del loro risentimento sarà il governo... i consiglieri dell’imperatore. Non andranno oltre nel cercare i colpevoli.»
«E noi come vivremo con la nostra coscienza, sapendo ciò che abbiamo fatto?»
Formulò quest’ultima domanda in un sussurro, poiché l’uomo anziano era chiaramente in preda a una forte emozione. I suoi occhi fissavano imploranti il capo, l’uomo al quale aveva giurato fedeltà. All’inizio lo aveva fatto nella convinzione che Namarti avrebbe continuato a far sventolare lo stendardo della libertà ricevuto da Laskin Joranum; adesso, Kaspalov si domandava se era in quel modo che Jo-Jo avrebbe voluto veder realizzato il suo sogno.
Namarti schioccò la lingua, un po’ come un genitore severo dinanzi a un bambino che aveva combinato una marachella.
«Kaspalov, non vorrai sul serio metterti a fare il sentimentale con noi, vero? Non appena giunti al potere, raccoglieremo i pezzi e ricostruiremo. Faremo appello alla gente con tutte le vecchie chiacchiere di Joranum sulla partecipazione popolare al governo, su una più ampia rappresentazione dei cittadini e, non appena saldamente al comando, formeremo un governo più efficiente e più stabile. Allora costruiremo un Trantor migliore e un impero più forte. Inventeremo qualche sistema collegiale dove i delegati di tutti i settori potranno discutere fino a farsi seccare la lingua, ma il governo sarà nelle nostre mani.»
Kaspalov restò seduto senza muoversi, indeciso.
Namarti fece un sorrisetto forzato. «Non sei convinto? Non possiamo perdere. Tutto sta funzionando alla perfezione e continuerà a funzionare così. L’imperatore non sa cosa sta succedendo, non ne ha la più pallida idea. E il suo primo ministro è un matematico. Ha rovinato Joranum, questo è vero, ma da allora non ha più fatto nulla.»
«Però ha qualcosa che si chiama... si chiama...»
«Lascia perdere. Joranum la considerava una cosa della massima importanza, ma questo faceva parte della sua origine micogenese, come la sua mania dei robot. Questo matematico non ha nulla.»
«Psicoanalisi storica, mi pare, o qualcosa di simile. Una volta ho sentito Joranum parlarne.»
«Lascia perdere, fai la tua parte. Tu sei addetto al controllo della ventilazione nel settore di Anemoria, non è vero? Benissimo, allora. Danneggiala nel modo che preferisci. Fai in modo che si interrompa in modo che l’umidità aumenti, o introduci qualche cattivo odore, o qualcosa del genere. Niente di tutto questo ucciderà qualcuno, quindi non farti subito prendere da un attacco di colpevolezza virtuosa. Metterai semplicemente a disagio un po’ di gente e incrementerai il livello generale del malcontento. Possiamo fare affidamento su di te?»
«Ma quello che può essere solo un po’ di disagio per le persone giovani e sane, potrebbe rivelarsi ben più grave per i neonati, i vecchi e i malati.»
«Vuoi continuare a insistere che nessuno deve essere danneggiato in alcun modo?»
Kaspalov bofonchiò qualcosa.
«È impossibile fare qualcosa» disse Namarti «con la certezza che nessuno resti danneggiato. Pensa solo a svolgere il tuo lavoro. Fallo in modo da danneggiare il minor numero possibile di persone, se la tua coscienza lo esige, ma fallo.»
«Un momento! Vorrei aggiungere un’altra cosa, capo.»
«Accomodati» ribatté Namarti stancamente.
«Possiamo lavorare per anni a manomettere le infrastrutture. Prima o poi dovrà arrivare il momento in cui approfitterai dell’insoddisfazione crescente per impadronirti del governo. Come intendi agire?»
«Vuoi sapere con esattezza come abbiamo intenzione di procedere?»
«Sì. Più rapidamente colpiremo, più limitati saranno i danni e più efficace l’operazione chirurgica.»
Namarti disse lentamente: «Non ho ancora deciso la natura di questo “attacco chirurgico”, ma ci sarà. Fino a quel momento, esegui il tuo incarico».
Kaspalov annuì rassegnato. «Sì, capo.»
«Vai, ora» disse Namarti con un brusco gesto di congedo.
Kaspalov si alzò, si girò e uscì. Namarti lo osservò allontanarsi. Poi disse all’uomo seduto alla sua destra: «Non possiamo più fidarci di Kaspalov. Vuole tradirci, e solo per questo motivo ha cercato di scoprire i miei piani per il futuro. Pertanto, occupati di lui».
L’altro annuì e tutti se ne andarono lasciando Namarti da solo nella stanza. Lui spense i pannelli luminosi alle pareti, lasciando acceso solo un riquadro solitario sul soffitto che sarebbe bastato a evitargli di ritrovarsi nel buio più totale.
“Ogni catena ha anelli deboli che devono essere eliminati” pensò. “Abbiamo già dovuto farlo in passato, con il risultato che adesso la nostra organizzazione è impenetrabile.”
E nella penombra sorrise, distorcendo il viso in una specie di ghigno ferino. Dopotutto, la sua organizzazione arrivava perfino all’interno del palazzo. Non altrettanto salda e affidabile quanto all’esterno, ma era giunta fin là. E si sarebbe rafforzata.
6
Il tempo sembrava deciso a tener duro sopra l’area all’aperto del palazzo imperiale, mantenendosi caldo e soleggiato.
Non accadeva spesso. Hari ricordava che una volta Dors gli aveva spiegato perché fosse stata scelta come sede quella zona così colpita da inverni gelidi e piogge frequenti.
«In realtà, non è stata scelta» gli aveva detto Dors. «Era una proprietà della famiglia moroviana all’epoca in cui esisteva solo il regno di Trantor. Quando il regno diventò un impero, erano numerosi i luoghi dove l’imperatore poteva scegliere di abitare: residenze estive e invernali, padiglioni di caccia, proprietà in riva al mare. E quando il pianeta fu lentamente ricoperto da cupole, l’imperatore che viveva qui trovò il posto di suo gradimento ed è per questo che lo lasciò scoperto. In seguito, il semplice fatto di essere l’unica area del pianeta priva di una cupola la rese speciale, un luogo unico, e questa particolarità esercitò il suo fascino sull’imperatore seguente, su quello successivo, e anche su quello che venne dopo. In questo modo nacque una tradizione.»
Come sempre quando udiva storie del genere, Seldon si poneva certe domande. Come se la sarebbe cavata la psicostoria in un caso simile? Sarebbe riuscita a prevedere che solo un’area sarebbe rimasta priva di cupola, pur non potendo specificare quale? Poteva spingersi fino a quel punto? Poteva prevedere che diverse zone sarebbero rimaste scoperte, o magari nessuna, e sbagliare? Come poteva prendere in considerazione i gusti personali di un imperatore che casualmente si trovava sul trono nel momento cruciale e prendeva una decisione per semplice capriccio? In quel modo caos e pazzia si aprivano un varco.
Cleon I si godeva palesemente il sole.
«Divento vecchio, Seldon» ammise. «Ma questo non è necessario che glielo dica. Abbiamo la stessa età, lei e io. Di sicuro è un segno dell’età che non provi l’impulso di giocare a tennis o di andare a pescare anche se hanno appena rifornito il lago, ma preferisco passeggiare con calma lungo i sentieri.»
Parlando mangiava nocciole, di una specie somigliante a quelli che sul mondo natale di Seldon sarebbero stati chiamati semi di zucca, ma erano più grandi e dal sapore meno delicato. Cleon le apriva delicatamente fra i denti, toglieva i piccoli gusci e si lanciava i gherigli in bocca.
A Seldon quel sapore non piaceva in modo particolare, ma, naturalmente, quando se ne vide offrire alcune dall’imperatore, le accettò e le mangiò.
L’imperatore aveva ormai parecchi gusci vuoti in una mano, e cercò distrattamente intorno un ricettacolo di qualche genere per alleggerirsi. Non ne vide nessuno ma notò un giardiniere immobile poco lontano, il corpo sull’attenti – come richiedeva la presenza dell’imperatore – e la testa rispettosamente chinata.
«Giardiniere!» disse Cleon.
L’altro si avvicinò rapido. «Sire!»
«Liberati di questi per me» disse Cleon versando i gusci nella sua mano.
«Sì, sire.»
«Ne ho qualcuno anch’io, Gruber» disse Seldon.
L’uomo allungò la mano verso di lui e disse quasi timidamente: «Sì, primo ministro».
Poi si allontanò di corsa e l’imperatore lo guardò incuriosito. «Conosce quell’uomo, Seldon?»
«Sì, sire. È un vecchio amico.»
«Quel giardiniere un vecchio amico? Chi è, un collega matematico che se la passa male?»
«No, sire. Forse ricorderete l’episodio. È stato quando...» si schiarì la voce cercando il modo più delicato per rammentare l’incidente «il sergente ha attentato alla mia vita, poco dopo che avevo ottenuto la carica grazie alla vostra generosità.»
«Il tentato assassinio.» Cleon levò gli occhi al cielo come se cercasse di trovarvi un’oncia di pazienza. «Non capisco perché tutti sono così spaventati da questa parola.»
«Forse» disse Seldon pacato, disprezzandosi leggermente per la facilità con cui aveva imparato a adulare «noi tutti siamo più turbati dalla possibilità che qualcosa di spiacevole possa accadere all’imperatore, di quanto lo siate voi stesso.»
Cleon sorrise ironicamente. «Suppongo che sia così. E cosa c’entra questo con Gruber? È così che si chiama?»
«Sì, Mandell Gruber. Sono certo che ricorderete come, quel giorno, un giardiniere sia accorso con un rastrello per difendermi dal sergente armato.»
«Ah, è stato lui?»
«Infatti, sire. Da allora lo considero un amico e lo incontro quasi tutte le volte che mi trovo nei giardini. Penso che mi sorvegli, come se ormai si sentisse obbligato a proteggermi. E, naturalmente, questo aumenta la mia simpatia per lui.»
«Non la biasimo. E visto che siamo in argomento, come sta la sua formidabile signora, la dottoressa Venabili? Non la vedo molto spesso.»
«È una storica, sire. Persa nel passato.»
«Non la spaventa? Io ne avrei paura. Mi hanno raccontato come ha trattato quel sergente. C’era quasi da sentirsi dispiaciuti per lui.»
«Si infuria soltanto per il mio bene, sire, ma di recente non ha più avuto occasione di farlo. Tutto è molto tranquillo.»
L’imperatore lanciò un’ultima occhiata al giardiniere che si stava dileguando dietro alcuni alberi. «Abbiamo mai ricompensato quell’uomo?»
«L’ho fatto io, sire. Ha una moglie e due figlie, e ho provveduto a far depositare a nome di ciascuna figlia una somma di denaro per l’istruzione dei loro eventuali figli.»
«Molto bene. Ma a lui servirà una promozione, immagino... È un bravo giardiniere?»
«Eccellente, sire.»
«Il giardiniere capo, Malcomber – mi pare che si chiami così –, è avanti negli anni e forse non è più all’altezza del suo incarico. Ormai dev’essere vicino agli ottanta. Crede che questo Gruber sarebbe in grado di prendere il suo posto?»
«Ne sono certo, sire, ma lui ama il lavoro che fa attualmente. Gli consente di restare all’aperto con ogni genere di tempo.»
«Bizzarra raccomandazione per un nuovo incarico. Sono sicuro che saprà abituarsi all’amministrazione, e io ho bisogno di qualcuno per i lavori di rinnovamento dei giardini. Mmh. Devo rifletterci. Il suo amico Gruber può essere l’uomo che fa al caso mio... Fra l’altro, Seldon, a cosa si riferisce dicendo che tutto è molto tranquillo?»
«Mi riferivo semplicemente, sire, al fatto che in seno alla corte imperiale non vi sono segni di discordie. L’inevitabile tendenza all’intrigo sembra essersi ridotta al livello minimo auspicabile.»
«Non direbbe così se l’imperatore fosse lei, Seldon, e se si trovasse costretto ad affrontare tutti quei funzionari e le loro interminabili lamentele. Come può sostenere che tutto è tranquillo quando ogni settimana sembrano giungermi rapporti di guasti e disservizi da tutto Trantor?»
«Simili incidenti sono inevitabili.»
«Però non ricordo che si verificassero con tale frequenza negli anni passati.»
«Forse perché non si verificavano, sire. Col passare del tempo le infrastrutture invecchiano. Per procedere nel modo migliore a riparazioni adeguate ci vorrebbe tempo e comporterebbe una fatica e una spesa enormi. E di questi tempi un aumento delle tasse non verrebbe visto con molto favore.»
«Quando mai è successo il contrario? Immagino che la gente sia terribilmente insoddisfatta per questi disservizi. È uno stato di cose che deve cessare, Seldon, e se ne deve occupare lei. Che cosa dice la sua psicostoria?»
«Dice quello che dice il buon senso: che tutto sta invecchiando.»
«Be’, questi discorsi mi rovinano la bella giornata. Lascio la faccenda nelle sue mani, Seldon.»
«Sì, sire» disse Seldon remissivo.
L’imperatore si allontanò e Seldon pensò che anche per lui quella bella giornata era ormai rovinata. Un crollo al centro dell’impero era l’alternativa che lui non voleva. Ma come poteva arrestarlo e trasferire la crisi nella periferia?
La psicostoria non lo diceva.
7
Raych Seldon si sentiva incredibilmente soddisfatto, perché quella era la sua prima cena en famille dopo parecchi mesi, insieme alle due persone che lui considerava come suo padre e sua madre. Sapeva benissimo che non erano i suoi genitori in senso biologico, ma non importava. Sorrise a entrambi con affetto totale e incondizionato.
L’ambiente intorno non era così caldo come a Streeling ai vecchi tempi, quando la loro casa era piccola e intima, simile a una gemma confortevole nell’ambito più grande dell’università. Ora, sfortunatamente, nulla poteva nascondere il fasto di un appartamento al palazzo.
A volte Raych si osservava nello specchio e si chiedeva come fosse possibile. Non era alto, solo un metro e sessantatré centimetri, parecchio più basso di entrambi i genitori. Era piuttosto tarchiato, ma muscoloso... senza un filo di grasso, con i capelli neri e i caratteristici baffi da dahlita che lui cercava di conservare quanto più possibile scuri e folti.
Allo specchio, riusciva ancora a riconoscere il monello di strada che era stato finché la più impensabile delle opportunità aveva decretato il suo incontro con Hari Seldon e Dors Venabili. Allora Seldon era molto più giovane, e il suo aspetto attuale era un’ulteriore conferma del fatto che adesso Raych aveva quasi la stessa età di Seldon all’epoca del loro incontro. Sua madre Dors, invece, sorprendentemente non era quasi cambiata per nulla. Era sempre snella e in forma come il giorno in cui lui aveva mostrato a Hari e Dors la strada per arrivare da Mamma Rittah a Billibotton. E adesso lui, Raych, di oscuri natali, era un dipendente statale, un piccolo ingranaggio all’interno del ministero della Popolazione.
«Come vanno le cose al ministero, Raych? Nessun progresso?» gli chiese Seldon.
«Qualcuno sì, papà. Le leggi vengono approvate. Le decisioni dei tribunali vengono prese. I discorsi vengono pronunciati. Tuttavia, è difficile spostare la gente. Puoi predicare la fratellanza quanto vuoi, ma nessuno si sente fratello. Quello che mi infastidisce è che i dahliti non sembrano migliori degli altri. Vogliono essere trattati con uguaglianza, dicono, ma quando tocca a loro non mostrano alcun desiderio di trattare gli altri come uguali.»
«È praticamente impossibile cambiare la mente e il cuore delle persone, Raych» disse Dors. «Si può comunque tentare, e forse riuscire a eliminare le peggiori ingiustizie.»
«Il guaio è» disse Seldon «che nel corso di quasi tutta la storia nessuno ha mai lavorato a questo problema. Agli esseri umani è stato permesso di crogiolarsi nel gioco delizioso dell’io-sono-migliore-di-te, e adesso rimettere ordine in questo pasticcio non è facile. Se per mille anni lasciamo che le cose seguano indisturbate una loro piega continuando a peggiorare, poi non possiamo lamentarci se ci vorranno, mettiamo, cento anni per produrre un miglioramento.»
«A volte, papà,» disse Raych «penso che tu mi abbia assegnato questo lavoro come punizione.»
Seldon inarcò le sopracciglia. «Quale motivo potevo avere per punirti?»
«Per essermi sentito attratto dal programma di Joranum sull’uguaglianza fra i settori e sulla maggiore rappresentanza popolare al governo.»
«Non ti ho mai biasimato per questo. Sono suggestioni attraenti, ma tu sai che Joranum e la sua banda se ne servivano solo come di uno strumento per arrivare al potere. In seguito...»
«Ma tu mi hai indotto a farlo cadere in una trappola nonostante il fascino che le sue idee esercitavano su di me.»
«Non mi è stato facile chiederti di fare una cosa simile.»
«E adesso mi fai lavorare al programma di Joranum, solo per dimostrarmi quanto sia difficile la realizzazione di questo progetto.»
Seldon si rivolse alla moglie. «Lo senti, Dors? Il ragazzo mi ritiene capace di una subdola doppiezza che semplicemente non fa parte del mio carattere.»
«Sono certa, Raych,» disse Dors mentre l’ombra di un sorriso le aleggiava sulle labbra «che non ritieni tuo padre capace di cose simili.»
