WYE ... Un settore della città-mondo di Trantor. Negli ultimi secoli dell’impero galattico, Wye era la parte più forte e più stabile della città-mondo. I suoi governanti aspiravano da tempo al trono imperiale, giustificando questo fatto con la loro discendenza da imperatori del passato. Sotto Mannix IV, Wye fu militarizzato e (come sostennero in seguitò le autorità imperiali) si accingeva a effettuare un colpo di stato a livello planetario.
ENCICLOPEDIA GALATTICA
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L’uomo che entrò era alto e muscoloso. Aveva lunghi baffi biondi arricciati all’insù e un ciuffo di peli che gli scendeva lungo i lati della faccia e sotto il mento, lasciando scoperti la punta del mento e il labbro inferiore, che sembravano leggermente umidi. Aveva capelli talmente corti e chiari che per uno sgradevole momento a Seldon venne in mente Micogeno.
Quella che il nuovo venuto indossava era inequivocabilmente un’uniforme. Era rossa e bianca, con intorno alla vita un’ampia cintura decorata con borchie d’argento.
Quando parlò, lo fece con voce profonda e con un accento diverso da tutti quelli che Seldon aveva sentito in precedenza. La maggior parte degli accenti strani avevano un suono sgraziato, rozzo per Seldon, mentre quello sembrava melodioso, forse per la ricchezza di toni bassi.
«Sono il sergente Emmer Thalus» tuonò l’uomo scandendo le sillabe. «Cerco il dottor Hari Seldon.»
«Sono io» disse Seldon. E a Dors mormorò: «Se Hummin non è potuto venire di persona, bisogna ammettere che si è fatto rappresentare da un magnifico ammasso di muscoli».
Il sergente lo squadrò imperturbabile, piuttosto a lungo, quindi disse: «Sì, corrisponde alla descrizione. Prego, venga con me dottor Seldon».
«Faccia strada.»
Il sergente arretrò, Seldon e Dors si mossero ma il militare alzò il palmo verso Dors. «Ho l’ordine di portare con me il dottor Seldon. Non mi è stato detto di altre persone.»
Per un attimo Seldon lo fissò perplesso, poi la sua espressione sorpresa lasciò il posto alla rabbia. «È impossibile che le abbiano detto questo, sergente. La dottoressa Dors Venabili è la mia collaboratrice e la mia compagna. Deve venire con me.»
«I miei ordini non lo prevedono, dottore.»
«I suoi ordini non mi interessano per niente, sergente Thalus. Senza di lei, non mi muovo.»
«Inoltre,» intervenne Dors irritata «io ho l’ordine di proteggere costantemente il dottor Seldon. Per farlo, devo stare con lui. Quindi, dove va lui vado anch’io.»
Il sergente parve perplesso. «Mi è stato ordinato nella maniera più assoluta di assicurarmi che non le succeda nulla, dottor Seldon. Se non verrà spontaneamente, dovrò portarla io alla mia vettura. Cercherò di agire con delicatezza.»
Tese le braccia, quasi intendesse afferrare Seldon per i fianchi e portarlo via di peso.
Seldon scattò indietro e, mentre si ritraeva, con la destra colpì di taglio la parte alta del braccio del sergente, nel punto dove i muscoli erano più sottili, così da centrare l’osso.
Il sergente inspirò bruscamente ed ebbe un fremito, ma si voltò, inespressivo, e avanzò di nuovo. Davan restò immobile a osservare la scena, Raych invece si portò alle spalle del sergente.
Seldon ripeté il colpo di taglio una seconda volta, quindi una terza, ma adesso Thalus, prevenendo la mossa, abbassò la spalla e assorbì il colpo con la massa muscolare.
Dors aveva estratto i suoi coltelli.
«Sergente,» disse decisa «si giri da questa parte. Voglio che si renda conto che forse sarò costretta a ferirla seriamente, se tenterà ancora di portare via il dottor Seldon contro la sua volontà.»
Thalus si fermò, osservò calmo e solenne i coltelli che ondeggiavano lentamente, poi disse: «I miei ordini non mi impediscono di fare del male a qualcuno che non sia il dottor Seldon».
