DEMERZEL, ETO ... Benché non esistano dubbi sul fatto che durante buona parte del regno dell’imperatore Cleon I il vero potere fosse nelle mani di Demerzel, gli storici sono divisi sulla reale natura di questo predominio. L’interpretazione classica è che egli sia stato uno dei tanti spietati oppressori così numerosi nell’ultimo secolo dell’impero galattico unitario, ma esistono opinioni revisioniste che sono emerse lentamente e secondo le quali il suo dispotismo, se così lo si vuole definire, fu invece benevolo. A questo proposito vengono abbondantemente citati i rapporti di Demerzel con Hari Seldon, anche se in merito non si avranno mai certezze documentate, specialmente per quanto riguarda il bizzarro episodio di Laskin Joranum, la cui rapidissima ascesa...
ENCICLOPEDIA GALATTICA1
1
«Ti ripeto ancora, Hari,» disse Yugo Amaryl «che quel tuo amico, Demerzel, si trova in brutti guai.» Pronunciò con una certa enfasi la parola “amico”, con un leggero ma inconfondibile tono di disgusto.
Hari Seldon percepì la nota acida e la ignorò. Sollevò lo sguardo dal suo tri-computer dicendo: «E io ti ripeto ancora, Yugo, che è assurdo». Poi, con un’ombra di fastidio, solo una sfumatura, aggiunse: «Perché mi fai perdere tempo continuando a insistere?».
«Perché credo che sia importante.» Amaryl si mise a sedere con aria di sfida. Era un gesto che indicava come non avesse intenzione di lasciarsi estromettere facilmente. Era lì e intendeva restarci.
Otto anni prima era stato solo un cistermista di Dahl, al più basso gradino possibile della scala sociale. Seldon lo aveva sollevato da quella posizione, ne aveva fatto un matematico, un intellettuale e ancora di più uno psicostorico.
Amaryl non dimenticava mai chi era stato un tempo e chi era adesso, e meno ancora a chi doveva quel cambiamento. Il risultato era che, se sentiva di dover parlare duramente a Hari Seldon – per il suo stesso bene –, nessuna considerazione di rispetto e di devozione per l’uomo più anziano, nessun pensiero per la propria carriera avrebbero potuto fermarlo. A Seldon era debitore di una dura severità, oltre che di molto altro.
«Ascolta, Hari,» disse tagliando l’aria con la mano sinistra «per un motivo che trascende la mia comprensione tu hai una grande considerazione di questo Demerzel. Io no, e nessuno di cui rispetti le capacità di giudizio, tranne te, la pensa in questo modo. Personalmente non m’importa quello che può succedergli, ma finché ho motivo di credere che a te importa, devo sottoporre la cosa alla tua attenzione.»
Hari sorrise, in parte per il tono angustiato dell’amico e in parte per quella che considerava l’inutilità delle sue preoccupazioni. Era molto affezionato a Yugo Amaryl, una delle quattro persone che aveva conosciuto durante il breve periodo della sua vita in cui aveva percorso in lungo e in largo il pianeta Trantor, da fuggiasco. Le altre erano Eto Demerzel, Dors Venabili e Raych; da allora non aveva incontrato nessuno che fosse lontanamente paragonabile a loro.
Ognuno a proprio modo, e diversamente in ogni caso, i quattro gli erano ormai indispensabili. Yugo Amaryl, per esempio, a causa della sua rapida comprensione dei principi della psicostoria e per le ardite escursioni in nuove aree. Per Hari era confortante pensare che, se a lui fosse successo qualcosa prima che le fondamenta matematiche della psicostoria venissero posate in modo definitivo – il lavoro procedeva molto lentamente e gli ostacoli erano giganteschi –, sarebbe rimasta almeno una mente abile e in grado di continuare le ricerche.
«Mi dispiace, Yugo. Non intendo essere brusco con te o respingere a priori quello che sembri così ansioso di farmi comprendere, ma la colpa è in parte del mio lavoro. Dirigere una facoltà...»
Amaryl fu spinto a sua volta a sorridere e soffocò una risata. «Scusami, Hari, non dovrei ridere, ma la verità è che non hai alcuna predisposizione per quel ruolo.»
«Questo lo so benissimo anch’io, ma dovrò imparare. Agli occhi di tutti devo sembrare impegnato in qualche attività innocua e non esiste nulla di più innocuo, nel vero senso della parola, che fare il preside di facoltà all’Università di Streeling, dipartimento di Matematica. Posso riempirmi la giornata di impegni banali e senza alcuna importanza, evitando che qualcuno sappia delle ricerche psicostoriche o faccia domande sui risultati, ma il guaio è che la mia giornata risulta davvero piena di impegni privi di importanza e così non mi rimane tempo sufficiente per...» I suoi occhi fecero il giro della stanza, fermandosi sui computer dove era custodito il loro materiale e dei quali solo lui e Amaryl possedevano la chiave di accesso; anche se un estraneo fosse incappato casualmente nei dati delle ricerche, non sarebbe riuscito a comprendere la simbologia inventata che avevano utilizzato per mascherarli.
«Non appena avrai preso confidenza con i tuoi incarichi, potrai cominciare a delegarli e così ti resterà più tempo.»
«Lo spero tanto» disse Seldon dubbioso. «Ma ora, cosa vuoi dirmi di tanto importante sul conto di Eto Demerzel?»
«Solo che il primo ministro del nostro grande imperatore è attivamente impegnato a organizzare un’insurrezione.»
Seldon si accigliò. «Perché dovrebbe voler fare una cosa simile?»
«Non ho detto che voglia farlo ma che lo sta facendo, consapevole o meno che ne sia. E con un considerevole aiuto da parte dei suoi nemici politici. La cosa non mi infastidisce, cerca di capirmi. Personalmente penso che, nelle attuali condizioni, sarebbe splendido vederlo sbattuto fuori dal palazzo, allontanato da Trantor e magari relegato oltre i confini dell’impero. Ma tu sembri stimarlo parecchio, come ho già detto, e così voglio metterti in guardia, poiché sospetto che tu non stia seguendo il recente corso degli avvenimenti politici con l’attenzione che meriterebbe.»
«Ci sono cose più importanti» disse Seldon in tono sommesso.
«Come la psicostoria, sono d’accordo. Ma come potremo svilupparla con qualche speranza di successo se restiamo all’oscuro della politica? La politica attuale, voglio dire. È adesso, nel momento in cui viviamo, che il presente si trasforma in futuro. Non possiamo soltanto studiare il passato. Sappiamo già cos’è accaduto, ma i nostri risultati possono essere verificati soltanto rispetto al presente e all’avvenire più prossimo.»
«Ho l’impressione di aver già ascoltato questo genere di discorsi.»
«E lo ascolterai ancora. Non sembro incontrare molto successo quando ti spiego queste cose.»
Seldon sospirò, si appoggiò allo schienale della sua poltrona e fissò Amaryl con un sorriso. Quel giovanotto sapeva essere irritante, ma prendeva la psicostoria molto seriamente e questo lo ripagava di tutto.
Amaryl mostrava ancora i segni dei suoi anni vissuti come cistermista. Aveva le spalle larghe e il fisico muscoloso di una persona abituata a un duro lavoro fisico. Non aveva permesso al suo corpo di inflaccidirsi e questa era un’ottima cosa, perché spingeva anche Seldon a resistere all’impulso di trascorrere tutto il suo tempo a una scrivania. Lui non possedeva la forza fisica di Amaryl ma conservava ancora le sue capacità di torcitore, anche se era sulla soglia dei quarant’anni e non poteva sperare di mantenerle in eterno. Comunque, per il presente avrebbe proseguito le sue abitudini heliconiane: grazie agli esercizi quotidiani la sua vita era ancora snella, le braccia e le gambe salde e robuste.
«La tua preoccupazione per Demerzel, Yugo, non può dipendere soltanto dal fatto che si tratta di un mio amico. Devi avere qualche altro motivo.»
«Nessun mistero in merito. Finché sei amico del primo ministro, la tua posizione qui all’università è sicura e puoi continuare a dedicarti alle ricerche psicostoriche.»
«Eccoci al punto. Quindi avrei un motivo per essere suo amico. Non è affatto qualcosa che supera la tua comprensione.»
«Hai interesse a coltivare la sua benevolenza. Questo lo comprendo. Ma essergli amico, non riesco davvero a capirlo. Comunque nel caso che Demerzel perdesse il suo potere, tralasciando le conseguenze sulla tua posizione, Cleon si troverebbe a governare l’impero in prima persona e il livello del suo declino aumenterebbe. Potremmo sprofondare nell’anarchia prima di aver sviluppato tutte le implicazioni della psicostoria e aver dato alla scienza il modo di salvare l’intera umanità.»
«Capisco, Yugo, ma in tutta sincerità non credo che riusciremo a consolidare la psicostoria in tempo per impedire la caduta dell’impero.»
«Anche se non potessimo impedirla riusciremmo ad attutirne gli effetti, non credi?»
«Forse.»
«Il punto è questo, allora. Più tempo avremo per lavorare in pace, maggiori saranno le probabilità di impedire la caduta o, se non altro, di ridurre la gravità delle sue conseguenze. Quindi, procedendo all’inverso, può risultare necessario salvare Demerzel, volenti o nolenti. Almeno per quanto mi riguarda.»
«Però hai appena detto che vorresti vederlo sbattuto fuori dal palazzo, allontanato da Trantor e relegato oltre i confini dell’impero.»
«Sì, ma in certe condizioni ideali, ho detto. Tuttavia noi non viviamo in condizioni ideali e abbiamo bisogno del nostro primo ministro, anche se è uno strumento di oppressione e dispotismo.»
«Capisco. Ma perché credi che il crollo dell’impero sia talmente prossimo da poter essere provocato dalla perdita di un primo ministro?»
«Psicostoria.»
«La usi per formulare profezie? Non abbiamo neppure consolidato la struttura di base. Che genere di profezie puoi trarne?»
«Esiste l’intuizione, Hari.»
«L’intuizione è sempre esistita. Noi vogliamo qualcosa di più, non credi? Vogliamo una procedura matematica che ci fornisca le probabilità di un futuro specifico date certe condizioni. Se bastasse l’intuizione a guidarci, non avremmo alcun bisogno della psicostoria.»
«L’una non esclude necessariamente l’altra, Hari. Sto parlando di utilizzarle entrambe, combinate fra loro. Il che può risultare più utile che usarne una sola, almeno fino a quando la psicostoria non sarà stata perfezionata.»
«Se mai lo sarà. Ma, dimmi, da dove nascerebbe questo pericolo per Demerzel? Cosa c’è di tanto pericoloso che rischia di danneggiarlo o di fargli addirittura perdere la sua carica? Perché stiamo parlando di questo, o sbaglio?»
«Si tratta appunto di questo» disse Amaryl cupo.
«Allora spiegamelo. Abbi misericordia della mia ignoranza.»
Amaryl arrossì. «Ora reciti la parte dell’ingenuo, Hari. Di sicuro avrai sentito parlare di Jo-Jo Joranum.»
«Certo, è un demagogo. Aspetta, da dove viene? Nishaya, vero? Un pianeta insignificante. Allevamenti di capre, mi pare. Formaggi di eccellente qualità.»
«Esatto. Tuttavia non è un semplice demagogo. Dispone di molti seguaci e il suo potere sta aumentando. A quanto dice, mira alla giustizia sociale e a un maggiore coinvolgimento politico del popolo.»
«Già, ne ho sentito parlare anch’io. Il suo motto è: “Il governo appartiene al popolo”.»
«Non esattamente, Hari. Lui dice: “Il governo è il popolo”.»
Seldon annuì. «Ebbene, a dirti la verità sono piuttosto d’accordo con lui.»
«Anch’io. La penserei come lui, se Joranum parlasse sinceramente. Ma non è così, perché per lui è solo un punto di partenza. Per Joranum si tratta di una via, non di una meta. Vuole sbarazzarsi di Demerzel. In seguito gli sarà facile manovrare l’imperatore Cleon, dopo di che si impadronirà personalmente del trono e lui sarà il popolo. Tu stesso mi hai raccontato che la storia imperiale abbonda di simili episodi, e in questi giorni l’impero è molto più debole e instabile che in passato. Un colpo che, nei secoli precedenti, lo avrebbe fatto semplicemente barcollare, ora potrebbe abbatterlo. Finiremo in mezzo a una sanguinosa guerra civile e non avremo la psicostoria per insegnarci cosa dobbiamo fare.»
«Sì, capisco, ma certo non sarà così facile averla vinta su Demerzel.»
«Non hai idea di come stia crescendo il potere di Joranum.»
«Non importa quanto cresca il suo potere.» Un’ombra increspò la fronte di Seldon. «Mi domando che cosa abbia spinto i suoi genitori a chiamarlo Jo-Jo. C’è qualcosa di infantile in questo nome.»
«I genitori non c’entrano. Il suo vero nome è Laskin, un nome molto comune su Nishaya. Ha scelto lui di chiamarsi Jo-Jo, probabilmente dalla prima sillaba del suo cognome.»
«Una mossa ancora più sciocca, allora, non credi?»
«No, non direi. La gente lo urla a squarciagola: Jo... Jo... Jo... senza soste. È ipnotico.»
«Bene,» disse Seldon, facendo il gesto di tornare al suo tri-computer e alla simulazione multidimensionale che aveva creato «vedremo che cosa succederà.»
«Come puoi mostrarti tanto indifferente? Ti dico che il pericolo è imminente.»
«No, non lo è» ribatté Seldon, lo sguardo di ghiaccio e la voce improvvisamente dura. «Tu non hai il quadro completo.»
«Che cosa non so?»
«Ne discuteremo un’altra volta, Yugo. Per il momento continua il tuo lavoro e lascia che sia io a preoccuparmi per Demerzel e la sorte dell’impero.»
Amaryl strinse le labbra, ma l’abitudine a obbedire a Seldon era radicata saldamente in lui. «Sì, Hari.»
Forse non così saldamente. Sulla porta si girò e disse: «Stai commettendo un errore, Hari».
Seldon abbozzò un lieve sorriso. «Io non lo credo, ma ho fatto mio il tuo avvertimento e non lo dimenticherò. Comunque, tutto andrà bene.»
Quando però Amaryl fu uscito, il sorriso di Seldon si spense. Sarebbe andato veramente tutto bene?
2
Tuttavia Seldon, benché non avesse dimenticato l’avvertimento dell’amico, non dedicò molto tempo a riflettere sulla questione. Il suo quarantesimo compleanno giunse e passò, accompagnato dal consueto impatto psicologico.
Quarant’anni! Non era più giovane. La vita non si stendeva più davanti a lui come un ampio mare sconosciuto, l’orizzonte impercettibile in lontananza. Si trovava su Trantor da otto anni, e il tempo era passato in fretta. Altri otto anni e lui ne avrebbe avuti quasi cinquanta. La vecchiaia si sarebbe fatta vicina.
E non aveva ancora posto basi decenti per la psicostoria! Yugo Amaryl parlava diffusamente di leggi matematiche e snocciolava equazioni compiendo ipotesi ardite fondate sull’intuizione, ma come si potevano verificare in concreto quelle ipotesi? La psicostoria non era una scienza sperimentale, o comunque esperimenti adeguati avrebbero coinvolto interi pianeti abitati, secoli di tempo e una totale mancanza di responsabilità etica.
Questo poneva un problema impossibile da risolvere, e così al termine di quella giornata Seldon – poco disposto a dedicare altro tempo alle sue incombenze di facoltà – si incamminò verso casa di cattivo umore.
Solitamente, la vista del campus universitario riusciva a risollevargli lo spirito. Era protetto da una sezione di cupola molto alta e dava la sensazione di trovarsi all’aperto senza la necessità di dover sopportare quel genere di clima che lui aveva sperimentato durante la sua prima (e unica) visita al palazzo imperiale. C’erano alberi, prati, sentieri, come se lui fosse ancora nel campus della sua vecchia università nel mondo natale di Helicon.
Per quel giorno era stata creata l’illusione di alcuni passaggi di nubi facendo apparire e sparire a intervalli irregolari la luce solare (niente sole, naturalmente, ma solo luce solare). E faceva fresco, appena un pochino.
Seldon aveva l’impressione che le giornate fresche si ripetessero con maggiore frequenza di un tempo. Trantor stava risparmiando energia? Forse stavano aumentando le inefficienze dei suoi sistemi? Oppure (e a quel pensiero aggrottò metaforicamente la fronte) era lui che diventava vecchio e il suo sangue si faceva più lento? Infilò le mani nelle tasche della giacca e incassò la testa fra le spalle.
Di norma non si prendeva la briga di guidare consciamente i suoi passi. Il suo corpo conosceva alla perfezione la strada fra l’ufficio e la sua stanza del computer, e da quest’ultima a casa. D’abitudine, quindi, percorreva il sentiero con i pensieri rivolti altrove, ma quel giorno un suono superò la sua soglia di coscienza. Un suono privo di significato.
«Jo... Jo... Jo... Jo...»
Era debole e lontano, ma suscitò in lui un ricordo. Sì, l’avvertimento di Amaryl. Il demagogo. Si trovava lì al campus?
Le sue gambe deviarono dal percorso consueto senza che la sua mente prendesse consapevolmente una decisione e lo condussero oltre una collinetta fino al Campo dell’università, che serviva al tempo stesso per le attività sportive, la ginnastica ritmica e gli esercizi oratori degli studenti.
Nel mezzo dell’area erbosa c’era una piccola folla di studenti. Erano loro a intonare con entusiasmo quella specie di cantilena. In cima a una piattaforma vide qualcuno che non conosceva, una persona dalla voce poderosa e musicale.
Non si trattava di Joranum, comunque. Seldon lo aveva visto in olovisione parecchie volte e, dopo l’avvertimento di Amaryl, aveva seguito attentamente la sua attività. Joranum era grande e grosso, e sorrideva con una specie di subdola e maliziosa complicità. Aveva folti capelli biondicci e occhi di un azzurro molto chiaro.
L’oratore strepitante, invece, era piccolo e magro, con i capelli scuri e la bocca larga. Seldon non ascoltava le sue parole, anche se udì la frase “Il potere dalle mani di uno alle mani di tanti” e l’urlo di approvazione che si levò da molte bocche.
“Splendido,” pensò Seldon “ma dice davvero sul serio? E come intende riuscirci?”
Ormai era ai bordi della piccola folla e cercò intorno qualche viso che gli fosse familiare. Vide Finangelos, uno studente del terzo anno di matematica. Un giovanotto abbastanza intelligente, dalla pelle scura e con una folta capigliatura ricciuta.
«Finangelos» chiamò.
«Professor Seldon» disse lo studente, dopo essere rimasto a fissarlo con aria vacua per qualche istante come se non riuscisse a riconoscere il professore senza una tastiera di computer sotto le dita. Trottò verso di lui. «È venuto a sentire questo tipo?»
«Sono venuto qui con la sola intenzione di scoprire cosa fosse questo frastuono. Chi è?»
«Si chiama Namarti, professore. Parla per conto di Jo-Jo.»
«Questo lo sento anch’io» disse Seldon ascoltando di nuovo la cantilena. Sembrava iniziare ogni volta che l’oratore toccava un punto cruciale. «Ma chi è questo Namarti? Non riconosco il nome. Quale istituto frequenta? Qual è la sua facoltà?»
«Non è uno dei nostri studenti, professore. È un uomo di Jo-Jo.»
«Se non è un membro dell’università, non ha il diritto di parlare qui senza un permesso. Crede che ne abbia uno, Finangelos?»
«Non saprei proprio, professore.»
«Bene, allora andiamo a scoprirlo.»
Seldon cominciò ad avanzare tra la folla ma Finangelos lo trattenne per una manica. «Non faccia mosse azzardate, professore. Ha dei gorilla con sé.»
Sei giovanotti erano piazzati dietro l’oratore, a una certa distanza l’uno dall’altro, con le gambe divaricate, le braccia incrociate e i visi torvi.
«Gorilla?»
«Per le situazioni un po’ movimentate, nel caso qualcuno tentasse di fare il furbo.»
«Allora è indubbio che non si tratta di un membro di questa università, e anche un permesso non giustificherebbe quelli che lei definisce “gorilla”. Finangelos, segnali al servizio di sicurezza universitario di intervenire. Ormai dovrebbero già essere arrivati anche senza una segnalazione.»
«Penso che non vogliano avere guai» mormorò Finangelos. «La prego, professore, non tenti di fare nulla. Se vuole che vada a chiamare il servizio di sicurezza lo farò, ma lei aspetti il loro arrivo.»
«Forse posso risolvere la questione prima che arrivino.»
Iniziò ad aprirsi un varco. Non fu difficile. Alcuni dei presenti lo riconobbero e tutti potevano vedere chiaramente lo stemma professorale sulla spallina. Raggiunse la piattaforma alta un metro, vi appoggiò entrambe le mani e si sollevò con un balzo e un leggero grugnito. Con un’ombra di rammarico pensò che dieci anni prima ce l’avrebbe fatta con una mano sola e senza grugniti.
Si raddrizzò. L’oratore aveva smesso di parlare e lo fissava con occhi guardinghi e gelidi come ghiaccio.
Seldon disse con calma: «Il suo permesso di parlare agli studenti, signore».
«Lei chi è?» chiese l’oratore. Parlò a pieni polmoni e la sua voce echeggiò lontano.
«Sono preside di facoltà in questo ateneo» rispose Seldon con voce non meno poderosa. «Il suo permesso, signore?»
«Lei non ha il diritto di farmi domande in proposito.» I giovani dietro l’oratore si erano fatti più vicini.
«Se non ha un permesso, le consiglierei di lasciare immediatamente gli spazi dell’università.»
«E se non lo facessi?»
«In tal caso, se le interessa, il servizio di sicurezza è sul punto di arrivare.» Si rivolse alla folla. «Studenti,» esclamò «in questo campus godiamo dei diritti di libertà di parola e di libertà di riunione, ma possono esserci revocati se consentiamo a estranei, privi di un permesso, di tenere...»
Una mano pesante si abbatté sulla sua spalla strappandogli una smorfia. Si voltò e vide che apparteneva a uno degli uomini che Finangelos aveva definito “gorilla”.
Con un forte accento la cui provenienza Seldon non riuscì a identificare immediatamente, l’uomo disse: «Togliti di mezzo e alla svelta».
«A che cosa servirebbe?» disse Seldon. «Il servizio di sicurezza sarà qui da un momento all’altro.»
«In tal caso» disse l’oratore, Namarti, con un sogghigno ferino «ci saranno tumulti. La cosa non ci spaventa.»
«Oh, certo,» disse Seldon «anzi, vi farebbe piacere, ma non ci saranno tumulti. Ve ne andrete tutti con calma.» Si rivolse di nuovo agli studenti, scrollandosi la mano dalla spalla. «A questo provvederemo noi, non è vero?»
Qualcuno fra la folla gridò: «Quello è il professor Seldon. È un tipo a posto. Non toccatelo».
Seldon avvertì l’incertezza tra la folla. Là in mezzo, lo sapeva, c’erano senz’altro alcuni che avrebbero accolto volentieri uno scontro con il servizio sicurezza solo per principio. D’altro canto, dovevano esserci anche studenti che lo stimavano personalmente e altri ancora che non lo conoscevano ma che non avrebbero accettato atti di violenza contro un membro del corpo docente.
Una voce di donna si levò squillante: «Attento, professore!».
Seldon sospirò e si girò per fronteggiare i robusti giovanotti etichettati giustamente “gorilla” da Finangelos. Non sapeva se avrebbe potuto farcela, se i suoi riflessi erano abbastanza rapidi e i muscoli sufficientemente robusti, pur tenendo conto della sua innegabile abilità nell’arte della Torsione.
Un gorilla si stava facendo sotto, naturalmente con grande sicurezza. Non molto rapidamente, però, il che concesse a Seldon il tempo di cui aveva bisogno il suo corpo in via di invecchiamento. Il gorilla allungò un braccio per afferrare Seldon e questo rese tutto più facile.
Seldon agguantò l’arto del gorilla, ruotò su se stesso e si chinò, sollevò il braccio e poi lo abbassò con decisione (con un grugnito... perché doveva sempre grugnire?). Il gorilla volò in aria, proiettato in parte dal suo stesso slancio, e atterrò con un tonfo sul bordo esterno della piattaforma. Aveva una spalla slogata.
Alla vista di quello sviluppo inatteso, il pubblico lanciò un grido di entusiasmo. Subito una ventata di orgoglio accademico infiammò la platea.
«Li faccia volare tutti, professore!» urlò una voce solitaria. Altri raccolsero il grido.
Seldon si lisciò i capelli all’indietro, cercando di non ansimare. Con un piede spinse il gorilla caduto (e gemebondo) giù dalla piattaforma.