«No, non proprio. Nel corso ordinario della vita, papà, non esiste nessuno più onesto e retto di te. Ma se ti trovi costretto, sai come si bara. Non è ciò che speri di fare con la psicostoria?»
«Fino a oggi ho combinato ben poco con la psicostoria» constatò Seldon tristemente.
«Peccato. Continuo a pensare che deve esistere una risposta psicostorica al problema dell’intolleranza umana.»
«Forse esiste, ma in questo caso non l’ho trovata.»
A cena terminata, Seldon disse: «Tu e io, Raych, ora dobbiamo proprio fare quattro chiacchiere».
«Davvero?» fece Dors. «Ne deduco che non sono invitata.»
«Questioni ministeriali, Dors.»
«Sciocchezze ministeriali, Hari. Stai per chiedere a questo povero ragazzo di fare qualcosa che io non vorrei facesse.»
Seldon replicò con fermezza: «Non ho minimamente intenzione di chiedergli di fare qualcosa che lui non vorrebbe fare».
«Non preoccuparti, mamma. Lasciaci parlare in privato. Prometto che dopo ti racconterò tutto.»
Dors roteò gli occhi verso il soffitto. «Voi due tirerete in ballo i “segreti di stato”. Lo so già.»
«A dire il vero,» ribatté Seldon in tono deciso «dobbiamo discutere proprio di quelli. E sono della massima importanza. Dico sul serio, Dors.»
Dors si alzò, le labbra serrate. Lasciò la stanza con un’ultima ingiunzione: «Non gettare il ragazzo in pasto ai lupi, Hari».
E una volta che se ne fu andata, Seldon disse pacato: «Temo che gettarti in pasto ai lupi sia proprio quello che dovrò fare, Raych».
8
Sedettero l’uno di fronte all’altro nello studio privato di Seldon, quello che lui chiamava il suo “pensatoio”. Là aveva trascorso innumerevoli ore a riflettere sui modi migliori per affrontare e risolvere le complessità del governo di Trantor e dell’impero.
«Hai letto qualcosa sui numerosi guasti che di recente abbiamo avuto nei servizi planetari, Raych?»
«Sì, parecchio, ma vedi, papà, questo è un pianeta vecchio. L’unica cosa da fare sarebbe trasferire altrove tutta la gente, scavare nelle fondamenta dell’intero pianeta, sostituire tutto quanto, aggiungere i più moderni sistemi computerizzati e poi riportare indietro tutta la popolazione, o almeno la metà. Trantor se la caverebbe molto meglio con solo venti miliardi di abitanti.»
«Quali venti miliardi?» chiese Seldon sorridendo.
«Vorrei saperlo» rispose Raych scuro in volto. «Il guaio è che non possiamo ricostruire il pianeta, e così dobbiamo accontentarci di rattopparlo.»
«Lo temo anch’io, Raych, ma vi sono alcuni elementi strani in questa situazione. Ora voglio che tu faccia un controllo per me. Mi sono venuti certi pensieri in proposito.»
Tirò fuori da una tasca una piccola sfera.
«Che cos’è?» domandò Raych.
«È una mappa di Trantor, programmata con ogni cura. Fammi un favore, Raych, sgombra questo tavolo.»
Quando Raych ebbe finito, Seldon depose la sfera più o meno al centro del tavolo e posò la mano sulla tastiera sistemata nel bracciolo della sua poltrona. Con il pollice chiuse un contatto, e le luci nella stanza si spensero mentre il ripiano del tavolo si illuminava di una morbida luminescenza color avorio che sembrava alta circa un centimetro. La sfera si era appiattita e allargata fino ai bordi del tavolo.
La luminescenza si scurì lentamente in alcuni punti e assunse contorni precisi. Dopo circa trenta secondi Raych disse con sorpresa: «È proprio una mappa di Trantor».
«Certo, te l’avevo detto. Però non puoi comprare queste mappe in un comune negozio. È uno di quei giocattoli con i quali si divertono i militari. Potrebbe presentare Trantor come una sfera, ma una proiezione planare mostrerà in modo più chiaro ciò che voglio farti vedere.»
«E cos’è che vuoi farmi vedere, papà?»
«Ebbene, nel corso degli ultimi due anni ci sono stati dei guasti piuttosto fastidiosi. Come hai detto, si tratta di un pianeta vecchio ed è logico aspettarsi rotture e avarie, ma hanno cominciato a diventare sempre più frequenti e si direbbero, in modo quasi uniforme, il risultato di errori umani.»
«E questo non è comprensibile?»
«Sì, ma entro certi limiti. Questo vale anche a proposito dei terremoti.»
«Terremoti? Su Trantor?»
«Riconosco che Trantor è un pianeta alquanto stabile e scarsamente suscettibile di effetti sismici... il che è un’ottima cosa, perché rinchiudere un intero mondo sotto una cupola quando questo mondo può subire violente scosse ogni anno e veder crollare sezioni della sua cupola sarebbe poco funzionale. Tua madre sostiene che una delle ragioni per le quali Trantor è stato preferito ad altri mondi per diventare la capitale dell’impero è che come pianeta era geologicamente moribondo: ha usato questi termini scarsamente lusinghieri, proprio così. Tuttavia, può darsi che sia moribondo ma non è ancora morto. Si verificano ancora lievi terremoti occasionali, tre dei quali negli ultimi due anni.»
«Non ne sapevo nulla, papà.»
«In pratica quasi nessuno lo sa. La cupola non è un singolo oggetto. È composta da centinaia di sezioni, ognuna delle quali può essere sollevata e scostata per allentare le tensioni e le compressioni nel caso di un terremoto. Poiché i terremoti, quando si verificano, hanno una durata che va da dieci secondi a un minuto, l’apertura ha una durata brevissima. Viene eseguita così rapidamente che i trantoriani al di sotto non se ne accorgono neppure. Notano di più un lieve tremito e qualche debole tintinnio di vetri che l’apertura della cupola sopra le loro teste e la fugace intrusione del clima esterno, quale che sia.»
«Questo è un bene, non trovi?»
«Dovrebbe. Tutto è computerizzato, naturalmente. L’insorgere di un terremoto in qualsiasi parte del pianeta fa scattare automaticamente l’apertura e la chiusura della sezione di cupola corrispondente, in modo che questa possa aprirsi appena prima che le vibrazioni diventino così intense da provocare danni.»
«Mi sembra ancora un ottimo sistema.»
«Ma nel caso dei tre terremoti minori negli ultimi due anni i controlli della cupola non hanno funzionato. La cupola non si è aperta neppure una volta e sono state necessarie riparazioni. Ogni volta sono occorsi tempo e denaro, e il controllo climatico è rimasto al di sotto della soglia ottimale per parecchio tempo. Ora, Raych, quali sono le probabilità che l’impianto di apertura potesse guastarsi in tutti e tre i casi?»
«Non molto alte?»
«Per nulla. Meno dell’uno per cento. Si può quindi supporre che qualcuno abbia manomesso i controlli prima di ogni terremoto. Ora, una volta ogni cento anni, su Trantor si verifica una fuga di magma, che è molto più difficile da controllare... e non voglio nemmeno pensare ai risultati se passasse inosservata per troppo tempo. Fortunatamente, questo non è ancora successo e le probabilità che un simile incidente si verifichi sono molto scarse, ma rifletti... Su questa mappa troverai la dislocazione dei guasti che ci hanno colpiti negli ultimi due anni e che sembrano imputabili a errori umani, anche se non siamo mai riusciti a scoprire a chi dovessero essere imputati.»
«Questo perché tutti fanno del loro meglio per coprirsi le spalle.»
«Temo che tu abbia ragione. È una caratteristica di ogni burocrazia, e Trantor ne possiede l’esempio più macroscopico di tutta la storia umana. Ma cosa ne pensi delle ubicazioni?»
Sulla mappa si erano accesi dei puntini rossi che sembravano piccole pustole sparse sull’intera area terrestre di Trantor.
«Be’,» rispose Raych cautamente «sembrano distribuite in modo regolare.»
«Esatto, ed è questo l’aspetto interessante. Chiunque si aspetterebbe che le sezioni più antiche di Trantor, quelle racchiuse per prime dalla cupola, avessero le infrastrutture più vecchie e fossero più bisognose di rapide decisioni, il che porrebbe le basi per eventuali errori umani. Adesso sovrapporrò alla mappa le sezioni più antiche di Trantor in colore azzurro, e noterai che i guasti, invece di risultare concentrati laggiù, sono ugualmente distribuiti in tutto il pianeta.»
«E allora?»
«Io credo che questo significhi, Raych, che i guasti non sono dovuti a cause naturali, ma provocati deliberatamente in modo così diffuso per colpire il maggior numero possibile di persone, creando un malcontento capace di espandersi con la massima rapidità.»
«Non mi sembra un’ipotesi molto realistica.»
«No? Allora analizziamo i guasti nel corso del tempo invece che nello spazio.»
Le aree azzurre e i puntini rossi scomparvero, e per diversi minuti la mappa di Trantor rimase vuota; poi le lucette rosse cominciarono ad apparire e sparire una alla volta, sparse qua e là.
«Noterai» disse Seldon «che non compaiono raggruppate neppure nel tempo. Prima una, poi l’altra, poi un’altra ancora, e così via, come il ticchettare costante di un metronomo.»
«Pensi che anche questo sia deliberato?»
«Deve esserlo. Chiunque sia il responsabile di tutto questo, sta cercando di provocare il massimo fastidio possibile con il minore sforzo indispensabile, quindi è inutile causare due guasti allo stesso tempo, perché uno cancellerà parzialmente l’altro nei notiziari e nella coscienza del pubblico. Ogni incidente deve spiccare da solo e provocare la massima irritazione.»
La mappa si spense e le luci si accesero. Seldon rimise in tasca la sfera, ormai ritornata alla sua forma originale.
«Chi può avere organizzato una cosa del genere?» chiese Raych.
«Alcuni giorni fa ho ricevuto un rapporto su un omicidio avvenuto nel settore di Wye.»
«Questo non è rilevante. Wye non è uno dei tuoi settori scarsamente rispettosi della legge, d’accordo, ma anche là ogni giorno verranno commessi molti delitti.»
«Centinaia» disse Seldon scuotendo il capo. «Ci sono giornate in cui il numero complessivo di atti di violenza commessi su Trantor si avvicina al milione. In genere i servizi di sicurezza non hanno molte probabilità di individuare tutti i colpevoli, tutti gli assassini. I morti entrano nei libri come dati statistici. Questo delitto, però, era insolito. L’uomo era stato accoltellato... ma in modo inesperto. Quando lo hanno trovato era ancora vivo, anche se per poco. Ha avuto il tempo di sussurrare un’ultima parola prima di morire ed era: “Capo”.
«Ciò ha sollevato una certa curiosità e la vittima è stata identificata. Lavorava nel settore di Anemoria. Che cosa ci facesse a Wye, non lo sappiamo. Ma poi un funzionario zelante è riuscito a scovare l’informazione che si trattava di un vecchio joranumita. Si chiamava Kaspal Kaspalov ed era noto per essere stato uno dei primi affiliati di Laskin Joranum. E adesso Kaspalov è morto, assassinato.»
Raych corrugò la fronte. «Sospetti una cospirazione di joranumiti? Non ne rimangono molti in circolazione.»
«Non molto tempo fa tua madre mi ha domandato se pensavo che i joranumiti fossero ancora attivi e io le ho risposto che ogni setta insolita conserva sempre una certa organizzazione, a volte anche per secoli. Di solito non hanno molta importanza, si tratta solo di gruppuscoli che non contano nulla. Tuttavia, perché non proviamo a chiederci se anche i joranumiti abbiano conservato una loro organizzazione? Se abbiano raggiunto una certa forza? Se sarebbero capaci di uccidere qualcuno che considerano un traditore? E se infine siano proprio loro a causare questi guasti come mossa preliminare per impadronirsi del potere?»
«È un’orribile sfilza di “se”, papà.»
«Questo lo so. E potrei sbagliare di grosso. Ma il delitto è stato commesso a Wye e, guarda caso, non ci sono stati guasti alle infrastrutture di Wye.»
«E questo cosa prova?»
«Potrebbe provare che il centro della cospirazione è a Wye e che i cospiratori non vogliono provocare fastidi a loro stessi ma solo al resto di Trantor. Potrebbe anche significare che i responsabili non sono affatto i joranumiti, ma la vecchia dinastia dominante di Wye che sogna ancora l’impero.»
«Oh, andiamo, papà. Hai ben poco per elaborare un’ipotesi del genere.»
«Lo so. Ora, supponi che sia una cospirazione dei joranumiti. Joranum aveva come suo braccio destro Gambol Deen Namarti. Non abbiamo traccia della sua morte, né del fatto che abbia lasciato Trantor, né alcuna notizia sulla sua vita negli ultimi nove anni. Non è poi un fatto tanto sorprendente... è facile far perdere le proprie tracce in mezzo a quaranta miliardi di persone. Un tempo ho cercato di farlo anch’io. Naturalmente, può essere morto. Sarebbe la spiegazione più semplice, ma può anche darsi che invece sia ancora vivo.»
«Allora cosa facciamo?»
Seldon sospirò. «La cosa più logica sarebbe rivolgersi ai servizi di sicurezza, ma non posso. Non possiedo il carisma di Demerzel. Lui sapeva incutere rispetto alle persone e farsi ubbidire, io no. Lui aveva una forte personalità, mentre io sono soltanto un... matematico. Non dovrei occupare la carica di primo ministro, non sono l’uomo adatto. E non l’occuperei neppure... se l’imperatore non si fosse fissato sulla psicostoria molto più di quanto essa meriti.»
«Sei in vena di autocommiserarti, non è vero, papà?»
«Sì, immagino che sia così. Però riesco a vedermi mentre mi rivolgo ai servizi di sicurezza, supponiamo, con quello che ti ho appena mostrato sulla mappa» indicò il tavolo ora vuoto «e sostenendo che corriamo un grave pericolo a causa di una cospirazione di consistenza e di natura del tutto ignote. Mi ascolterebbero solennemente, poi, non appena me ne fossi andato, scoppierebbero a ridere fra loro, scherzerebbero sul “matematico folle” e non farebbero un bel nulla.»
«Allora cosa facciamo?» ripeté Raych tornando al punto.
«Si tratta di quello che tu potresti fare per me, Raych. Mi servono altre prove e voglio che tu le trovi. Manderei più volentieri tua madre, ma lei non accetterebbe per alcun motivo di allontanarsi da me. E io non posso lasciare il palazzo in questo momento. Dopo Dors e me stesso, tu sei l’unica persona di cui mi fido. Anzi, più di Dors e me stesso. Sei ancora giovane, sei robusto, sei un torcitore molto più in gamba di quanto io sia mai stato, e sei astuto. Però bada, non voglio che tu metta a repentaglio la tua vita. Niente eroismi, niente azioni temerarie. Non potrei più guardare in faccia tua madre se ti succedesse qualcosa. Scopri solo quello che puoi. Forse scoprirai che Namarti è vivo e in piena azione oppure che è morto. Forse scoprirai che i joranumiti sono un gruppo attivo oppure moribondo. Forse scoprirai che la famiglia regnante di Wye è attiva oppure no. Ognuna di queste informazioni sarebbe interessante, ma non di importanza vitale. Ciò che voglio sapere è se i guasti alle infrastrutture sono di origine umana, come io credo, e ancora di più, nel caso che fossero provocati deliberatamente, cos’altro contano di fare i cospiratori. Sono persuaso che devono aver progettato una specie di intervento su scala maggiore e, se è così, devo sapere di che si tratta.»
«Hai già un piano in mente per me?» chiese Raych cautamente.
«Sì, Raych. Voglio che tu vada a Wye dove è stato assassinato Kaspalov. Se ti è possibile, scopri se come joranumita era ancora attivo e cerca di unirti a tua volta a una cellula del gruppo.»
«Forse questo è possibile. Posso sempre fingere di essere un vecchio joranumita. Ero solo un ragazzo quando Jo-Jo predicava, ma le sue idee mi avevano colpito profondamente. Il che è in parte vero.»
«Sì, hai ragione, ma c’è un ostacolo da superare. Potresti essere riconosciuto. In fondo, sei il figlio del primo ministro. Sei apparso diverse volte in olovisione, hai rappresentato una specie di attrazione per i notiziari, ti hanno intervistato sulle tue idee circa l’uguaglianza fra i settori.»
«Certo, ma...»
«Niente ma, Raych. Porterai scarpe rialzate per aggiungere tre centimetri alla tua altezza e ti faremo spiegare da qualcuno come cambiare la forma delle sopracciglia, far sembrare il viso più rotondo e modificare il timbro di voce.»
Raych fece spallucce. «Un sacco di problemi per nulla.»
«Inoltre,» disse Seldon con un distinto tremolio nella voce «dovrai tagliarti i baffi.»
Raych spalancò gli occhi e per qualche istante rimase seduto in un silenzio sbigottito. Alla fine, con un sussurro roco, disse: «Tagliarmi i baffi?».
«Fino all’ultimo pelo. Nessuno ti riconoscerebbe senza i baffi.»
«Ma non è possibile. Sarebbe come tagliarsi... come una castrazione.»
Seldon scosse il capo. «È solo una curiosità culturale. Yugo è un dahlita come te e non ha i baffi.»
«Yugo è matto. Se non fosse per la sua matematica, non ti accorgeresti nemmeno che è vivo.»
«È un grande matematico e l’assenza dei baffi non modifica questo fatto. E poi, non è una castrazione. I tuoi baffi ricresceranno in due settimane.»