Con velocità sorprendente portò la mano alla frusta neuronica nella fondina che aveva sul fianco. Altrettanto rapida Dors scattò in avanti brandendo le lame.
Nessuno dei due completò il movimento.
Con un guizzo in avanti Raych aveva spinto il sergente alle spalle e con la destra gli aveva sfilato l’arma dal fodero. Il ragazzino arretrò subito, impugnando la frusta neuronica con entrambe le mani, e gridò: «Mani in alto, sergente, o assaggi questo affare!».
Thalus si voltò, rosso in viso, l’espressione nervosa, perdendo per un attimo la sua imperturbabilità. «Mettila giù, figliolo» tuonò. «Non sai come funziona.»
«So della sicura» ringhiò Raych. «Non è inserita e questo aggeggio può sparare. E sparerà se cerca di attaccarmi.»
Il sergente si bloccò. Certo sapeva quanto fosse pericoloso trovarsi di fronte a un ragazzino eccitato che stringeva un’arma del genere.
Seldon non si sentiva molto meglio di lui. «Attento, Raych. Non sparare. Giù il dito dal contatto.»
«Non lascerò che quello mi salti addosso.»
«Non lo farà. Sergente, per favore, non si muova. Chiariamo una cosa: le è stato detto di portarmi via di qui, giusto?»
«Giusto» rispose Thalus, gli occhi leggermente sbarrati e fissi su Raych (che a sua volta aveva lo sguardo incollato sul sergente).
«Ma non le hanno detto di portare qualcun altro, giusto?»
«Non me l’hanno detto, dottore» ribatté deciso il sergente. Nemmeno la minaccia di una frusta neuronica l’avrebbe spinto a un comportamento subdolo. Era facile capirlo.
«Benissimo, ma ascolti, sergente. Le hanno detto di non portare nessun altro?»
«Io ho solo...»
«No, ascolti, è diverso. Le hanno ordinato semplicemente: “Porta il dottor Seldon”. Era questo l’ordine, non c’erano accenni ad altre persone o gli ordini erano più specifici? Le hanno ordinato: “Porta il dottor Seldon e non portare nessun altro”?»
Thalus rifletté. «Mi hanno detto di portare lei, dottore.»
«Dunque, non hanno parlato di nessun’altra persona, vero?»
Una pausa. «No.»
«Non le hanno detto di portare la dottoressa Venabili, ma non le hanno nemmeno detto di non portarla. Giusto?»
Una pausa. «Sì.»
«Quindi può portarla o non portarla, come preferisce, vero?»
Una lunga pausa. «Immagino di sì.»
«Bene. Qui abbiamo Raych, il giovanotto che la tiene sotto tiro con una frusta neuronica. La sua, ricorda? È ansioso di usarla.»
«Sì!» gridò Raych.
«Non ancora, Raych» disse Seldon. «E qui c’è la dottoressa Venabili, con due coltelli che sa maneggiare molto bene. Infine ci sono io che, se mi si presenta l’occasione, posso romperle il pomo d’Adamo con una mano, dopo di che non riuscirà più a parlare se non in un mormorio. Allora, vuole portare anche la dottoressa o no? I suoi ordini le consentono entrambe le cose.»
E alla fine il sergente, il tono sconfitto, rispose: «Porterò anche la donna».
«E il ragazzino, Raych.»
«E il ragazzino.»
«Bene. Ho la sua parola d’onore di soldato che farà come ha appena detto, onestamente?»
«Ha la mia parola d’onore di soldato.»
«Bene. Raych, ridagli la frusta subito! Non farmi aspettare.»
Raych, con una smorfia contrariata, guardò Dors che esitò e poi lentamente gli fece cenno di sì. Aveva un’espressione infelice quanto quella del ragazzino.
Raych porse l’arma al sergente. «Solo perché mi hanno costretto, pezzo di...» Le ultime parole furono incomprensibili.
«Metti via i coltelli, Dors» le disse Seldon.
Lei scrollò la testa, ma obbedì.
«Allora, sergente?» fece Seldon.
Il sergente guardò la frusta neuronica, poi Seldon. «Lei è un uomo d’onore, dottor Seldon, e la mia parola è sacra.» Con un gesto secco, militaresco, rinfoderò l’arma.