«Qualcun altro?» chiese in tono cordiale. «Oppure preferite andarvene tranquillamente?»
Fronteggiò Namarti e i suoi cinque accompagnatori e, mentre esitavano indecisi, aggiunse: «Vi avverto, ora la folla è dalla mia parte. Se cercate di attaccarmi tutti insieme, vi faranno a pezzi. Allora, a chi tocca? Venite pure avanti, uno alla volta».
Pronunciò l’ultima frase a voce più alta, facendo piccoli gesti di invito con le dita. La folla urlò il suo entusiasmo.
Namarti restava piantato là come una statua. Seldon gli balzò alle spalle e gli strinse il collo nell’incavo del braccio. Adesso gli studenti si stavano arrampicando sulla piattaforma, infilandosi tra le guardie del corpo e Seldon al grido di: «Uno alla volta. Uno alla volta!».
Seldon aumentò la pressione sulla trachea dell’oratore e gli sussurrò all’orecchio: «Bisogna conoscere la tecnica giusta, Namarti, e io la conosco. Mi esercito da anni. Se fa un gesto e cerca di liberarsi, le riduco la laringe in modo tale che d’ora in poi parlerà solo con un sussurro. Se attribuisce qualche valore alla sua voce, faccia come le dico. Quando la lascerò libero, riferisca al suo branco di bravacci di andarsene. Se dice qualsiasi altra cosa, saranno le ultime parole che dirà con voce normale. E se farà ritorno a questo campus, non mi mostrerò più altrettanto gentile con lei. Completerò l’operazione».
Allentò la pressione sulla gola. Namarti disse, rauco: «Tutti quanti. Via di qui». I gorilla si ritirarono rapidamente, aiutando il compare ammaccato.
Quando la sicurezza dell’università arrivò pochi secondi dopo, Seldon disse: «Scusate, signori. Un falso allarme».
Lasciò il Campo e riprese la sua passeggiata verso casa in preda a qualcosa di più di un leggero disappunto. Aveva rivelato un aspetto di se stesso che non avrebbe voluto rendere così pubblico. Lui era Hari Seldon il matematico, non Hari Seldon il torcitore sadico.
Inoltre, pensò amaramente, Dors sarebbe venuta a saperlo. Sarebbe stato meglio parlargliene subito e di persona, prima che alle sue orecchie giungesse una versione ingigantita e quindi peggiore.
E lei non ne sarebbe stata per nulla contenta.
3
Era già sul piede di guerra.
Al suo ritorno lo aspettava sulla porta del loro appartamento, con un atteggiamento ingannevolmente tranquillo, una mano sul fianco e lo stesso aspetto di quando l’aveva conosciuta in quella stessa università otto anni prima. Snella, il corpo dalle forme aggraziate, i capelli rosso-oro, bellissima agli occhi di Seldon, ma forse non altrettanto secondo un giudizio obiettivo. Dopo i primi giorni della loro amicizia, lui non era mai riuscito a guardarla in modo obiettivo.
Dors Venabili! Era questo il primo pensiero che lo colpiva ogni volta che vedeva il suo viso calmo. C’erano molti mondi, addirittura molti settori di Trantor dove sarebbe stato perfettamente normale chiamarla Dors Seldon, ma questo – lui ne era in cuor suo convinto – le avrebbe imposto una specie di marchio di proprietà che Seldon voleva evitare a ogni costo, anche se l’uso era ormai accreditato da una tradizione che risaliva alle vaghe foschie del passato pre-imperiale.
Con un triste movimento del capo che scosse appena la morbida onda dei capelli sul collo, Dors disse pacata: «Ho già saputo, Hari. Cosa devo fare con te?».
«Un bacio non mi farebbe male.»
«Be’, forse, ma solo dopo che avremo discusso un poco la situazione. Entra.» La porta si chiuse alle loro spalle. «Vedi, tesoro, io ho il mio corso e le mie ricerche. Sto ancora lavorando a quell’orribile storia del regno di Trantor che secondo te è essenziale al tuo progetto. Adesso devo abbandonare tutto e mettermi a gironzolare con te, per proteggerti? Perché questo è ancora il mio incarico, lo sai. Un incarico ancora più pressante, ora che stai facendo progressi con la psicostoria.»
«Faccio progressi? Magari. Ma non è necessario che tu mi protegga.»
«Non è necessario? Ho spedito Raych a cercarti. Dopotutto, eri in ritardo e mi stavo preoccupando. Di solito mi avverti quando fai tardi. Sono spiacente se questo mi fa sembrare la tua guardiana, Hari, ma in pratica io sono la tua guardiana.»
«Non ti sfiora mai il sospetto, guardiana Dors, che ogni tanto può allettarmi l’idea di sfilarmi il guinzaglio?»
«E se ti accadesse qualcosa, che dovrei dire a Demerzel?»
«Sono arrivato troppo tardi per la cena? Avevi già ordinato alla cucina automatica?»
«No. Ti stavo aspettando. E adesso che sei qui, puoi ordinarla di persona. Sei molto più pignolo di me per quanto riguarda il cibo. E non cambiare argomento.»
«Raych non ti ha detto che stavo bene? E in questo caso, cosa c’è da discutere?»
«Quando ti ha trovato avevi la situazione sotto controllo, così è tornato a casa ed è arrivato prima di te, ma di poco. Non conosco ancora i particolari. Che cosa stavi facendo?»
Seldon fece spallucce. «C’era una riunione non autorizzata, Dors, e io l’ho sciolta. L’università avrebbe potuto andare incontro a parecchi guai, di cui al momento attuale non ha alcun bisogno, se non lo avessi fatto.»
«E toccava proprio a te intervenire? Hari, non sei più un torcitore. Sei un...»
«Vecchio?» aggiunse subito lui.
«Per un torcitore sì, hai quarant’anni. Come ti senti?»
«Be’, un pochino irrigidito.»
«Posso immaginarlo. E uno di questi giorni, quando cercherai di imitare un giovane atleta heliconiano, ti romperai una costola. Adesso raccontami tutto.»
«Oh, ti ho già detto che Amaryl mi aveva avvertito dei rischi che secondo lui Demerzel correva a causa di quel demagogo di Joranum, non è vero?»
«Jo-Jo. Sì, questo lo sapevo. Cosa c’è che non so? Cosa è successo oggi?»
«Al Campo c’era una specie di riunione. Un sostenitore di Jo-Jo, Namarti, parlava a una folla di studenti.»
«Namarti è Gambol Deen Namarti, il braccio destro di Joranum.»
«Bene, allora tu ne sai molto più di me in proposito. In ogni caso, stava parlando a parecchi studenti e non aveva alcun permesso, e secondo me sperava che si verificassero dei disordini. Quella gente si nutre di simili tumulti e, se Namarti fosse riuscito a far chiudere anche temporaneamente l’università, il suo padrone avrebbe accusato Demerzel di distruggere la libertà accademica. La loro tecnica consiste nell’accusarlo di ogni più piccola disfunzione sociale. Così li ho fermati; li ho allontanati dal campus evitando disordini.»
«Ne sembri fiero.»
«E perché no? Non me la sono cavata male, per un quarantenne.»
«Lo hai fatto per questo? Per mettere alla prova i tuoi quarant’anni?»
Con aria pensierosa Seldon pigiò i pulsanti sul menu elettronico della cena. Poi disse: «No. Mi preoccupava il fatto che l’università potesse andare incontro a guai inutili. Ed ero anche preoccupato per Demerzel. Temo che l’allarmismo di Yugo mi abbia influenzato più del necessario. È stato un gesto stupido, Dors, perché so che Demerzel è in grado di badare a se stesso. Però questo non potevo spiegarlo a Yugo o a chiunque altro».
Emise un profondo respiro. «È sorprendente il piacere che provo nel poterne parlare almeno con te. A saperlo siamo davvero in pochi, tu, io, Demerzel e nessun altro. Spesso mi conforta sapere che Demerzel è intoccabile.»
Dors premette un contatto su un pannello incassato in una parete e il settore da pranzo del loro appartamento si illuminò di un morbido chiarore color pesca. Insieme raggiunsero il tavolo già apparecchiato con piatti, bicchieri, tovaglioli e posate. Una volta seduti, la cena cominciò ad arrivare (non si verificavano mai lunghi ritardi a quell’ora della sera) e Seldon iniziò a servirsi senza troppi pensieri. Si era abituato da tempo alla posizione sociale che consentiva loro di evitare i pasti nelle aree comuni.
Seldon assaporò i condimenti che avevano imparato ad apprezzare durante la loro permanenza a Micogeno. L’unica cosa che non avessero detestato in quel bizzarro settore di Trantor dominato dai maschi, impregnato di religione e ben deciso a continuare a vivere nel passato.
Dors chiese sottovoce: «Cosa intendevi con “intoccabile”?».
«Andiamo, tesoro, lui sa alterare le emozioni altrui. Non lo avrai scordato, spero. Se Joranum diventasse veramente pericoloso, potrebbe essere... modificato.» Fece un gesto vago con la mano. «Indotto a cambiare le sue idee.»
Dors aggrottò la fronte a disagio e la cena proseguì in un silenzio insolito. Solo quando fu terminata e tutti gli avanzi, i piatti, le posate e il resto furono risucchiati dallo scivolo di smaltimento al centro della tavola (il cui sportello si richiuse poi automaticamente), lei disse: «Non sono del tutto sicura di volerne parlare, Hari, ma non posso nemmeno accettare che tu ti lasci ingannare dalla tua stessa ingenuità».
«Ingenuità?» Seldon si accigliò.
«Sì. Di questo non abbiamo mai parlato. Non credevo che un giorno sarebbe stato necessario, ma anche Demerzel ha i suoi punti deboli. Non è intoccabile, può essere danneggiato, e Joranum costituisce realmente un pericolo per lui.»
«Parli sul serio?»
«Naturalmente. Tu non capisci i robot, certo non un robot complesso come Demerzel, io sì.»
4
Vi fu di nuovo un breve silenzio, ma solo perché i pensieri sono silenziosi. Quelli di Seldon erano a dir poco tumultuosi.
Sì, era vero. Sua moglie sembrava possedere un’incredibile conoscenza dei robot. In tutti quegli anni si era interrogato spesso in proposito e alla fine si era arreso, relegando quella nozione in un angolo della mente. Se non fosse stato per Eto Demerzel – un robot –, lui non avrebbe mai conosciuto Dors. Perché Dors lavorava per Demerzel: era stato Demerzel ad “assegnare” Dors al suo caso otto anni prima, per proteggerlo durante la sua fuga attraverso i vari settori di Trantor. Anche se adesso lei era sua moglie, la sua assistente, la sua cosiddetta “metà”, di quando in quando non poteva fare a meno di interrogarsi sugli strani collegamenti fra Dors e il robot Demerzel. Era l’unica parte della vita di Dors della quale lui sentiva di non far parte e dove capiva di non essere il benvenuto. Il che gli richiamava alla mente la domanda più dolorosa di tutte: era in obbedienza agli ordini di Demerzel che Dors rimaneva con lui, oppure perché lo amava? Voleva credere alla seconda ipotesi, eppure...
La sua vita con Dors Venabili era felice, ma c’era un prezzo da pagare, una condizione da rispettare. Quella condizione risultava ancora più pesante perché non era stata fissata attraverso una discussione o un patto preciso, ma per reciproco e tacito accordo.
Seldon era consapevole di aver trovato in Dors tutto quello che avrebbe potuto desiderare in una moglie. D’accordo, non avevano figli, ma d’altro canto lui non si era mai aspettato di averne, né, a essere sinceri, li aveva mai desiderati fortemente. Aveva Raych, che per lui era un figlio a tutti gli effetti: come se avesse ereditato il genoma seldoniano e forse di più.
Il semplice fatto che Dors lo costringesse a riflettere su quel punto significava infrangere quel tacito accordo che per tutti quegli anni aveva mantenuto felice ed equilibrata la loro unione, e lui provò una leggera ma crescente punta di risentimento.
Tuttavia scacciò da sé quei pensieri, quelle domande, allontanandoli di nuovo dalla sua mente. Aveva imparato ad accettare il ruolo di Dors come sua protettrice e avrebbe continuato a farlo. In fondo, era con lui che lei divideva una casa, una tavola e un letto, non con Eto Demerzel.
Dors parlò scuotendolo dalle sue riflessioni. «Hari, ho chiesto se mi tieni il broncio.»
Lui sussultò, rendendosi conto che si stava ritirando sempre più nei meandri della sua mente e allontanandosi da lei.
«Scusami, cara, non ti tengo il broncio. Non intenzionalmente, almeno; mi chiedevo soltanto come dovevo ribattere alla tua affermazione.»
«A proposito dei robot?» Lei pronunciò la parola con la massima calma.
«Hai detto che non li conosco come li conosci tu. Cosa posso rispondere?» Fece una pausa, poi aggiunse lentamente (sapendo di correre un rischio): «Voglio dire, senza offenderti».
«Non ho detto che non conosci i robot; se vuoi citarmi, fallo correttamente. Ho detto che tu non li capisci. Sono sicura che in proposito sai moltissime cose, forse più di me, ma sapere non significa necessariamente capire.»
«Andiamo, Dors, adesso parli per paradossi al solo scopo di infastidirmi. Un paradosso nasce sempre da un’ambiguità che inganna, involontariamente o per un disegno preciso. I paradossi non mi piacciono nella scienza e neppure nelle conversazioni quotidiane, a meno che non abbiano uno scopo umoristico, e questo non mi sembra davvero il nostro caso.»
Dors rise in quel suo modo così particolare, sottovoce, come se il divertimento fosse una cosa troppo preziosa per condividerla in maniera troppo generosa.
«A quanto pare, il mio paradosso ti ha infastidito al punto da farti diventare pomposo, e questo ti rende sempre divertente. Comunque mi spiegherò meglio. Non era affatto mia intenzione infastidirti.» Si allungò verso di lui per accarezzargli una mano, che Seldon si accorse (sorpreso e con una leggera punta di imbarazzo) di aver serrato a pugno.
«Tu parli sempre molto di psicostoria» continuò Dors. «Con me, se non altro. Questo lo sai, non è vero?»
Seldon si schiarì la gola. «Certo, e per questo posso solo implorare la tua comprensione. Il progetto è segreto, per sua stessa natura. La psicostoria può funzionare soltanto se la gente oggetto del suo studio ne è completamente all’oscuro, quindi posso parlarne solo con Yugo e con te. Per Yugo, si tratta solo di intuizioni. È un matematico brillante, ma è talmente incline a fare salti nel buio da spingermi a recitare il ruolo del prudente a ogni costo, per tirarlo sempre un po’ indietro. Però anch’io ho le mie speculazioni sfrenate, e mi aiuta poterle esporre ad alta voce, anche quando» e qui sorrise «ho il fondato sospetto che tu non capisca una sola parola di quanto ti sto dicendo.»
«So di essere soltanto una cassa di risonanza per i tuoi pensieri, e non mi importa. Non m’importa sul serio, Hari, quindi non cominciare a pensare di cambiare il tuo comportamento. È naturale che non riesca a capire i tuoi discorsi matematici. Sono una semplice storica, e neppure un’esperta di storia della scienza. Quello che adesso occupa il mio tempo è l’influenza dei mutamenti economici sugli sviluppi politici.»
«Lo so, e in questo campo sono io la tua cassa di risonanza, o non te ne eri accorta? Al momento giusto i tuoi studi mi serviranno per la psicostoria, quindi sospetto che finirai col rivelarti un aiuto indispensabile per me.»
«Bene! Adesso che abbiamo chiarito perché continui a rimanere con me, e lo sapevo che non poteva essere solo a causa della mia bellezza eterea, lascia che ti spieghi come in certe occasioni, quando i tuoi resoconti varcano i ristretti confini della matematica pura e semplice, io ho l’impressione di capire a cosa stai mirando. In diverse occasioni mi hai spiegato quella che tu definisci la necessità del minimalismo. Questo credo di capirlo. Parlando di minimalismo tu vuoi dire...»
«Io so quello che voglio dire.»
Dors assunse un’espressione offesa. «Cerca di mostrarti meno altezzoso, ti prego, Hari. Non sto cercando di spiegarlo a te. Voglio spiegarlo a me stessa. Dici di essere la mia cassa di risonanza, quindi comportati come tale. Per una volta possiamo invertire le parti, non credi?»
«Invertire le parti mi sta benissimo, ma se intendi accusarmi di essere altezzoso solo perché mi concedo una innocua...»
«Basta! Smettila! Mi hai detto che il minimalismo è della massima importanza nella psicostoria applicata, cioè nell’arte di tentare di trasformare uno sviluppo indesiderato in uno desiderabile, o almeno in uno meno indesiderato. Hai detto che il cambiamento da applicarsi deve essere il più piccolo, il minore possibile.»
«Esatto,» disse Seldon ansiosamente «e questo perché...»
«No, Hari, adesso sto cercando di spiegarlo io. Sappiamo benissimo tutti e due che capisci la necessità di questo punto. Devi ricorrere al minimalismo perché ogni mutamento, qualsiasi mutamento ipotizzabile, possiede una miriade di effetti collaterali che non sempre sono accettabili. Se il mutamento fosse troppo grande e gli effetti collaterali troppo numerosi, il risultato complessivo si allontanerebbe di gran lunga da qualunque cosa avevi progettato, con il rischio di trasformarsi in qualcosa di completamente imprevedibile.»
«Giusto. Questo è il fulcro essenziale di un effetto caotico. Il problema sta nello stabilire se ogni mutamento sia abbastanza piccolo da rendere le conseguenze ragionevolmente prevedibili, o se la storia umana sia inevitabilmente e immutabilmente caotica sotto ogni suo aspetto. È stato questo, fin dall’inizio, a farmi pensare che la psicostoria non fosse...»
«Lo so, ma continui a impedirmi di arrivare al punto. Il problema non è sapere se ogni mutamento sarebbe abbastanza piccolo per soddisfare le condizioni di partenza. Il problema è che ogni mutamento superiore a quello minimo è caotico. Il minimo necessario potrebbe essere uguale a zero, ma, se non fosse zero, dovrebbe risultare ugualmente molto piccolo, e potrebbe risultare alquanto difficile individuare un mutamento abbastanza piccolo e al tempo stesso diverso da zero in modo significativo. Questo, da quanto ne capisco, è ciò che tu intendi dire parlando di necessità del minimalismo.»
«Più o meno. Ovviamente, come sempre, il problema si può esprimere in modo più compatto e rigoroso in linguaggio matematico. Per esempio, qui...»
«Risparmiami» lo supplicò Dors. «Comunque, visto che conosci così bene la psicostoria, dovresti conoscere anche Demerzel. Tu possiedi la conoscenza ma non la comprensione, perché apparentemente non ti viene in mente di applicare le regole della psicostoria alle Leggi della Robotica.»
A questa accusa Seldon rispose debolmente: «Ora sono io a non capire a cosa stai mirando».
«Anche lui ha bisogno del minimalismo, non è vero, Hari? Secondo la Prima Legge della Robotica, un robot non può causare danni a un essere umano. Questa di solito è la regola primaria di un robot comune, ma Demerzel è qualcosa di diverso e per lui la Legge Zero è una realtà e ha la precedenza anche sulla Prima Legge. La Legge Zero dice che un robot non può causare danni all’umanità intesa nel suo complesso. Ma questo pone Demerzel al centro delle stesse limitazioni che bloccano te quando lavori alla psicostoria. Adesso capisci?»
«Sto cominciando.»
«Lo spero proprio. Se Demerzel ha il potere di influenzare le menti, deve farlo in modo tale da non causare effetti collaterali che non desidera e, siccome è il primo ministro dell’imperatore, gli effetti collaterali che deve prendere in considerazione sono innumerevoli.»
«La qual cosa si applica anche al mio caso.»
«Riflettici un istante! Non puoi dire a nessuno, tranne a me naturalmente, che Demerzel è un robot, proprio perché ti ha manipolato per impedirtelo. Ma quanto ti ha manipolato? Tu vorresti dire a tutti che lui è in realtà un robot? Vorresti rovinare la sua posizione, quando sei sotto la sua protezione, dipendi da lui per l’approvazione dei tuoi finanziamenti, per l’influenza che viene esercitata di nascosto a tuo vantaggio? No di certo. Ti ha dovuto manipolare molto poco, solo quel tanto che bastava per impedirti di farti scappare la verità in un momento di agitazione o di disattenzione. È una modifica così minuscola che non vi sono particolari effetti secondari. È così che Demerzel tenta di far funzionare l’impero.»
«E il caso di Joranum?»
«È completamente diverso dal tuo. Per qualche motivo, è indubbiamente un accanito oppositore di Demerzel. Sicuramente Demerzel potrebbe alterare le sue idee, ma così facendo darebbe un forte scossone alla mentalità di Joranum con il rischio quasi certo di provocare risultati che non sarebbe in grado di prevedere. Piuttosto che correre il rischio di causare dei danni a Joranum, di produrre effetti collaterali che potrebbero danneggiare altre persone e, probabilmente, tutta l’umanità, deve lasciare tranquillo Joranum fino a quando non troverà una piccola alterazione, una minuscola modifica che risolverà la situazione senza causare danni a nessuno. È per questo che Yugo ha ragione, e questo è anche il motivo per cui Demerzel è vulnerabile.»
Seldon aveva seguito il discorso con attenzione, ma a quel punto non ribatté. Sembrava perso nei suoi pensieri. Passarono lunghi minuti prima che parlasse ancora. «Se Demerzel non può fare niente al riguardo, allora devo pensarci io.»
«Se lui non può fare niente, cosa puoi fare tu?»
«La situazione è diversa, non devo attenermi alle Leggi della Robotica. Non devo preoccuparmi ossessivamente del minimalismo e per prima cosa, devo incontrarlo.»
Dors sembrava un po’ preoccupata. «Devi? Non sarebbe certo saggio pubblicizzare un contatto fra voi due.»
«Abbiamo ormai raggiunto una fase nella quale non possiamo più fingere che non esistano contatti. Naturalmente, non andrò a incontrarlo preceduto da squilli di trombe e da un annuncio in olovisione, ma devo vederlo.»
5
Seldon era irritato dal passare del tempo. Otto anni prima, quando aveva messo per la prima volta piede su Trantor, poteva agire immediatamente. Aveva solo una stanza d’albergo e il suo contenuto da abbandonare, e poteva attraversare liberamente tutti i settori di Trantor.
Ora si trovava ostacolato da riunioni di facoltà, doveva prendere delle decisioni, portarsi avanti col lavoro. Non poteva mollare tutto per vedere Demerzel e, anche se avesse potuto, il primo ministro aveva numerosi impegni. Trovare un periodo in cui fosse possibile incontrarsi non era facile.
E non era nemmeno facile sopportare Dors che scuotendo la testa gli continuava a dire: «Non riesco a capire cos’hai intenzione di fare».
Lui rispondeva con impazienza: «Nemmeno io ne ho la più pallida idea, Dors. Spero di saperlo quando incontrerò Demerzel».
«Tutti i vostri sforzi devono essere dedicati alla psicostoria. Senza dubbio ti dirà questo.»
«Forse. Lo scoprirò presto.»
Poi, non appena riuscì a fissare una data per l’incontro, otto giorni da allora, sullo schermo a muro del suo ufficio ricevette un messaggio composto da caratteri piuttosto arcaici. Il messaggio stesso non era meno antiquato. “Anelo l’onore di un’udienza con il professor Hari Seldon.”
Seldon fissò la frase pieno di stupore. Ormai non ci si rivolgeva nemmeno all’imperatore con quel genere di frasi vecchio di secoli.
La firma, poi, non appariva in caratteri tipografici per amore di chiarezza. Era scritta a mano e ornata da un tale svolazzo che, pur lasciandola perfettamente leggibile, le conferiva l’aspetto di un’opera d’arte scarabocchiata da un maestro. La firma era LASKIN JORANUM. Lo stesso Jo-Jo che “anelava l’onore di un’udienza”.
Seldon ridacchiò un poco. Era facilmente comprensibile la scelta delle parole e dello stile. Rendevano una semplice richiesta un vero e proprio strumento per attizzare la curiosità. Seldon non ardeva dal desiderio di incontrare quella persona e in circostanze normali non ne avrebbe cercato l’occasione. Ma cosa potevano significare l’arcaismo e lo sforzo artistico? Voleva scoprirlo.
Disse alla sua segretaria di fissare la data e il luogo dell’incontro. Si sarebbero incontrati in ufficio, non di certo a casa sua. Un colloquio di lavoro, niente di personale.
E si sarebbero visti prima del suo incontro con Demerzel.