«Due settimane! Mi ci vorranno due anni per arrivare a questi.»
Sollevò una mano come per coprirli e proteggerli.
Seldon disse inesorabile: «Raych, devi farlo. È un sacrificio necessario. Se farai la spia per me con quei baffi, potresti correre un grave pericolo. E questo non posso permetterlo».
«Di sicuro preferirei morire» replicò Raych con foga.
«Non fare il melodrammatico» ribatté severo Seldon. «Tu non preferiresti morire e questa è una cosa che devi fare. Comunque» e a un tratto esitò «non dire nulla a tua madre, ci penserò io.»
Raych fissò il padre con aria frustrata e poi disse in tono basso e disperato: «Va bene, papà».
«Ti manderò qualcuno che si occuperà del tuo travestimento, poi andrai a Wye con un aviogetto. Non fare quella faccia, Raych, non è la fine del mondo.»
Raych abbozzò un fievole sorriso e Seldon lo guardò uscire con occhi preoccupati. Un paio di baffi poteva ricrescere facilmente, ma un figlio no. Seldon era perfettamente consapevole di far correre a Raych un grave pericolo.
9
Ogni uomo possiede le sue piccole illusioni e Cleon I, imperatore della galassia, re di Trantor, in possesso di un’ampia collezione di altri titoli che, in rare occasioni, potevano essere annunciati con voce stentorea, era persuaso di essere una persona dotata di spirito democratico. Lo irritava sempre vedersi preclusa una strada all’azione prima da Demerzel e in seguito da Seldon, con la motivazione che un simile gesto sarebbe apparso tirannico o dispotico.
In cuor suo non era né un tiranno né un despota, lui ne era certo: voleva solo intraprendere qualche atto di forza fermo e deciso.
Parlava spesso con nostalgica approvazione dei giorni in cui gli imperatori potevano mescolarsi liberamente ai loro sudditi, mentre adesso, naturalmente, dopo che la storia dei numerosi colpi di stato e assassinii politici – riusciti o solo tentati – si era tramutata in una dura realtà della vita, l’imperatore doveva starsene rinchiuso e isolato dal resto del mondo.
C’era da chiedersi se Cleon, il quale nell’intero corso della sua vita aveva incontrato altre persone solo in condizioni di massima sicurezza, si sarebbe sentito veramente a proprio agio in incontri casuali con estranei, ma lui immaginava sempre che gli sarebbe piaciuto. Era quindi logico che lo rallegrasse ogni rara opportunità di parlare con uno dei suoi dipendenti più umili al palazzo, di sorridere apertamente e di spogliarsi per qualche minuto dei rigidi paramenti dell’etichetta imperiale. Lo faceva sentire democratico.
C’era questo giardiniere di cui gli aveva parlato Seldon, per esempio. Sarebbe stato doveroso, anzi un vero piacere, ricompensarlo, sia pure in ritardo, per il suo coraggio e la sua lealtà... e farlo di persona, invece di lasciare l’incarico a qualche funzionario.
Di conseguenza decise di incontrarlo nell’ampio roseto che, in quel periodo dell’anno, era in piena fioritura. Sarebbe stato l’ambiente adatto, pensò Cleon, ma naturalmente prima avrebbero dovuto condurre là il giardiniere. Era impensabile che l’imperatore fosse costretto ad attendere. Un conto è essere democratici, un altro è andare incontro a qualche scomodità.
Il giardiniere lo aspettava in mezzo alle rose, gli occhi spalancati e le labbra tremanti. A Cleon passò per la mente che forse nessuno gli avesse spiegato il motivo esatto dell’incontro. Poco male, lo avrebbe rassicurato lui in persona con parole gentili; solo che, ora che ci pensava, non ricordava il nome dell’uomo.
Si rivolse a uno dei funzionari al suo fianco e chiese: «Come si chiama il giardiniere?».
«Mandell Gruber, sire. È al vostro servizio da trent’anni.»
L’imperatore annuì e disse: «Ah, Gruber. Sono lieto di incontrare un fidato e laborioso giardiniere».
«Sire» bofonchiò Gruber battendo i denti. «Non possiedo molti talenti, ma cerco di fare del mio meglio per servire la vostra graziosa maestà.»
«Certo, certo» disse l’imperatore, chiedendosi se il giardiniere non sospettasse una punta di sarcasmo nelle sue parole. Gli uomini delle classi inferiori mancavano della delicata sensibilità che si acquista con la raffinatezza e le buone maniere. Era questo a rendere difficile ogni tentativo di mostrarsi democratici.
«Ho saputo dal mio primo ministro» disse Cleon «della fedeltà con la quale una volta sei corso in suo aiuto e della tua abilità nel prenderti cura dei giardini. Il primo ministro mi dice anche che siete buoni amici.»
«Sire, il primo ministro è gentile con me, ma io so qual è il mio posto. Non gli rivolgo mai la parola se non è lui a parlare per primo.»
«Ma certo, Gruber. Questo dimostra il tuo encomiabile giudizio, eppure il primo ministro, come me, è un uomo di impulsi democratici e io ho fiducia nella sua capacità di giudicare le persone.»
Gruber fece un inchino.
«Come saprai, Gruber, il giardiniere capo è vecchio e non vede l’ora di ritirarsi. Le responsabilità stanno diventando troppo gravose per le sue spalle.»
«Sire, il giardiniere capo è molto rispettato dai suoi sottoposti. Possa restare al suo posto per molti altri anni, così noi tutti potremo rivolgerci a lui per trarre profitto dalla sua saggezza e dal suo giudizio.»
«Ben detto, Gruber,» disse svogliatamente l’imperatore «ma tu sai benissimo che queste sono soltanto sciocchezze. Non resterà al suo posto, soprattutto tenuto conto del fatto che la sua saggezza e il suo giudizio attuali lasciano alquanto a desiderare. Lui stesso ha chiesto di ritirarsi entro l’anno e io ho accettato la richiesta. Quindi ora non rimane che trovare un sostituto.»
«Sire, in questo grande palazzo ci sono almeno cinquanta fra uomini e donne che potrebbero diventare giardiniere capo.»
«Lo immagino, ma la mia scelta è ricaduta su di te.» E Cleon sorrise munifico. Questo era il momento che aspettava. Adesso Gruber sarebbe caduto in ginocchio in un’estasi di gratitudine...
Ma non fu così e l’imperatore si accigliò.
«Sire, è un onore troppo grande per me.»
«Assurdo» disse Cleon, offeso dal fatto che il suo giudizio potesse essere messo in discussione. «È ormai tempo che le tue virtù siano riconosciute. Non dovrai più essere esposto a intemperie di ogni genere in tutti i periodi dell’anno. Avrai l’ufficio del giardiniere capo, con un bell’appartamento che farò decorare di nuovo per te e dove potrai portare la tua famiglia. Hai una famiglia, Gruber, non è vero?»
«Sì, sire. Una moglie, due figlie e un genero.»
«Benissimo. Vi troverete comodissimi e tu, Gruber, potrai godere di una nuova vita. Lavorerai all’interno, lontano per sempre dal clima capriccioso, come un vero trantoriano.»
«Sire, considerate che sono di origine anacreoniana.»
«L’ho pensato, Gruber. Tutti i mondi sono uguali per l’imperatore. È deciso, il nuovo lavoro è quello che meritavi.»
Cleon fece un cenno con il capo e si allontanò. Era soddisfatto di questa sua ultima esibizione di benevolenza. Naturalmente avrebbe gradito un po’ più di gratitudine da quell’uomo, un po’ più di apprezzamento, ma almeno in questo modo la faccenda era sistemata.
Se anche la faccenda dei guasti alle infrastrutture fosse stata così semplice da sistemare!
In un momento di stizza Cleon aveva dichiarato che ogni volta che un guasto fosse risultato attribuibile a un errore umano, l’essere umano in questione doveva essere giustiziato in modo sommario.
«Basterà qualche esecuzione» aveva detto «e tutti diventeranno molto attenti sui loro posti di lavoro.»
«Temo, sire,» aveva obiettato Seldon «che questo verrebbe considerato un comportamento dispotico e che non raggiungerebbe lo scopo da voi desiderato. Probabilmente obbligherebbe i lavoratori a scendere in piazza a scioperare e, se voi tentaste di farli tornare al lavoro con la forza, ci sarebbe un’insurrezione, mentre se tentaste di sostituirli con dei soldati vi accorgereste che loro non sono in grado di controllare quei macchinari, con il risultato che i guasti aumenterebbero vertiginosamente.»
Non c’era da stupirsi se Cleon accettava con sollievo l’alternativa di nominare un nuovo giardiniere capo.
Quanto a Gruber, rimase a guardare raggelato dall’orrore l’imperatore che si allontanava. Lo avrebbero tolto dalla libertà dell’aria aperta e condannato a stare rinchiuso fra quattro pareti. Ma come si poteva opporre un rifiuto all’imperatore?
10
Raych si osservò accigliato nello specchio della sua camera d’albergo a Wye (era un albergo piuttosto malandato, ma il ruolo di Raych non includeva il possesso di molti crediti), e non apprezzò per nulla ciò che vide. I baffi erano scomparsi; le basette erano state accorciate; i capelli erano stati tagliati intorno alle orecchie e sulla nuca.
Aveva un’aria spennacchiata.
Peggio ancora. In seguito alla modifica dell’ovale del viso, aveva una faccia da bambino.
Era disgustoso.
E non stava nemmeno facendo progressi. Seldon gli aveva fornito i rapporti dei servizi di sicurezza sulla morte di Kaspal Kaspalov e lui li aveva studiati. Non c’era molto. Solo che Kaspalov era stato assassinato e che la sicurezza locale non aveva scoperto alcun elemento importante collegato al delitto. Si capiva chiaramente che la sicurezza non attribuiva molto interesse al caso.
Il che non era sorprendente. Nell’ultimo secolo il tasso di criminalità era cresciuto parecchio su quasi tutti i mondi, su Trantor in modo particolare, e le forze di sicurezza nei vari settori non riuscivano ad arginare il fenomeno. Anzi, dappertutto la sicurezza aveva subito un declino sia a livello numerico sia in efficienza, e (benché questo fosse difficile da provare) era diventata più corrotta. Era inevitabile che ciò accadesse, con le paghe che rifiutavano di stare al passo con il costo della vita. Si deve pagare per conservare onesti i dipendenti di uno stato. In mancanza di questo, loro avrebbero certo integrato i salari inadeguati in altri modi.
Ormai Seldon stava predicando da anni quella dottrina, ma senza grandi risultati. Non c’era modo di aumentare i salari senza aumentare le tasse, e questo la popolazione non era disposta ad accettarlo. Sembrava più incline a perdere una somma dieci volte maggiore in bustarelle.
Faceva tutto quanto parte (aveva detto Seldon) del deterioramento generale della società imperiale che durava ormai da almeno due secoli.
Be’, adesso Raych cosa doveva fare? Si trovava nello stesso albergo dove Kaspalov aveva alloggiato nei giorni appena prima del delitto. Da qualche parte in quell’albergo poteva esserci una persona coinvolta nell’omicidio... o che conosceva qualcuno che lo era.
Raych era convinto che avrebbe dovuto mettersi in mostra. Doveva sembrare interessato alla morte di Kaspalov, dopo di che qualcuno avrebbe cominciato a interessarsi a lui e il contatto si sarebbe stabilito spontaneamente. Era pericoloso, ma se fosse riuscito ad apparire abbastanza innocuo, forse non lo avrebbero attaccato immediatamente.
Bene.
Raych guardò la sua cronofascia. Al bar dell’albergo dovevano esserci parecchie persone intente a godersi un aperitivo prima di cena. Tanto valeva unirsi a loro e vedere cosa sarebbe successo... sempre che qualcosa potesse succedere.
11
Sotto alcuni aspetti Wye poteva essere considerata puritana. (Ciò valeva per tutti i settori, anche se la particolare rigidità di un settore poteva essere completamente diversa dalla rigidità di un altro.) A Wye le bevande sintetiche erano rigorosamente prive di alcol, ma erano anche progettate per stimolare in altri modi. Raych non gradiva molto quel genere di sapori, essendo del tutto nuovo a essi, ma questo gli consentiva di sorseggiare lentamente e di guardarsi intorno.
Colse l’occhiata di una ragazza seduta a diversi tavolini di distanza e, per un attimo, fece fatica a distogliere lo sguardo. Era molto attraente e chiunque avrebbe capito che Wye non era puritana sotto ogni aspetto. I loro occhi rimasero agganciati e, dopo qualche istante, la donna fece un leggero sorriso e si alzò. Si avvicinò lentamente al tavolo di Raych, mentre lui la osservava pensieroso. In quel momento non poteva certo (pensò con profondo rimpianto) permettersi un’avventura di quel genere.
Raggiunto Raych, la ragazza si fermò per un momento e poi scivolò dolcemente su una sedia vicina.
«Salve» gli disse. «Non hai l’aria di un cliente abituale.»
Raych sorrise. «Non lo sono. Conosci tutti i clienti abituali?»
«Più o meno» rispose lei senza ombra di imbarazzo. «Mi chiamo Manella. E tu?»
Il rimpianto di Raych si fece più accentuato. Lei era alta, più di lui se Raych non avesse avuto quei tacchi rinforzati – e questa era una cosa che lui trovava sempre attraente –, con una carnagione lattea e lunghi, morbidi capelli dai riflessi di un rosso cupo. Il suo abbigliamento non era troppo vistoso e avrebbe potuto, con qualche sforzo, passare per una donna rispettabile della classe lavoratrice (ma che non lavorava troppo duramente).
«Il mio nome non ha importanza. Non ho molti crediti.»
«Oh. Peccato.» Manella fece una smorfia. «Puoi trovarne?»
«Magari. Cerco un lavoro. Sai consigliarmi qualcosa?»
«Che tipo di lavoro?»
Raych fece spallucce. «Non ho esperienza in niente di molto complicato, ma non vado per il sottile.»
Lei lo fissò pensierosa. «Ti dirò una cosa, signor Senzanome. A volte non servono molti crediti.»
Raych si raggelò all’istante. Aveva sempre avuto un discreto successo con le donne, ma con i suoi baffi. Cosa poteva trovarci Manella in un viso da bambino?
«Ti dirò anch’io una cosa» disse Raych. «Avevo un amico che alloggiava qui un paio di settimane fa e non riesco a trovarlo. Visto che conosci tutti i clienti abituali, forse ti ricordi di lui. Si chiama Kaspalov.» Alzò leggermente il tono della voce. «Kaspal Kaspalov.»
Lei lo guardò con occhi vacui e scosse il capo. «Non conosco nessuno con questo nome.»
«Peccato. Era un joranumita, e lo sono anch’io.» Di nuovo un’occhiata vacua di Manella. «Sai cos’è un joranumita?»
Lei scosse il capo. «No. Ho già sentito questa parola ma non so cosa significa. È una specie di professione?»
Raych si sentì deluso e disse: «Ci vorrebbe troppo tempo per spiegartelo».
Suonò come un congedo e, dopo qualche attimo di incertezza, lei si alzò per allontanarsi. Non gli sorrise e Raych si stupì del fatto che fosse rimasta così a lungo al suo tavolo.
(Be’, Seldon sosteneva sempre che lui era capace di ispirare affetto, ma di sicuro ciò non riguardava le donne impegnate in quel genere d’affari. Per loro, il pagamento era la cosa più importante.)
I suoi occhi seguirono automaticamente Manella mentre si fermava a un altro tavolo, dove sedeva un uomo da solo. Doveva essere appena entrato nella mezz’età e aveva capelli gialli come il burro, pettinati lisci all’indietro. Il suo viso era perfettamente rasato, ma Raych ebbe l’impressione che gli sarebbe servita una barba, con quel mento troppo sporgente e un po’ asimmetrico.
Apparentemente, anche con lui Manella non ebbe miglior fortuna. Scambiarono poche parole e lei si spostò altrove. Peccato, ma senz’altro non doveva succederle di frequenta. Era una donna piuttosto desiderabile.
Si ritrovò a pensare, in modo del tutto involontario, a come sarebbero andate le cose se lui, dopotutto, avesse... e a un tratto si accorse che qualcun altro si era seduto al suo tavolo. Stavolta era un uomo. Anzi, era proprio il tizio con il quale Manella aveva appena parlato. Raych rimase sbalordito, soprattutto perché i pensieri nei quali era sprofondato avevano consentito all’uomo di avvicinarsi fino a quel punto e, in pratica, di coglierlo di sorpresa. Non poteva permettersi quel genere di rischio.
L’uomo lo guardò con una punta di curiosità negli occhi. «Hai appena parlato con una mia amica.»
Raych non poté trattenere un largo sorriso. «È una persona cordiale.»
«Sì, è vero. Ed è un’ottima amica. Non ho potuto fare a meno di sentire quello che le hai detto.»
«Non c’era nulla di male, mi pare.»
«Oh, nulla, ma ho sentito che saresti un joranumita.»
Il cuore di Raych prese a battere più forte. Alla fine, con quella frase aveva fatto centro. Per lei non significava nulla, ma sembrava voler dire qualcosa per il suo “amico”.
Questo voleva dire che lui adesso era sulla buona strada? Oppure che si trovava nei guai?
12
Raych fece del suo meglio per valutare il nuovo compagno, senza permettere ai propri lineamenti di modificare l’espressione attuale di glabra ingenuità. L’uomo aveva occhi verdastri e acuti, e la mano destra posata sul tavolo era stretta quasi minacciosamente a pugno.
Raych continuò a fissare con aria vacua il compagno di tavolo, in attesa.
Di nuovo l’uomo disse: «Ho sentito che saresti un joranumita».
Raych cercò di sembrare a disagio. Non gli fu difficile. «Perché lo vuoi sapere, amico?».
«Perché credo che tu non sia abbastanza vecchio.»
«Lo sono quanto basta. Ascoltavo sempre i discorsi di Jo-Jo Joranum.»
«Sai citarmi qualcosa?»
Raych alzò le spalle. «No, ma ho afferrato l’idea.»
«Sei un giovanotto coraggioso a dire apertamente che sei un joranumita. A certa gente non piacciono.»
«Mi hanno detto che ci sono molti joranumiti a Wye.»
«Può anche darsi. È per questo che sei venuto qui?»
«Cerco lavoro. Forse un altro joranumita sarebbe disposto a darmi una mano.»
«Anche a Dahl ci sono joranumiti. Di che regione sei?»
Indubbiamente aveva riconosciuto l’accento di Raych. Quello non poteva camuffarlo. «Sono nato a Millimaru, ma poi crescendo ho vissuto quasi sempre a Dahl.»
«Facendo cosa?»
«Non molto. Sono andato un po’ a scuola.»
«E perché sei joranumita?»
Raych consentì a se stesso di accalorarsi moderatamente. Non poteva essere vissuto nella squallida e discriminata Dahl senza avere ovvie ragioni per diventare un joranumita. «Perché penso che nell’impero dovrebbe esserci un governo più rappresentativo, più partecipazione del popolo e più uguaglianza fra i settori e i mondi. Chiunque possieda un cuore e un briciolo di cervello può pensarla in un altro modo?»
«E vorresti veder abolita la figura dell’imperatore?»
Raych esitò un attimo. Parlare da sovversivo in termini vaghi era una cosa in parte tollerata e quasi accettata, ma qualsiasi dichiarazione apertamente contraria all’imperatore voleva dire superare ogni limite. «Non sto dicendo questo. Io credo nell’imperatore, ma governare un intero impero è troppo per un uomo solo.»
«Non è un uomo solo. C’è tutta la burocrazia imperiale. Che ne pensi di Hari Seldon, il primo ministro?»
«Non ne penso niente. Non lo conosco.»
«Tutto quello che sai è che il popolo dovrebbe avere una maggiore rappresentanza negli affari di governo. È così?»
Raych cercò di apparire confuso. «È quello che Jo-Jo Joranum affermava sempre. Non so come la chiami tu. Ho sentito qualcuno, una volta, chiamarla “democrazia”, ma non so cosa voglia dire.»
«La democrazia è una cosa che hanno tentato su certi mondi. Alcuni ci stanno provando ancora. Non so se questi mondi sono governati meglio degli altri. Così tu sei un democratico?»
«È così che si dice?» Raych abbassò la testa come se fosse immerso in profondi pensieri. «Mi sento più a mio agio come joranumita.»
«Naturalmente, essendo un dahlita...»
«Ho solo vissuto là per un po’ di tempo.»
«... sei a favore dell’uguaglianza fra i popoli e cose del genere. I dahliti, come gruppo oppresso, penserebbero logicamente in questo modo.»
«Ho sentito dire che anche a Wye il pensiero joranumita va forte. E loro non sono oppressi.»
«Il motivo è diverso. I vecchi sindaci di Wye hanno sempre voluto essere imperatori. Lo sapevi?»
Raych scosse il capo.
«Diciotto anni fa» proseguì l’uomo «il sindaco Rashelle riuscì quasi a effettuare un colpo di stato in tale direzione. Così gli abitanti di Wye sono ribelli; non tanto joranumiti, quanto contrari a Cleon.»
«Di questo non so nulla. Io non sono contrario all’imperatore.»
«Comunque sei per la partecipazione popolare al governo, giusto? Credi che qualsiasi organismo rappresentativo eletto potrebbe governare l’impero galattico senza impantanarsi nella politica e negli scontri di corrente? Senza andare incontro alla paralisi?»
«Eh? Non capisco.»
«Credi che un’assemblea numerosa saprebbe prendere rapidamente una decisione in tempi di crisi? O invece che i suoi membri non farebbero altro che starsene seduti a discutere?»
«Non lo so, ma non mi sembra giusto che solo poche persone debbano imporre la loro volontà a tutti i mondi.»
«Sei disposto a lottare per ciò in cui credi? Oppure ti piace solo parlarne?»
«Nessuno mi ha mai chiesto di lottare.»
«Supponi che qualcuno lo faccia. Quanto sono importanti per te le tue idee sulla democrazia... o sulla filosofia joranumita?»
«Per loro sarei disposto a lottare... se pensassi che possa servire a qualcosa.»
«Ecco un ragazzo in gamba. Così sei venuto a Wye a lottare per i tuoi ideali.»
«No,» disse Raych a disagio fingendosi intimidito e passando a un tono più ossequioso «non è proprio per questo. Sono venuto a cercare un lavoro, signore. Non è facile trovare lavoro di questi tempi e sono al verde. Bisogna pur vivere.»
«Sono d’accordo. Come ti chiami?»
La domanda guizzò allo scoperto senza preavviso, ma Raych era pronto. «Planchet, signore.»
«Di nome o di cognome?»
«Solo di nome, per quello che ne so.»
«Non hai crediti e, immagino, scarsa istruzione.»
«Temo di sì.»
«Nessuna esperienza in qualche lavoro specializzato?»
«Non ho lavorato molto, ma la voglia non mi manca.»
«D’accordo. Ti dirò cosa fare, Planchet.» Estrasse un piccolo triangolo bianco dalla tasca e lo premette in maniera tale da far comparire un messaggio stampato. Dopo di che fece passare il pollice sulla scritta, bloccandola. «Ti dirò dove andare. Porta questo con te e probabilmente riuscirai a ottenere un lavoro.»
Raych prese il biglietto e lo osservò. La scritta sembrava luminescente, ma Raych non riuscì a leggerla. Sbirciò l’altro con un’occhiata indecisa. «E se pensano che l’ho rubato?»
«Non può essere rubato. C’è sopra la mia firma e c’è scritto il tuo nome.»
«E se mi chiedono il suo nome?»
«Non lo faranno, ma puoi dire semplicemente che cerchi lavoro. è questa la tua opportunità. Non ti garantisco nulla, ma è la tua opportunità.» Gli consegnò un altro biglietto. «Ecco dove devi andare.» Questa volta Raych riuscì a leggere la scritta.
«Grazie» borbottò.
L’uomo fece un piccolo gesto di congedo con la mano. Raych si alzò e uscì, chiedendosi in cosa stava per cacciarsi.
13
Avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Gleb Andorin osservava Gambol Deen Namarti che camminava avanti e indietro. Namarti era incapace di restarsene seduto tranquillo quando la furia violenta delle sue emozioni lo avviluppava.
“Non è l’uomo più intelligente dell’impero,” pensò Andorin “e neppure del nostro movimento; non è il più astuto; certo non è quello più portato alla riflessione fredda e razionale. Deve essere tenuto a freno costantemente, ma ha saputo guidarci come nessun altro di noi sarebbe stato in grado di fare. Noi volevamo arrenderci, lasciar perdere tutto, lui no. Ci ha spinti, tirati, incalzati e presi a calci. Be’, forse ci serve una persona come lui. Dobbiamo avere qualcuno come lui, altrimenti non succederà mai nulla.”
Namarti si fermò come se avesse sentito gli occhi di Andorin che gli perforavano la schiena. Si girò e disse: «Se hai intenzione di farmi un’altra predica su Kaspalov, risparmiati il disturbo».
Andorin sollevò lievemente le spalle. «Perché disturbarsi a farti una predica? Quel che è fatto è fatto. Il danno, se c’è stato, non può essere cancellato.»
«Quale danno, Andorin? Quale danno? Se non lo avessi fatto, in quel caso saremmo stati danneggiati. Quell’uomo era sul punto di tradirci. Nel giro di un mese sarebbe andato di corsa a...»
«Lo so. C’ero anch’io. Ho sentito quello che ha detto.»
«Allora capirai che non c’era altra scelta. Nessun’altra scelta. Non crederai che mi sia piaciuto far uccidere un vecchio compagno, vero? Non avevo scelta.»
«Molto bene. Non avevi scelta.»
Namarti riprese a camminare avanti e indietro, poi si girò di nuovo. «Andorin, credi negli dèi?»
Andorin spalancò gli occhi. «In che cosa?»
«Negli dèi.»
«Non ho mai sentito prima questa parola. Cosa sono?»
«Non è galattico standard. Influenze soprannaturali, che ne pensi?»
«Oh, le influenze soprannaturali. Perché non le hai chiamate subito così? No, non credo in quel genere di cose. Per definizione, qualcosa è soprannaturale se esiste al di fuori delle leggi di natura, e non esiste nulla al di fuori delle leggi di natura. Stai per caso diventando un mistico?» Andorin formulò la domanda come se stesse scherzando, ma i suoi occhi si socchiusero pieni di improvvisa preoccupazione.
Namarti lo fissò dall’alto in basso. Con quei suoi occhi lampeggianti che sapevano guardare chiunque dall’alto in basso. «Non essere idiota, stavo leggendo qualcosa sull’argomento. Miliardi di persone credono nelle influenze soprannaturali.»
«Lo so. È sempre stato così.»
«Lo fanno da prima ancora dell’inizio della storia. La parola “dèi” è di origine sconosciuta. A quanto pare è un lascito di qualche lingua primitiva della quale non rimane alcuna traccia, all’infuori di questa. Lo sai quante varietà di credenze esistono, riferite ai vari tipi di dèi?»
«All’incirca quante sono le varietà di pazzi fra la popolazione galattica, direi.»
Namarti ignorò il commento. «Alcuni studiosi credono che la parola risalga ai tempi in cui tutta l’umanità viveva su un unico mondo.»
«Anche questo è un concetto mitologico, non meno folle delle influenze soprannaturali. Non è mai esistito un mondo umano originario.»
«Deve essere esistito, Andorin» ribatté Namarti in tono infastidito. «Gli uomini non possono essersi evoluti su mondi differenti per confluire in una sola specie.»
«Anche in questo caso, non esiste un effettivo mondo umano originario. Non può essere localizzato, non può essere definito, di conseguenza non si può parlarne in modo documentato, quindi a tutti gli effetti non esiste.»
«Questi dèi» proseguì Namarti seguendo il filo dei suoi pensieri «dovevano proteggere l’umanità e badare alla sua sicurezza, o almeno occuparsi di quella parte del genere umano che sapeva come servirsi di loro. In un’epoca nella quale c’era un unico mondo abitato dagli uomini è lecito immaginare che gli dèi fossero particolarmente interessati a proteggere quel minuscolo pianeta popolato da un pugno di popoli. Si sarebbero presi cura di loro come fratelli maggiori o genitori.»
«Davvero gentile da parte loro. Mi piacerebbe vederli alle prese con tutto l’impero.»
«E se invece potessero farlo? E se fossero infiniti?»
«E se il sole si congelasse? A cosa servono tanti “se”?»
«Sto solo fantasticando, pensando. Non hai mai lasciato vagare la tua mente senza freni? Devi sempre tenere tutto attaccato a un guinzaglio?»
«Direi che tenerla al guinzaglio è il sistema migliore. Cosa ti riferisce la tua mente che vaga in piena libertà, capo?»
Gli occhi di Namarti lampeggiarono verso il compagno come se sospettasse una traccia di sarcasmo nella domanda, ma il viso di Andorin rimase tranquillo e impenetrabile.
«La mia mente mi riferisce questo... Se gli dèi esistono, devono essere dalla nostra parte.»
«Magnifico, se fosse vero. Dove sono le prove?»
«Prove? Senza gli dèi sarebbe solo una coincidenza, immagino, ma molto utile lo stesso.» Di colpo Namarti sbadigliò e si mise seduto con aria esausta.
“Bene” pensò Andorin. “La sua mente vagabonda si è finalmente stancata di galoppare e adesso potrà parlare in modo sensato.”
«Questa operazione dei danni interni alle infrastrutture...» disse Namarti con voce notevolmente più bassa.
Andorin lo interruppe. «Vedi, capo, riguardo a ciò Kaspalov non aveva tutti i torti. Più a lungo dura l’operazione, maggiore è il rischio che le forze imperiali ne scoprano la causa. L’intero programma finirà, prima o poi, con lo scoppiarci fra le mani.»
«Non ancora. Fino a questo momento, tutto sta scoppiando fra le mani dell’imperatore. Il malumore su Trantor è ormai qualcosa di tangibile.» Gesticolò sfregandosi le dita. «Riesco a sentirlo. E comunque l’operazione è quasi terminata. Siamo pronti per il passo successivo.»
Andorin rise senza umorismo. «Non ti sto chiedendo i particolari, capo. Kaspalov lo ha fatto e guarda cosa gli è successo. Io non sono Kaspalov.»
«Proprio perché non lo sei posso parlartene... E anche perché adesso so una cosa che allora non sapevo.»
«Immagino» disse Andorin credendogli solo per metà «che tu voglia colpire lo stesso palazzo imperiale.»
Namarti sollevò gli occhi. «Naturalmente. Cos’altro rimane da fare? Il problema, però, è come riuscire a infiltrarsi in modo efficace nella zona. Ho già le mie fonti di informazione laggiù, ma sono soltanto spie. Mi serviranno uomini d’azione sul posto.»
«Infiltrare uomini d’azione nella regione più rigidamente protetta in tutta la galassia non sarà facile.»
«Infatti. È stato questo problema a torturarmi il cervello fino a poco fa, e poi sono intervenuti gli dèi.»
Andorin disse in tono pacato (facendo uso di tutto il suo autocontrollo per non mostrare il disgusto che provava): «Non credo che ci serva una discussione metafisica. Cosa è successo, lasciando perdere il soprannaturale?».
«Mi è giunta informazione che sua graziosa maestà, il nostro sempre amato imperatore Cleon I, ha deciso di nominare un nuovo giardiniere capo. È il primo funzionario di palazzo che venga nominato in quasi un quarto di secolo.»
«E allora?»
«Non ci vedi alcun significato?»
Andorin rifletté per qualche secondo. «Non sono un prediletto dei tuoi dèi. Non ci vedo alcun significato.»
«Creando un nuovo giardiniere capo, Andorin, si ottiene la stessa situazione di quando si nomina un nuovo amministratore di qualsiasi genere. La stessa di quando si ha un nuovo primo ministro o un nuovo imperatore. Il giardiniere capo vorrà certamente avere intorno uomini di sua scelta; manderà in pensione quelli che considera rami morti e assumerà giardinieri più giovani a centinaia.»
«È possibile.»
«È più che possibile. È certo. Esattamente quello che è successo con la nomina dell’attuale giardiniere capo, con quella del suo predecessore e così via. Centinaia di stranieri provenienti dai Mondi esterni.»
«Perché dai Mondi esterni?»
«Usa il cervello se lo possiedi ancora, Andorin. Cosa ne sanno di giardinaggio i trantoriani, dopo aver sempre vissuto sotto una cupola occupandosi al massimo di piante domestiche, di zoo, di frutteti e campi di grano controllati automaticamente? Cosa ne sanno della vita all’aria aperta, in mezzo alla natura selvatica?»
«Ah-ah. Ora capisco.»
«Quindi ci saranno questi stranieri che inonderanno i giardini del palazzo. Saranno controllati con attenzione, presumo, ma non così rigidamente come se fossero trantoriani. E ciò significa che dovremmo essere capaci di infiltrare, con false identità, alcuni nostri uomini all’interno. Anche se qualcuno sarà scartato, altri possono farcela... devono farcela. La nostra gente entrerà nonostante le ferree regole di sicurezza instaurate dopo il fallito attentato a Seldon.» (In pratica sputò quel nome, come faceva sempre.) «Finalmente avremo la nostra opportunità.»
Adesso toccava ad Andorin sentirsi confuso, come se fosse caduto in un vortice roteante. «Detto da me può sembrare bizzarro, capo, ma probabilmente c’è qualcosa di vero in quella faccenda degli dèi... perché stavo aspettando di dirti una cosa che, me ne accorgo solo ora, fa proprio al caso nostro.»
Namarti fissò sospettoso il compagno, poi si guardò intorno come se di colpo temesse che le misure di sicurezza fossero insufficienti. Ma un simile timore era infondato. La stanza si trovava nei sotterranei di un vecchio complesso residenziale ed era perfettamente schermata. Nessuno poteva captare ciò che veniva detto al suo interno e nessuno, anche con istruzioni dettagliate, poteva trovarla facilmente, considerati gli strati protettivi forniti dai membri dell’organizzazione.
«Di cosa stai parlando?» domandò Namarti.
«Ho trovato un uomo per te. Un giovanotto... molto ingenuo. Piuttosto simpatico, il tipo di cui senti di poterti fidare non appena lo vedi. Ha un viso aperto, due occhi sempre spalancati; ha vissuto a Dahl ed è un fanatico dell’uguaglianza, e pensa che Joranum sia la cosa più grande apparsa su Trantor dopo i canditi di Micogeno. Sono sicuro che sarà facile convincerlo a fare qualsiasi cosa per la causa.
«Per la causa?» fece Namarti, il cui atteggiamento sospettoso era sempre vigile. «È uno dei nostri?»