«Non mi sorprende, Hari» gli disse Dors «hai ferito due suoi uomini, uno dei quali è il suo principale assistente; gli hai rovinato un piccolo incontro che stava tenendo; l’hai fatto sembrare, prendendoti gioco dei suoi subalterni, uno stupido. Vuole darti un’occhiata, e credo che sarebbe meglio se fossi presente anch’io.»
Seldon scosse il capo. «Porterò Raych con me. Conosce tutti i trucchi che gli ho insegnato, è un ventenne forte e svelto. Anche se sono sicuro che non avrò bisogno di protezione.»
«Come puoi esserne così certo?»
«Viene a incontrarmi sul terreno dell’università. Ci saranno molti giovani nelle vicinanze. Non sono proprio un personaggio impopolare presso il corpo studentesco e sospetto che Joranum sia il tipo di persona che conosce il proprio mestiere e sa che sarò al sicuro sul mio terreno. Senza dubbio sarà perfettamente gentile, molto amichevole.»
«Umf» sbuffò Dors arricciando leggermente un angolo delle labbra.
«E animato da intenzioni mortali» terminò Seldon.
6
Hari Seldon rimase impassibile e chinò il capo quel poco che bastava per un cenno di ragionevole cortesia. Si era preso la briga di esaminare diversi ologrammi di Joranum, ma, come succedeva spesso, l’oggetto reale, cambiando continuamente in risposta alle mutevoli condizioni ambientali, non era mai del tutto identico a un ologramma, per quanto meticolosamente preparato. Forse, pensò Seldon, è la risposta dello spettatore all’“originale” che fa la differenza.
Joranum era un uomo alto, almeno quanto Seldon, ma appariva più grosso. Non era questione di muscoli poiché dava una sensazione di mollezza, pur senza essere propriamente grasso. Aveva il viso tondo, una folta massa di capelli fra il biondo e il rossiccio, occhi azzurro chiaro. Indossava una tuta poco appariscente e il suo viso ostentava un mezzo sorriso che dava l’illusione della cordialità, pur facendo capire in qualche modo che era solo un’illusione.
«Professor Seldon.» La sua voce era profonda e perfettamente controllata, la voce di un oratore. «Sono lietissimo di fare la sua conoscenza. È stato gentile da parte sua consentire questo incontro. Spero che non si offenderà se ho portato con me un compagno, uno dei miei principali assistenti, senza avvertirla in anticipo della sua presenza. Si chiama Gambol Deen Namarti: tre nomi, come noterà. Credo che lo abbia già conosciuto.»
«Sì, infatti. Ricordo bene il nostro incontro.» Seldon osservò Namarti con una certa ironia. Era l’uomo che aveva cercato di parlare nel Campo dell’università e, adesso che la situazione era più tranquilla, Seldon lo esaminò attentamente. Era di altezza media, con il viso magro, la carnagione pallida, i capelli scuri e la bocca larga. Lui non esibiva mezzi sorrisi o qualsiasi evidente espressione, tranne un’aria di guardinga circospezione.
«Il mio amico, il dottor Namarti, è laureato in Letteratura antica. È venuto dietro sua esplicita richiesta» disse Joranum intensificando il suo sorriso «per scusarsi.»
Lanciò una rapida occhiata a Namarti e questi, dopo aver serrato per un istante le labbra, disse con voce incolore: «Sono spiacente, professore, per quanto è accaduto. Non ero perfettamente a conoscenza dei severi regolamenti che controllano le riunioni all’interno dell’università e mi sono lasciato trasportare dall’entusiasmo».
«È comprensibile» disse Joranum. «Inoltre, Namarti non era del tutto a conoscenza della sua identità. Penso che ora potremo dimenticare questo piccolo incidente.»
«Vi assicuro, signori,» disse Seldon «che da parte mia non sono affatto ansioso di conservarlo fra i miei ricordi. Questo è mio figlio, Raych Seldon, quindi come vedete ho anch’io un compagno.»
Raych portava un paio di baffi neri e folti, il contrassegno virile degli originari del settore di Dahl. Non li aveva otto anni prima, in occasione del suo primo incontro con Seldon, quando era un monello di strada cencioso e affamato. Non era alto, ma snello e nervoso, ed esibiva quell’espressione leggermente sprezzante che aveva adottato per aggiungere qualche centimetro spirituale alla sua altezza fisica.
«Buongiorno, giovanotto» disse Joranum.
«Buongiorno, signore» disse Raych.
«Accomodatevi, prego» disse Seldon. «Posso offrirvi qualcosa da bere o da mangiare?»
Joranum sollevò una mano in gesto di cortese rifiuto. «No, professore. Questa non è una visita di cortesia.» Si sedette nel posto che gli venne indicato. «Anche se spero che ve ne saranno molte in futuro.»
«Se allora dev’essere un incontro di lavoro, iniziamo.»
«Sono stato informato, professor Seldon, del piccolo incidente che lei ha così gentilmente accettato di dimenticare e mi sono chiesto perché abbia affrontato il rischio di fare ciò che ha fatto. Perché è stato un rischio, lo ammetterà.»
«A dire il vero, non ho mai avuto questa impressione.»
«Ma io sì. Quindi mi sono preso la libertà di scoprire tutto ciò che potevo sul suo conto, professore. Lei è un uomo interessante. Originario di Helicon, ho scoperto.»
«Sì, sono nato là. I dati negli archivi sono precisi in proposito.»
«E si trova su Trantor da otto anni.»
«Anche questa è una notizia di pubblico dominio.»
«E subito dopo il suo arrivo è diventato famoso presentando una relazione matematica sulla, come la chiama?, psicostoria.»
Seldon scosse leggermente il capo. Quante volte aveva rimpianto quell’indiscrezione? Naturalmente, all’epoca, ignorava che fosse tale. «Un entusiasmo giovanile. Non ha dato alcun frutto.»
«Davvero?» Joranum si guardò intorno con un’aria di compiaciuta sorpresa. «Eppure lei è qui, a capo della facoltà di Matematica di una delle più importanti università trantoriane, a soli quarant’anni, se non sbaglio. Io ne ho quarantadue, fra l’altro, quindi non la considero di sicuro molto vecchio. Deve essere un matematico particolarmente bravo per occupare questa carica.»
Seldon alzò le spalle. «Non sono il più indicato a esprimere un giudizio.»
«Oppure deve avere amici potenti.»
«Vorremmo tutti avere amici potenti, signor Joranum, ma io credo che qui dentro non ne troverà nemmeno uno. Raramente i docenti universitari hanno amici potenti, o addirittura, come spesso penso, amici di qualsiasi genere.» Sorrise.
Joranum fece lo stesso. «Non considera l’imperatore un amico potente, professor Seldon?»
«Certamente, ma cos’ha a che fare l’imperatore con me?»
«Ho l’impressione che l’imperatore sia suo amico.»
«Sono sicuro che fra i dati che avrà consultato, signor Joranum, figura il fatto che ho avuto un’udienza con sua maestà imperiale otto anni fa. È durata forse un’ora o poco meno e, in quell’occasione, non ho notato in lui alcun segno di grande simpatia. Da allora non ho più avuto modo di parlargli né l’ho più visto, se non in olovisione, naturalmente.»
«Tuttavia, professore, non è necessario vedere o parlare con l’imperatore per averlo come potente amico. È sufficiente vedere o parlare con Eto Demerzel, il primo ministro dell’imperatore. Demerzel è il suo protettore e, in questo caso, possiamo benissimo dire che lo è anche l’imperatore.»
«Ha trovato qualche traccia di questa ipotetica protezione del primo ministro? O qualsiasi altra informazione dalla quale sia possibile dedurre qualcosa di simile?»
«Perché frugare nelle banche dati dei computer quando è risaputo che esiste un collegamento fra voi due? Lei lo sa e lo so anch’io. Diamo la cosa per scontata e proseguiamo. E la prego» sollevò entrambe le mani «non si affanni a negare appassionatamente. Sarebbe una perdita di tempo.»
«A essere sincero» disse Seldon «volevo chiederle perché dovrebbe pensare che il primo ministro mi protegge. Per quale scopo lo farebbe?»
«Professore! Cerca di insultarmi fingendo di credere che io sia un mostro di ingenuità? Ho menzionato la sua psicostoria, che Demerzel vuole ottenere per sé.»
«E io le ho detto che era una fantasia giovanile sfumata nel nulla.»
«Può dirmi molte cose, professore, ma io non sono obbligato a crederle. Andiamo, mi permetta di parlarle in tutta franchezza. Ho letto la sua relazione nella versione originale e ho cercato di capirla con l’aiuto di alcuni matematici del mio staff. Loro sostengono che sia un sogno assurdo e del tutto impossibile.»
«Sono pienamente d’accordo con lei.»
«Ma io ho la sensazione che Demerzel stia aspettando che questa scienza venga sviluppata e messa in grado di funzionare. E se lui può aspettare, posso farlo anch’io. A lei tornerebbe molto più utile, professor Seldon, se anch’io stessi ad aspettare.»
«Perché afferma questo?»
«Perché Demerzel non conserverà ancora per molto la sua posizione. L’opinione pubblica si schiera sempre più largamente contro di lui. Può darsi che prima o poi l’imperatore si stanchi di un primo ministro impopolare la cui presenza minaccia di trascinare anche il trono verso la rovina, e che a questo punto decida di trovare un sostituto. Può anche darsi che l’umore dell’imperatore lo spinga a volgere i suoi occhi verso la mia umile persona. E a lei servirà ancora un protettore, qualcuno capace di fare in modo che lei possa lavorare in pace e con tutti i fondi necessari per la sua attrezzatura e gli assistenti.»
«E questo protettore sarebbe lei?»
«Certamente, e per la medesima ragione che spinge Demerzel a esserlo ora. Voglio una tecnica psicostorica efficace che mi consenta di governare l’impero in modo più efficiente.»
Seldon annuì pensieroso, attese qualche istante, poi disse: «Ma in questo caso, signor Joranum, perché dovrei crearmi delle preoccupazioni a tale proposito? Sono un umile studioso, che conduce una vita tranquilla impegnato in innocue attività matematiche e pedagogiche. Lei dice che Demerzel è il mio attuale protettore e che lei prenderà il suo posto in futuro. Posso continuare a occuparmi tranquillamente dei miei studi, allora. Lei e il primo ministro potete scontrarvi a vostro piacere. Chiunque avrà la meglio, sarà sempre mio protettore; o almeno, è così che ha detto».
Il sorriso fisso di Joranum sembrò sbiadire leggermente. Namarti, al suo fianco, rivolse il viso cupo nella sua direzione e fece per dire qualcosa, ma la mano di Joranum si mosse di un centimetro e Namarti tossicchiò senza dire una sola parola.
«Professor Seldon, lei è un patriota?» chiese Joranum.
«Ma certo. L’impero ha donato all’umanità millenni di pace, in massima parte di pace, se non altro, e le ha consentito di progredire costantemente.»
«Questo è vero, ma negli ultimi due secoli i progressi hanno subìto un rallentamento.»
Seldon fece spallucce. «Non ho studiato questi fenomeni.»
«Non è compito suo. Però sa che, politicamente, gli ultimi due secoli sono stati un periodo piuttosto agitato. I regni imperiali sono stati brevi e spesso sono stati accorciati ulteriormente da assassinii...»
«Solo parlare di questo» intervenne Seldon «sconfina nel tradimento. Preferirei che non...»
«Ecco la prova.» Joranum si appoggiò allo schienale della sua poltrona. «Vede quanto è insicuro? L’impero sta crollando. Io sono disposto a dirlo apertamente. Tutti quelli che mi seguono lo fanno a loro volta perché lo sanno fin troppo bene. Abbiamo bisogno di qualcuno che stia a fianco dell’imperatore e che possa controllare l’impero, che riesca a stroncare gli impulsi di ribellione che sembrano nascere ovunque, che fornisca alle forze armate la giusta guida che dovrebbero avere, che riesca a risollevare l’economia...»
Seldon fece un gesto spazientito con il braccio. «E lei sarebbe la persona adatta, non è vero?»
«Ho intenzione di diventarla. Non sarà certo un’impresa facile e dubito che ci sarebbero molti altri volontari, per buoni motivi. Sicuramente Demerzel non è in grado di provvedere al benessere dell’impero. Sotto la sua guida il lento declino imperiale sta diventando un vero e proprio sfacelo.»
«Ma lei è in grado di fermarlo?»
«Sì, professor Seldon. Con il suo aiuto. Con la psicostoria.»
«Forse anche Demerzel potrebbe arrestare il declino dell’impero con la psicostoria. Se solo la psicostoria esistesse.»
Joranum replicò placidamente: «Esiste, non fingiamo che sia un’invenzione fantastica. Tuttavia la sua esistenza non aiuta minimamente Demerzel. La psicostoria è soltanto uno strumento. Bisogna che una mente lo comprenda e che una mano lo impugni».
«E lei avrebbe tanto la mente quanto la mano, devo supporre?»
«Sì. Conosco le mie qualità. Voglio la psicostoria.»
Seldon scosse il capo. «Può volerla quanto le pare. Io non ce l’ho.»
«Lei ce l’ha. Non intendo discutere su questo punto.» Joranum si sporse più vicino quasi volesse insinuare la sua voce dentro l’orecchio di Seldon, invece di consentire alle onde sonore di portarla fin laggiù. «Afferma di essere un patriota. Io devo sostituire Demerzel per evitare la distruzione dell’impero. Tuttavia, il modo usato per operare la sostituzione potrebbe indebolire disperatamente le strutture imperiali già di per sé vacillanti. Questo non lo voglio. Lei può consigliarmi su come raggiungere lo scopo in modo indolore, sottile, senza danni o sofferenze inutili, per il bene dell’impero.»
«Non posso farlo. Lei mi accusa di possedere conoscenze che non ho. Mi piacerebbe esserle d’aiuto, ma veramente non sono in grado.»
Joranum si alzò in piedi di colpo. «Bene, sa come la penso e che cosa voglio da lei. Ci rifletta. E le chiedo di pensare anche all’impero. Probabilmente si potrà sentire in debito nei confronti di Demerzel, a questo distruttore dei milioni di pianeti che ospitano l’umanità. Sia cauto. Quello che lei fa può scuotere le fondamenta stesse dell’impero. Le chiedo di aiutarmi in nome dei trilioni di esseri umani che popolano la galassia. Pensi all’impero.»
La sua voce si era abbassata di tono, trasformandosi in un mezzo sussurro sinuoso e allettante. Seldon si sentì quasi tremare. «Penserò sempre all’impero.»
Joranum concluse: «Allora per il momento non mi rimane altro da chiederle. La ringrazio per aver accettato di incontrarmi».
Seldon lo guardò uscire insieme al suo compagno e, mentre la porta dell’ufficio scivolava silenziosa dietro le loro spalle, aggrottò la fronte. Qualcosa lo disturbava... e non sapeva con certezza che cosa.
7
Gli occhi scuri di Namarti erano fissi su Joranum mentre entrambi sedevano nel loro ufficio accuratamente schermato nel settore di Streeling. Non era un quartier generale molto elegante o ben attrezzato; a Streeling erano ancora piuttosto deboli, ma le loro forze sarebbero cresciute.
Era sorprendente come il movimento si stesse diffondendo. Era iniziato dal nulla tre anni prima e ora i suoi tentacoli si allungavano – in alcuni luoghi più robusti che in altri, naturalmente – su tutto Trantor. I Mondi esterni erano ancora in massima parte terreno vergine. Demerzel aveva lavorato intensamente per mantenere soddisfatte quelle popolazioni, ma proprio questo era stato il suo errore. Era lì a Trantor che le ribellioni riuscivano a essere pericolose. Altrove potevano essere controllate o domate, ma lì, nel cuore dell’impero, Demerzel poteva essere rovesciato. Strano che lui non se ne fosse mai reso conto, ma Joranum aveva sempre sostenuto la teoria che la reputazione di Demerzel fosse gonfiata, che in realtà si sarebbe rivelato un guscio vuoto se qualcuno avesse osato sfidarlo con decisione e che l’imperatore lo avrebbe distrutto in un batter d’occhio se la sua sicurezza fosse stata messa a repentaglio.
Fino a quel momento tutte le previsioni di Joranum si erano realizzate. Non aveva mai dovuto tirarsi indietro se non in casi di scarsa importanza, come nel recente raduno all’Università di Streeling dove era intervenuto quel certo Seldon.
Forse questo spiegava perché Joranum avesse insistito per incontrarlo. Bisognava occuparsi anche degli intralci secondari. Joranum amava crogiolarsi nel suo senso di infallibilità e Namarti doveva riconoscere che pensare a una continua serie di successi era il modo più sicuro per assicurarsi la continuità del successo. La gente tendeva a evitare l’umiliazione del fallimento schierandosi con la parte vincente anche contro la sua stessa opinione.
Ma l’incontro con quel Seldon era stato un successo, oppure un secondo intralcio da aggiungere al primo? Namarti non aveva apprezzato il fatto di essere stato portato fin là per scusarsi umilmente, e non era convinto che la cosa fosse servita granché.
Adesso Joranum se ne stava seduto in silenzio, immerso nelle sue riflessioni, mordicchiandosi la punta di un pollice come se cercasse di succhiarne qualche specie di nutrimento mentale.
«Jo-Jo» disse Namarti a bassa voce. Era una delle pochissime persone che potevano rivolgersi a Joranum con il diminutivo che le folle urlavano instancabili durante i comizi. Era uno dei tanti modi in cui Joranum incoraggiava l’amore della folla, ma in privato esigeva rispetto dalle singole persone, eccettuati quegli amici particolari che erano stati con lui fin dall’inizio.
«Jo-Jo» ripeté.
Joranum alzò gli occhi. «Sì, G.D., cosa c’è?» Sembrava leggermente irritato.
«Cos’hai intenzione di fare per quel Seldon, Jo-Jo?»
«Fare? Nulla, per ora. Può darsi che decida di unirsi a noi.»
«Perché aspettare? Possiamo esercitare pressioni su di lui. Possiamo rivolgerci ad alcuni amici nell’università e rendergli la vita molto difficile.»
«No, no. Fino a questo momento Demerzel ci ha lasciati procedere per la nostra strada. Quel pazzo ha troppa fiducia in se stesso. L’ultima cosa che dobbiamo fare, tuttavia, è spingerlo ad agire prima che la nostra preparazione sia completa. E una mossa troppo pesante contro Seldon potrebbe scatenare una sua reazione. Sospetto che Demerzel consideri Seldon una pedina di enorme importanza.»
«A causa della psicostoria di cui avete parlato?»
«Esatto.»
«Che cos’è? Non l’ho mai sentita nominare.»
«Sono in pochi a saperne qualcosa. È un sistema matematico che serve ad analizzare la società umana allo scopo di predirne il futuro.»
Namarti aggrottò la fronte e sentì il suo corpo allontanarsi impercettibilmente da quello di Joranum. Era uno scherzo? Lui avrebbe dovuto ridere? Namarti non era mai riuscito a capire quando o perché la gente si aspettava da lui una risata. Non provava mai l’impulso di ridere.
«Predire il futuro? E come?»
«Ah! Se lo sapessi, a cosa mi servirebbe Seldon?»
«In tutta sincerità, non ci credo, Jo-Jo. Come si può predire il futuro? È roba da ciarlatani.»
«Lo so, ma dopo che quel Seldon ha rovinato il tuo piccolo raduno, ho fatto compiere qualche ricerca sul suo conto. Otto anni fa è arrivato su Trantor e ha presentato una relazione sulla psicostoria a un Convegno di matematici, dopo di che l’intera faccenda è stata sepolta. Da allora nessuno ha più fatto il benché minimo accenno alla psicostoria. Neppure Seldon.»
«Quindi può darsi veramente che fossero solo sciocchezze prive di valore.»
«Oh, no, semmai il contrario. Se la cosa fosse sfumata lentamente, se fosse stata ridicolizzata, avrei pensato anch’io che erano solo sciocchezze. Ma un taglio così brusco e completo significa che qualcuno ha voluto far calare un silenzio assoluto sull’intera faccenda. Ciò potrebbe spiegare perché finora Demerzel non ha fatto nulla per fermarci. Forse non è guidato da una sciocca, tracotante sicurezza di sé; forse è guidato dalla psicostoria, la quale potrebbe prevedere qualcosa che Demerzel conta di sfruttare al momento giusto. In questo caso potremmo essere sconfitti, a meno di non poter usare noi stessi la psicostoria.»
«Seldon sostiene che non esiste.»
«Non lo diresti anche tu se fossi al posto suo?»
«Io ti ripeto che dovremmo esercitare pressioni su di lui.»
«Sarebbe inutile, G.D., te lo assicuro. Hai mai sentito la storia dell’Ascia di Venn?»
«No.»
«La conosceresti se tu venissi da Nishaya. Sul mio pianeta è una famosa storiella popolare. In breve, Venn era un taglialegna che possedeva un’ascia magica capace, con un solo colpo, di abbattere qualunque albero. Possedeva un valore enorme, ma Venn non faceva mai alcun tentativo di nasconderla o di tenerla al sicuro... e infatti nessuno pensò mai di rubargliela, perché nessuno poteva sollevarla o maneggiarla tranne lo stesso Venn.
«Ebbene, al momento attuale nessuno può usare la psicostoria tranne lo stesso Seldon. Se lo costringessimo con la forza a schierarsi dalla nostra parte, non potremmo mai essere certi della sua lealtà. Magari potrebbe mettere in moto una serie di avvenimenti che a prima vista sembrerebbero operare in nostro favore, ma che in modo sottile finirebbero a lunga scadenza per provocare la nostra improvvisa distruzione. No, deve schierarsi al nostro fianco e lavorare per noi volontariamente, solo perché anche lui desidera la nostra vittoria.»
«Ma come possiamo convincerlo?»
«C’è il figlio di Seldon. Raych, mi pare che si chiami. L’hai osservato?»
«Non in modo particolare.»
«G.D., G.D., non ti rendi conto di quello che perdi se non osservi ogni cosa. Quel giovanotto mi ha ascoltato con il cuore negli occhi. È rimasto colpito, l’ho visto benissimo. Se c’è una cosa che riesco sempre a valutare, è il modo in cui faccio colpo sulla gente. Io so quando ho dato uno scossone a una mente, quando ho avviato qualcuno verso la conversione.»
Joranum sorrise. Non era il finto sorriso venato di condiscendenza delle sue apparizioni pubbliche. Questa volta era un sorriso autentico, gelido, in un certo modo, e minaccioso.
«Vedremo che cosa si può fare con Raych e se, attraverso di lui, potremo arrivare a Seldon.»
8
Dopo che i due politici furono usciti, Raych osservò Seldon gingillandosi con i baffi. Gli dava soddisfazione accarezzarli. Lì nel settore di Streeling alcune persone portavano i baffi, ma di solito erano miserabilmente sottili e di colore incerto; non erano meno miserabili anche quando erano scuri. La maggior parte degli abitanti ne faceva a meno, preferendo soffrire con il labbro superiore nudo. Seldon non li portava, per esempio, ma era meglio così. Con il suo colore di capelli, un paio di baffi sarebbe sembrato qualcosa di posticcio.
Raych lo guardò con una certa ansia, aspettando che si scuotesse dai pensieri che parevano turbinargli numerosi nella mente, e alla fine scoprì di non poter più aspettare oltre.
«Papà!»
Seldon sollevò lo sguardo e chiese: «Cosa c’è?». Sembrava infastidito per aver dovuto interrompere le sue riflessioni, decise Raych.
«Papà, non credo che tu abbia fatto bene a incontrare quei due tipi.»
«Oh? E perché?»
«Be’, quello magro, con i tre nomi, era il tipo al quale hai interrotto il raduno l’altro giorno. Non ne sarà stato molto contento.»
«Ma si è scusato.»
«Non diceva sul serio. Quanto all’altro tipo, quel Joranum... può essere pericoloso. E se fossero stati armati?»
«Cosa? Qui all’università? Nel mio ufficio? Che assurdità. Qui non siamo a Billibotton. E poi, se avessero tentato di giocarci qualche brutto tiro, avrei saputo tenerli a bada tutti e due. Senza fatica.»
«Non lo so, papà» disse Raych dubbioso. «Stai diventando...»
«Non dirlo, razza di mostro ingrato» disse Seldon minacciandolo con un dito. «Mi sembrerebbe di riascoltare tua madre, e da lei ne ho già sentite abbastanza. Io non sto diventando vecchio; o almeno, non così vecchio. E poi, eri presente anche tu, e come torcitore sei quasi alla mia altezza.»
Raych arricciò il naso. «Fare le torsioni non è mica tanto buono.» (Era inutile. Raych sentì le proprie parole e per l’ennesima volta dovette constatare che, pur avendo lasciato da otto anni i bassifondi di Dahl, gli veniva ancora spontaneo parlare in un modo che lo marchiava come un membro di una qualche classe sociale inferiore. E poi era basso, al punto che certe volte si sentiva dimezzato. Ma aveva i suoi baffi, e nessuno lo trattava mai due volte dall’alto in basso.)