«A dire il vero, non è di nessuno. Nella testa ha qualche vaga nozione sul fatto che Joranum voleva l’uguaglianza dei settori.»
«Questa era la sua esca. Certo.»
«Quindi è anche dei nostri, in pratica, ma il bello è che il ragazzo ci crede sul serio. Parla di uguaglianza e di partecipazione popolare al governo. Ha perfino nominato la democrazia.»
Namarti sbuffò. «In ventimila anni di storia la democrazia non ha mai funzionato a lungo senza crollare a pezzi.»
«Sì, ma ciò non ci riguarda. È questo a spingere il giovanotto e, ti dico, capo, che ho capito che avevamo trovato il nostro strumento non appena l’ho visto, ma non sapevo come potevamo servircene. Adesso lo so. Possiamo infiltrarlo come giardiniere dentro i confini del palazzo imperiale.»
«E come? Sa qualcosa di giardinaggio?»
«No. O almeno credo. Ha sempre lavorato come bracciante non specializzato. Adesso sta facendo funzionare un trasportatore in un magazzino e credo che abbiano dovuto insegnarglielo. Comunque, se riusciamo a infiltrarlo come apprendista o come aiutante giardiniere, anche se riesce soltanto a reggere in mano un paio di cesoie, avremo quanto ci serve.»
«Avremo cosa?»
«Avremo qualcuno capace di avvicinarsi a qualsiasi persona noi sceglieremo... in grado di farlo senza suscitare il benché minimo sospetto e di avvicinarsi abbastanza per colpire. Ti dico che questo ragazzo trasuda una specie di onorabile stupidità, una specie di sciocca virtù, che ispira fiducia a prima vista.»
«E farà quello che gli diremo di fare?»
«Senz’altro.»
«Come hai conosciuto questa persona?»
«È stata Manella a individuarlo.»
«Chi?»
«Manella. Manella Dubanqua.»
«Oh. Quella tua amica.» Il viso di Namarti assunse un’aria di disapprovazione.
«È amica di molta gente» disse Andorin in tono tollerante. «Questo è uno dei motivi che la rendono così utile. Sa giudicare un uomo rapidamente e con pochi elementi a sua disposizione. Ha parlato con questo giovanotto perché a prima vista l’aveva attratta, e ti assicuro che Manella non è tipo da lasciarsi attrarre facilmente, quindi vedi che il nostro uomo è piuttosto insolito. Ha parlato con lui – si chiama Planchet, a proposito – e poi mi ha detto: “Te ne ho trovato uno interessante, Gleb”. Quanto a scoprire persone interessanti ho la massima fiducia in lei.»
Namarti disse in tono leggermente subdolo: «E cosa pensi che questo tuo magnifico strumento dovrebbe fare, una volta che fosse libero di muoversi nell’area del palazzo, Andorin?».
Andorin emise un profondo respiro. «Cosa altro dovrebbe fare? Se riusciamo a infiltrarlo laggiù, ci libererà del nostro amato imperatore Cleon, Primo del Nome.»
Il viso di Namarti si deformò in una maschera d’ira. «Cosa? Sei impazzito? Perché dovremmo voler uccidere Cleon? È il nostro punto di appoggio per arrivare al potere. È la facciata dietro la quale noi potremo governare. È il nostro passaporto per la legittimazione. Dove hai messo il cervello? Ci serve come uomo di paglia. Non interferirà con noi e noi saremo più forti grazie alla sua esistenza.»
Il viso di Andorin si era fatto paonazzo e alla fine il suo autocontrollo esplose. «Che cos’hai in mente, allora? Lo si può sapere? Cosa conti di fare? Sono stufo di dover sempre indovinare le tue intenzioni!»
Namarti sollevò una mano. «Va bene. Va bene. Calmati. Non volevo offenderti. Ma prova a riflettere, ti dispiace? Chi ha distrutto Joranum? Chi ha distrutto le nostre speranze dieci anni fa? È stato quel matematico. Ed è lui che governa l’impero con quelle sue chiacchiere idiote sulla psicostoria. Cleon non è nulla. È Hari Seldon che dobbiamo distruggere. È Hari Seldon che io sto mettendo in ridicolo con questi continui guasti. Tutti i disagi che ne conseguono vengono deposti davanti alla sua porta. La causa di tutto questo viene attribuita alla sua inefficienza, alla sua incapacità.» C’erano tracce di saliva agli angoli delle labbra di Namarti. «Quando Seldon sarà eliminato, da tutto l’impero si leverà un grido di gioia che riempirà per ore ogni olonotiziario. Non avrà nemmeno importanza se scopriranno chi è stato.» Abbassò la mano sollevata come se volesse piantare un coltello nel cuore di qualcuno. «Tutti ci vedranno come eroi dell’impero, come i suoi salvatori. Allora? Che ne dici? Pensi che il tuo giovanotto saprebbe eliminare Seldon?»
Andorin aveva recuperato una certa serenità, almeno esternamente.
«Sono sicuro che ne sarebbe capace» rispose con leggerezza forzata. «Per Cleon potrebbe provare del rispetto; l’imperatore è circondato da un’aura quasi mistica, come tu sai.» Fece risaltare leggermente quel “tu” e Namarti si accigliò. «Però non proverebbe simili sentimenti per Seldon.»
Dentro di sé, tuttavia, Andorin era furioso. Non era questo che lui voleva. Si sentiva tradito.
14
Manella si tolse i capelli dagli occhi e sorrise a Raych guardando verso l’alto. «Te l’avevo detto che a volte non servono molti crediti.»
Raych sbatté le palpebre e si grattò una spalla nuda. «A dire il vero, non mi è costato nulla... a meno che tu adesso non voglia chiedermi qualcosa.»
Lei fece spallucce e sorrise in modo malizioso. «Perché dovrei?»
«Perché non dovresti?»
«Perché a volte posso farlo per il mio piacere.»
«Con me?»
«Qui dentro non c’è nessun altro.»
Seguì una lunga pausa e alla fine Manella disse dolcemente: «E poi, non avresti lo stesso molti crediti. Com’è il lavoro?».
«Non è granché, ma meglio di niente. Molto meglio. Hai detto tu a quel tipo di trovarmelo?»
Lei scosse piano la testa. «Vuoi dire Gleb Andorin? Non gli ho detto di fare nulla. Gli ho solo accennato che potevi interessargli.»
«Pensi che si arrabbierà perché tu e io...»
«Perché dovrebbe? Non sono affari suoi e nemmeno tuoi.»
«Che cos’è? Voglio dire, che lavoro fa?»
«Non credo che lavori. Ha parecchi soldi, è imparentato con i vecchi sindaci.»
«Di Wye?»
«Esatto. Non gli piace il governo, non piace a nessuno nel giro del sindaco. Gleb dice che Cleon dovrebbe...» Si interruppe bruscamente e disse: «Parlo troppo. Guai a te se riferisci a qualcuno quello che ti dico».
«Io? Non ti ho sentito dire nulla. E sarà sempre così.»
«Va bene.»
«Ma questo tipo, Andorin. È un pezzo grosso nella gerarchia dei joranumiti? È un uomo importante?»
«Non lo so.»
«Non parla mai di queste cose?»
«Non con me.»
«Oh» fece Raych cercando di non apparire deluso.
Lei lo osservò con occhi acuti. «Perché ti interessa tanto?»
«Voglio mettermi insieme a loro. Credo che in questo modo avrò molto di più. Un lavoro migliore. Più soldi. Mi capisci, vero?»
«Forse Andorin ti aiuterà. Gli piaci. Questo lo so per certo.»
«Potresti aiutarmi a piacergli di più?»
«Posso provarci. Non vedo perché non dovrebbe funzionare. A me piaci. Mi piaci molto più di Gleb.»
«Grazie, Manella. Anche tu mi piaci, e molto.» Fece scivolare la mano lungo il suo fianco e desiderò ardentemente di potersi concentrare più su di lei e meno sulla sua missione.
15
«Gleb Andorin» disse Hari Seldon stancamente, strofinandosi gli occhi.
«E chi è?» chiese Dors Venabili di umore cupo; era così da quando Raych era partito per la sua missione.
«Fino a pochi giorni or sono non avevo mai sentito parlare di lui. Ecco il guaio di dover governare un mondo abitato da quaranta miliardi di persone. Non si sente mai parlare di nessuno, tranne quei pochi che in qualche modo riescono a farsi notare. Pur con tutti i suoi sistemi computerizzati, Trantor rimane un pianeta di individui anonimi. Possiamo selezionare le persone con i loro numeri d’identità e i loro dati statistici, ma chi sono quelli che selezioniamo? Aggiungi venticinque milioni di Mondi esterni, e a questo punto c’è da meravigliarsi se l’impero galattico ha saputo funzionare per tutti questi millenni. Francamente, credo che sia sopravvissuto solo perché in massima parte sa funzionare da solo, automaticamente. E infine adesso sta crollando.»
«Evita di filosofeggiare, Hari. Chi è questo Andorin?»
«Qualcuno che, lo confesso, avrei dovuto conoscere. Ho persuaso i servizi di sicurezza a lasciarmi consultare i loro archivi in proposito. È un membro della famiglia dei sindaci di Wye; il membro più importante, anzi, al punto che la sicurezza lo tiene discretamente sotto sorveglianza. Pensano che abbia qualche ambizione, ma che sia troppo occupato come donnaiolo per poterle concretizzare.»
«Ed è coinvolto con i joranumiti?»
Seldon fece un gesto vago. «Ho l’impressione che i servizi di sicurezza non sappiano nulla dei joranumiti. Questo può significare che i joranumiti non esistono, oppure che esistono e hanno scarsa importanza. Può anche significare semplicemente che la sicurezza non è interessata a loro. Io non dispongo di alcun mezzo per costringerli a interessarsi; anzi, devo essere loro grato per avermi fornito queste informazioni. Eppure sono il primo ministro.»
«Forse non sei un primo ministro molto abile» commentò Dors secca.
«Questo è ben più che probabile. Erano generazioni che questa carica non veniva occupata da una persona meno adatta di me. Ma ciò non ha nulla a che fare con i servizi di sicurezza. Nonostante il loro nome, sono un braccio del governo del tutto indipendente. Dubito che lo stesso Cleon sappia molto in proposito, anche se in teoria loro dovrebbero rispondere direttamente all’imperatore. Credimi, se solo sapessimo qualcosa di più sui servizi, cercheremmo di inserire la loro presenza nelle nostre equazioni psicostoriche.»
«Sono almeno dalla nostra parte?»
«Credo di sì, ma non potrei giurarlo.»
«E per quale motivo ti interessava quel come-si-chiama?»
«Gleb Andorin. Perché ho ricevuto per vie indirette un messaggio da Raych.»
Gli occhi di Dors lampeggiarono. «Perché non me lo hai detto? Sta bene?»
«A quanto sembra direi di sì, ma spero che non tenti di inviare altri messaggi. Se lo colgono sul fatto, non starà affatto bene. In ogni caso, ha preso contatto con Andorin.»
«E con i joranumiti?»
«Penso di no. Come collegamento mi pare improbabile, perché non avrebbe senso. Il movimento joranumita è in massima parte rivolto alle classi sociali più basse; un movimento proletario, per così dire. Mentre Andorin è un aristocratico di ottima famiglia. Cosa ci farebbe insieme ai joranumiti?»
«Se appartiene alla famiglia dei sindaci di Wye potrebbe aspirare al trono imperiale, non credi?»
«Sono generazioni che aspirano a quel trono. Ricordi Rashelle, vero? Era sua zia.»
«Allora può darsi che si serva dei joranumiti come di un trampolino.»
«Se i joranumiti esistono. Perché in questo caso, e se lui volesse usarli come trampolino, credo che Andorin si troverebbe in mezzo a un gioco molto pericoloso. I joranumiti, se esistono, avrebbero i loro piani, e un uomo come Andorin potrebbe trovarsi a cavalcare una greti.»
«Cos’è una greti?»
«Un animale estinto alquanto feroce, penso. Su Helicon è una specie di frase proverbiale. Cavalcando una greti ci si accorge che è impossibile scendere, perché in quel caso ti divorerebbe.»
Seldon fece una pausa. «C’è un’altra cosa. Raych sembra intrattenere ottimi rapporti con una donna che conosce Andorin e attraverso la quale spera di ottenere importanti informazioni. Te lo riferisco subito, così in seguito non potrai accusarmi di averti tenuto nascosto qualcosa.»
Dors aggrottò la fronte. «Una donna?»
«Una di quelle donne, mi pare di capire, che conoscono moltissimi uomini pronti a parlare avventatamente, spesso in circostanze abbastanza intime.»
«Una di quelle.» Il cipiglio di Dors si accentuò. «Non mi piace il pensiero di Raych...»
«Oh, andiamo, Raych ha trent’anni e senza dubbio possiede molta esperienza nel campo. Puoi permettere che di questa donna o di qualsiasi altra si occupi il buon senso di Raych.» Si voltò a fissare Dors con aria abbattuta e stanca, come a volerle dire: “Credi che a me piaccia tutta questa storia?”.
E Dors non riuscì a trovare niente con cui ribattere.
16
Gambol Deen Namarti non era certo famoso, neppure nei momenti migliori, per la gentilezza e la soavità dei suoi modi, e adesso l’avvicinarsi del culmine di un decennio di preparativi rendeva ancora più acido il suo temperamento.
Si alzò dalla sua sedia con una certa agitazione e disse: «Te la sei presa comoda per arrivare, Andorin».
Andorin alzò le spalle. «Ma ora sono qui.»
«E questo tuo giovanotto, il prezioso strumento che stai promuovendo, dov’è?»
«Arriverà più tardi.»
«Perché non ora?»
La testa di Andorin sembrò inclinarsi per un attimo, come se fosse immerso in qualche pensiero o sul punto di prendere una decisione, e alla fine rispose bruscamente: «Non voglio portarlo qui finché non saprò esattamente come stanno le cose».
«Questo che significa?»
«Una semplice frase in galattico standard. Da quanto tempo è tua intenzione sbarazzarti di Hari Seldon?»
«Da sempre! Da sempre! È così difficile capirlo? Abbiamo il diritto di vendicarci per quello che ha fatto a Jo-Jo. E, anche se lui non avesse distrutto Jo-Jo, visto che è il primo ministro dobbiamo eliminarlo comunque.»
«Ma è Cleon che deve essere eliminato. Se non da solo, almeno in aggiunta a Seldon.»
«Perché un semplice fantoccio ti interessa tanto?»
«Andiamo, non sei nato ieri. Non ho mai dovuto spiegarti il mio ruolo in questa faccenda perché non sei così stupido da non capirlo da solo. Come possono interessarmi i tuoi piani se non comprendono una sostituzione sul trono?»
Namarti scoppiò a ridere. «È naturale. So da parecchio che tu mi consideri il tuo sgabello, il mezzo per arrampicarti fino al trono imperiale.»
«Ti aspettavi qualcosa di diverso?»
«Niente affatto. Io preparo i piani, corro i rischi, e poi, quando tutto è finito, tu raccogli il premio. Ha senso, non trovi?»
«Sì, ha senso, perché il premio sarà anche tuo. Non diventerai primo ministro? Non potrai contare sul totale appoggio di un nuovo imperatore pieno di gratitudine? Non sarò io» e il suo viso fece una smorfia ironica mentre sputava le parole «il nuovo fantoccio?»
«Questo vuoi diventare, un fantoccio?»
«Voglio diventare imperatore. Ti ho fornito denaro quando non ne avevi. Ti ho fornito contatti quando non ne avevi. Ti ho fornito la rispettabilità di cui avevi bisogno per costruire una grande organizzazione qui a Wye. Posso ancora ritirare tutti i miei contributi.»
«Non lo credo.»
«Vuoi correre questo rischio? E non credere di potermi trattare come hai trattato Kaspalov. Se dovesse succedermi qualcosa, Wye diventerebbe inabitabile per te e i tuoi uomini, e scopriresti che nessun altro settore sarebbe disposto a offrirti ciò di cui hai bisogno.»
Namarti sospirò. «Allora insisti perché l’imperatore sia ucciso.»
«Non ho detto “ucciso”, ho detto eliminato. I particolari li lascio a te.» Quest’ultima frase fu accompagnata da un cenno della mano quasi in segno di congedo, un semplice guizzo del polso, come se fosse già seduto sul trono imperiale.
«Dopo di che tu sarai imperatore.»
«Sì.»
«E invece no. Sarai morto e non per mano mia, te lo assicuro. Andorin, lascia che ti spieghi alcuni fatti della vita. Se Cleon venisse ucciso, si porrebbe il problema della successione e, per evitare una guerra civile, la guardia imperiale ucciderebbe immediatamente ogni membro della famiglia dei sindaci di Wye, te per primo. D’altro canto, se solo il primo ministro venisse ucciso, tu saresti al sicuro.»
«Perché?»
«Un primo ministro è solo un primo ministro. Vanno e vengono. Lo stesso Cleon potrebbe essersi stancato di lui e aver organizzato l’uccisione. Certo, noi faremmo in modo che voci di questo tenore facessero il giro di Trantor. La guardia imperiale esiterebbe e questo ci fornirebbe l’opportunità di insediare il nuovo governo. Anzi, è probabile che loro stessi sarebbero lieti della scomparsa di Seldon.»
«E una volta insediato il nuovo governo, cosa dovrei fare? Continuare ad aspettare? In eterno?»