«Cosa intendi fare per Joranum?»
«Per ora, nulla.»
«Ascolta, papà, ho visto un paio di volte Joranum in olovisione. Ho perfino registrato su olodischi alcuni suoi discorsi. Tutti parlano sempre di lui, così ho pensato che valesse la pena di sentire quello che aveva da dire, e sai una cosa? Quello che dice non è così insensato. Personalmente non mi piace e non mi fido di lui, ma quello che dice non è sbagliato. Vuole che tutti i settori abbiano uguali diritti e uguali opportunità. In questo non c’è nulla di male, vero?»
«Certo. Tutte le persone civili la pensano in questo modo.»
«Allora perché non abbiamo raggiunto questi obiettivi? L’imperatore non la pensa così? E Demerzel?»
«L’imperatore e il primo ministro devono occuparsi di un impero. Non possono concentrare tutti i loro sforzi soltanto su Trantor. Per Joranum è facile parlare di uguaglianza, perché lui non ha nessuna delle loro responsabilità. Se si trovasse seduto al posto di comando, scoprirebbe che i suoi sforzi verrebbero enormemente diluiti da un impero di venticinque milioni di pianeti. Non solo, ma si troverebbe la via sbarrata a ogni passo dai settori medesimi. Ognuno pretende una grande mole di uguaglianza per sé, ma ne riserva una quantità assai minore agli altri. Dimmi, Raych, sei dell’opinione che Joranum dovrebbe avere un’opportunità di governare, di mostrare quello che sa fare?»
Raych fece spallucce. «Non lo so, chissà. Ma se avesse tentato qualcosa contro di te, gli sarei balzato alla gola prima che potesse muoversi di due centimetri.»
«La tua lealtà nei miei confronti, allora, supera la tua preoccupazione per l’impero.»
«Certo. Tu sei mio padre.»
Seldon guardò Raych con affetto, ma dietro quello sguardo avvertì una traccia di incertezza. Fino a che punto poteva spingersi l’influsso quasi ipnotico di Joranum?
9
Hari Seldon si spinse all’indietro sulla sua poltrona, il cui schienale verticale si inclinò consentendogli di assumere una posizione semisdraiata. Teneva le mani dietro la nuca e gli occhi persi nel vuoto; il suo respiro era impercettibile.
Dors Venabili si trovava all’estremità opposta della stanza, con il visore spento e i microfilm già riordinati al loro posto. Era appena riemersa da un periodo di grande concentrazione dedicato alla revisione delle sue opinioni sull’Incidente di Florina nell’antica storia trantoriana, e adesso trovò riposante abbandonare per qualche istante quell’argomento e speculare sull’oggetto dei pensieri di Seldon.
Doveva essere la psicostoria. Probabilmente lui avrebbe dedicato il resto della sua vita a individuare le scorciatoie di quella tecnica semicaotica e alla fine l’avrebbe lasciata ancora incompleta, passando ad altri il compito (ad Amaryl, se quel giovanotto non si fosse consumato anzitempo nella medesima impresa) e ritrovandosi con il cuore spezzato per la necessità di farlo.
Tuttavia questo gli dava una ragione di vita. Sarebbe vissuto più a lungo con quel problema che lo impegnava in maniera così pressante... e di ciò lei era lieta.
Sapeva che un giorno lo avrebbe perso, e col passare del tempo questo pensiero l’addolorava sempre di più. Non era andata così all’inizio, quando il suo incarico era stato semplicemente quello di proteggerlo per custodire quello che lui sapeva.
In quale momento era diventata una questione di necessità personale? Come potevano esistere necessità così personali? Cosa c’era in quell’uomo che la faceva sentire a disagio quando lui non era a portata dei suoi occhi, anche quando lei sapeva che era al sicuro e che quindi gli ordini profondamente instillati dentro di lei non venivano richiamati in azione? La sicurezza di Hari era l’unica cosa alla quale lei era stata assegnata. Come facevano a intromettersi quelle altre cose?
Parecchio tempo prima, quando la sensazione si era fatta inconfondibile, ne aveva parlato con Demerzel.
Fissandola gravemente, lui aveva detto: «Sei una creatura complessa, Dors, e non esistono risposte semplici. Nella mia vita ci sono stati numerosi individui la cui presenza mi ha reso più facile pensare, e più piacevole fornire le mie risposte. Ho cercato di valutare la facilità delle mie risposte in loro presenza e il disagio delle mie risposte dopo la loro scomparsa finale per vedere se avevo guadagnato oppure perso qualcosa. Nel corso di questa valutazione un elemento è divenuto chiaro. La piacevolezza della loro compagnia superava il rimpianto per la loro scomparsa. Nel complesso, quindi, è meglio provare ciò che tu stai provando ora, invece del contrario».
Dors pensò: “Un giorno Hari lascerà un vuoto, e ogni giorno che passa quel giorno si avvicina, e io non devo pensarci”.
Fu per liberarsi di quel pensiero che alla fine interruppe le riflessioni del marito: «A cosa stai pensando, Hari?».
«Come?» Seldon rimise a fuoco gli occhi con uno sforzo evidente.
«Alla psicostoria, immagino. Scommetto che hai individuato un altro percorso cieco.»
«Oh, andiamo. Non mi passava neppure per la mente.» Di colpo scoppiò a ridere. «Vuoi sapere a cosa stavo pensando?... Ai capelli!»
«Ai capelli? Di chi?»
«Ai tuoi, naturalmente.» La fissava con affetto.
«Hanno qualcosa che non va? Dovrei tingerli di un altro colore? O magari, dopo tutti questi anni, dovrebbero diventare grigi?»
«Ma via! Chi ha voglia di vedere del grigio nei tuoi capelli?... No, questo mi ha condotto ad altri pensieri. A Nishaya, per esempio.»
«Nishaya? Che cos’è?»
«Non ha mai fatto parte del regno di Trantor precedente all’impero, quindi non mi sorprende che tu non lo conosca. È un mondo, un piccolo pianeta. Isolato. Insignificante. Trascurato. Io ne so qualcosa solo perché mi sono preso la briga di fare qualche ricerca. Pochissimi mondi su un totale di venticinque milioni possono vantarsi di aver lasciato qualche traccia duratura nella storia umana, ma dubito che esista un pianeta più insignificante di Nishaya. Il che rappresenta un punto significativo, capisci.»
Dors spinse da un lato il suo materiale di consultazione e disse: «Cos’è questa tua nuova predilezione per i paradossi, che mi dici sempre di detestare? Cosa c’è di significativo nell’essere insignificante?».
«Oh, i paradossi non mi infastidiscono quando il colpevole della loro creazione sono io. Vedi, Joranum proviene da Nishaya.»
«Ah, ti stai dedicando a Joranum.»
«Già. Ho guardato alcuni suoi discorsi dietro insistenza di Raych. Non hanno molto senso, ma sospetto che con l’aggiunta della sua voce possano risultare quasi ipnotici. Raych è molto colpito dalle sue parole.»
«Qualunque originario di Dahl lo sarebbe, Hari. Il continuo richiamo di Joranum all’uguaglianza dei settori può esercitare un autentico fascino sui poveri cistermisti. Ricordi la nostra permanenza a Dahl?»
«La ricordo benissimo, e naturalmente non biasimo il ragazzo. Però mi dà da pensare il fatto che Joranum provenga da Nishaya.»
Dors alzò le spalle. «Be’, Joranum deve pur arrivare da qualche posto, e a sua volta Nishaya, come ogni altro mondo dell’impero, deve pur mandare altrove i suoi abitanti, perfino su Trantor.»
«D’accordo, ma, come ho detto, mi sono preso la briga di indagare su Nishaya. Sono perfino riuscito a stabilire un contatto via iperspazio con un funzionario minore... la qual cosa è costata una considerevole somma di denaro che, in tutta coscienza, non posso addebitare alla facoltà.»
«E hai scoperto qualcosa che valeva la spesa?»
«Penso proprio di sì. Tu sai che Joranum racconta sempre storielle per sottolineare i punti che gli interessano, storielle che sono note a tutti sul suo pianeta natale. Qui su Trantor è un espediente che gli frutta parecchio, perché lo fa apparire come un uomo del popolo, ricco di antica sapienza e di filosofia domestica. Sono storielle che abbondano in tutti i suoi discorsi. Gli attribuiscono l’aura di un uomo giunto da un piccolo pianeta, cresciuto in una fattoria solitaria al centro di un’ecologia non ancora domata. Alla gente questo piace, soprattutto ai trantoriani, i quali preferirebbero morire piuttosto di trovarsi intrappolati da qualche parte in mezzo a un’ecologia non ancora domata, ma amano lo stesso sognare qualcosa di simile.»
«Ma tutto questo a cosa ti porta?»
«Il punto strano è che nessuna delle sue storielle era familiare alla persona con la quale ho parlato su Nishaya.»
«Questo non è significativo, Hari. Forse è un mondo piccolo, ma è pur sempre un mondo. Ciò che può essere di conoscenza comune nel settore dove è nato Joranum può non esserlo nel luogo da cui proviene il tuo funzionario.»
«No, no. Le storie popolari, in una forma o in un’altra, di solito sono diffuse su un intero pianeta. Ma a parte questo, ho fatto una notevole fatica a capire quell’uomo. Parlava il galattico standard con un accento spaventoso. Ho parlato con qualche altra persona di quel mondo, solo per controllare, e avevano tutte il medesimo accento.»
«E allora?»
«Joranum non ha quell’accento. Parla un trantoriano decisamente buono. Molto migliore del mio. Io conservo ancora l’accentuazione heliconiana della lettera “R”. Lui no. Stando alle notizie di archivio, è arrivato su Trantor quando aveva diciannove anni. A mio parere, è impossibile parlare per diciannove anni della propria vita quella barbarica versione del galattico standard in uso su Nishaya e poi arrivare su Trantor e perdere ogni traccia di quell’accento. A prescindere dal tempo trascorso qui, qualche lascito doveva sopravvivere. Pensa a Raych e alle sue inflessioni dahlite, e lui è arrivato qui quando aveva solo dodici anni.»
«Cosa deduci da tutto questo?»
«Ciò che ne deduco, ciò su cui non ho fatto che riflettere tutta la sera come una macchina per deduzioni è che Joranum non proviene da Nishaya. Anzi, credo che abbia scelto Nishaya come pianeta d’origine perché si tratta di un mondo periferico, così fuori mano da sconsigliare a chiunque di eseguire dei controlli. Deve aver svolto un’accurata ricerca col computer per individuare il mondo più adatto a evitargli di essere smentito.»
«Ma questo è ridicolo, Hari. Perché dovrebbe fingere di venire da un mondo che non è il suo? Questo comporterebbe un gran lavoro di falsificazione delle registrazioni negli archivi.»
«E questo è per l’appunto ciò che deve aver fatto. Probabilmente avrà abbastanza seguaci negli uffici dello stato civile per rendere possibile la cosa. È probabile che nessuna singola persona abbia apportato grosse modifiche individualmente, e tutti sono troppo fanatici per parlarne.»
«Ma rimane sempre l’interrogativo più importante... Perché?»
«Perché sospetto che non voglia far sapere alla gente da dove proviene veramente.»
«Perché non dovrebbe? Tutti i mondi dell’impero sono uguali in fatto di leggi e di costumi.»
«Questo non lo so. Le teorie come quelle di Joranum, piene di alti ideali, non nascono mai sul serio dalla vita reale.»
«Allora da dove viene? Hai qualche idea?»
«Sì. Il che ci riconduce alla faccenda dei capelli.»
«Cosa c’entrano i capelli?»
«Quando ho incontrato Joranum, sono rimasto seduto a guardarlo con una sensazione di disagio, e non riuscivo a individuarne il motivo. Poi, alla fine, mi sono reso conto che erano i suoi capelli a infastidirmi. Avevano qualcosa di strano, una lucentezza, un aspetto così rigoglioso e perfetto che non avevo mai visto prima. Allora ho capito: i suoi capelli sono artificiali, fatti crescere con molte cure sulla cute che in origine doveva esserne completamente priva.»
«Completamente priva?» Le palpebre di Dors si strinsero, era evidente che aveva afferrato il punto. «Vuoi dire...»
«Sì, voglio dire proprio questo. Proviene da Micogeno, il settore di Trantor sprofondato nel passato e nella sua mitologia. È questo che Joranum si sforza di nascondere.»
10
Dors Venabili meditò freddamente sulla faccenda. Era il suo unico modo di pensare o riflettere, i lampi accecanti delle emozioni non erano per lei.
Chiuse gli occhi per concentrarsi. Erano trascorsi otto anni da quando lei e Hari avevano visitato Micogeno, e anche allora non si erano fermati molto. C’era stato ben poco da ammirare, all’infuori del cibo.
Le immagini tornarono. La società rigida, puritana, maschilista; l’enfasi sul passato; la rimozione di ogni pelo dal corpo, con un doloroso procedimento deliberatamente autoimposto, per diventare diversi dagli altri e poter sempre “sapere chi erano”; le loro leggende; i loro ricordi (o fantasie) di un’epoca nella quale avevano dominato la galassia, quando le loro vite erano molto più lunghe e i robot esistevano ancora.
Riaprì gli occhi e disse: «Perché, Hari?».
«Perché cosa, mia cara?»
«Perché dovrebbe fingere di non venire da Micogeno?»
Dors non pensava che Hari potesse ricordare Micogeno in modo più particolareggiato di lei; anzi, sapeva che non gli era possibile farlo, ma d’altro canto la mente di Hari era migliore della sua... diversa, senz’altro. La sua era una mente in grado soltanto di ricordare e di trarre le ovvie inferenze un po’ come una catena di deduzione matematica. Lui, invece, possedeva una mente capace di balzi inaspettati. A Seldon piaceva fingere che l’intuizione fosse una prerogativa esclusiva del suo assistente, Yugo Amaryl, ma Dors non si lasciava ingannare. Seldon amava posare come il matematico distaccato dalla realtà che osservava il mondo con occhi eternamente pieni di domande, ma lei non si lasciava ingannare nemmeno su questo punto.
«Perché ha nascosto il fatto di venire da Micogeno?» insistette Dors mentre lui se ne restava seduto immobile, con lo sguardo concentrato che Dors associava sempre ai suoi tentativi di spremere qualche altra goccia utile dai concetti della psicostoria.
Finalmente Seldon rispose: «Micogeno è una società dura e rigida, che impone limiti enormi. Logico che al suo interno esistano sempre individui capaci di reagire al suo modo dittatoriale di imporre ogni azione e ogni pensiero, individui che si accorgono di non essere stati del tutto schiacciati da tanto rigore, che vogliono le maggiori libertà disponibili nel mondo secolare esterno. È comprensibile».
«E poi si fanno crescere i capelli artificiali?»
«No, non sempre. Il “fuggiasco” medio – è così che i micogenesi chiamano i disertori, e ovviamente li disprezzano – porta una parrucca. È molto più semplice, ma assai meno efficace. I fuggiaschi più seri si fanno crescere capelli falsi, o almeno così si dice. Il procedimento è difficile e costoso, ma il risultato è quasi indistinguibile da una capigliatura naturale. Non avevo mai incontrato uno di loro, pur avendone sentito parlare. Ho trascorso anni a studiare tutti gli ottocento settori di Trantor, nel tentativo di stabilire le regole e le equazioni basilari della psicostoria. Sfortunatamente non posso esibire risultati pratici di tutti questi studi, ma in compenso ho imparato parecchie cose.»
«Ma perché, allora, i fuggiaschi devono nascondere il fatto di essere originari di Micogeno? Che io sappia non sono perseguitati.»
«No, affatto. Anzi, non esiste alcun preconcetto secondo il quale i micogenesi sarebbero inferiori. È qualcosa di peggio. I micogenesi non vengono presi sul serio. Sono intelligenti, tutti lo riconoscono, dignitosi, colti, bene educati, degli autentici maghi col cibo, quasi spaventosi per la loro capacità di mantenere prospero e produttivo il loro settore, ma nessuno li prende mai sul serio. Le loro credenze e i loro miti appaiono ridicoli, umoristici e incredibilmente stupidi alla gente esterna a Micogeno. E questo giudizio investe anche i micogenesi fuggiaschi. Un colpo di stato micogenese per impadronirsi del governo finirebbe soffocato dalle risate. Essere temuti non è un peso. Essere disprezzati può risultare certe volte sopportabile, ma essere derisi apertamente è fatale. Joranum vuole essere primo ministro, quindi deve avere i capelli e, per essere a suo agio, deve presentarsi come il rampollo del mondo più insignificante e più lontano possibile da Micogeno.»
«Ma esistono anche persone calve per natura.»
«Non sono mai così totalmente depilate come i micogenesi si costringono a essere. Sui Mondi esterni, la cosa non avrebbe grande peso. Micogeno è poco più di un sussurro lontano su qualsiasi altro mondo. I micogenesi formano una comunità estremamente chiusa, ed è raro trovarne uno che abbia mai lasciato Trantor. Qui sul pianeta imperiale, però, le cose vanno in modo diverso. Certe persone possono essere calve, ma di solito conservano qualche traccia di pelo che le distingue dai micogenesi... o magari si fanno crescere la barba o i baffi. Quei rari individui veramente privi di peli, di solito per una condizione patologica, sono sfortunati. Scommetto che devono andarsene in giro con un certificato medico che dichiari che non sono micogenesi.»
Dors, accigliata, disse: «Tutto questo può esserci utile?».
«Non ne sono sicuro.»
«Non potresti far sapere in giro che è un micogenese?»
«Penso che non sarebbe così facile. Deve aver nascosto molto bene le sue tracce, e anche se questo fosse possibile...»
«Sì?»
Seldon alzò le spalle. «Non voglio innescare un appello alla discriminazione. La situazione sociale su Trantor è già abbastanza pesante senza che io corra il rischio di scatenare passioni che né io né chiunque altro saprebbe poi controllare. Se dovrò utilizzare la faccenda di Micogeno, sarà solo come ultima risorsa.»
«Allora vuoi anche il minimalismo.»
«Certamente.»
«Quindi cosa farai?»
«Ho quell’appuntamento con Demerzel. Forse lui saprà cosa fare.»
Dors lo fissò con uno sguardo tagliente. «Hari, stai cadendo nella trappola di aspettarti che Demerzel risolva tutti i problemi al posto tuo?»
«No, ma forse risolverà questo.»
«E in caso contrario?»
«Allora dovrò pensare a qualcos’altro, non trovi?»
«Qualcosa di che genere?»
Un’espressione addolorata attraversò il viso di Seldon. «Dors, non lo so. Non aspettarti anche tu che possa risolvere tutti i problemi.»
11
Eto Demerzel non veniva visto spesso in pubblico. Restare dietro le quinte faceva parte della sua politica per svariate ragioni, una delle quali era il fatto che il suo aspetto mutava pochissimo con il passare del tempo.
Eccettuato qualche rapido passaggio in olovisione (che chiunque su Trantor poteva cogliere, di quando in quando), Hari Seldon non lo vedeva da diversi anni e non gli parlava davvero in privato fin dai primi tempi della sua permanenza su Trantor.
Tenuto conto del recente nonché sgradevole incontro di Seldon con Laskin Joranum, tanto Seldon quanto Demerzel avevano preferito evitare qualsiasi forma di pubblicità per il loro scambio di idee. Una visita di Hari Seldon nell’ufficio del primo ministro all’interno del palazzo imperiale non sarebbe certo passata inosservata, così per ragioni di sicurezza avevano stabilito di vedersi in un piccolo ma lussuoso appartamento presso l’albergo Ai Confini della Cupola, appena fuori dai terreni del palazzo.
Vedere Demerzel adesso gli riportò alla memoria i vecchi tempi con una fitta dolorosa. Il semplice fatto che Demerzel avesse lo stesso identico aspetto di allora rese più acuta quella fitta. Il viso aveva ancora i lineamenti forti e regolari, lui era ancora alto e robusto, con gli stessi capelli scuri dai riflessi vagamente biondi. Non era un bell’uomo, ma spiccava per la sua aria seria. Assomigliava all’immagine ideale che chiunque avrebbe potuto farsi di un primo ministro imperiale, ed era completamente diverso dai ritratti di tutti i suoi predecessori. Era il suo aspetto, pensò Seldon, a donargli almeno metà del potere che esercitava sull’imperatore, e di conseguenza sulla corte imperiale e su tutto l’impero.
Demerzel avanzò verso di lui, le labbra incurvate in un sorriso gentile che tuttavia non sembrava modificare la dignitosa gravità della sua espressione.
«Hari. È un piacere vederti. Temevo che avresti cambiato idea e annullato l’appuntamento.»
«Io temevo molto di più che lei lo avrebbe cancellato, primo ministro.»
«Eto, se hai paura di usare il mio vero nome.»
«Non potrei. Non mi uscirebbe mai dalle labbra, lo sa.»
«Con me, sì. Dillo, mi piacerebbe sentirlo.»
Seldon esitò, come se non potesse credere che le sue labbra fossero capaci di formulare quelle lettere o le sue corde vocali di renderle udibili. «Daneel» disse, finalmente.
«R. Daneel Olivaw» precisò Demerzel. «Sì, cenerai con me, Hari. In questo modo non sarò costretto a mangiare e per me sarà un sollievo.»
«Con piacere, anche se un pasto solitario non è proprio la mia idea di un incontro conviviale. Però un boccone o due...»
«Per farti piacere.»
«Comunque, non posso fare a meno di chiedermi se sia saggio passare troppo tempo insieme.»
«Lo è, ordini imperiali. Sua maestà vuole così.»
«Perché, Daneel?»
«Fra due anni si terrà nuovamente il Convegno decennale di matematica. Mi sembri sorpreso, lo avevi dimenticato?»
«Non proprio, ma non ci avevo ancora pensato.»
«Avevi intenzione di non partecipare? All’ultimo hai fatto sensazione.»
«Già, con la mia psicostoria. Bella sensazione.»
«Hai attirato l’attenzione dell’imperatore. Nessun altro matematico è arrivato a tanto.»
«È stata la tua attenzione a esserne attirata, non quella dell’imperatore. Poi ho dovuto fuggire e nascondermi ai suoi occhi finché non ho potuto assicurarti che avevo già iniziato le mie ricerche psicostoriche, dopo di che mi hai consentito di rimanere in una sicura oscurità.»
«Non chiamerei oscurità l’essere preside di una prestigiosa facoltà di Matematica.»
«E invece si tratta di questo, poiché serve a nascondere la mia psicostoria.»
«Ah, la cena sta arrivando. Cerchiamo di parlare per un po’ di altre cose, come si conviene a due amici. Come sta Dors?»
«Benissimo, un’autentica moglie. Mi ossessiona allo spasimo con le sue preoccupazioni per la mia sicurezza.»
«È il suo lavoro.»
«Me lo ripete anche lei, e spesso. Parlando seriamente, Daneel, non saprò mai dimostrarti abbastanza la mia gratitudine per averci unito.»
«Ti ringrazio, Hari, ma in tutta sincerità non avevo preso in considerazione una possibile felicità coniugale. Anche se potevo aspettarmi qualcosa di simile da te, da parte di Dors è stata una sorpresa.»
«Ti ringrazio lo stesso per il dono, anche se le conseguenze attuali non rientravano nei tuoi progetti.»
«Me ne rallegro, ma si tratta di un dono, come scoprirai, le cui conseguenze future potrebbero rivelarsi onerose. Come la mia amicizia.»
A questo Seldon non trovò il modo di ribattere, e così, a un gesto di Demerzel, si concentrò sulla cena. Dopo qualche minuto indicò con un cenno del capo il pezzo di pesce infilzato sulla sua forchetta e disse: «La natura esatta di questo organismo mi sfugge, ma riconosco indubbiamente la cucina micogenese».
«Infatti, so che tu l’apprezzi.»
«È la loro scusa per esistere. La loro unica scusa. Tuttavia so che per te possiedono un significato speciale. Non devo scordarlo.»
«Quel significato speciale è ormai giunto alla fine. I loro antenati, moltissimo tempo fa, popolavano il pianeta Aurora. Vivevano trecento anni e anche più, ed erano i signori di cinquanta mondi della galassia. È stato un aurorano a progettarmi e costruirmi. Non lo dimentico; anzi, lo ricordo in modo molto più particolareggiato, e assai meno distorto, dei loro discendenti micogenesi. Ma poi, sempre moltissimo tempo fa, li ho lasciati. Ho fatto la mia scelta su quale doveva essere il bene dell’umanità e l’ho seguita, come meglio potevo, per tutto questo tempo.»
Seldon disse, con allarme improvviso: «Sei certo che nessuno possa sentirci?».
Demerzel sembrò divertito. «Se ci hai pensato soltanto ora, direi che è troppo tardi. Ma non temere, ho preso le precauzioni necessarie. Nemmeno tu sei stato visto da troppi occhi quando sei arrivato. E neppure ti vedranno quando te ne andrai. I pochi che avranno questo privilegio non saranno sorpresi. Godo larga fama di matematico dilettante, dotato di grandi pretese ma di scarsa abilità. È una fonte di divertimento per i membri della corte che non sono del tutto miei amici, e nessuno troverebbe strano che ti avessi invitato per discutere i lavori preparatori del prossimo Convegno decennale. Perché è su questo argomento che ho voluto consultarti.»
«Non penso di poterti essere di grande aiuto. C’è una sola cosa della quale potrei parlare al Convegno... e non posso parlarne. Se mai parteciperò, sarà solo fra le file del pubblico. Non intendo presentare nessuna relazione.»
«Capisco. Eppure, se ti interessa sentire qualcosa di curioso, sua maestà imperiale si ricorda ancora di te.»
«Perché tu gli avrai rinfrescato la memoria, immagino.»
«No. Non sono dovuto intervenire a questo proposito. Tuttavia, a volte sua maestà imperiale mi sorprende. È informato del prossimo Convegno e a quanto pare ricorda la tua relazione a quello precedente. Mostra ancora interesse per l’argomento della psicostoria e può darsi che ne nasca qualcosa, devo avvertirti. Non è del tutto impossibile che possa chiedere di incontrarti. A corte verrà considerato un grande onore ricevere la convocazione imperiale due volte nell’arco della propria vita.»
«Stai scherzando. Di quale utilità potrebbe essere un nostro incontro?»
«In ogni caso, se verrai convocato a un’udienza, non potrai certo opporre un rifiuto. Come stanno i tuoi giovani protetti, Yugo e Raych?»
«Di sicuro lo sai benissimo. Immagino che tu mi tenga d’occhio da vicino.»
«Sì, è vero. Per quello che riguarda la tua sicurezza, ma non per ogni aspetto della tua vita. Temo che gli altri miei doveri occupino parecchio del mio tempo, e non sono certo onniveggente.»
«Dors non ti inoltra i suoi rapporti?»
«Lo farebbe in una situazione di crisi. Altrimenti no. È riluttante a recitare il ruolo della spia nelle cose che non sono essenziali.» Di nuovo quel leggero sorriso.
Seldon grugnì. «I miei ragazzi se la cavano bene. Yugo è sempre più difficile da controllare. È già uno psicostorico più infervorato di me, e scommetto che pensa che io non gli concedo abbastanza spazio per i suoi balzi in avanti. Quanto a Raych, è un adorabile furfante... lo è sempre stato. Mi ha conquistato quando non era che un piccolo e terribile monello di strada, e la cosa sorprendente è che ha conquistato anche Dors. Credo in tutta onestà, Daneel, che se Dors si stancasse di me e volesse lasciarmi, resterebbe lo stesso per amore di Raych.»
Demerzel annuì e Seldon proseguì: «Se Rashelle di Wye non lo avesse trovato adorabile, oggi io non sarei qui. Sarei stato ucciso nel giro di pochi secondi». Si agitò a disagio. «Odio ripensare a quella situazione, Daneel. È stato un evento del tutto casuale e imprevedibile. Come avrebbe potuto aiutarmi in qualche modo la psicostoria?»
«Non mi hai ripetuto più volte che, nella migliore delle ipotesi, la psicostoria può occuparsi solo di probabilità e di grandi numeri, e mai di singoli individui?»
«Ma se l’individuo possiede un’importanza cruciale...»
«Temo che ti accorgerai che nessun individuo è mai veramente insostituibile. Nemmeno tu o io.»
«Forse hai ragione. Mi sono reso conto che, pur continuando a lavorare su questi presupposti, io penso ugualmente a me stesso come a una persona cruciale, con una specie di egotismo supernormale che trascende del tutto il senso comune... E che anche tu sei cruciale, il che mi porta a ciò che volevo discutere qui con te stasera, se possibile con la massima franchezza. Io devo sapere.»
«Sapere cosa?» La tavola con i resti della cena era stata sparecchiata e l’illuminazione nella stanza si era attenuata, facendo sembrare le pareti più vicine e dando un senso di maggiore intimità.
«Joranum» disse Seldon. Si interruppe bruscamente dopo quella parola, come se sentisse che sarebbe bastata.
«Ah, sì.»
«Sai di cosa si tratta.»
«Certo. Come potrei evitarlo?»
«Be’, voglio saperlo anch’io.»
«Cos’è che vuoi sapere?»
«Andiamo, Daneel, non giocare con me. È pericoloso?»
«Certo che è pericoloso. Ne dubitavi?»
«Voglio dire, per te? Per la tua posizione di primo ministro?»
«È quello che intendevo.»
«E tu glielo permetti?»
Demerzel si sporse in avanti, i gomiti sul tavolo fra di loro. «Ci sono cose che non aspettano il mio permesso, Hari. Cerchiamo di essere filosofici in materia. Sua maestà imperiale Cleon, Primo del Nome, è ormai sul trono da diciotto anni, e per tutto questo tempo sono stato il suo capo di gabinetto e poi primo ministro dopo aver svolto mansioni molto simili durante gli ultimi anni di regno di suo padre. È un periodo molto lungo, e raramente un primo ministro rimane al potere così tanto.»
«Tu non sei un comune primo ministro, Daneel, e lo sai. Tu devi rimanere al potere mentre la psicostoria viene sviluppata. Non sorridere. È vero. Quando ci siamo conosciuti, otto anni fa, mi hai detto che l’impero era in uno stato di declino e decadenza. Hai cambiato idea in merito?»
«No, naturalmente.»
«Anzi, adesso il declino è più accentuato, non è vero?»
«Sì, è vero, anche se mi affanno a impedirlo.»
«E senza la tua presenza, che cosa accadrebbe? Joranum sta sollevando l’impero contro di te.»
«Trantor, Hari. Solamente Trantor. Fino a questo momento le province sono salde e ragionevolmente soddisfatte del mio operato, anche se si trovano in mezzo a un’economia in declino e a commerci stagnanti.»
«Ma è Trantor che conta. Trantor, il mondo imperiale sul quale tutti noi viviamo, la capitale dell’impero, il nucleo, il centro amministrativo, è quello che può rovesciarti. Non puoi conservare il tuo incarico se Trantor dice: “No”.»
«Sono d’accordo.»
«E se tu te ne vai, chi si occuperà allora delle province, chi impedirà che la crisi precipiti e l’impero degeneri rapidamente nell’anarchia?»
«È una possibilità, certo.»
«Allora devi fare qualcosa in proposito. Yugo è convinto che corri un pericolo mortale e che non potrai conservare la tua posizione. Glielo dice il suo intuito. Dors afferma la stessa cosa e la spiega sulla base delle Tre Leggi, o Quattro, della... della...»
«Robotica» suggerì Demerzel.
«Il giovane Raych sembra attratto dalle dottrine di Joranum... essendo di origine dahlita, è comprensibile. E io... io sono incerto, così vengo da te per avere conforto, immagino. Dimmi che hai la situazione saldamente sotto controllo.»
«Lo farei se potessi. Tuttavia, non ho conforto da offrirti. Io sono in pericolo.»
«Non stai facendo nulla?»
«Al contrario. Sto facendo del mio meglio per arginare lo scontento e smussare il messaggio di Joranum. In caso contrario, forse sarei già stato estromesso dalla mia carica. Ma quello che faccio non è sufficiente.»
Seldon esitò. Alla fine disse: «Credo che Joranum sia in realtà un micogenese».
«Veramente?»
«È una mia opinione. Ho pensato che avremmo potuto servircene contro di lui, ma ho esitato a scatenare le forze del fanatismo settario.»
«Sei stato saggio a esitare. Esistono sempre molte cose che è possibile fare ma che possono avere effetti collaterali indesiderati. Capisci, Hari, io non avrei paura di abbandonare il mio incarico... se si potesse trovare un successore capace di proseguire lungo quei principi che ho seguito per rallentare quanto più possibile il declino. D’altro canto, se fosse Joranum a succedermi, sono convinto che sarebbe un intervento fatale.»
«Allora ogni cosa che possiamo fare per fermarlo sarebbe accettabile.»
«Non del tutto. L’impero potrebbe scivolare nell’anarchia anche se Joranum venisse distrutto e io restassi al mio posto. Di conseguenza, non devo fare nulla che possa distruggere Joranum e consentirmi di restare, se questo atto dovesse innescare la caduta dell’impero. Non sono ancora riuscito a elaborare una mossa capace di distruggere Joranum e, al tempo stesso, di evitare con certezza l’anarchia.»
«Minimalismo» sussurrò Seldon.
«Come?»
«Dors mi ha spiegato che saresti rimasto bloccato dal minimalismo.»
«Infatti è così.»
«Allora questa mia visita è un fallimento, Daneel.»
«Nel senso che sei venuto per avere conforto e non l’hai trovato.»
«Temo proprio che sia così.»
«Ma io ho voluto incontrarti perché a mia volta cercavo conforto.»
«Da me?»
«Dalla psicostoria. La via alla salvezza che io non riesco a vedere, la psicostoria dovrebbe rivelarla.»
Seldon emise un profondo sospiro. «Daneel, la psicostoria non ha ancora raggiunto un simile punto di sviluppo.»
Il primo ministro lo fissò con occhi severi. «Hai avuto otto anni, Hari.»
«Potrebbero essere otto oppure ottocento, e potremmo trovarci ancora allo stesso punto di oggi. È un problema irrisolvibile.»
«Non mi aspetto che la tecnica sia stata perfezionata, ma potresti avere un abbozzo, una struttura, qualche principio da poter usare come guida. In modo imperfetto, magari, ma sempre migliore di qualche ipotesi azzardata.»
«Niente più di quello che avevo otto anni fa» ammise Seldon amareggiato. «Ecco il nucleo della questione, allora. Tu devi restare al potere e Joranum deve essere distrutto, ma entrambi i risultati devono essere raggiunti in un modo tale che consenta la conservazione della stabilità imperiale finché non avrò avuto il tempo necessario per sviluppare la psicostoria. Ma questi risultati non si possono raggiungere, a quanto pare, se prima non sviluppo la psicostoria. È così?»
«Credo proprio di sì, Hari.»
«Allora noi discutiamo a vuoto e l’impero è già distrutto.»
«A meno che non accada qualcosa di imprevisto. A meno che tu non faccia accadere qualcosa di imprevisto.»
«Io? Daneel, come posso riuscirci senza la psicostoria?»
«Questo non lo so, Hari.»
E Seldon si alzò per andarsene, in preda alla disperazione.
12
Per alcuni giorni a venire, Hari Seldon trascurò i suoi doveri universitari e si concentrò sul computer, usandolo nella modalità raccogli-notizie.
Non esistevano molti computer capaci di gestire le informazioni quotidiane in arrivo da venticinque milioni di mondi. Ce n’erano parecchi nei principali uffici ministeriali dell’impero, dove erano assolutamente necessari. Anche alcune delle maggiori capitali dei Mondi esterni ne possedevano qualche esemplare, sebbene quasi tutti si accontentassero di un collegamento via iperspazio con il Notiziario centrale di Trantor.
Un computer situato in un’importante facoltà di Matematica poteva, se sufficientemente avanzato, essere modificato in un terminale indipendente per la raccolta di notizie, e con molta cautela Seldon aveva fatto proprio questo. In fondo, era una cosa necessaria al suo lavoro sulla psicostoria, anche se le modifiche alle capacità del computer erano state prudentemente ascritte a motivi ben diversi e assai più plausibili.
Teoricamente, il computer avrebbe segnalato qualsiasi evento fuori dall’ordinario su ogni mondo dell’impero. Grazie a una lucetta codificata e poco appariscente, Seldon sarebbe riuscito a rintracciare facilmente la fonte. Una simile lucetta si accendeva di rado, poiché la definizione in codice corrispondente a “fuori dall’ordinario” riguardava solo eventi su larga scala e davvero rari.
In mancanza di quella fatidica accensione si poteva stabilire un contatto con diversi mondi a caso; non con tutti i venticinque milioni, ma con alcune decine. Era un’incombenza deprimente e addirittura spossante, in quanto non esistevano mondi che non avessero le loro catastrofi quotidiane, sia pure su scala ridotta. Un’eruzione vulcanica qui, un’alluvione là, un tracollo economico di qualche genere sul pianeta accanto, e poi, naturalmente, i tumulti popolari. Negli ultimi mille anni non era passato giorno senza che si fossero verificati tumulti per i motivi più svariati su questo o quello di cento e più mondi diversi.
Com’era ovvio, eventi simili andavano scartati. Non si potevano prendere in considerazione i tumulti quando, alla stregua delle eruzioni vulcaniche, quei fatti rappresentavano delle costanti sui mondi abitati. Piuttosto, se fosse arrivato un giorno nel quale nessun tumulto sarebbe stato segnalato in nessun luogo, quello avrebbe potuto essere il segno di una contingenza talmente insolita da giustificare il più attento interesse.
Interesse che Seldon era ben lungi dal provare. I Mondi esterni, sia pure con tutti i loro disordini e cataclismi naturali, erano simili all’oceano in una giornata serena... un dolce moto ondoso e qualche cavallone, ma niente di più. Non riusciva a trovare traccia di nessuna situazione globale che mostrasse chiaramente un declino negli ultimi otto anni, o magari negli ultimi ottanta. Eppure Demerzel (in assenza di Demerzel, Seldon non poteva più pensare a lui come a “Daneel”) aveva detto che il declino stava continuando, e lui sorvegliava il battito cardiaco dell’impero con mezzi che Seldon non poteva duplicare... almeno fino a quando non avrebbe avuto a sua disposizione la guida della psicostoria.
Forse quel declino era così minuscolo da risultare impercettibile finché non avesse raggiunto un punto cruciale; come una casa che si deteriorava lentamente, senza mostrare alcun segno premonitore, finché una notte il tetto non fosse crollato.
Quando sarebbe crollato il tetto? Quello era il problema, e Seldon non conosceva la risposta.
E poi, ogni tanto, Seldon controllava anche lo stesso Trantor. Là, logicamente, la mole di notizie era sempre molto più sostanziosa. In primo luogo, con i suoi quaranta miliardi di abitanti, Trantor era il mondo più densamente popolato dell’impero. Inoltre, i suoi ottocento settori costituivano una specie di impero in scala ridotta. In terzo luogo, c’erano le tediose sequele di incombenze governative e le azioni della famiglia imperiale da seguire.
Ciò che quel giorno colpì l’attenzione di Seldon, comunque, era una notizia che riguardava il settore di Dahl. Alle elezioni per il Consiglio settoriale cinque seguaci di Joranum avevano conquistato altrettanti seggi. Era la prima volta – proseguiva l’articolo del notiziario – che dei joranumiti occupavano cariche a livello settoriale.
Non c’era da sorprendersi. Fra tutti i settori, Dahl era una roccaforte di Joranum, ma Seldon giudicò la notizia un fastidioso indizio dei progressi fatti dal demagogo. Ordinò una copia dell’articolo su microchip e quella sera se lo portò a casa.
All’ingresso di Seldon, Raych sollevò gli occhi dal suo computer e apparentemente sentì il bisogno di giustificarsi. «Sto aiutando la mamma con del materiale di consultazione che le serve.»
«E i tuoi compiti?»
«Fatti, papà. Tutti fatti.»
«Bene. Dai un’occhiata a questo.» Mostrò a Raych il microchip che aveva in mano prima di inserirlo nel proiettore.
Raych osservò per un attimo la pagina di notiziario che si materializzò nell’aria davanti ai suoi occhi e disse: «Sì, lo sapevo».
«Davvero?»
«Certo. Mi tengo sempre informato su Dahl. Lo sai. È il posto in cui sono nato e tutto il resto.»
«E cosa ne pensi di questo?»
«Non ne sono sorpreso. Tu sì? Il resto di Trantor tratta Dahl come un mucchio di sporcizia. Perché non dovrebbero abbracciare le idee di Joranum?»
«Le abbracci anche tu?»
«Be’...» Raych fece una smorfia pensierosa. «Devo ammettere che condivido alcune delle cose che dice. Dice di volere l’uguaglianza per tutto il popolo. Cosa c’è di sbagliato in questo?»
«Nulla... se dice sul serio. Se è sincero. Se non se ne serve come di un’esca per ottenere voti.»
«È abbastanza vero, papà, ma probabilmente quasi tutti i dahliti pensano: “Cosa abbiamo da perdere? L’uguaglianza adesso non esiste, anche se le leggi sostengono il contrario”.»
«È una cosa ardua da stabilire con le leggi.»
«È una consolazione che non scalda granché quando stai congelando.»
Seldon rifletteva rapidamente. Stava riflettendo fin da quando si era imbattuto in quella notizia. «Raych, non sei più stato a Dahl dopo che tua madre e io ti abbiamo fatto uscire dal settore, vero?»
«Sì, ci sono stato, quando cinque anni fa vi ho accompagnati in quella vostra visita laggiù.»
«Certo, certo,» Seldon agitò una mano «ma questo non conta. Ci siamo fermati in un albergo intersettoriale che era quanto di meno dahlita si potesse immaginare. Inoltre, se ricordo bene, Dors non ti ha mai lasciato andare per strada da solo. In fondo, avevi solo quindici anni. Che ne diresti di visitare Dahl, da solo, affidato esclusivamente a te stesso... adesso che hai vent’anni compiuti?»
Raych ridacchiò. «La mamma non lo permetterebbe mai.»
«Confesso che non mi attira la prospettiva di discuterne con lei, ma non intendo chiedere il suo permesso. La domanda è: saresti disposto a fare questo per me?»
«Per semplice curiosità? Certo. Mi piacerebbe vedere cos’è successo al vecchio settore.»
«Puoi permetterti di sottrarre questo tempo ai tuoi studi?»
«Certo. Una settimana di assenza non mi farà alcun male. E poi, puoi registrarmi le lezioni e al mio ritorno mi rimetterò in pari. Ottenere un permesso non mi sarà difficile. Dopotutto, il mio vecchio è un preside di facoltà... a meno che non ti abbiano licenziato, papà.»
«Non ancora. Ma non stavo pensando a questo viaggio come a una vacanza di solo svago.»
«Sarei sorpreso del contrario. Non credo che tu sappia cos’è una vacanza di solo svago, papà. Anzi, mi sorprende che tu conosca la definizione.»
«Non essere impertinente. Quando sarai là, voglio che tu incontri Laskin Joranum.»
Raych assunse un’espressione sorpresa. «E come faccio? Non so nemmeno dove sarà.»
«Sarà a Dahl anche lui. Gli hanno chiesto di parlare al Consiglio insieme ai membri suoi seguaci. Scopriremo la data esatta e tu potrai arrivare là qualche giorno prima.»
«E come farò a incontrarlo, papà? Non credo che la sua casa sia aperta al pubblico.»
«Anch’io non lo credo, ma questo lo lascio alla tua inventiva. Quando avevi dodici anni avresti saputo come cavartela. Spero che gli anni successivi non abbiano troppo smussato il tuo acume di mariuolo.»
Raych sorrise. «Speriamo di no. Ma supponiamo che io riesca a vederlo. E poi?»
«Be’, cerca di scoprire quello che puoi. Quali sono i suoi veri progetti. Che cosa pensa realmente.»
«Credi davvero che lui verrà a raccontarlo a me?»
«Non sarei affatto sorpreso se lo facesse. Tu possiedi il dono di ispirare fiducia, specie di scavezzacollo. Discutiamone un po’.»
E così fecero. In diverse occasioni.
La mente di Seldon era percorsa da pensieri dolorosi. Non sapeva minimamente a cosa avrebbe portato la sua operazione, ma non osava consultarsi con Yugo Amaryl, o con Demerzel, o (meno ancora) con Dors. Potevano fermarlo. Potevano dimostrargli che la sua era una ben misera idea, e lui non voleva quella dimostrazione. Ciò che aveva progettato gli appariva come l’unica porta verso la salvezza e non voleva che qualcuno gliela sbarrasse.
Ma quella porta esisteva veramente? Raych era il solo, ragionava Seldon, che fosse in grado di guadagnarsi la fiducia di Joranum, ma Raych era lo strumento adatto a quello scopo? Era un dahlita e mostrava simpatia per le idee di Joranum. Fino a che punto Seldon poteva fidarsi di lui?
Che situazione orribile! Raych era suo figlio, e fino ad allora Seldon non aveva mai avuto occasione di dubitare della sua lealtà.
13
Pur dubitando dell’efficacia del suo progetto, pur temendo che potesse far esplodere in modo prematuro la situazione o avviarla disperatamente verso la direzione sbagliata, pur corroso da dubbi laceranti sull’affidabilità di Raych nel recitare la parte che gli spettava, Seldon non nutriva tuttavia la benché minima incertezza su quella che sarebbe stata la reazione di Dors non appena lui le avesse presentato il fatto compiuto.
E in ciò non rimase certo deluso, se una simile parola poteva bastare a esprimere le sue emozioni. Però, in un certo senso, fu deluso, perché lei non alzò la voce inorridita come in parte lui si era aspettato, preparandosi ad affrontare l’inevitabile.
Ma Seldon come poteva immaginarlo? Lei non era come le altre donne, e lui non l’aveva mai vista veramente arrabbiata. Forse non rientrava nella personalità di Dors l’essere veramente arrabbiata, o quello che lui considerava l’essere veramente arrabbiati.
Lei lo fissò semplicemente con occhi gelidi e parlò a voce bassa, con tono di amara disapprovazione. «Lo hai mandato a Dahl? Da solo?» Con tono quasi morbido. Ma interrogativo.
Per un istante Seldon tremò di fronte a quella voce pacata. Poi disse con fermezza: «Ho dovuto farlo. Era necessario».
«Fammi capire. Lo hai mandato in quel nido di ladri, in quel covo di assassini, in quel conglomerato di tutto ciò che è criminale?»
«Dors! Quando parli così mi irriti. Solo un razzista da quattro soldi userebbe simili luoghi comuni.»
«Vuoi negare che Dahl è come l’ho descritto?»
«Certo. A Dahl esistono criminali e quartieri malfamati. Lo so benissimo. Lo sappiamo entrambi. Ma non tutto il settore è così. E vi sono criminali e quartieri malfamati in ogni settore, anche in quello imperiale e a Streeling.»
«Però esistono delle percentuali, non credi? Uno non è dieci. Se tutti i settori ospitano criminali, se tutti i mondi ospitano criminali, Dahl è l’angolo dell’impero che ne ospita la percentuale maggiore, non è vero? Hai il computer. Controlla le statistiche.»
«Non è necessario. Dahl è il settore più povero di Trantor, ed esiste un’indiscutibile correlazione fra povertà, miseria e crimine. Questo te lo concedo.»
«Me lo concedi! E lo hai mandato solo? Potevi andare con lui, o chiedere a me di accompagnarlo, o mandare con lui una mezza dozzina dei suoi compagni di corso. Sarebbero stati contenti di una pausa nei loro studi, ne sono certa.»
«Ciò che mi serve richiede la sua sola presenza.»
«E a che scopo ti serve la presenza di Raych a Dahl?»
Ma su questo punto Seldon rimase ostinatamente silenzioso.
«Siamo arrivati a questo? Non hai più alcuna fiducia in me?» disse Dors.
«È un gioco d’azzardo. Solo io devo correre questo rischio. Non posso coinvolgere te o altre persone.»
«Ma non sei tu a correre il rischio. È il povero Raych.»
«Lui non corre alcun rischio» disse Seldon spazientito. «Ha vent’anni, è giovane e vigoroso, robusto come una quercia, e non mi riferisco ai virgulti che teniamo sotto vetro qui a Trantor, ma a un buon vecchio albero centenario delle foreste su Helicon. Inoltre è un torcitore, arte che è sconosciuta ai dahliti.»
«Tu e la tua arte della Torsione» disse Dors, con voce dalla quale il gelo non accennava minimamente a sciogliersi. «Credi che sia la risposta a tutto. I dahliti portano coltelli. Tutti quanti. E scommetto che hanno anche dei fulminatori.»
«Dei fulminatori non so nulla. Le leggi sono molto severe sulle armi a raggi. Quanto ai coltelli, so per certo che Raych ne ha sempre uno con sé anche al campus, dove è rigorosamente proibito. Pensi che a Dahl vorrà privarsene?»
Dors rimase in silenzio.
Anche Seldon rimase in silenzio per qualche minuto, poi decise che poteva essere giunto il momento di placarla. «Ascolta, posso dirti solo questo. Joranum andrà in visita a Dahl, e io spero che Raych riesca a incontrarlo.