«No. Quando sarò primo ministro, disporrò di molti altri modi per risolvere il problema rappresentato da Cleon. Potrei addirittura riuscire a combinare qualcosa con la guardia imperiale, o magari con i servizi di sicurezza, e servirmi di loro per i miei scopi. Troverò qualche sistema per sbarazzarmi di Cleon e lo sostituirò con te.»
Andorin esplose: «Perché dovresti farlo?».
«Cosa intendi dire?»
«Nutri del risentimento personale verso Seldon. Una volta che lui sarà scomparso, perché dovresti correre dei rischi inutili trovandoti già nella più alta posizione che puoi desiderare? Farai la pace con Cleon e io dovrò ritirarmi nel mio palazzo cadente con i miei sogni impossibili. E forse, per sentirti più sicuro, mi farai uccidere.»
«No! Cleon è nato per salire sul trono. È il frutto di numerose generazioni di imperatori, la fiera dinastia Entun. Sarebbe molto difficile da tenere sotto controllo, una vera maledizione. Tu, invece, arriveresti al trono come membro di una nuova dinastia, senza forti legami con la tradizione, perché i precedenti imperatori della Casa di Wye sono stati, lo ammetterai, del tutto anonimi. Siederai su un trono traballante e avrai bisogno di qualcuno che ti sostenga, avrai bisogno di me. Mentre io avrò bisogno di qualcuno che dipenda da me e che di conseguenza mi sia possibile manipolare: te. In breve, Andorin, il nostro non sarà un matrimonio d’amore che può sbiadire nel corso di un anno: sarà un matrimonio di convenienza che potrà durare una vita. Fidiamoci l’uno dell’altro.»
«Giura che sarò imperatore.»
«A che servirebbe giurare se tu non potessi fidarti della mia parola? Diciamo che per me saresti un imperatore estremamente utile e che cercherò di rimpiazzare Cleon nel modo più rapido e più sicuro possibile. E adesso presentami questo giovanotto che a tuo parere sarà lo strumento ideale per i nostri scopi.»
«Va bene. E ricorda cos’è che lo rende differente. L’ho studiato a fondo. Non è un idealista particolarmente brillante. Farà quello che gli si dice di fare, insensibile al pericolo e ai ripensamenti. Inoltre emana una specie di lealtà a prima vista, al punto che la sua vittima si fiderebbe di lui anche se lo vedesse con un fulminatore in mano.»
«Questo mi riesce impossibile crederlo.»
«Aspetta di vederlo.»
17
Raych tenne gli occhi bassi. Aveva dato un rapido sguardo a Namarti e gli era bastato. Aveva già incontrato quell’uomo dieci anni prima, quando suo padre lo aveva mandato ad attirare Jo-Jo Joranum verso la sua distruzione, e un’occhiata era più che sufficiente.
Namarti era cambiato poco in dieci anni. L’odio e l’ira erano ancora le caratteristiche dominanti che spiccavano in lui – o che almeno spiccavano agli occhi di Raych, poiché lui si rendeva conto di non essere un testimone imparziale – e ormai sembravano aver marinato il suo corpo diventando qualcosa di inscindibile dalla carne. Il viso era leggermente più magro, i capelli striati di grigio, ma la bocca con le labbra sottili aveva la stessa piega crudele e gli occhi scuri brillavano più pericolosi che mai.
La prima occhiata gli era bastata, e Raych distolse lo sguardo da lui. Namarti, lo sentiva, non era il tipo di persona che apprezzava quelli capaci di guardare dritto negli occhi.
Invece Namarti sembrò divorare Raych con lo sguardo, il viso atteggiato all’espressione ringhiosa che gli era solita.
Si rivolse a Andorin, che se ne stava in piedi a disagio da un lato, e disse, come se il soggetto della conversazione non fosse neppure presente: «Allora è questo, il tuo uomo».
Andorin annuì e le sue labbra si mossero in un silenzioso: “Sì, capo”.
Namarti disse bruscamente a Raych: «Il tuo nome».
«Planchet, signore.»
«Credi nella nostra causa?»
«Sì, signore.» Raych parlava con estrema cautela, seguendo le istruzioni di Andorin. «Sono un democratico e voglio una maggiore partecipazione del popolo al processo governativo.»
Gli occhi di Namarti guizzarono in direzione di Andorin. «Un oratore.» Tornò a fissare Raych. «Sei pronto a correre dei rischi per la causa?»
«Qualsiasi rischio, signore.»
«Farai come ti verrà detto? Senza porre domande? Senza ripensamenti?»
«Eseguirò gli ordini.»
«Sai qualcosa di giardinaggio?»
Raych esitò. «No, signore.»
«Sei un trantoriano, allora? Nato sotto la cupola?»
«Sono nato a Millimaru, signore, e sono cresciuto a Dahl.»
«Molto bene» disse Namarti. Poi, rivolgendosi a Andorin: «Accompagnalo fuori e affidalo per ora agli uomini che aspettano là. Si occuperanno di lui. Poi torna qui, Andorin. Voglio parlarti».
Quando Andorin fu di ritorno, notò che Namarti aveva subito un profondo mutamento. I suoi occhi scintillavano e la bocca era piegata in un sogghigno divertito. «Andorin, gli dèi di cui abbiamo parlato l’altro giorno sono al nostro fianco in un modo che non avrei mai immaginato.»
«Te lo avevo detto che era l’uomo adatto per i nostri scopi.»
«Molto più adatto di quanto tu creda. Tu conosci, immagino, la storia di come Hari Seldon, il nostro riverito primo ministro, mandò suo figlio, o meglio il suo figlio adottivo, a incontrarsi con Joranum e a preparare la trappola nella quale Joranum, contro i miei consigli, precipitò?»
«Sì,» disse Andorin annuendo stancamente «conosco la storia.» Lo affermò con il tono di un uomo che la conosceva fin troppo bene.
«Ho visto quel giovane solo una volta, ma la sua immagine si è stampata a fuoco nel mio cervello. Credi che dieci anni di tempo, dei tacchi rialzati e un paio di baffi tagliati possano ingannarmi? Il tuo prezioso Planchet è Raych, il figlio adottivo di Hari Seldon.»
Andorin impallidì e, per un po’, trattenne il respiro. Poi disse: «Ne sei sicuro, capo?».
«Come sono sicuro che tu stai di fronte a me e che hai introdotto un nemico nei nostri ranghi.»
«Non avevo idea...»
«Non ti innervosire. La considero la cosa migliore che tu abbia mai fatto in tutta la tua pigra esistenza di aristocratico. Hai recitato il ruolo che gli dèi avevano predisposto per te. Se non avessi saputo chi era, avrebbe assolto a quella che probabilmente era la sua missione, cioè spiare fra le nostre fila e scoprire i nostri piani più segreti. Ma dal momento che io so chi è, non funzionerà in questo modo. Invece, ora noi abbiamo tutto.» Namarti si fregò le mani soddisfatto e, con una certa esitazione, quasi si rendesse conto di quanto fosse innaturale per lui, dapprima sorrise e poi scoppiò a ridere.
18
Manella disse con aria pensierosa: «Immagino che non ti vedrò più, Planchet».
Raych si stava asciugando dopo una doccia. «Perché?»
«Gleb Andorin non vuole che lo faccia.»
«E perché non vuole?»
Manella alzò le spalle lisce. «Dice che tu hai un lavoro importante da fare e che non devi più perdere tempo. Forse vuol dire che avrai un lavoro migliore.»
Raych si irrigidì. «Che genere di lavoro? Non ti ha detto niente di preciso?»
«No, ma ha detto che lui sarebbe andato al settore imperiale.»
«Davvero? Ti racconta spesso cose del genere?»
«Sai com’è, Planchet. A letto gli uomini parlano molto.»
«Lo so» disse Raych, che evitava attentamente di farlo. «Che altro ti ha detto?»
«Perché lo vuoi sapere?» Manella si accigliò. «Anche lui mi fa sempre domande sul tuo conto. Ho notato che gli uomini lo fanno spesso. Sono curiosi sugli altri uomini. Perché succede, secondo te?»
«Tu cosa gli racconti di me?»
«Non molto. Solo che sei un ragazzo simpatico e molto gentile. Naturalmente, non gli dico che ti preferisco a lui. Potrebbe ferire i suoi sentimenti... e potrebbe ferire anche me.»
Raych si stava vestendo. «Questo è un addio, allora.»
«Per un po’, immagino. Gleb può cambiare idea. Però piacerebbe anche a me andare nel settore imperiale, se lui mi portasse. Non ci sono mai stata.»
Raych fu sul punto di tradirsi, ma si salvò con un colpo di tosse e disse: «Anch’io non ci sono mai stato».
«Ci sono i palazzi più grandi e i posti più belli e i ristoranti più eleganti, ed è là che vive la gente ricca. Mi piacerebbe conoscere della gente ricca.»
«Immagino che tu non abbia molto da guadagnare con un tipo come me.»
«Tu sei un tipo come si deve. Non si può sempre pensare ai crediti ma, nello stesso modo, ogni tanto bisogna pure pensarci. Specialmente adesso che penso che Gleb si stia stancando di me.»
Raych si sentì obbligato a dire: «Nessuno potrebbe stancarsi di te» e subito dopo scoprì, un po’ confuso, che aveva parlato sinceramente.
«Tutti gli uomini lo dicono, ma sono soltanto parole. Comunque, fra noi due è stato bello, Planchet. Abbi cura di te e chissà, forse un giorno ci rivedremo.»
Raych annuì, cercando a fatica le parole. Non trovava un modo per dire o fare qualcosa che potesse esprimere quello che provava.
Con sforzo concentrò la propria mente in altre direzioni. Doveva scoprire cosa stavano macchinando gli uomini di Namarti. Se adesso lo separavano da Manella, la crisi doveva avvicinarsi in fretta. L’unico indizio che aveva su cui lavorare era quella bizzarra domanda sul giardinaggio.
Non poteva neppure passare altre informazioni a Seldon. Dopo l’incontro con Namarti era stato messo sotto attenta sorveglianza e tutti i mezzi di comunicazione gli erano preclusi. Certamente un altro chiaro segno che la crisi ormai era imminente.
Ma se lui avesse scoperto ciò che stava succedendo solo dopo che era successo, e se avesse potuto comunicare le novità solo quando non erano più novità, avrebbe fallito.
19
Hari Seldon non stava passando una delle giornate più piacevoli. Dopo il primo messaggio non aveva più avuto notizie da Raych e non aveva idea di cosa stesse accadendo. A parte la naturale preoccupazione per la sorte del figlio (ma se gli fosse successo qualcosa di grave lo avrebbero informato), provava un senso di disagio generale per quello che si progettava nell’ombra.
Doveva trattarsi di qualcosa di subdolo. Un attacco diretto al palazzo era del tutto fuori questione. I sistemi di sicurezza erano troppo agguerriti. Ma in questo caso, cos’altro si poteva progettare che risultasse abbastanza efficace?
Quella faccenda gli procurava notti insonni e giornate faticose.
Una luce sulla scrivania lampeggiò. «Primo ministro, il suo appuntamento delle due.»
«Di quale appuntamento si tratta?»
«Il giardiniere, Mandell Gruber. Ha la necessaria autorizzazione.»
Seldon ricordò. «Sì. Lo faccia entrare.» Non era il momento migliore per vedere Gruber, ma aveva acconsentito in un attimo di debolezza: il pover’uomo sembrava sconvolto. Chi ricopriva una carica come la sua non avrebbe dovuto concedersi attimi di debolezza, ma prima di essere premier Seldon era stato semplicemente Seldon.
«Entri, Gruber» disse gentilmente.
Gruber si fermò in piedi di fronte a lui, chinando in modo meccanico la testa e lanciando occhiate in ogni angolo. Seldon era sicuro che il giardiniere non fosse mai stato in una stanza così lussuosa e provò l’impulso amaro di dirgli: “Le piace? La prenda, la prego. Io non la voglio”.
Ma disse soltanto: «Cosa c’è, Gruber? Perché è così infelice?».
Non ci fu una risposta immediata: Gruber accennò soltanto un sorriso vacuo.
«Sieda in quella poltrona, Gruber.»
«Oh, no, primo ministro, la sporcherei.»
«Se dovesse succedere, sarà facile ripulirla. Faccia come le dico... Bene! Ora resti seduto tranquillo un minuto o due, e raccolga i pensieri. Poi, quando sarà pronto, mi dica di cosa si tratta.»
Gruber rimase zitto per un momento, poi le parole gli uscirono in un fiotto ansimante. «Primo ministro, devo diventare giardiniere capo. L’imperatore in persona me lo ha detto.»
«Sì, l’ho saputo, ma certo non è questo ad angustiarla. La sua nuova carica è motivo di lode e io mi congratulo con lei. È perfino possibile che io vi abbia contribuito, Gruber. Non ho mai dimenticato il suo coraggio all’epoca in cui hanno tentato di uccidermi, e può stare certo che ne ho parlato con sua maestà imperiale. È una ricompensa adeguata, Gruber, e in ogni caso avrebbe meritato ugualmente questa promozione perché dalla sua scheda personale risulta chiarissimo che lei è del tutto qualificato per l’incarico. Quindi, adesso che la faccenda è risolta, mi dica che cosa la preoccupa realmente.»
«Primo ministro, sono proprio l’incarico e la promozione a preoccuparmi. È una cosa che non posso affrontare perché non sono qualificato.»
«Noi siamo convinti che lo sia.»
Gruber si agitò. «E dovrò starmene seduto dentro un ufficio? Non posso starmene dentro un ufficio. Non potrei uscire all’aperto e lavorare con le piante e gli animali. Sarei in una prigione, primo ministro.»
Seldon spalancò gli occhi. «Niente di tutto ciò, Gruber. Non dovrà restare in ufficio più a lungo del tempo necessario. Potrà andarsene in giro liberamente per i giardini, controllando di persona ogni cosa. Avrà tutta la vita all’aperto che vorrà e potrà semplicemente risparmiarsi il lavoro più pesante.»
«Io voglio il lavoro pesante, primo ministro, e sono sicuro che non mi lasceranno uscire dall’ufficio. Ho osservato l’attuale giardiniere capo. Non poteva abbandonare il suo ufficio, anche se voleva sempre farlo. C’è troppo lavoro amministrativo, troppa contabilità. Se lui vuole sapere come vanno le cose, noi dobbiamo andare nel suo ufficio e dirglielo. Lui può guardare i giardini solo in olovisione,» pronunciò la parola con infinito disgusto «come se si potesse capire qualcosa di creature viventi, che crescono, da semplici immagini. Non è per me, primo ministro.»
«Andiamo, Gruber, non faccia il bambino. La situazione non è poi così brutta come la dipinge. Si abituerà lentamente.»
Gruber scosse il capo. «Innanzitutto, prima di ogni altra cosa, dovrò occuparmi dei nuovi giardinieri. Sarò sepolto dalle cartacce.» Poi, con forza improvvisa, aggiunse: «È un lavoro che non voglio e che non devo avere, primo ministro».
«In questo momento, Gruber, forse lei non vuole il lavoro, ma non è il solo. Le dirò con tutta franchezza che in questo momento nemmeno io vorrei essere primo ministro. Questo lavoro è superiore alle mie forze. Ho addirittura il sospetto che certe volte anche sua maestà sia stanco del manto imperiale. Siamo tutti in questa galassia per fare il nostro lavoro e non sempre il lavoro è piacevole.»
«Questo lo capisco, primo ministro. Ma l’imperatore deve essere imperatore, perché è nato per questo. E lei deve essere primo ministro perché non c’è nessun altro che possa fare il suo lavoro. Ma nel mio caso, stiamo parlando solo di un giardiniere capo. Al palazzo ci sono almeno cinquanta giardinieri che saprebbero fare il lavoro bene quanto me e che non sarebbero dispiaciuti di dover stare in ufficio. Lei dice di aver parlato all’imperatore di come ho cercato di aiutarla. Non può parlargli ancora e spiegargli che se vuole ricompensarmi per ciò che ho fatto può lasciarmi quello che sono?»
Seldon si appoggiò allo schienale della sua poltrona e disse con voce solenne: «Gruber, se potessi lo farei, ma ora devo spiegarle una cosa e posso solo sperare che lei la capisca. L’imperatore, in teoria, è il signore assoluto dell’impero. In pratica, però, può fare ben poco. In questo momento io governo l’impero molto più di lui, e anch’io posso fare ben poco. Ci sono milioni, miliardi di persone a ogni livello del governo, e tutte prendono decisioni, tutte commettono errori, alcune agendo in modo saggio ed eroico, altre in modo stupido e ladronesco. Non esiste modo di controllarle. Mi capisce, Gruber?».
«Capisco, ma questo cosa c’entra con il mio caso?»
«C’entra, come dice lei, perché esiste un solo luogo dove l’imperatore è veramente il signore assoluto ed è l’area del palazzo imperiale. Qui la sua parola è legge, e gli strati di funzionari ai suoi ordini diretti sono abbastanza ridotti perché lui riesca a controllarli. Chiedergli di revocare una decisione che ha già preso in merito alla gestione del palazzo imperiale vorrebbe dire invadere l’unica area nella quale lui si ritiene inviolabile. Se io dovessi dirgli: “Si rimangi la sua decisione su Gruber, vostra maestà imperiale”, è più probabile che lui licenzierebbe me piuttosto di ritornare sulla sua decisione... il che potrebbe rivelarsi un’ottima alternativa per me, ma non aiuterebbe molto lei.»
«Questo significa che non c’è modo di cambiare le cose?»
«Significa proprio questo. Comunque non si preoccupi, Gruber, la aiuterò in ogni modo possibile. Mi dispiace. Ma ora temo di aver esaurito tutto il tempo che potevo dedicarle.»