«Oh? E cosa ti aspetti che Raych faccia? Che lo riempia di amari sensi di colpa per la sua politica malvagia e lo rispedisca a Micogeno?»
«Avanti, parliamo seriamente. Se hai intenzione di assumere questo atteggiamento sarcastico è inutile stare a discutere.» Distolse lo sguardo da lei, fissando dalla finestra il cielo grigio-azzurro sotto la cupola. «Quello che mi aspetto da Raych» e la sua voce si inceppò per un istante «è che salvi l’impero.»
«Ma certo. Questo sarebbe molto più facile.»
La voce di Seldon si fece ferma. «È quel che mi aspetto. Tu non hai una soluzione, Demerzel stesso non ha una soluzione. In pratica mi ha detto che la soluzione è compito mio. È a questo che sto mirando, e ciò spiega perché ho bisogno di Raych a Dahl. Dopotutto, anche tu conosci bene quella sua capacità di ispirare affetto. Con noi ha funzionato, e sono persuaso che funzionerà con Joranum. Se ho ragione, tutto può risolversi bene.»
Dors spalancò leggermente gli occhi. «Ora vorresti dirmi che ti stai lasciando guidare dalla psicostoria?»
«No. Non ho intenzione di mentirti. Non ho ancora raggiunto il punto nel quale posso lasciarmi guidare in qualche modo dalla psicostoria, ma Yugo continua a parlarmi dell’intuito, e io possiedo il mio.»
«L’intuito! Cos’è, definiscilo!»
«È facile. L’intuito è l’arte, peculiare della mente umana, con la quale si può estrapolare la risposta giusta da dati che sono di per sé incompleti o addirittura fuorvianti.»
«Ed è questo che hai fatto?»
Al che Seldon rispose, con salda convinzione: «Sì, è quello che ho fatto».
Ma dentro di sé, ripensò a quello che non osava condividere con Dors. E se il fascino di Raych fosse scomparso? O ancora peggio, se la sua consapevolezza di essere un dahlita si fosse rivelata troppo forte per lui?
14
Billibotton era Billibotton: la sporca, buia, fatiscente Billibotton dai mille vicoli sinuosi, che trasudava decadenza e al tempo stesso era colma di una vitalità che secondo Raych non si poteva trovare in nessun’altra parte di Trantor. Forse in nessun’altra parte dell’impero, anche se Raych non aveva mai conosciuto di persona nessun altro mondo all’infuori di Trantor.
Aveva visto Billibotton per l’ultima volta quando era poco più che dodicenne, ma anche la gente sembrava la stessa di allora; sempre lo stesso miscuglio di avvilimento e furfanteria, gli uomini contraddistinti dai folti baffi scuri e le donne dai vestiti a sacco che ora apparivano tremendamente sciatti agli occhi più vecchi e smaliziati di Raych.
Come facevano delle donne con vestiti simili ad attirare gli uomini? Ma era una domanda stupida. Anche a dodici anni, lui aveva un’idea piuttosto chiara della facilità e della rapidità con la quale potevano essere sfilati.
Continuò a camminare, perso fra pensieri e ricordi, costeggiando lungo una strada una fila di negozi e cercando di convincersi che ricordava quell’angolo particolare o quell’altro, chiedendosi se dietro quelle mura vivevano ancora persone che lui conservava nella memoria e che adesso erano più vecchie di otto anni. Forse i suoi amici d’infanzia erano ancora vivi, ma Raych rifletté a disagio sul fatto che, pur ricordando alcuni dei soprannomi che si erano scelti fantasiosamente, non riusciva a ricordare nessun nome vero.
In realtà, le lacune nella sua memoria erano enormi. Magari otto anni non erano poi tanti, ma costituivano pur sempre due quinti dell’esistenza di un ventenne, e la sua vita dopo aver lasciato Billibotton era cambiata in modo talmente radicale da far sembrare tutto ciò che l’aveva preceduta un sogno sfocato.
Ma gli odori erano sempre quelli. Si fermò davanti a una panetteria sporca e dal tetto basso, annusando l’odore della glassa al cocco che impregnava l’aria e che non aveva mai trovato in nessun altro luogo. Anche quando si era fermato altrove a comprare biscotti con la glassa al cocco, anche quando erano definiti “alla dahlita”, non si era trattato che di povere imitazioni.
Si sentì tremendamente tentato. Be’, perché no? Aveva il denaro, e Dors non era lì ad arricciare il naso facendo commenti sulla eventuale pulizia – o, più probabilmente, sulla mancanza di pulizia – del locale. Chi badava alla pulizia ai vecchi tempi?
L’interno del negozio era in penombra e gli occhi di Raych impiegarono un po’ ad abituarsi. C’erano alcuni tavoli bassi con un paio di sedie piuttosto malconce per ognuno, dove senza dubbio i clienti potevano consumare un pasto leggero, l’equivalente di caffè e panini. A uno dei tavoli sedeva un giovanotto, con una tazza vuota davanti a sé; aveva addosso una maglietta un tempo bianca che probabilmente con un’illuminazione migliore sarebbe apparsa ancora più sporca.
Il panettiere, o in ogni caso un inserviente, uscì da una stanza sul retro e disse con tono alquanto brusco: «Cosa vuole?».
«Un glassococco» rispose Raych sfoggiando lo stesso tono (sarebbe venuto meno alle sue origini di billibottoniano mostrandosi cortese) e usando il termine popolare che ricordava benissimo dai vecchi tempi.
Il termine era ancora in uso, poiché l’inserviente gli allungò il prodotto desiderato usando le dita nude. Il ragazzino Raych avrebbe accettato la cosa come scontata, ma il Raych adulto provò un attimo di esitazione.
«Vuole un sacchetto?»
«No,» ribatté Raych «lo mangio qui.» Prese il dolce dalla mano dell’altro e affondò i denti nella ricca copertura glassata, con gli occhi semichiusi. Durante la sua infanzia era stata una squisitezza rara: solo le poche volte che era riuscito a raggranellare i soldi necessari, o quando ne aveva ricevuto un morso da un amico temporaneamente ricco; il più delle volte quando se ne era impadronito senza che nessuno lo vedesse. Adesso poteva comprarne quanti ne voleva.
«Ehi» disse una voce.
Raych riaprì gli occhi. Era l’uomo al tavolo, che lo fissava accigliato.
Raych ribatté gentilmente: «Parli con me, amico?».
«Già. Che accidenti fai?»
«Mangio un glassococco. Che ti frega?» Aveva assunto automaticamente la parlata di Billibotton. Non gli costava alcuno sforzo.
«Che accidenti ci fai a Billibotton?»
«Sono nato e cresciuto qui. In un letto. Non in una strada, come te.» L’insulto giunse spontaneo, come se Raych non si fosse mai allontanato da casa.
«Ah, sì? Vesti troppo bene per essere dei nostri. Che eleganza. Sei perfino profumato.» E sollevò un mignolo per sottintendere un aspetto effeminato.
«Preferisco non parlare di quanto puzzi tu. Ho fatto strada nel mondo.»
«Hai fatto strada nel mondo? Oh-la-la.» Altri due uomini entrarono nella panetteria. Raych corrugò leggermente la fronte, perché non era certo se fossero stati chiamati in qualche modo oppure no. L’uomo al tavolo disse ai nuovi arrivati: «Questo tipo ha fatto strada nel mondo. Dice di essere nato qui».
Uno dei nuovi venuti accennò un saluto derisorio e sogghignò con aria assai poco cordiale. Aveva i denti macchiati. «Ma che piacere. È sempre bello incontrare uno dei nostri che ha fatto strada nel mondo. Così almeno ha l’occasione di dare una mano ai suoi poveri sfortunati confratelli di settore. Magari un po’ di crediti. Puoi sempre privarti di qualche credito per i poveri, no?»
«Quanto hai in tasca, signorino?» disse l’altro mentre il suo sogghigno svaniva.
«Ehi» intervenne l’uomo dietro il bancone. «Uscite tutti dal mio negozio. Non voglio guai qui dentro.»
«Non ci saranno guai» disse Raych. «Me ne vado.»
Fece per andarsene, ma l’uomo seduto allungò una gamba a sbarrargli il passo. «Non andartene. Sentiremo la tua mancanza.»
(L’uomo dietro il bancone, chiaramente temendo il peggio, scomparve nel retrobottega.)
Raych sorrise. «Una volta, ragazzi, mentre ero ancora a Billibotton, me ne stavo con il mio vecchio e la mia vecchia, e dieci idioti ci hanno bloccati. Dieci. Li ho contati. Abbiamo dovuto liquidarli tutti.»
«Ma davvero?» disse quello che aveva parlato fino a quel momento. «Il tuo vecchio ha liquidato dieci uomini?»
«Il mio vecchio? Naa. Non avrebbe sprecato così il suo tempo. Ci ha pensato la mia vecchia. E io so farlo anche meglio di lei. Voialtri, poi, siete solo in tre. Così, se non vi dispiace, levatevi dai piedi.»
«Sicuro. Basta che ci lasci tutti i tuoi crediti. E anche qualche ricordino dei tuoi vestiti.»
L’uomo al tavolo si alzò in piedi. Aveva in mano un coltello.
«Ecco qua» disse Raych. «Adesso mi farete perdere tempo.» Aveva finito il suo dolce e si girò a metà. Poi, con la rapidità del pensiero, si ancorò al tavolo mentre la sua gamba destra schizzava verso l’alto e la punta della scarpa colpiva in pieno l’inguine dell’uomo con il coltello.
L’uomo piombò a terra con un grido acuto; il tavolo volò in aria, gettando il secondo uomo contro la parete e tenendolo inchiodato là, mentre il braccio destro di Raych guizzava come un lampo e la mano andava a colpire di taglio la laringe del terzo uomo, che tossì e cadde.
Erano passati solo due secondi e ora Raych era l’unico in piedi, con un coltello in ogni mano. «E adesso chi di voi vuole fare una mossa?»
Lo fissarono tutti in cagnesco, ma rimasero raggelati dov’erano e Raych aggiunse: «In questo caso, me ne vado».
Ma l’inserviente doveva aver chiesto aiuto, perché altri tre uomini entrarono nel negozio mentre l’inserviente strillava: «Teppisti! Non sono altro che teppisti!».
I nuovi venuti indossavano una specie di uniforme che tuttavia era del tutto sconosciuta a Raych. Portavano calzoni infilati negli stivali, larghe magliette verdi con una cintura in vita e bizzarri cappelli semisferici dall’aria vagamente comica appollaiati sui cocuzzoli delle teste. Sulla parte anteriore della spalla sinistra di ogni maglietta erano stampate le lettere JG.
Avevano tutti l’aspetto di dahliti, ma non i baffi dei dahliti. I loro erano sì neri e folti, ma al tempo stesso regolati con cura all’altezza del labbro superiore e non troppo rigogliosi. Raych si permise una smorfia di derisione. I suoi baffi incolti possedevano ben altro vigore, ma doveva riconoscere che quelli avevano un aspetto ordinato e pulito.
Il capo dei tre uomini disse: «Sono il caporale Quinber. Cosa sta succedendo qui?».
I tre teppisti si stavano rialzando, ma non erano certo in ottime condizioni. Uno era ancora piegato in due, un altro si massaggiava la gola e il terzo si muoveva come se avesse una spalla slogata.
Il caporale li osservò con calma, mentre i suoi due uomini bloccavano la porta. Si rivolse a Raych, che pareva l’unico dei presenti ancora intatto.
«Sei un abitante di Billibotton, figliolo?»
«Nato e cresciuto qui, ma da otto anni, ormai, vivo altrove.» Raych lasciò sfumare l’accento locale pur conservandolo sul fondo, almeno di quel tanto che riusciva a distinguere nella parlata dello stesso caporale. Billibotton non era l’unica zona di Dahl e in altre parti del settore era presente una maggiore propensione alla gentilezza.
«Siete forse della sicurezza?» domandò Raych. «Non mi pare di ricordare l’uniforme che...»
«Non siamo della sicurezza. A Billibotton non troverai molti agenti. Siamo i guardiani di Joranum e manteniamo l’ordine da queste parti. Conosciamo questi tre, ed erano stati avvertiti. Ce ne occuperemo noi. Il problema sei tu, amico. Nome e numero d’identità.»
Raych glieli riferì.
«E qui cos’è successo?»
Raych glielo raccontò.
«E il motivo della tua presenza qui?»
«Statemi bene a sentire. Avete il diritto di interrogarmi? Se non siete della sicurezza...»
«Ascolta» disse il caporale con voce dura. «Non tirare in ballo i diritti. Siamo l’unica forza che esiste qui a Billibotton e abbiamo il diritto perché ce lo prendiamo. Sostieni di aver pestato questi tre uomini e io ti credo. Ma non riuscirai a pestare anche noi. Non siamo autorizzati a portare fulminatori, però...» e mentre parlava senza alcuna fretta ne mostrò uno.
«Adesso dimmi perché ti trovi qui.»
Raych sospirò. Se fosse andato subito alla Sala del Consiglio, come avrebbe dovuto fare... se non si fosse fermato per annegarsi nella nostalgia di Billibotton e dei glassococchi...
«Sono venuto qui per vedere il signor Joranum a proposito di una questione importante e visto che sembrate far parte della sua organi...»
«Per vedere il capo?»
«Sì, caporale.»
«Con due coltelli addosso?»
«Per autodifesa. Non prevedevo di tenerli con me quando avrei visto il signor Joranum.»
«Questo lo dici tu. Ti arrestiamo, amico. Arriveremo in fondo a questa storia. Può volerci del tempo, ma ci riusciremo.»
«Ma non ne avete il diritto. Non siete agenti che possono legalmente...»
«Be’, trova qualcuno con cui lamentarti. Fino a quel momento, sei nostro.»
E Raych fu privato dei suoi coltelli e arrestato.
15
Cleon non era più il monarca giovane e bello degli ologrammi ufficiali. Forse lo era ancora – negli ologrammi –, ma il suo specchio gli mostrava una realtà diversa. Il suo ultimo compleanno era stato celebrato come di consueto con pompa e fastosità, ma rimaneva pur sempre il suo quarantesimo compleanno.
L’imperatore non trovava nulla di male nell’avere quarant’anni. La sua salute era perfetta. Aveva messo su qualche chilo, ma non tanti. Il suo viso sarebbe forse apparso più vecchio senza i microinterventi effettuati periodicamente, e questo gli conferiva un aspetto leggermente artificiale.
Era sul trono da diciotto anni. Il suo era già uno dei più lunghi regni del secolo e sentiva che nulla avrebbe dovuto impedirgli di regnare per altri quarant’anni, ottenendo così il più lungo regno in assoluto di tutta la storia imperiale.
Si guardò di nuovo allo specchio e pensò che avrebbe avuto un aspetto migliore lasciandolo piano, senza inserire la visualizzazione tridimensionale.
Demerzel invece, il fedele, instancabile, insostituibile, insopportabile Demerzel... non c’erano cambiamenti, in lui. Conservava sempre lo stesso aspetto e inoltre, per quanto ne sapeva Cleon, senza alcuna necessità di microinterventi. Naturalmente, Demerzel era sempre molto riservato su ogni cosa. E non era mai stato giovane. Quando all’inizio aveva servito il padre di Cleon e lo stesso Cleon non era altro che un principe imperiale bambino, Demerzel non aveva mai avuto un aspetto giovanile. E non lo aveva neppure ora. Forse, tutto sommato, era meglio avere l’aspetto di un vecchio fin dall’inizio ed evitare di dover cambiare in seguito?
Cambiare!
Rammentò di aver convocato Demerzel per un motivo preciso e non per lasciarlo là in piedi mentre l’imperatore ruminava. Demerzel avrebbe interpretato un’eccessiva ruminazione imperiale come un segno di vecchiaia.
«Demerzel...»
«Sire?»
«Questo tizio, Joranum. Sono stanco di sentirne parlare.»
«Non v’è motivo per cui dobbiate sentirne parlare, sire. È uno di quei fenomeni che affiorano per qualche tempo alla superficie dei notiziari e poi scompaiono.»
«Ma lui non scompare.»
«A volte occorre un po’ di tempo, sire.»
«Cosa pensi di lui, Demerzel?»
«È pericoloso ma gode di una certa popolarità. È la popolarità che aumenta il pericolo.»
«Se tu lo trovi pericoloso e io fastidioso, perché dobbiamo attendere? Non si può semplicemente farlo imprigionare, giustiziare o qualcosa del genere?»
«La situazione politica su Trantor, sire, è delicata...»
«È sempre delicata. Quando è stata l’ultima volta che mi hai detto che non lo era?»
«Viviamo in tempi delicati. Sarebbe inutile muoversi con la forza contro di lui se ciò servisse solo a esacerbare il pericolo.»
«Non mi piace. Forse non sarò un mostro di cultura, un imperatore non ha il tempo per diventare colto, ma se non altro conosco bene la storia imperiale. Ci sono stati numerosi casi di populisti, come vengono definiti, che si sono impadroniti del potere negli ultimi due secoli. In ognuno di quei casi, hanno ridotto l’imperatore a un semplice uomo di paglia. Io non voglio diventare un uomo di paglia, Demerzel.»
«Una simile eventualità è impensabile, sire.»
«Non sarà impensabile a lungo, se non fai qualcosa.»
«Sto tentando di prendere le misure necessarie, ma occorre muoversi con cautela.»
«Se non altro c’è almeno una persona che non bada troppo alla cautela. All’incirca un mese fa un professore universitario, un professore, ha bloccato da solo un tumulto organizzato dai joranumiti. Si è fatto avanti e li ha fermati.»
«È vero, sire. Ma come ne siete venuto a conoscenza?»
«Perché si tratta di un professore che mi interessa. Come mai non me ne avevi parlato?»
Demerzel rispose ossequioso: «Sarebbe assennato, da parte mia, infastidirvi con tutti i casi insignificanti che si depositano sulla mia scrivania?».
«Insignificanti? L’uomo che è passato all’azione era Hari Seldon.»
«Il nome è proprio questo.»
«Mi è familiare. Non è stato lui, qualche anno fa, a presentare una relazione scientifica che ha solleticato il nostro interesse?»
«Sì, sire.»
Cleon assunse un’aria compiaciuta. «Come vedi, la mia memoria funziona. Non ho bisogno di dipendere in tutto dai miei ministri. L’ho convocato per parlare della sua relazione, non è vero?»
«La vostra memoria è davvero infallibile, sire.»
«Cos’è accaduto alla sua idea? Riguardava un congegno per leggere il futuro. La mia memoria infallibile non mi dice come la chiamasse.»
«Psicostoria, sire. Non era esattamente un congegno per leggere il futuro, ma una teoria matematica sui modi per prevedere tendenze generali nella storia.»
«E cosa le è successo?»
«Nulla, sire. Come vi ho spiegato all’epoca, l’idea si è rivelata totalmente irrealizzabile. Era stimolante ma inutile.»
«Tuttavia quell’uomo è capace di passare all’azione per bloccare un tumulto. Avrebbe osato farlo se non avesse saputo in anticipo che il suo gesto era destinato a riuscire? Non è quindi una prova che questa... com’è che si chiama?, psicostoria, può funzionare?»
«È semplicemente una prova che Hari Seldon è una persona avventata e temeraria, sire. Anche se la teoria psicostorica fosse una realtà concreta, non potrebbe prevedere risultati riguardanti una singola persona o una singola azione.»
«Il matematico non sei tu, Demerzel. È lui. Credo che sia giunto il momento di ascoltarlo di nuovo.»
«Sarebbe una inutile...»
«Lo desidero, Demerzel. Provvedi.»
«Sì, sire.»
16
Raych ascoltava con una spasmodica impazienza che cercava di non manifestare. Era seduto in una cella improvvisata nel profondo delle viscere di Billibotton, al termine di una lunga serie di corridoi che non ricordava più. (Lui, che ai vecchi tempi sapeva correre per quegli stessi corridoi senza smarrire la strada e lasciandosi alle spalle ogni inseguitore.)
L’uomo che gli teneva compagnia, vestito con l’uniforme verde dei guardiani di Joranum, doveva essere un missionario, un apprendista del lavaggio del cervello, o magari una specie di teologo mancato. A ogni buon conto, aveva detto di chiamarsi Sander Nee e adesso stava snocciolando con pesante accento dahlita un lungo messaggio che chiaramente aveva imparato a memoria.
«Se il popolo di Dahl vuole ottenere l’uguaglianza, deve mostrarsene degno. Il buon governo, un comportamento pacifico, i piaceri contenuti, sono tutti requisiti indispensabili. L’aggressività, i modi brutali, l’andarsene in giro armati di coltelli sono le accuse che gli altri muovono contro di noi per giustificare la loro intolleranza. Dobbiamo essere puri nelle parole e...»
Raych intervenne: «Sono d’accordo con te, guardiano Nee, su ogni singola parola. Ma devo vedere il signor Joranum».
Il guardiano scosse il capo lentamente. «Non è possibile, senza appuntamento o un permesso speciale.»
«Ma io sono il figlio di un importante professore all’Università di Streeling, un professore di Matematica.»
«Non conosco nessun professore. Credevo avessi detto di essere originario di Dahl.»
«Certo, non lo capisci da come parlo?»
«E il tuo vecchio sarebbe professore in una grossa università? Mi sembra difficile da credere.»
«Be’, è il mio padre adottivo.»
Il guardiano assorbì la notizia e scosse il capo. «Non conosci nessuno a Dahl?»
«C’è Mamma Rittah, lei mi conosce.» (Era già molto vecchia quando lui aveva dodici anni. Adesso poteva essere decrepita, o addirittura morta.)
«Mai sentito questo nome.»
(Chi altri? Fra le sue vecchie conoscenze non c’era nessuno che potesse penetrare l’ottusità dell’uomo che aveva di fronte. Il suo migliore amico era stato un altro ragazzo chiamato Smoodgie... o almeno lui lo aveva conosciuto con questo nome. Nonostante la sua disperazione, Raych non si vedeva nell’atto di dire: “Conosci qualcuno della mia età chiamato Smoodgie?”.)
Alla fine disse: «C’è Yugo Amaryl».
Una scintilla sembrò accendersi negli occhi di Nee. «Chi?»
«Yugo Amaryl» ripeté Raych ansiosamente. «Lavora per il mio padre adottivo all’università.»
«Anche lui è un dahlita? Sono tutti dahliti in quell’università?»
«Solo lui e io. Yugo faceva il cistermista.»
«E cosa ci fa all’università?»
«Mio padre lo ha fatto uscire dal reparto cistermico otto anni fa.»
«Be’... manderò qualcuno a controllare.»
Raych dovette aspettare. Anche riuscendo a uscire dalla cella, dove poteva dirigersi fra gli intricati corridoi sotterranei di Billibotton senza essere riacciuffato quasi subito? Non ne aveva più la mappa stampata nella mente.
Passarono venti minuti prima che Nee fosse di ritorno, e con lui c’era il caporale che lo aveva arrestato. In Raych si accese una piccola speranza: era plausibile che il caporale avesse un briciolo di cervello.
«Chi sarebbe questo dahlita che conosci?» chiese il caporale.
«Yugo Amaryl... un cistermista che mio padre ha conosciuto qui a Dahl otto anni fa e ha portato con sé.»
«E perché lo ha fatto?»
«Mio padre pensava che Yugo avrebbe saputo fare cose più importanti che lavorare in una cistermica, caporale.»
«Per esempio?»
«Matematica. È un...»
Il caporale sollevò una mano. «In quale cistermica lavorava?»
Raych si soffermò un attimo a riflettere. «All’epoca ero solo un ragazzino, ma mi pare che fosse alla C-Due.»
«Abbastanza vicino. Alla C-Tre.»
«Allora lo conosce, caporale?»
«Non di persona, ma la storia è famosa fra i cistermisti e anch’io ho lavorato laggiù. E forse è per questo che anche tu la conosci. Puoi provare in qualche modo di conoscere veramente Yugo Amaryl?»
«Stia a sentire, adesso le dico cosa vorrei fare. Scriverò su un pezzo di carta il mio nome e quello di mio padre. Poi aggiungerò una sola parola. Lei dovrà mettersi in contatto, nel modo che vorrà, con qualcuno del gruppo del signor Joranum, che deve arrivare qui a Dahl domani, e leggergli semplicemente il mio nome, quello di mio padre e quella sola parola. Se non succederà nulla, allora immagino che dovrò restare a marcire qui dentro per l’eternità, ma non credo che le cose andranno così. Credo che mi tireranno fuori di qui nel giro di tre secondi e che lei sarà promosso per aver trasmesso l’informazione. Se si rifiuta di farlo, invece, quando scopriranno che io sono qui, perché lo scopriranno, stia sicuro, si troverà in un mare di guai. Dopotutto, se sa che Yugo Amaryl se n’è andato da Dahl con un famoso matematico, è sufficiente che si convinca che quel famoso matematico è mio padre. Si chiama Hari Seldon.»
Il viso del caporale mostrò chiaramente che quel nome non gli era sconosciuto.
«Qual è la parola che vorresti scrivere?»
«Psicostoria.»
Il caporale aggrottò la fronte. «Che cosa sarebbe?»
«Questo non importa. La faccia pervenire al signor Joranum e staremo a vedere cosa succede.»
Il caporale gli porse un foglietto strappato da un taccuino. «D’accordo. Scrivila e vediamo cosa succede.»
Raych si rese conto di tremare. Anche lui voleva sapere cosa sarebbe successo. Tutto dipendeva dalla persona alla quale il caporale si sarebbe rivolto, e dalla magia che quella singola parola era capace di esercitare.
17
Hari Seldon guardò le gocce di pioggia allargarsi sui finestrini panoramici della terramobile imperiale e si sentì pervadere da un disperato senso di nostalgia.
Era la seconda volta, negli otto anni che aveva trascorso su Trantor, che usciva dalla cupola per fare visita all’imperatore nell’unica zona scoperta del pianeta, e tutte e due le volte c’era brutto tempo. La prima volta, poco dopo il suo arrivo su Trantor, il maltempo lo aveva semplicemente irritato. Non era una novità per lui. Helicon, il suo pianeta natale, conosceva spesso piogge e temporali, specialmente nella regione dove lui era cresciuto.
Ma adesso aveva trascorso otto anni in un clima artificiale, dove i temporali consistevano in annuvolamenti computerizzati a intervalli casuali, con leggere piogge durante i periodi di sonno. I venti impetuosi erano sostituiti da zefiri e non esistevano più punte estreme di caldo o di freddo, ma solo leggeri cambiamenti che ogni tanto obbligavano a slacciare la chiusura anteriore della camicia o a indossare una giacca meno leggera. E lui aveva udito lamentele perfino riguardo a scarti così miti.
Ma quella era pioggia autentica che scendeva cupa da un cielo freddo e livido, e lui non vedeva uno spettacolo simile da anni. Il guaio era che gli piaceva. Gli ricordava Helicon, i suoi giorni giovanili, una vita relativamente spensierata, e si domandò se non avrebbe potuto convincere l’autista a seguire un percorso più lungo.
Impossibile! L’imperatore voleva vederlo e con una terramobile era già un tragitto piuttosto lungo, anche procedendo in linea retta e senza traffico intorno. L’imperatore, ovviamente, non poteva aspettare.
Era un Cleon diverso rispetto a quello che Seldon aveva visto otto anni prima. Era ingrassato di almeno cinque chili e il suo viso aveva un’aria fra il cupo e l’imbronciato. Inoltre la pelle intorno agli occhi e alle guance appariva tesa e sottile, e Hari riconobbe i risultati di qualche microintervento di troppo. In un certo senso Seldon ebbe compassione di Cleon: nonostante tutto il potere e il fasto imperiale, quell’uomo era impotente di fronte al passare del tempo.
Anche stavolta Cleon accolse Hari Seldon in privato, nella stanza sontuosamente arredata del loro primo incontro. Come esigeva l’etichetta, Seldon attese che fosse l’imperatore a rivolgergli la parola.
Dopo un rapido esame dell’aspetto fisico di Seldon, Cleon esordì con voce ordinaria: «Lieto di vederla, professore. Facciamo pure a meno delle formalità, come all’epoca del nostro primo incontro».
«Sì, sire» disse rigidamente Seldon. Non era sempre saggio trascurare l’etichetta solo perché l’imperatore stesso lo aveva ordinato in un momento di esuberanza.
Cleon fece un gesto impercettibile e di colpo la stanza si animò automaticamente, mentre il tavolo si apparecchiava e i piatti cominciavano ad apparire. Seldon, confuso, non riuscì a seguire molto bene i particolari.
L’imperatore disse in tono casuale: «Pranzerà con me, Seldon?».
La frase aveva l’intonazione formale di una domanda, ma conteneva anche la forza di un ordine.
«Ne sarei onorato, sire» rispose Seldon. Si guardò cautamente intorno. Sapeva benissimo che a un suddito non competeva porre domande all’imperatore e meglio sarebbe stato non pensarci nemmeno, ma non vedeva altre vie di uscita. Così disse con voce pacata e sforzandosi di non usare un tono interrogativo: «Il primo ministro non si unirà a noi».
«No. Al momento ha altri impegni, e in ogni caso desidero parlare con lei in privato.»
Per diversi minuti mangiarono tranquillamente, con Cleon che lo guardava fisso e Seldon che arrischiava timidi sorrisi. Cleon non godeva fama di essere crudele o addirittura irresponsabile, ma in teoria poteva sempre fare arrestare Seldon con qualche accusa vaga e, se l’imperatore avesse voluto esercitare fino in fondo la sua influenza, il caso non sarebbe mai arrivato in tribunale. Era sempre meglio evitare di attirare l’attenzione, ma in quella circostanza Seldon non sapeva come riuscirci.
Certo era stato molto peggio otto anni prima, quando lo avevano condotto alla presenza dell’imperatore sotto scorta armata... Tuttavia Seldon non riusciva a sentirsi tranquillo.
Poi Cleon parlò. «Seldon, il primo ministro rappresenta per me un validissimo aiuto, ma a volte ho la sensazione che il popolo possa pensare che non possiedo un cervello in grado di funzionare da solo. A lei non succede mai?»
«Mai, sire» disse Seldon. Inutile accumulare troppi dinieghi.
«Non le credo. Comunque, possiedo un cervello in grado di funzionare da solo e ricordo che quando lei è arrivato su Trantor stava giocherellando con quella faccenda della psicostoria.»
«Certo ricorderete, sire,» disse cauto Seldon «come all’epoca vi abbia spiegato che si trattava di un divertimento matematico privo di applicazioni pratiche.»
«Così mi aveva detto. Lo sostiene forse ancora?»
«Sì.»
«Da allora ha continuato a lavorare alla sua psicostoria?»
«Di quando in quando mi ci trastullo, ma senza risultati. Sfortunatamente il caos interferisce e la prevedibilità non è...»
L’imperatore lo interruppe. «C’è un problema in particolare che vorrei farle esaminare. Assaggi il dessert, Seldon. È davvero squisito.»
«Qual è il problema, sire?»
«Quell’uomo, Joranum. Demerzel mi dice, oh, con tanta delicatezza, certo, che non posso farlo arrestare e neppure usare la forza per stroncare i suoi seguaci. Sostiene che questo servirebbe solo a peggiorare la situazione.»
«Se lo dice il primo ministro, immagino che sia vero.»
«Ma io non voglio che quest’uomo, Joranum... Insomma, non voglio diventare una sua marionetta. Demerzel non fa nulla.»
«Sono certo che stia facendo il possibile, sire.»
«Se sta lavorando per risolvere il problema, di sicuro non mi tiene informato.»
«Questo può essere dovuto al desiderio naturale di tenervi al di sopra dello scontro. Il primo ministro può pensare che se Joranum dovesse... nel caso potesse...»
«Prendere il potere» concluse Cleon in un tono di infinito disgusto.
«Appunto, sire. In tale eventualità non sarebbe saggio farvi apparire personalmente contrario a Joranum. Dovete rimanere al di sopra delle parti per la stabilità dell’impero.»
«Preferirei di gran lunga assicurare la stabilità dell’impero senza Joranum. Che cosa suggerisce, Seldon?»
«Io, sire?»
«Lei, Seldon» disse Cleon spazientito. «Mi lasci dire che non le credo quando sostiene che la psicostoria è solo un trastullo. Demerzel mantiene rapporti amichevoli con lei. Mi giudicate tanto idiota da non esserne al corrente? Lui si aspetta qualcosa da lei. Si aspetta la psicostoria e, poiché non sono stupido, me l’aspetto anch’io. Seldon, lei è dalla parte di Joranum? Voglio la verità!»
«No, sire, non sono dalla sua parte. Lo considero un gravissimo pericolo per l’impero.»
«Bene, le credo. Ha bloccato un tumulto joranumita all’interno dell’università con le sue sole forze, a quanto pare.»
«È stato un gesto impulsivo da parte mia, sire.»
«Vada a raccontarlo a qualche stupido, non a me. Aveva previsto tutto con la psicostoria.»
«Sire!»
«Non protesti. Cosa sta facendo contro Joranum? Perché starà facendo qualcosa, se è schierato con l’impero.»
«Sire» disse cauto Seldon, incerto su quello che l’imperatore poteva sapere. «Ho mandato mio figlio a incontrarsi con Joranum nel settore di Dahl.»
«Perché?»
«Mio figlio è originario di Dahl ed è un giovane abile in molti modi. Potrebbe scoprire qualcosa di utile per noi.»
«Potrebbe?»
«È solo un’eventualità, sire.»
«Mi terrà informato?»
«Certo.»
«E d’ora in poi, Seldon, non venga più a raccontarmi che la psicostoria è solo un trastullo, e che non esiste. Non voglio più sentire idiozie simili. Mi aspetto che faccia qualcosa per risolvere il problema di Joranum. Non so dire cosa, ma deve intervenire, è un ordine. Ora può andare.»
Tornando all’Università di Streeling, Seldon era di umore molto più cupo di quando ne era partito. Cleon aveva parlato con il tono di un uomo che non avrebbe accettato fallimenti.
Tutto dipendeva da Raych, ora.
18
Raych sedeva nell’anticamera di un edificio pubblico di Dahl nel quale non si era mai avventurato – né avrebbe potuto farlo – quando era ancora un monello di strada. Anche adesso, a dire la verità, si sentiva leggermente a disagio, come se avesse varcato un confine proibito.
Cercava comunque di apparire calmo e degno di fiducia, amabile.
Suo padre gli diceva spesso che quella di ispirare simpatia era una sua qualità innata, ma lui non ne era mai stato consapevole. Se era una dote naturale, probabilmente lui ne avrebbe rovinato l’effetto cercando a tutti i costi di sembrare ciò che in realtà era.
Provò a rilassarsi tenendo d’occhio l’uomo che stava maneggiando un computer alla scrivania. Non era un dahlita. Si trattava, per la verità, di Gambol Deen Namarti, l’individuo che aveva accompagnato Joranum all’incontro con suo padre.
Ogni tanto, Namarti sollevava lo sguardo dalla scrivania e sbirciava Raych con occhi socchiusi. Quel tizio non sembrava incline a subire il fascino di Raych, questo era sicuro.
Raych non cercò di rispondere a quelle occhiate ostili con un sorriso amichevole. Sarebbe sembrato troppo artificiale. Si accontentò di aspettare. Fin lì c’era arrivato. Se Joranum si fosse fatto vivo, come era previsto, Raych avrebbe avuto la possibilità di parlargli.
Joranum arrivò, entrando con incedere maestoso e con un sorriso che intendeva apparire leale e cordiale. Namarti sollevò una mano e Joranum si fermò. I due parlarono sottovoce, mentre Raych li osservava attentamente sforzandosi invano di non apparire troppo interessato a origliare. Sembrava abbastanza chiaro che Namarti si opponeva all’idea di un incontro e questo irritò un po’ Raych.
Poi Joranum guardò Raych, sorrise e spinse Namarti da un lato. A Raych sorse il sospetto che fosse Namarti il cervello della squadra, anche se era ovvio che era Joranum a possedere il carisma.
Joranum gli andò vicino e gli porse una mano paffuta, lievemente umida. «Allora, ecco il giovanotto del professor Seldon. Come sta?»
«Bene, grazie, signore.»
«Da quanto mi hanno detto, ha incontrato qualche difficoltà per arrivare fin qui.»
«Non troppe, signore.»
«Ed è venuto con un messaggio di suo padre, mi auguro. Spero che abbia riflettuto sulla sua decisione e che stia pensando di unirsi a me nella mia grande crociata.»
«Non credo proprio, signore.»
Joranum aggrottò la fronte. «È venuto qui a sua insaputa?»
«No, signore. Mi ha mandato lui.»
«Capisco. Ha fame, figliolo?»
«Al momento no, signore.»
«Allora le spiace se mangio un boccone? Non ho molto tempo per le ordinarie gioie della vita» e fece un largo sorriso.
Insieme si spostarono verso un tavolo e sedettero. Joranum liberò un tramezzino dal suo involucro protettivo e ne staccò un morso. Con voce lievemente soffocata disse: «E perché l’ha mandata, figliolo?».
Raych fece spallucce. «Credo che abbia pensato che avrei potuto scoprire qualcosa da usare contro di lei. È molto amico del primo ministro Demerzel.»
«E lei non lo è?»
«No, signore. Io sono un dahlita.»
«So che cosa è lei, signor Seldon, ma questo cosa significa?»
«Significa che sono un oppresso, quindi sono dalla sua parte e voglio aiutarla. Naturalmente, non vorrei che mio padre lo sapesse.»
«Non vedo il motivo di informarlo. Come si propone di aiutarmi?» Lanciò una rapida occhiata a Namarti, che stava appoggiato alla sua scrivania in ascolto, con le braccia incrociate e l’espressione cupa. «Sa qualcosa della psicostoria?»
«No, signore. Mio padre non me ne parla mai... e anche se lo facesse non riuscirei a capirlo. Non credo che stia facendo grandi progressi con quella teoria.»
«Ne è certo?»
«Certo che ne sono certo. All’università c’è un tipo, Yugo Amaryl, anche lui un dahlita, che a volte ne parla. Sono sicuro che non sta succedendo nulla.»
«Ah! E crede che potrei incontrare questo Yugo Amaryl?»
«Non le servirebbe. Non ha molta simpatia per Demerzel, ma è attaccato anima e corpo a mio padre. Non lo contrasterebbe mai.»
«Ma lei lo farebbe?»
Raych assunse un’espressione infelice e mormorò caparbiamente: «Io sono un dahlita».
Joranum si schiarì la voce. «Allora lasci che glielo chieda di nuovo. Come si propone di aiutarmi, giovanotto?»
«C’è una cosa che posso dirle e a cui forse non vorrà credere.»
«Davvero? Mi metta alla prova. Se non le crederò, sarò il primo a dirglielo.»
«Riguarda il primo ministro Demerzel.»
«Ebbene?»
Raych si guardò intorno nervoso. «Nessuno può sentirmi?»
«Solo Namarti e io.»
«Va bene, allora, ascoltate. Quel Demerzel non è un uomo. È un robot.»
«Cosa?» esplose Joranum.
Raych si sentì obbligato a spiegarsi meglio. «Un robot è un uomo meccanico, signore. Non è umano. È una macchina.»
Namarti intervenne con foga: «Jo-Jo, non credergli. È ridicolo».
Ma Joranum sollevò una mano ammonitrice. I suoi occhi scintillavano. «Perché dice che è un robot?»
«Mio padre una volta è stato a Micogeno. Mi ha raccontato tutto di quel viaggio. A Micogeno parlano parecchio di robot.»
«Sì, lo so. O almeno, così ho sentito dire.»
«I micogenesi credono che un tempo i robot fossero molto comuni fra i loro antenati, ma che poi siano stati spazzati via.»
Namarti socchiuse gli occhi e intervenne di nuovo: «Ma cosa le fa pensare che Demerzel sia un robot? Da quel poco che conosco di simili fantasticherie, i robot sono fatti di metallo, no?».
«È così» si affrettò a confermare Raych. «Ma ho sentito dire che esistevano alcuni robot in tutto simili agli esseri umani, in grado di vivere in eterno.»
Namarti scosse violentemente il capo. «Leggende! Ridicole leggende! Jo-Jo, perché ascoltiamo...»
Ma Joranum lo interruppe bruscamente. «No, G.D., voglio sentire il resto. Anch’io conosco queste leggende.»
«Ma sono assurdità, Jo-Jo.»
«Non essere così precipitoso nel definirle assurdità. E anche se fossero tali, la gente si nutre di assurdità, vive e muore in mezzo a esse. Non conta tanto ciò che è, quanto invece ciò che la gente pensa che sia. Mi dica, giovanotto, tralasciando le leggende, cosa le fa credere che Demerzel sia un robot? Supponiamo che i robot esistano. Che cosa ha scoperto, su Demerzel, che la spinge ad affermare che lui è un robot? Glielo ha detto lui?»
«No, signore.»
«Glielo ha detto suo padre?»
«No, signore. L’idea è soltanto mia, ma sono sicuro che è esatta.»
«Per quale motivo? Come fa a esserne così sicuro?»
«È qualcosa nella sua persona. Lui non cambia. Non invecchia. Non mostra emozioni. C’è qualcosa in lui che sembra fatto di metallo.»
Joranum si appoggiò allo schienale della poltroncina e fissò Raych per un tempo prolungato. Era quasi possibile sentir ronzare i suoi pensieri.
Alla fine disse: «Supponiamo che sia un robot, giovanotto. Perché la cosa le sta tanto a cuore? Che importanza ha per lei?».
«Ha un’enorme importanza» rispose Raych. «Sono un essere umano. Non voglio nessun robot che pensi al posto mio e che governi l’impero.»
Joranum si rivolse a Namarti con un cenno di ansiosa approvazione. «Lo hai sentito, G.D.? “Sono un essere umano. Non voglio nessun robot che pensi al posto mio e che governi l’impero.” Pensa di mostrarlo in olovisione e di fargli dire queste parole, di fargliele ripetere all’infinito fino a stamparle a fuoco nella mente di ogni abitante di Trantor?»
«Ehi» disse Raych con tono preoccupato. «Non posso dirlo in olovisione. Non posso lasciare che mio padre scopra...»
«No, certo che no» disse subito Joranum. «Questo non possiamo permetterlo. Useremo solo le parole. Troveremo qualche altro dahlita. Una persona da ogni settore, ognuna con il proprio dialetto, ma sempre con lo stesso messaggio. “Non voglio nessun robot che pensi al posto mio e che governi l’impero.”»
«E cosa succede se Demerzel dimostra di non essere un robot?» chiese Namarti.
«Oh,» fece Joranum «e in che modo? Gli riuscirebbe impossibile. Psicologicamente impossibile. Ma come? Il grande Demerzel, il vero potere dietro il trono, l’uomo che ha manovrato i fili di Cleon I per tutti questi anni e prima ancora quelli di suo padre? Stavolta si abbasserà al punto di scendere fra i mortali e di piagnucolare pubblicamente che anche lui è un essere umano? Per lui sarebbe più distruttivo che rivelare di essere veramente un robot. G.D., abbiamo il nostro nemico in una situazione senza via di scampo e dobbiamo tutto a questo simpatico giovanotto.»
Raych arrossì.
«Si chiama Raych, non è vero?» disse Joranum. «Non appena il nostro partito sarà nella posizione di poter ricompensare adeguatamente i suoi veri amici, non ci dimenticheremo di lei. Un giorno sarà il capo del settore di Dahl, Raych, e non rimpiangerà di averci aiutati. Forse adesso ha qualche rimpianto?»
«No, per nulla» rispose Raych con fervore.
«In questo caso, la faremo ritornare da suo padre. Gli riferisca che non ha nulla da temere da parte nostra e che nutriamo grande stima per lui. Può dirgli di averlo scoperto nel modo che le parrà più opportuno. E se dovesse scoprire altro che a suo giudizio potrebbe tornarci utile, sulla psicostoria in particolare, ci tenga informati.»
«Può starne certo. Ma parla seriamente quando dice che farà in modo che Dahl abbia finalmente qualche opportunità?»
«Con la massima serietà. Uguaglianza fra tutti i settori, ragazzo mio. Uguaglianza fra i mondi. Avremo un nuovo impero dove tutte le differenze dovute ai privilegi e alle ineguaglianze saranno cancellate.»
E Raych annuì vigorosamente. «È quello che voglio.»
19
Cleon, imperatore della galassia, percorreva a passo svelto il vasto corridoio che conduceva dalle sue stanze private, nel Piccolo Palazzo, agli uffici di quella enorme organizzazione perennemente all’opera negli edifici circostanti, centro nevralgico dell’impero.
Parecchi segretari personali sbirciarono il suo passaggio con espressione preoccupata. L’imperatore non si recava mai dagli altri: li convocava e loro arrivavano. Quando poi andava in giro a piedi, non mostrava mai segni di fretta o di tensione emotiva. Com’era possibile? Lui era l’imperatore e, come tale, più un simbolo dei mondi che un essere umano.
Eppure, adesso sembrava un essere umano. Allontanava tutte le persone che incontrava con un gesto brusco della mano destra. Nella sinistra reggeva un ologramma luccicante.
«Il primo ministro!» disse con voce strozzata, del tutto diversa da quella impassibile e levigata che aveva dovuto imparare a usare salendo al trono. «Dov’è?»
Gli alti funzionari che si trovavano sul suo cammino bofonchiavano e restavano a bocca aperta, incapaci di pronunciare parole coerenti. Cleon li superò irosamente, facendoli sentire come i personaggi di un incubo a occhi aperti.
Alla fine l’imperatore entrò nell’ufficio privato di Demerzel, ansimando leggermente, e urlò, letteralmente: «Demerzel!».
L’altro sollevò uno sguardo venato di sorpresa e si alzò in piedi, perché non si restava seduti alla presenza dell’imperatore a meno che questi non invitasse a farlo. «Sire?»
E l’imperatore sbatté l’ologramma sulla scrivania, dicendo: «Cos’è questo? Sai dirmi che cos’è?».
Demerzel osservò l’ologramma. Era di ottima fattura e sembrava quasi vivo. Si aveva l’illusione di sentire il ragazzino, doveva avere dieci anni, pronunciare le parole stampate sulla didascalia: “Non voglio nessun robot che pensi al posto mio e che governi l’impero”.
Demerzel disse con voce pacata: «Sire, ne ho ricevuto uno anch’io».
«E chi altri?»
«Ho l’impressione che si tratti di un volantino che al momento gode di ampia circolazione su tutto Trantor.»
«Già, e vedi la persona che questo moccioso sta guardando?» Picchiò sull’ologramma con il suo indice imperiale, per indicarla. «Non sei tu?»
«La somiglianza è sorprendente, sire.»
«Ho torto nel supporre che lo scopo di questo volantino, come lo chiami tu, è quello di accusarti di essere un robot?»
«Tale sembra essere la sua intenzione, sire.»
«E interrompimi se sbaglio, ma i robot non sono i leggendari umanoidi meccanici che si trovano nei videodrammi polizieschi e nelle storie per bambini?»
«Fa parte del credo religioso dei micogenesi, sire, il fatto che i robot...»
«Non mi interessano i micogenesi e il loro credo. Perché ti accusano di essere un robot?»
«Sono sicuro che si tratta semplicemente di una metafora, sire. Vogliono dipingermi come un uomo senza cuore, le cui opinioni sono soltanto i gelidi calcoli di una macchina.»
«Sarebbe troppo sottile, Demerzel. Non sono un idiota.» Picchiò di nuovo sull’ologramma. «Tentano di far credere alla gente che tu sei davvero un robot.»
«Non ci è possibile impedirlo, sire. Se la gente vuole credere che...»
«Non possiamo permettercelo. Offende la dignità della tua posizione. Peggio ancora, offende la dignità dell’imperatore. Se ne può dedurre che io sarei capace di scegliere come primo ministro un uomo meccanico. È un affronto insopportabile. Ascolta, Demerzel, non esiste per caso una legge che proibisce di denigrare i funzionari dell’impero?»
«Le leggi esistono, sire, e sono molto severe. Risalgono ai grandi codici di Aburamis.»
«E denigrare lo stesso imperatore è un crimine capitale, non è vero?»
«La punizione è la morte, sire.»
«Bene, questo non solo denigra te, denigra me, e chiunque ne sia l’artefice dovrebbe essere giustiziato immediatamente. Dietro questo affronto c’è senz’altro la mano di Joranum.»
«Indubbiamente, sire, ma provarlo potrebbe risultare difficile.»
«Assurdo, ho prove a sufficienza! Voglio un’esecuzione.»
«Il problema, sire, è che le leggi sulla denigrazione in pratica non vengono mai applicate. Non in questo secolo, certo.»
«Ecco perché la società sta diventando instabile e l’impero viene scosso alle radici. Le leggi sono ancora sui codici, quindi devi farle rispettare.»
«Riflettete bene, sire, chiedetevi se sarebbe saggio. Finirebbe per farvi apparire come un tiranno e un despota. Il vostro regno è sempre stato fortunato grazie alla comprensione e alla mitezza.»
«Già, e ora guarda cosa ne ricavo. Tanto per cambiare, facciamo in modo che comincino a temermi, invece di amarmi con questi mezzi.»
«Vi raccomando caldamente di non farlo, sire. Può rivelarsi la scintilla capace di innescare una ribellione.»
«Cosa vorresti fare, allora? Presentarti dinanzi al popolo e dire: “Guardatemi, non sono un robot”?»