Gruber si alzò, tormentando fra le dita il suo berretto verde da giardiniere. Nei suoi occhi si intuiva l’incalzare delle lacrime. «La ringrazio, primo ministro. So che in cuor suo vorrebbe aiutarmi. Lei è un brav’uomo, primo ministro.»
Si girò e uscì, addolorato.
Seldon rimase a guardarlo pensieroso, poi scosse il capo. Moltiplicando i dolori di Gruber per un milione di miliardi avrebbe avuto i dolori di tutti gli abitanti dei venticinque milioni di mondi dell’impero, e come poteva lui, Seldon, escogitare una via di salvezza per tutti quanti quando era impotente a risolvere il problema di quell’unico uomo che era corso in suo aiuto?
La psicostoria non poteva salvare un solo uomo. Poteva salvarne un milione di miliardi?
Scosse di nuovo la testa, controllò la natura e l’ora del suo appuntamento successivo, e poi, di colpo, si irrigidì. Aprì la sua linea con la segreteria esterna e urlò con un tono imperioso ben diverso dalla sua solita voce pacata: «Faccia tornare da me quel giardiniere! Lo faccia tornare subito qui!».
20
«Cos’è questa faccenda dei nuovi giardinieri?» esclamò Seldon. Questa volta non chiese a Gruber di accomodarsi.
Il poveretto sbatté rapidamente le palpebre. Sembrava in preda al panico per essere stato richiamato con tanta inaspettata urgenza. «I nuovi giardinieri?»
«Lei ha detto: “Dovrò occuparmi dei nuovi giardinieri”. Sono state le sue esatte parole. Quali nuovi giardinieri?»
Gruber sembrò trasecolare. «Be’, certo, se viene nominato un nuovo giardiniere capo, ci saranno dei nuovi giardinieri. Si usa così.»
«Non ne avevo mai sentito parlare.»
«L’ultima volta che è stato cambiato il giardiniere capo, lei non era ancora primo ministro. Forse non era nemmeno su Trantor.»
«Ma di cosa si tratta?»
«Be’, i giardinieri non vengono mai licenziati. Alcuni muoiono. Altri diventano troppo vecchi, vengono mandati in pensione e sostituiti. Tuttavia, quando viene nominato un nuovo giardiniere capo, di solito almeno la metà del personale è piuttosto avanti negli anni e ormai di scarsa utilità. Così vengono tutti generosamente mandati in pensione e si assumono nuovi giardinieri.»
«Perché serve gente giovane.»
«In parte, e in parte perché di solito a quell’epoca sono richiesti nuovi progetti per i giardini, e noi dobbiamo avere nuove idee e nuovi schemi. Ci sono quasi cinquecento chilometri quadrati di giardini e parchi, e di solito ci vogliono alcuni anni per riorganizzarli, e stavolta dovrò essere io a dirigere tutto. La prego, primo ministro.» Gruber era ansimante. «Di sicuro, un uomo abile come lei può trovare un sistema per far cambiare idea al nostro imperatore.»
Seldon non gli prestò attenzione. Aveva la fronte corrugata nello sforzo di concentrarsi. «Da dove vengono i nuovi giardinieri?»
«Si fanno esami su tutti i mondi, c’è sempre gente in attesa di servire come rimpiazzi. Arriveranno a centinaia in gruppi di dodici. Mi ci vorrà un anno, come minimo.»
«Ma da dove provengono? Da qualche mondo in particolare?»
«No, c’è almeno un milione di mondi in grado di fornire giardinieri esperti. A noi servono persone che possiedano conoscenze diversificate. Qualsiasi cittadino dell’impero può partecipare agli esami.»
«Anche i trantoriani?»
«No, i trantoriani no. Nei giardini non c’è un solo trantoriano.» La sua voce divenne sprezzante. «Trantor non è capace di fornire giardinieri. I parchi che hanno qui sotto la cupola non sono giardini. Le piante sono tutte invasate e gli animali sono in gabbia. I trantoriani, poveretti, non sanno nulla della vita all’aria aperta, dell’acqua che scorre libera e del vero equilibrio della natura.»
«Va bene, Gruber, adesso le assegnerò un incarico. Sarà suo compito fornirmi i nomi di tutti i nuovi giardinieri che arriveranno nelle prossime settimane. Voglio sapere tutto di loro. Nome, mondo, numero d’identità, grado di istruzione, esperienza. Tutto quanto. Voglio queste informazioni sul mio tavolo al più presto. Manderò qualcuno ad aiutarla. Persone con supporti tecnologici. Che genere di computer usate?»
«Un modello molto semplice, per archiviare le piante, le specie animali e cose del genere.»
«D’accordo. Le persone che le manderò saranno in grado di fare tutto quello che esula dalle sue capacità. Non è necessario che le spieghi l’importanza di questa faccenda.»
«Se riuscissi ad accontentarla...»
«Gruber, questo non è il momento di pattuire accordi. Mi deluda, e non sarà giardiniere capo, ma verrà licenziato senza pensione.»
Di nuovo solo, Seldon tornò a urlare nella linea esterna. «Annulli tutti gli appuntamenti per il resto del pomeriggio.» Poi si afflosciò sulla sua poltrona, sentendo in ogni fibra del corpo il peso di tutti i suoi cinquant’anni e anche più, con l’emicrania che peggiorava. Per anni, per decenni, intorno all’area del palazzo imperiale era stata costruita una rete di sicurezza sempre più fitta, solida, impenetrabile a ogni aggiunta di nuovi strati e di nuovi sofisticati congegni.
E a intervalli più o meno regolari orde di estranei venivano fatte entrare nell’area. Senza porre domande, probabilmente, tranne una: “Sei esperto di giardinaggio?”.
La stupidità implicita nella situazione era troppo abissale per poterla afferrare di primo acchito.
E lui l’aveva afferrata appena in tempo. Oppure no? Era forse arrivato troppo tardi?
21
Gleb Andorin fissava Namarti con occhi semichiusi. Quell’uomo non gli era mai piaciuto, ma c’erano occasioni in cui lo trovava ancora più sgradevole del solito e questa era appunto una di quelle. Perché Andorin, un membro della Real Casa di Wye (perché questo lui era, dopotutto), doveva lavorare con quel bifolco, quel paranoico praticamente psicotico?
Andorin sapeva il perché e doveva fare sfoggio di sopportazione, anche quando Namarti ricominciava a narrare di nuovo la storia di come era riuscito a ricostruire il partito nel corso di dieci anni, portandolo all’attuale livello di perfezione. Lo raccontava a tutti, un giorno dopo l’altro? Oppure aveva scelto proprio Andorin come suo ascoltatore preferito per quella storia?
Il volto di Namarti sembrava scintillare di livida gioia maligna mentre diceva, con una specie di bizzarra cantilena, come se fosse qualcosa di imparato a memoria: «E così, anno dopo anno, ho lavorato lungo queste linee, anche attraverso la disperazione e l’impotenza, costruendo un’organizzazione, scalfendo la fiducia nel governo, creando e intensificando il malcontento. Quando si è verificata la crisi delle banche e la settimana della sospensione dei pagamenti, io...».
Fece una pausa improvvisa. «Ti ho già raccontato questa storia molte volte e tu sei stanco di sentirla, non è vero?»
Le labbra di Andorin si piegarono in un rapido sorriso amaro. Namarti non era così idiota da non accorgersi di essere un autentico scocciatore, ma non poteva farne a meno. «Me l’hai già raccontata molte volte» disse Andorin. Lasciò il resto della domanda a galleggiare nell’aria, senza risposta. Una risposta che, in fin dei conti, era affermativa. Non era necessario pronunciarla.
Un leggero rossore avviluppò il viso smunto di Namarti. «Ma avrei potuto continuare in eterno a costruire, a scalfire, senza mai giungere a qualche risultato decisivo, se non avessi avuto lo strumento adatto nelle mie mani. E senza alcuno sforzo da parte mia, lo strumento è arrivato.»
«Gli dèi ti hanno portato Planchet» disse Andorin in tono neutro.
«Hai ragione. Presto un gruppo di giardinieri entrerà nell’area del palazzo imperiale.» Fece una pausa e sembrò assaporare quel pensiero. «Uomini e donne. Sufficienti a servire come copertura per il gruppo di nostri agenti che li accompagnerà. Fra loro ci sarai anche tu, naturalmente, e Planchet. E ciò che renderà insoliti te e Planchet sarà il fatto che entrambi sarete armati di fulminatori.»
«Certo,» disse Andorin con tono volutamente sarcastico nonostante l’espressione impassibile «così saremo fermati ai cancelli e trattenuti per un interrogatorio. Introdurre illegalmente un fulminatore dentro i confini del palazzo...»
«Non sarete fermati» disse Namarti non raccogliendo il sarcasmo. «Non sarete perquisiti. È già stato predisposto. Naturalmente verrete tutti accolti da qualche funzionario di palazzo. Non so a chi spetterebbe solitamente occuparsi della cosa... magari al Terzo Sostituto Ciambellano addetto all’Erba e alle Foglie... ma in questo caso sarà lo stesso Seldon. Il grande matematico arriverà di corsa per accogliere i nuovi giardinieri e dare loro il benvenuto a palazzo.»
«Di questo sei assolutamente sicuro, immagino.»
«Certamente. È stato tutto già predisposto. In qualche modo, più o meno all’ultimo momento, scoprirà che suo figlio è incluso nell’elenco dei nuovi giardinieri e non saprà resistere all’impulso di corrergli incontro. All’apparire di Seldon, Planchet solleverà il suo fulminatore. I nostri uomini cominceranno a gridare al tradimento; nella confusione e nel parapiglia che seguiranno, Planchet ucciderà Seldon e tu ucciderai Planchet. Poi lascerai cadere l’arma e scomparirai. Alcuni nostri uomini ti aiuteranno a fuggire. È stato tutto già predisposto.»
«È assolutamente necessario uccidere Planchet?»
Namarti si accigliò. «Perché? Hai qualcosa da obiettare contro un’uccisione e non contro l’altra? Se Planchet dovesse uscirne vivo, vuoi che racconti alle autorità tutto quello che sa sul nostro conto? E poi, noi stiamo inscenando una faida familiare. Non dimenticare che Planchet, in realtà, è Raych Seldon. Sembrerà che entrambi abbiano sparato simultaneamente, o che Seldon avesse dato ordine di abbattere il figlio nel caso di qualche suo gesto ostile. Faremo in modo che il lato familiare riceva la dovuta pubblicità. Qualcosa che ricordi i brutti tempi di Manowell, l’imperatore sanguinario. Il popolo di Trantor proverà repulsione per l’orribile malvagità della situazione. Quest’ultima goccia, unita a tutte le inefficienze e i guasti sofferti negli ultimi tempi, lo spingerà a invocare a gran voce un nuovo governo e nessuno sarà in grado di rifiutarglielo, meno fra tutti l’imperatore. E a questo punto noi ci faremo avanti.»
«Così, di punto in bianco?»
«No, niente del genere. Non vivo sulle nuvole. Probabilmente ci sarà un governo temporaneo, ma fallirà. Penseremo noi a farlo crollare, dopo di che usciremo allo scoperto e ravviveremo le vecchie idee di Joranum, che i trantoriani non hanno mai dimenticato. E col tempo, non troppo, diventerò primo ministro.»
«E io?»
«Alla fine diventerai imperatore.»
«Le probabilità che il tuo piano funzioni sono esigue. Questo è stato già predisposto, quello è stato già predisposto. Tutto sembra essere stato predisposto, ma se ogni singola azione non combacia perfettamente con le altre, falliremo. Da qualche parte lungo questa catena, qualcuno commetterà un errore. È un rischio inaccettabile.»
«Inaccettabile per chi? Per te?»
«Certo. Ti aspetti che io mi assicuri che Planchet uccida suo padre e poi ti aspetti che io uccida Planchet. Perché io? Non hai altre persone meno importanti di me la cui vita possa essere messa a repentaglio più facilmente?»
«Sì, ma scegliere un altro renderebbe quasi certo il fallimento. Chi altri, all’infuori di te, attribuisce tanta importanza a questa missione da non correre il rischio di cambiare idea all’ultimo momento?»
«Il rischio è enorme.»
«Ma non ne vale la pena? C’è in gioco il trono imperiale.»
«E tu cosa stai rischiando, capo? Te ne resterai qui, al sicuro, in attesa di ricevere la notizia.»
Le labbra di Namarti si arricciarono in una smorfia di disgusto. «Quanto sei idiota, Andorin! Che squallido imperatore sarai! Credi che non correrò rischi restando qui? Se il nostro piano fallisce, se il complotto viene sventato, se alcuni dei nostri uomini vengono catturati, credi che non riveleranno tutto quello che sanno? Se per qualche motivo tu venissi catturato, pensi di poter resistere al delicato trattamento della guardia imperiale senza parlare di me? E dinanzi a un attentato fallito, immagini che non passeranno al setaccio tutto Trantor per scovarmi? Credi che alla fine non riusciranno a trovarmi? E quando mi avranno trovato, a quale sorte pensi che andrei incontro in mano loro? Io corro un rischio maggiore del tuo, restando qui senza fare nulla. Tutto si riduce a una semplice scelta, Andorin. Vuoi o non vuoi essere imperatore?»
Andorin rispose a bassa voce: «Lo voglio».
E così l’azione ebbe inizio.
22
Raych non fece fatica a rendersi conto che a lui veniva riservato un trattamento speciale. L’intero gruppo degli aspiranti giardinieri era stato alloggiato in un albergo del settore imperiale, anche se non si trattava di un albergo di prima categoria.
Era un gruppo alquanto assortito, con uomini che giungevano da almeno cinquanta mondi diversi, ma Raych ebbe ben poche opportunità di parlare con qualcuno di loro. Andorin, senza apparire troppo pressante, lo teneva separato dagli altri.
Raych se ne domandava il motivo. La cosa lo deprimeva. Anzi, si sentiva depresso fin da quando aveva lasciato Wye. Questa sensazione interferiva con i suoi processi mentali, e lui cercava di combatterla ma senza troppo successo.
Anche Andorin indossava abiti rozzi e cercava di sembrare un umile giardiniere. Avrebbe recitato quel ruolo per dirigere lo spettacolo, qualunque esso fosse.
Raych provava una certa vergogna per non essere riuscito a penetrare la natura di quello “spettacolo”. Lo avevano isolato impedendogli ogni comunicazione con l’esterno e, quindi, non aveva potuto mettere in guardia suo padre. Forse si comportavano così con ogni trantoriano ammesso nel loro gruppo, come forma estrema di precauzione. Raych stimò che nel gruppo vi fosse almeno una decina di trantoriani – tutti agenti di Namarti, ovviamente – fra uomini e donne. Ciò che lo stupiva era il fatto che Andorin lo trattava con qualcosa di molto simile all’affetto. Lo monopolizzava, insisteva per consumare con lui tutti i suoi pasti, lo trattava in modo assai diverso da tutti gli altri.
Forse perché erano stati legati entrambi a Manella? Raych non conosceva abbastanza bene i costumi del settore di Wye per sapere se nella loro società esistesse una punta di poliandria. Se due uomini dividevano la stessa donna, questo serviva ad affratellarli in qualche modo? Creava un vincolo fra loro?
Raych non aveva mai sentito parlare di qualcosa di simile, ma sapeva anche di ignorare moltissime delle infinite sfumature delle società galattiche e perfino di quelle trantoriane.
Ma adesso che la sua mente era tornata a Manella, si concentrò su di lei per qualche minuto. Sentiva moltissimo la sua mancanza e a volte pensava che potesse essere la causa della sua depressione; anche se quella che provava adesso, mentre finiva di pranzare con Andorin, era quasi disperazione, e non riusciva a immaginarne la causa.
Manella!
Lei aveva detto che le sarebbe piaciuto visitare il settore imperiale e che forse avrebbe saputo convincere Andorin a portarla con sé. Raych era abbastanza disperato da porre una domanda sciocca. «Signor Andorin, continuo a domandarmi se magari non ha portato con sé la signorina Dubanqua.»
Andorin sembrò sbalordito. Poi fece una risata cordiale. «Manella? La vedi a occuparsi di giardinaggio? O a fingere di saperlo fare? No, no, Manella è una di quelle donne inventate per i nostri momenti tranquilli. Non possiede nessun’altra funzione, te lo assicuro.» Poi aggiunse: «Perché me lo hai chiesto, Planchet?».
Raych fece spallucce. «Non lo so. Qui dentro è tutto così monotono. Pensavo che...» La sua voce si spense.
Andorin lo fissò attentamente. Alla fine disse: «Certo non penserai che abbia molta importanza con quale donna ti accompagni, vero? Ti garantisco che per lei non fa alcuna differenza andare con un uomo oppure con un altro. Una volta che la nostra missione sarà finita, ci saranno altre donne. Molte donne».
«E quando sarà finita?»
«Presto. E tu avrai un ruolo molto importante.» Andorin osservò Raych con le palpebre socchiuse.
«Importante quanto? Non sarò solo un... giardiniere?» Raych si accorse che la sua voce era spenta, priva di qualsiasi vitalità.
«Sarai molto più di un giardiniere, Planchet. Entrerai in scena con un fulminatore.»
«Con che cosa?»
«Un fulminatore.»
«Non ne ho mai impugnato uno. Mai, in tutta la mia vita.»