«No, perché come avete già detto questo distruggerebbe la mia dignità e, peggio ancora, la vostra.»
«E allora?»
«Non sono sicuro, sire. Non ho avuto il tempo di rifletterci.»
«Non hai avuto il tempo di rifletterci? Mettiti in contatto con Seldon.»
«Sire?»
«Che cosa c’è di tanto difficile da capire nel mio ordine? Mettiti in contatto con Seldon!»
«Desiderate che lo convochi a palazzo, sire?»
«No, non ne abbiamo il tempo. Tuttavia immagino che sia possibile stabilire una linea di comunicazione schermata fra noi due, no?»
«Certo, sire.»
«Allora provvedi subito!»
20
A Seldon mancava l’autocontrollo di Demerzel, dal momento che era fatto soltanto di carne e sangue. La convocazione nel suo ufficio e l’improvviso illuminarsi del campo di disturbo accompagnato da un fievole tintinnio erano indizi sufficienti che stava accadendo qualcosa di insolito. Prima di allora aveva già usato linee schermate, ma mai nel pieno fulgore della sicurezza imperiale.
Era convinto di veder comparire qualche funzionario che gli avrebbe annunciato Demerzel e, considerato il tumulto crescente che stava accompagnando la diffusione su Trantor del volantino con il robot, non poteva aspettarsi nulla di meno.
Ma non si aspettava neppure nulla di più e, quando l’immagine dell’imperatore in persona, delineata dal debole luccichio del campo di disturbo, mise piede (per così dire) nel suo ufficio, Seldon ricadde a sedere sulla poltroncina con la bocca spalancata, incapace di sollevarsi.
Cleon gli fece cenno con impazienza di restare seduto. «Saprà di certo cosa sta succedendo, Seldon.»
«Vi riferite per caso al volantino del robot, sire?»
«Proprio a quello. Cosa dobbiamo fare?»
Nonostante il permesso di restare seduto, finalmente Seldon riuscì ad alzarsi. «C’è dell’altro, sire. Joranum sta organizzando raduni in tutto Trantor per discutere la faccenda del robot. Almeno, questo hanno detto i notiziari.»
«A me la notizia non è ancora arrivata. Logico, perché l’imperatore dovrebbe essere informato di quello che succede?»
«L’imperatore non ha motivo di preoccuparsi, sire. Sono certo che il primo ministro...»
«Il primo ministro non vuole fare nulla, neppure tenermi al corrente. Mi rivolgo a lei e alla psicostoria. Mi dica che cosa fare.»
«Sire?»
«Non intendo reggere il suo gioco, Seldon. Sta lavorando alla psicostoria da otto anni. Il primo ministro mi dice che non devo tentare alcuna azione legale contro Joranum. Allora, che cosa devo fare?»
«S-sire!» balbettò Seldon. «Nulla!»
«Non ha nulla da dirmi?»
«No, sire, non intendevo questo. Volevo dire che non dovete fare nulla. Il primo ministro ha perfettamente ragione se dice che non dovete tentare azioni legali. Servirebbe solo a peggiorare le cose.»
«Molto bene. Cosa le farà migliorare?»
«Da parte vostra, non fare nulla. Da parte del primo ministro, non fare nulla. E da parte del governo, consentire a Joranum di fare quello che vuole.»
«Come potrà esserci d’aiuto, questo immobilismo?»
Cercando di soffocare la nota di disperazione nella sua voce, Seldon rispose: «Lo si vedrà ben presto».
L’imperatore sembrò sgonfiarsi di colpo, come se tutta l’ira e l’indignazione gli fossero state aspirate dal corpo. «Ah! Capisco! Ha saldamente in pugno la situazione.»
«Sire, non ho detto che...»
«Non è necessario che dica altro, ho sentito abbastanza. Ha saldamente in pugno la situazione ma io voglio dei risultati. Mi rimangono sempre le guardie imperiali e l’esercito. Loro sapranno dimostrarsi leali e, nel caso si dovesse giungere ad autentici disordini, non avrò esitazioni. Ma prima le offrirò la sua opportunità.»
L’immagine svanì in un lampo e Seldon ricadde seduto, fissando semplicemente lo spazio vuoto dove fino a un istante prima c’era stato l’imperatore.
Fin dal primo sciagurato momento in cui aveva menzionato la psicostoria al Convegno decennale di otto anni prima si era sempre trovato a fronteggiare il fatto che lui non disponeva di ciò di cui aveva incautamente parlato.
Aveva soltanto il pallido spettro dei suoi pensieri e quella che Yugo Amaryl chiamava “intuizione”.
21
Nell’arco di due giorni Joranum fece il giro di tutto Trantor, in parte di persona, nella maggior parte dei casi attraverso i suoi luogotenenti. Come Hari mormorò a Dors, era una campagna che aveva tutti i segni distintivi dell’efficienza militare. «È nato per essere un ammiraglio d’altri tempi. È sprecato in politica.»
«Sprecato?» ribatté Dors. «Di questo passo finirà col diventare primo ministro in una settimana e, se lo desidera, imperatore in due. Ci sono rapporti di alcune guarnigioni militari che inneggiano al suo nome.»
Seldon scosse il capo. «Finirà per crollare, Dors.»
«Che cosa? Il partito di Joranum o l’impero?»
«Il partito di Joranum. La storia del robot ha suscitato immediato scalpore, specialmente grazie all’uso efficace di quel volantino, ma con un briciolo di riflessione, con un briciolo di lucidità, l’opinione pubblica si accorgerà che è un’accusa ridicola.»
«Andiamo, Hari,» disse Dors seccata «non è necessario che tu finga con me. Come storia non è affatto ridicola. Ma come può Joranum essere riuscito ad arrivare alla conclusione che Demerzel è un robot?»
«Oh, quello. Glielo ha detto Raych.»
«Raych!»
«Esatto. Ha svolto il suo incarico alla perfezione ed è tornato indietro sano e salvo con la promessa che un giorno o l’altro sarebbe diventato il capo del settore di Dahl. Naturalmente, gli hanno creduto. Sapevo che sarebbe andata così.»
«Vuoi farmi credere che hai detto a Raych che Demerzel è un robot e che gli hai fatto trasmettere l’informazione a Joranum?» Dors aveva un’espressione inorridita.
«No, non potevo farlo. Tu sai che non potrei mai dire a Raych, o a chiunque altro, che Demerzel è un robot. Ho detto a Raych con tutta la mia convinzione che Demerzel non era un robot, e anche questo mi è costato parecchia fatica. Dopo ho passato due giorni con un tremendo mal di testa. Ma gli ho chiesto di dire a Joranum che lo era. Raych è fermamente convinto di aver mentito a Joranum.»
«Ma perché, Hari? Perché?»
«Posso dirti solo che la psicostoria non c’entra. Non unirti all’imperatore nel pensare che sono un mago. Volevo solo far credere a Joranum che Demerzel fosse un robot. Per nascita è un micogenese, quindi è stato bombardato fin dall’infanzia da storie di robot, che in quella cultura abbondano. Di conseguenza, era predisposto a crederlo ed era convinto che anche l’opinione pubblica ci avrebbe creduto insieme a lui.»
«Ebbene, non è quello che fanno tutti?»
«Ma non sul serio. Una volta che la sorpresa iniziale sarà passata, si accorgeranno che è una vera follia, oppure lo penseranno. Ho convinto Demerzel a tenere un discorso che sarà trasmesso in olovisione in ogni angolo di Trantor e per canale subeterico in regioni chiave di tutto l’impero. Parlerà di qualsiasi cosa, tranne della faccenda del robot. Esistono abbastanza crisi, lo sappiamo tutti, per riempire un simile discorso. La gente ascolterà e non sentirà nulla sui robot. Poi, alla fine, qualcuno gli farà una domanda sul volantino e lui non avrà bisogno di dire una sola parola. Gli basterà soltanto scoppiare a ridere.»
«Ridere? Non mi risulta che Demerzel abbia mai riso. È già molto raro vederlo sorridere.»
«Questa volta, Dors, riderà. È l’unica cosa che nessuno riesce mai a immaginare in un robot. Hai visto qualche robot nei videodrammi olovisivi, non è vero? Vengono sempre mostrati con una mentalità lineare, privi di emozioni, inumani... È questo che la gente si aspetterà di sicuro. Quindi Demerzel deve semplicemente ridere. E per concludere il tutto... Ricordi Caposole Quattordici, il capo religioso di Micogeno?»
«Sì. Dalla mentalità lineare, privo di emozioni, inumano. Anche lui non ha mai riso.»
«E non lo farà di sicuro questa volta. Dopo quel piccolo scontro ginnico al Campo, ho svolto parecchie ricerche sul conto di Joranum. Conosco il suo vero nome. So dov’è nato, chi erano i suoi veri genitori, dove è stato addestrato in gioventù, e tutte queste informazioni, con l’aggiunta di prove documentarie, sono finite nelle mani di Caposole Quattordici. Non credo che Caposole provi molta simpatia per i fuggiaschi.»
«Ma mi pareva che avessi detto che non volevi innescare un’ondata di discriminazione.»
«E non lo voglio. Se avessi passato le informazioni alla gente dell’olovisione l’avrei fatto, ma io le ho inoltrate a Caposole, cioè alla persona, tutto sommato, alla quale appartengono di diritto.»
«Così sarà lui a scatenare l’ondata.»
«No, naturalmente. Nessuno su Trantor presterebbe la benché minima attenzione a Caposole, qualunque cosa dica.»
«Allora a cosa servirà avergli passato quelle notizie?»
«Be’, questo è ciò che vedremo, Dors. Non dispongo di un’analisi psicostorica della situazione. Non so nemmeno se sia possibile stenderne una. Spero solamente di aver fatto la cosa più sensata.»
22
Eto Demerzel rideva.
Non era la prima volta. Se ne stava seduto là, in una stanza accuratamente schermata contro ogni intrusione elettronica, in compagnia di Hari Seldon e Dors Venabili, e, di quando in quando, a un segnale di Hari, si metteva a ridere. A volte si chinava all’indietro e scoppiava in risate a dir poco fragorose, ma Seldon scuoteva il capo. «In questo modo non sembreresti mai convincente.»
Allora Demerzel sorrideva e poi rideva in modo dignitoso, e Seldon faceva una smorfia. «Non so più cosa consigliarti» disse a un certo punto. «È inutile cercare di raccontarti barzellette. Afferri la battuta solo intellettualmente. Dovrai accontentarti di memorizzare il suono.»
«Proviamo con una risata registrata in studio» propose Dors.
«No! Quello non sarebbe mai Demerzel. Usano un branco di idioti pagati per ululare in modo sguaiato. Non è quello che voglio. Tenta di nuovo, Demerzel.»
Demerzel tentò di nuovo finché Seldon disse: «Va bene. Allora, memorizza questo suono e riproducilo quando ti verrà posta la domanda. Devi assumere un’espressione divertita. Non puoi riprodurre il suono di una risata, per quanto convincente, con un viso troppo serio. Sorridi leggermente, appena un poco. Incurva verso l’alto gli angoli della bocca». Lentamente la bocca di Demerzel si allargò in un sogghigno. «Non puoi far luccicare gli occhi?»
«Luccicare? Ma che cosa stai dicendo?» intervenne Dors indignata. «Nessuno fa luccicare gli occhi. È un’espressione metaforica.»
«No, per nulla» disse Seldon. «Nell’occhio può essere presente una traccia di lacrime, per gioia, tristezza, o qualsiasi altro motivo, e il riflesso della luce su quella traccia di fluido produce il luccichio.»
«Be’, ti aspetti sul serio che Demerzel riesca a produrre lacrime a comando?»
Al che Demerzel disse con tono estremamente pratico: «I miei occhi producono lacrime per la pulizia complessiva, e mai in eccesso. Forse, però, se pensassi che sono un po’ irritati...».
«Provaci» disse Seldon. «Male non può farti.»
E così accadde che, quando il dibattito sugli argomenti di interesse generale ebbe fine e mentre le parole si riversavano per via subeterica verso milioni di mondi a una velocità migliaia di volte superiore a quella reale della luce – parole serie e compunte, pronunciate con tono grave, destinate a informare, prive di ogni abbellimento retorico, che avevano discusso di tutto all’infuori dei robot –, Demerzel si dichiarò pronto a rispondere a eventuali domande.
Non dovette attendere a lungo. La prima domanda fu: «Signor primo ministro, lei è un robot?».
Demerzel si accontentò di fissare con calma l’interlocutore e lasciò che la tensione si accumulasse. Dopo di che sorrise, il suo corpo sussultò lievemente e infine proruppe in una risata. Non fu una risata fragorosa o sguaiata, ma fu pur sempre uno scoppio sonoro di ilarità, la reazione spontanea di una persona colpita da qualcosa di divertente. Risultò contagiosa. Il pubblico dapprima ridacchiò e poi si mise a ridere insieme a lui.
Demerzel attese che le risate collettive si smorzassero e, subito dopo, con gli occhi luccicanti, disse: «Devo proprio rispondere a questa domanda? È veramente necessario?». Stava ancora sorridendo quando lo schermo si oscurò.
23
«Sono sicuro che ha funzionato» disse Seldon. «Naturalmente, non avremo un rovesciamento immediato. Ci vorrà tempo, ma ormai ci stiamo muovendo nella direzione giusta. L’ho notato quando ho interrotto il discorso di Namarti nel Campo dell’università. Il pubblico era dalla sua parte finché non l’ho fronteggiato e gli ho detto il fatto suo, poi ha cambiato schieramento di colpo.»
«Credi che questa sia una situazione analoga?» gli chiese Dors con tono alquanto dubbioso.
«Certo. Anche se non ho la psicostoria, posso pur sempre usare l’analogia... e il cervello con cui sono nato, immagino. Il primo ministro era assediato da ogni parte con la medesima accusa e lui l’ha affrontata con un sorriso e una risata, le due cose più antirobotiche che potesse fare. In questo modo ha risposto indirettamente alla domanda. Ovviamente, la simpatia dell’opinione pubblica ha cominciato a scivolare dalla sua parte. Ma questo è solo l’inizio. Dobbiamo ancora aspettare l’intervento di Caposole Quattordici e ascoltare quello che dovrà dire.»
«Sei fiducioso anche su questo punto?»
«Nel modo più assoluto.»
24
Il tennis non era uno degli sport preferiti di Hari Seldon, ma lui preferiva praticarlo piuttosto che restare a guardare. Di conseguenza tenne a freno la propria impazienza e osservò con interesse l’imperatore Cleon che, vestito nella tenuta d’obbligo, saltellava attraverso il campo da gioco per ribattergli la palla.
Era tennis imperiale, a dire il vero, così chiamato perché era il preferito dagli imperatori, una versione del gioco in cui si usava una racchetta computerizzata che poteva cambiare leggermente l’angolazione attraverso adeguate pressioni sull’impugnatura. In diverse occasioni Hari aveva tentato di assimilare quella tecnica, ma aveva scoperto che il controllo di una racchetta computerizzata richiedeva moltissima pratica, e il suo tempo era troppo prezioso per sprecarlo in quella che era evidentemente un’attività futile.
Cleon gli rilanciò la palla in un punto dove Seldon non riuscì a raggiungerla e così vinse la partita. Lasciò trotterellando il campo fra gli applausi moderati dei funzionari che stavano guardando e Seldon gli disse: «Congratulazioni, sire. Avete giocato uno splendido incontro».
Cleon ribatté con indifferenza: «Davvero, Seldon? Di solito stanno tutti ben attenti a lasciarmi vincere. Non ne ricavo alcun piacere».
«In questo caso, sire, potreste ordinare ai vostri avversari di giocare con maggior determinazione.»
«Non servirebbe. Farebbero in modo di perdere ugualmente. E se vincessero, ne ricaverei un piacere ancora minore che vincendo senza fatica. Essere imperatore ha i suoi lati negativi, Seldon. Joranum se ne sarebbe accorto presto... se fosse riuscito a diventarlo.»
Scomparve nella sua doccia privata e ne riemerse a tempo debito, rinfrescato, asciugato e vestito in modo più formale.
«E ora, Seldon,» disse allontanando tutti gli altri con un cenno «visto che il campo da tennis può offrirci la stessa riservatezza di altri luoghi e che il tempo è splendido, facciamo a meno di rientrare. Ho letto il messaggio micogenese di questo Caposole Quattordici. Sarà sufficiente?»
«Senz’altro, sire. Come avrete visto, Joranum viene denunciato come rinnegato micogenese e accusato di bestemmia nei termini più duri.»
«E questo gli darà il colpo di grazia?»
«Diminuirà la sua importanza in modo fatale, sire. Ormai sono pochissimi quelli che accettano la storia folle del primo ministro robot. A questo punto viene rivelato il fatto che Joranum è un bugiardo e un impostore e, quel che è peggio, uno che è stato colto con le mani nel sacco.»
«Con le mani nel sacco, già» disse Cleon pensieroso. «Intende dire che l’intrigo e la disonestà possono essere sinonimi di astuzia e costituire fonte di ammirazione, mentre essere colti con le mani nel sacco significa essere stupidi e ciò non è mai degno di ammirazione.»
«Avete riassunto mirabilmente il concetto, sire.»
«Allora Joranum non è più un pericolo.»
«Non possiamo esserne certi, sire. Potrebbe ancora riprendersi. Possiede sempre un’organizzazione e alcuni dei suoi seguaci gli resteranno fedeli. La storia è ricca di esempi di uomini e donne che si sono risollevati dopo disastri non meno grandi di questo... o addirittura maggiori.»
«In questo caso facciamolo giustiziare.»
Seldon scosse il capo. «Non sarebbe consigliabile, sire. Non vorrete creare un martire, o apparire come un despota.»
Cleon aggrottò la fronte. «Adesso lei sembra Demerzel. Tutte le volte che cerco di imporre un atto di forza, lui mormora: “Despota”. Prima di me ci sono stati imperatori che non hanno esitato due volte a intervenire con la forza, e in seguito sono stati ammirati e considerati forti e decisi.»
«Indubbiamente, sire, ma noi viviamo in tempi difficili. Inoltre un’esecuzione non è necessaria. Potete raggiungere il vostro scopo in un modo che vi permetterà di sembrare illuminato e benevolo.»
«Sembrare illuminato?»
«Di essere illuminato, sire, un banale lapsus. Far giustiziare Joranum equivarrebbe a una vendetta, il che potrebbe essere giudicato ignobile. Come imperatore voi avete un atteggiamento gentile e addirittura paterno verso le credenze della sudditanza. Non fate distinzioni, perché siete l’imperatore di tutti nello stesso modo.»
«Ma cosa sta dicendo?»
«Voglio dire, sire, che Joranum ha offeso la sensibilità sociale e religiosa dei micogenesi e che voi siete inorridito dinanzi al suo sacrilegio, in quanto si tratta di uno di loro. Di conseguenza, la mossa migliore sarebbe quella di consegnare Joranum ai micogenesi e di lasciare che siano loro a occuparsene. In questo modo sarete senz’altro applaudito per la vostra paterna imperiale sollecitudine.»
«E i micogenesi lo giustizieranno?»
«Può anche darsi. Le leggi di quella gente contro la bestemmia sono estremamente severe, addirittura eccessive. Come minimo, lo condanneranno ai lavori forzati a vita.»
Cleon sorrise. «Splendido. Io verrò lodato per la mia umanità e tolleranza, loro faranno il lavoro sporco.»
«Lo farebbero, sire, se consegnaste effettivamente Joranum nelle loro mani. Questo, tuttavia, finirebbe col fare di Joranum ancora un martire.»
«Adesso mi confonde le idee. Cosa vorrebbe che facessi?»
«Offrite una scelta a Joranum. Ditegli che la vostra preoccupazione per il benessere di tutti i cittadini dell’impero vi impone di consegnarlo ai micogenesi affinché sia processato, ma che la vostra umanità vi fa temere un giudizio troppo severo. Come alternativa potrà scegliere di essere esiliato su Nishaya, il piccolo mondo periferico dal quale sosteneva di provenire, per condurvi una vita di pace e oscurità. Ovviamente farete in modo che venga tenuto sotto sorveglianza.»
«E questo sistemerà ogni cosa?»
«Certamente. Scegliendo di essere restituito ai micogenesi, Joranum commetterebbe un autentico suicidio e non mi pare il tipo. Di sicuro sceglierà Nishaya e, benché sia la scelta più sensata, è anche la meno eroica. Come rifugiato su Nishaya, ben difficilmente potrà mettersi alla guida di qualsiasi movimento che si prefigga lo scopo di impadronirsi dell’impero. La sua organizzazione si disgregherà. I suoi seguaci potrebbero seguire un martire con sacro zelo, ma farebbero di sicuro fatica a seguire un codardo.»
«Sorprendente! Com’è riuscito a escogitare tutta questa manovra, Seldon?» Nella voce dell’imperatore vibrava una nota di sincera ammirazione.
«Ecco, mi è sembrato ragionevole supporre...»
«Non importa» disse bruscamente Cleon. «Non credo che mi dirà la verità, o che in caso contrario riuscirei a comprenderla, ma posso dirle questo. Demerzel lascia il suo incarico di governo. Quest’ultima crisi si è rivelata superiore alle sue forze e io sono d’accordo con lui che è ormai giunto il momento del suo ritiro. Ma non posso restare senza un primo ministro e, a partire da questo momento, la carica è sua.»
«Sire!» esclamò Seldon con un misto di orrore e incredulità.
«Primo ministro Hari Seldon» disse l’imperatore con voce pacata. «L’imperatore lo vuole.»
25
«Non allarmarti» disse Demerzel. «È stato un mio suggerimento. Ormai sono qui da troppo tempo e il succedersi delle crisi ha raggiunto il punto in cui il rispetto delle Tre Leggi mi paralizza. Tu sei il logico successore.»
«Io non sono il logico successore» replicò Seldon accaloratamente. «Cosa ne so di come si governa un impero? L’imperatore è così sciocco da credere che abbia risolto questa crisi con la psicostoria. Il che, naturalmente, non è vero.»
«Questo non ha importanza, Hari. Se lui crede che tu possiedi le risposte della psicostoria, ti seguirà con entusiasmo e questo farà di te un ottimo primo ministro.»
«Può anche seguirmi verso la distruzione.»
«Io credo invece che il tuo buon senso, o l’intuizione, ti manterrà sulla rotta giusta, con o senza la psicostoria.»
«Ma cosa farò senza di te, Daneel?»
«Ti ringrazio di avermi chiamato così. Ormai non sono più Demerzel, solo Daneel. Quanto a quello che farai, perché non provi a mettere in pratica alcune delle idee di Joranum sull’uguaglianza e sulla giustizia sociale? Forse lui non le predicava sul serio, può essersene servito solo per conquistarsi la fedeltà delle classi più umili, ma di per sé non sono cattive idee. E trova qualche modo per farti aiutare da Raych in questo. Ti è rimasto fedele nonostante l’attrazione che le idee di Joranum esercitavano su di lui e deve sentirsi combattuto e una specie di traditore. Dimostragli che non lo è. Inoltre, potrai lavorare con mezzi maggiori sulla psicostoria, perché a questo proposito l’imperatore sarà al tuo fianco anima e corpo.»
«Ma tu cosa farai, Daneel?»
«Ho altre cose di cui occuparmi nella galassia. Esiste sempre la Legge Zero che mi spinge a lavorare per il bene dell’umanità, a patto che io riesca a stabilire quale possa essere. E poi, Hari...»
«Sì, Daneel?»
«Ti resta sempre Dors.»
Seldon annuì. «Sì, mi resta sempre Dors.» Esitò un istante, quindi strinse la mano salda di Daneel. «Addio, amico mio.»
«Addio, Hari.»
Dopo di che il robot si girò, facendo frusciare la pesante cappa ministeriale mentre si allontanava, la testa alta e la schiena dritta come un fuso, lungo il corridoio del palazzo.
Seldon rimase immobile per diversi minuti dopo che Daneel se ne fu andato, perso nei propri pensieri. Poi ebbe un sussulto e cominciò a muoversi verso l’appartamento del primo ministro. Seldon aveva ancora una cosa da dire a Daneel... la cosa più importante.
Nell’atrio illuminato da una luce morbida, Seldon esitò prima di entrare. Ma l’appartamento era vuoto. La cappa scura era stesa sopra una sedia. Nelle stanze del primo ministro riecheggiarono le ultime parole di Hari per il robot: «Addio, amico mio». Eto Demerzel se ne era andato; R. Daneel Olivaw era svanito.
1. Tutte le citazioni qui riportate sono riprese — per gentile concessione dell’editore — dall’Enciclopedia galattica, CXVI edizione, pubblicata nel 1020 E.F. dalla Società editrice Enciclopedia galattica, Terminus.