«Non c’è nulla di particolarmente difficile. Lo sollevi. Lo punti. Chiudi il contatto, e qualcuno muore.»
«Non posso uccidere nessuno.»
«Credevo che tu fossi uno di noi, che avresti fatto qualsiasi cosa per la causa.»
«Ma non intendevo... uccidere.» Raych faticava a raccogliere i pensieri. Perché doveva uccidere? Che cosa avevano progettato per lui? E come poteva avvertire le guardie del palazzo prima che l’uccisione avesse luogo?
Il volto di Andorin si indurì di colpo, una conversione istantanea dall’interesse amichevole a una rigida determinazione. «Tu devi uccidere.»
Raych raccolse tutte le sue forze. «No. Non ucciderò nessuno. È la mia ultima parola.»
«Planchet, tu farai ciò che ti dico.»
«Non ucciderò.»
«Invece ucciderai.»
«Come mi obbligherà?»
«Ti dirò semplicemente di farlo.»
Raych si sentì confuso. Cosa rendeva quell’uomo tanto sicuro?
Scosse il capo. «No.»
«Planchet, te la stiamo somministrando fin da quando hai lasciato Wye. Mi sono assicurato che tu mangiassi sempre con me. Ho controllato personalmente la tua dieta. Specialmente il pasto che hai appena terminato.»
Raych sentì crescere dentro di sé un’ondata di orrore. All’improvviso capì. «Disperanza!»
«Esatto. Sei un demonio astuto, Planchet.»
«È illegale.»
«Sì, certo. Come l’assassinio.»
Raych conosceva la Disperanza. Era una modifica chimica di un tranquillante del tutto innocuo. La formula modificata, tuttavia, non provocava tranquillità ma disperazione. La droga era stata dichiarata illegale a causa del suo possibile impiego nel controllo mentale, ma circolavano voci insistenti sul fatto che la guardia imperiale ne facesse ancora uso.
Andorin disse, come se non fosse difficile leggere nella mente di Raych: «È chiamata Disperanza perché questa è un’antica parola che significa “senza speranza”. Penso che tu ti senta disperato».
«Mai» sussurrò Raych.
«Mostrati pure risoluto quanto vuoi, ma non puoi combattere la droga. E più disperato ti senti, più efficace diventa.»
«Non succederà.»
«Prova a riflettere, Planchet. Namarti ti ha riconosciuto subito, anche senza i tuoi baffi. Sa che sei Raych Seldon, e al mio ordine tu ucciderai tuo padre.»
«Non prima di avere ucciso te» mormorò Raych.
Si alzò in piedi. Non sarebbe stato difficile. Forse Andorin era più alto, ma anche più magro e, senza dubbio, non era granché come atleta. Raych poteva spezzarlo in due con un braccio solo... ma alzandosi barcollò. Scosse il capo, senza però riacquistare la lucidità mentale.
Anche Andorin si alzò, indietreggiando rapido. Estrasse la mano destra dalla manica sinistra, dove l’aveva tenuta fino a quel momento. Impugnava un’arma.
In tono cordiale disse: «Sono venuto preparato. Mi hanno informato circa la tua abilità di torcitore heliconiano, quindi non ci sarà nessuno scontro corpo a corpo».
Chinò gli occhi sull’arma. «Questo non è un fulminatore. Non posso permettermi di ucciderti prima che tu svolga la tua missione. È una frusta neuronica. Molto peggiore, in un certo senso. Mirerò alla tua spalla sinistra e, credimi, il dolore sarà talmente intenso che neppure il più grande stoico della galassia riuscirebbe a sopportarlo.»
Raych, che stava avanzando lento e con espressione cupa, si fermò bruscamente. A soli dodici anni aveva avuto un assaggio – davvero minuscolo – di quello che poteva fare una frusta neuronica. Una volta colpiti, nessuno poteva dimenticare quel genere di dolore, per quanto a lungo avesse vissuto e per quanti incidenti avessero infestato la sua vita.
«Inoltre,» proseguì Andorin «userò la frusta alla massima intensità, così dapprima i nervi della parte superiore del braccio saranno stimolati fino a che tu proverai un dolore insopportabile, e poi verranno danneggiati al punto da non poterli utilizzare mai più. Non potrai mai più servirti del tuo braccio sinistro. Ti risparmierò il destro per consentirti di impugnare il fulminatore... Se invece decidi di sederti e di accettare la situazione, visto che non hai scelta, potrai conservare entrambe le braccia. Naturalmente, dovrai mangiare ancora per aumentare il tuo tasso di Disperanza. Le tue condizioni non faranno che peggiorare sempre più.»
Raych sentì la disperazione indotta dalla droga farsi largo dentro di lui, e quella stessa disperazione servì ad accentuarne gli effetti. Cominciava a vedere doppio e non riusciva a trovare nulla da dire.
Sapeva soltanto che avrebbe dovuto fare come Andorin gli diceva. Aveva giocato e aveva perso.
23
«No!» Hari Seldon reagì in modo quasi violento. «Non ti voglio là fuori, Dors.»
Dors lo fissò con uno sguardo non meno deciso. «Allora non ti lascerò uscire, Hari.»
«Io devo essere là.»
«Non tocca a te. Spetta al giardiniere capo il compito di accogliere i nuovi arrivati.»
«Lo so, ma Gruber non può farlo. È un uomo distrutto.»
«Avrà pure una specie di sostituto, un assistente. Lascia che se ne occupi il vecchio giardiniere capo. Resterà in carica fino al termine dell’anno.»
«Il vecchio giardiniere capo è troppo malandato. E poi» Seldon esitò «ci sono degli impostori fra i giardinieri trantoriani. Sono qui per qualche motivo. Ho i nomi di ognuno di loro.»
«Allora falli arrestare dal primo all’ultimo. È semplice. Perché vuoi complicare le cose?»
«Perché ignoriamo il motivo che li ha spinti qui. Dev’esserci sotto qualcosa. Non immagino cosa possano fare dodici giardinieri, ma... Cercherò di essere più preciso: sono in grado di immaginare almeno una dozzina di cose che possono fare, ma non so quale abbiano in mente. Li arresteremo, certo, ma prima devo cercare di saperne di più.
«Dobbiamo saperne abbastanza da poter bloccare ogni singolo membro della cospirazione, dai vertici fino alle ultime cellule, e dobbiamo scoprire ciò che intendono fare per impartire una punizione adeguata. Non voglio farne arrestare una decina fra uomini e donne per quella che in pratica è una banale infrazione. Imploreranno misericordia, adducendo come scuse la disperazione e la necessità di un lavoro. Si lamenteranno che è ingiusto escludere i trantoriani. Otterranno comprensione e appoggio da tutti e noi faremo la figura degli idioti. Dobbiamo fornire loro l’opportunità di farsi condannare per qualcosa di ben più grave. E poi...»
Ci fu una lunga pausa, ma alla fine Dors sbottò irosa: «E allora, qual è questo nuovo “poi”?».
La voce di Seldon si abbassò. «Uno di quei dodici è Raych, che usa il falso nome di Planchet.»
«Cosa?»
«Perché sei sorpresa? Lo avevo mandato a Wye perché si infiltrasse nel movimento dei joranumiti e in qualcosa è riuscito a infiltrarsi. Ho la massima fiducia in lui. Se è qui, vuol dire che sa cosa stanno complottando e che deve avere un piano per mettere loro i bastoni fra le ruote. Ma anch’io voglio essere là. Voglio vederlo. Voglio essere in grado di aiutarlo, se necessario.»
«Se vuoi aiutarlo, fai schierare cinquanta guardie di palazzo spalla a spalla intorno ai tuoi giardinieri.»
«No. In questo modo non otterremo alcun risultato. La guardia imperiale sarà sul posto, ma non in modo appariscente. I falsi giardinieri devono credere di avere via libera per mettere in atto ciò che stabilisce il loro piano. Prima che riescano a portarlo a termine, ma dopo che avranno rivelato chiaramente le loro intenzioni... li prenderemo.»
«È rischioso. Per Raych, voglio dire.»
«I rischi sono qualcosa che dobbiamo accettare. In questa storia è in gioco ben altro che qualche vita individuale.»
«Questa è una cosa spietata da dire.»
«Credi che io non abbia un cuore? Anche se si spezzasse, il mio primo pensiero dovrebbe essere per la psico...»
«Non dirlo.» Dors si voltò come se provasse un dolore fisico.
«Ti capisco, ma tu non devi essere là. La tua presenza sarebbe fuori luogo... i cospiratori potrebbero sospettare che noi sappiamo già troppo e li spingerebbe a rinunciare al loro piano. E non voglio che rinuncino.»
A quel punto fece una pausa, poi disse gentilmente: «Dors, tu dici che il tuo compito è quello di proteggermi. Questo viene prima della protezione di Raych, e lo sai. Non insisterei su questo punto, se non sapessi che proteggere me vuol dire anche proteggere la psicostoria e l’intero genere umano. Questo deve venire prima di ogni altra cosa. Quello che finora so grazie alla psicostoria mi dice che io, a mia volta, devo proteggere il centro dell’impero a ogni costo, ed è ciò che sto tentando di fare. Mi capisci?».
«Ti capisco» e gli voltò le spalle.
Seldon pensò: “E spero di avere ragione”.
Se sbagliava, lei non lo avrebbe mai perdonato. Peggio ancora, lui non se lo sarebbe mai perdonato, psicostoria o no.
24
Erano tutti allineati in bell’ordine, i piedi divaricati, le mani dietro la schiena, ognuno vestito con un’elegante uniforme verde, piuttosto ampia e dotata di larghe tasche. Le differenze fra i sessi erano attutite notevolmente, e solo dalla statura si poteva immaginare che alcune di quelle figure appartenessero a donne. I cappucci coprivano i capelli, ma d’altra parte era abitudine dei giardinieri portarli molto corti, per entrambi i sessi, e non erano ammessi peli incolti sul viso.
Perché dovesse essere così, nessuno sapeva dirlo. La parola “tradizione” giustificava tutto quanto, così come giustificava molte cose, alcune utili, altre assurde.
Di fronte a loro c’era Mandell Gruber, affiancato da due assistenti. Gruber tremava, con gli occhi spalancati e vitrei.
Seldon serrò le labbra. Se Gruber fosse riuscito a dire semplicemente: “I giardinieri dell’imperatore vi danno il benvenuto”, sarebbe bastato. In seguito, lui stesso sarebbe passato all’azione.
I suoi occhi esplorarono il nuovo contingente e individuarono Raych.
Il suo cuore ebbe un sussulto. Quello in prima fila era proprio lui, senza baffi e immobile nella sua posizione più rigidamente degli altri, lo sguardo fisso davanti a sé. I suoi occhi non si mossero per incontrare quelli di Seldon. Raych non diede segno di averlo riconosciuto, in nessun modo percettibile.
“Bravo” pensò Seldon. “È il comportamento migliore. Non deve tradirsi.”
Gruber balbettò un fievole benvenuto e Seldon si fece avanti.
Avanzò con passo sciolto, portandosi dinanzi a Gruber, e disse: «Grazie, giardiniere capo aggiunto. Uomini e donne, giardinieri dell’imperatore, state per iniziare un’importante mansione. Sarete responsabili della bellezza e della salute dell’unico tratto di terreno all’aperto sul nostro grande mondo di Trantor, capitale dell’impero galattico. Sarete voi a occuparvene e, in questo modo, anche se non godremo dei panorami sterminati dei mondi senza cupola, avremo pur sempre un piccolo gioiello capace di scintillare più radiosamente di qualunque altro giardino nell’impero.
«Sarete agli ordini di Mandell Gruber, che fra poco diventerà giardiniere capo. Lui ne risponderà a me, quando necessario, e io ne risponderò all’imperatore. Questo significa, come potete facilmente vedere, che vi troverete a soli tre livelli dalla presenza imperiale e che sarete sempre sotto il suo benevolo controllo. Sono certo che anche ora ci sta osservando dal Piccolo Palazzo, la sua residenza personale, che è l’edificio che potete vedere sulla destra, quello con la cupola di opale, e che è soddisfatto di quanto vede.
«Prima di iniziare il vostro lavoro, naturalmente, sarete tutti sottoposti a un corso di addestramento per farvi conoscere a fondo i giardini e le loro necessità. Potrete...».
Parlando, aveva continuato a muoversi quasi furtivamente fino a trovarsi proprio di fronte a Raych, che restava sempre immobile senza battere ciglio.
Seldon cercava di non apparire benevolo in modo troppo forzato, ma a un tratto un’espressione accigliata gli attraversò il viso. La persona immediatamente alle spalle di Raych aveva un aspetto familiare. Gli sarebbe senz’altro sfuggita se Seldon non avesse studiato il suo ologramma. Quello non era Gleb Andorin di Wye, il protettore di Raych a Wye, a quanto pareva? Cosa faceva nel giardino?
Andorin doveva aver notato il cipiglio di Seldon, perché sussurrò qualcosa fra le labbra socchiuse e il braccio destro di Raych, spostandosi in avanti da dietro la schiena, estrasse un fulminatore dalla capace tasca della sua giubba verde. Lo stesso fece Andorin.
Seldon si sentì paralizzato dallo shock. Come potevano essere entrati nell’area del palazzo quelle armi? Confuso, udì vagamente diverse voci gridare “Tradimento!” e un rumore improvviso di urla e di passi veloci.
Ciò che in quell’istante riempiva la mente di Seldon era il fulminatore di Raych puntato direttamente contro di lui e Raych che lo fissava come se non lo riconoscesse neppure. Seldon si rese conto con orrore che suo figlio stava per sparargli e che solo pochi secondi lo separavano dalla morte.
25
Un fulminatore, nonostante il suo nome, non “fulmina” nel vero senso della parola. Colpisce e vaporizza l’interno del bersaglio e in pratica, provoca un’implosione. Si avverte un suono leggero, simile a un sospiro, che lascia ciò che si presenta come l’oggetto fulminato.
Hari Seldon non si aspettava di sentire alcun suono ma solamente la morte. Fu con notevole sorpresa che udì il caratteristico sospiro sibilante e, sbattendo le palpebre rapidamente, chinò gli occhi per guardarsi, a bocca aperta.
Era vivo? (La pensò come una domanda, non una constatazione.)
Raych era ancora in piedi al suo posto, con il fulminatore puntato in avanti e gli occhi vitrei. Era completamente immobile, come una macchina improvvisamente privata di energia.
Dietro di lui c’era il corpo rattrappito di Andorin, accasciato in una pozza di sangue, e fermo accanto a lui, con un fulminatore in pugno, c’era un giardiniere. Il cappuccio era scivolato sulle spalle; il giardiniere era chiaramente una donna con i capelli tagliati molto corti di recente.
La donna lanciò un’occhiata a Seldon e disse: «Suo figlio mi conosce come Manella Dubanqua. Sono un’agente dei servizi di sicurezza. Vuole che proceda alla mia identificazione, primo ministro?».
«No» rispose debolmente Seldon. Le guardie imperiali erano comparse sulla scena. «Mio figlio! Cos’è successo a mio figlio?»
«Disperanza, credo» rispose Manella. «Con il tempo si possono eliminarne gli effetti.» Si allungò per togliere il fulminatore dalla mano di Raych. «Sono dolente di non essere potuta intervenire prima. Dovevo aspettare una mossa scoperta e per poco non sono arrivata troppo tardi.»
«Ho avuto lo stesso problema. Dobbiamo portare Raych all’ospedale del palazzo.»
Un vocio confuso si levò improvvisamente dal Piccolo Palazzo. Seldon pensò che forse l’imperatore stava osservando sul serio la cerimonia e che adesso doveva essere veramente infuriato.
«Si occupi di mio figlio, signorina Dubanqua. Devo vedere l’imperatore.»
Si lanciò di corsa – in modo assai poco dignitoso – attraverso il caos che regnava sul Grande Prato e schizzò dentro il Piccolo Palazzo senza troppe cerimonie. A quel punto, Cleon non poteva certo infuriarsi maggiormente.
E là, sotto gli occhi di un gruppetto di persone che lo fissavano annichilite dallo stupore, sulla scalinata semicircolare c’era il corpo di sua maestà imperiale Cleon I devastato al punto da risultare irriconoscibile. I paramenti imperiali gli servivano ora da sudario. Tremante contro una parete, fissando con espressione instupidita i volti inorriditi che lo attorniavano, c’era Mandell Gruber.
Seldon sentì di essere arrivato a un punto di rottura. Vide il fulminatore ai piedi di Gruber. Doveva essere quello di Andorin, ne era certo. Allora chiese sottovoce: «Gruber, che cosa ha fatto?».
Gruber lo fissò, bofonchiando: «Tutti urlavano e gridavano. Ho pensato che nessuno se ne sarebbe accorto. Avrebbero creduto che qualcun altro avesse ucciso l’imperatore. Ma poi non sono riuscito a fuggire».
«Ma, Gruber, perché?»
«Così non sarei dovuto diventare giardiniere capo.» E crollò.
Seldon fissò allibito il corpo privo di conoscenza di Gruber.
Tutto si era svolto al limite della catastrofe. Lui era vivo. Raych era vivo. Andorin era morto, e la cospirazione dei joranumiti sarebbe stata cancellata fino all’ultimo soggetto.
Il centro dell’impero avrebbe tenuto, così come la psicostoria aveva richiesto.
E poi un uomo, per un motivo talmente banale da sfidare ogni analisi, aveva ucciso l’imperatore.
“E adesso?” pensò Seldon sull’orlo della disperazione. “Cosa facciamo? Cosa accadrà?”