Seldon si rivolse a Davan. «Per favore, dimentichi quello che ha visto qui. Noi tre andiamo spontaneamente col sergente Thalus. Quando incontrerà Yugo Amaryl, gli dica che non mi dimenticherò di lui e che non appena questa storia si sarà conclusa e sarò libero di agire, penserò a farlo entrare in una università. E se potrò fare qualcosa di ragionevole per la vostra causa, Davan, lo farò. Bene, sergente, andiamo.»
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«Non sei mai stato su un aviogetto prima d’ora, Raych?» gli chiese Seldon.
Il ragazzino scosse il capo, ammutolito. Con un misto di paura e soggezione contemplava la Faccia superiore che scorreva velocissima sotto di loro.
Trantor era un mondo di Espressovie e tunnel, rifletté per l’ennesima volta Seldon. Per la maggior parte della popolazione perfino i lunghi viaggi si svolgevano nel sottosuolo. I viaggi aerei, per quanto potessero essere comuni sugli altri mondi, erano un lusso su Trantor, come l’avio a bordo del quale si trovavano.
“Come avrà fatto Hummin a procurarselo?” si domandò.
Guardò dal finestrino la linea ondulata delle cupole, il verde che predominava in quella zona del pianeta, le occasionali chiazze di vegetazione che sembravano quasi giungle, i bracci di mare che sorvolavano di tanto in tanto, con le acque plumbee che all’improvviso si accendevano di brevi riflessi luccicanti quando il sole sbucava per un attimo dalla massiccia coltre di nubi.
Dopo circa un’ora di volo Dors, che visionava un nuovo romanzo storico che evidentemente non l’appassionava granché, spense il videolibro e disse: «Mi piacerebbe sapere dove stiamo andando».
«Se non riesci a capirlo tu,» le disse Seldon «figuriamoci se posso riuscirci io. Sei su Trantor da molto più tempo di me.»
«Sì, ma sono stata all’interno. Qui fuori, con solo la Faccia superiore sotto di me, sono completamente persa.»
«Oh, be’. Hummin sa quel che fa, credo.»
«Ne sono sicura» replicò Dors acida. «Ma può darsi che questo non abbia niente a che vedere con la situazione attuale. Perché continui a dare per scontato che questa sia una sua iniziativa?»
Seldon corrugò la fronte. «Adesso che me lo chiedi, non lo so. Mi è sembrato scontato e basta. Ma perché non dovrebbe trattarsi di un suo intervento?»
«Perché chi ha organizzato questa spedizione di soccorso non ha specificato di prelevare anche me. Impossibile che Hummin si sia dimenticato della mia esistenza. E perché Hummin non è venuto di persona, come ha fatto a Streeling e a Micogeno?»
«Non puoi pretendere che venga sempre, Dors. Può darsi che fosse impegnato. Non dobbiamo sorprenderci se questa volta non è venuto, se mai è sorprendente che l’abbia fatto le altre volte.»
«D’accordo, ammettendo che non sia venuto di persona, perché mandare un palazzo volante lussuoso e vistoso come questo?» Dors indicò con un gesto l’enorme avio.
«Forse era disponibile soltanto questo. O forse Hummin avrà pensato che a bordo di un mezzo così appariscente nessuno si aspetterebbe di trovare dei fuggiaschi che cercano disperatamente di passare inosservati. È il famoso doppio trucco.»
«Già, troppo famoso, a mio avviso. E poi perché mandare al suo posto un idiota come il sergente Thalus?»
«Il sergente non è un idiota, è solo addestrato alla completa obbedienza. Basta usare gli ordini giusti ed è totalmente affidabile.»
«Appunto, Hari. Torniamo al discorso di prima. Perché non gli hanno dato gli ordini giusti? Per me è inconcepibile che Hummin gli abbia detto di portarti via da Dahl senza fare il minimo accenno a me. Inconcepibile.»
Al che Seldon non seppe cosa ribattere e il suo morale imboccò la china discendente.
Passò un’altra ora e Dors disse: «Pare che stia diminuendo la temperatura, fuori. Il verde della vegetazione della Faccia superiore sta diventando marrone e credo si sia acceso il riscaldamento».
«Questo cosa significa?»
«Dahl è nella zona tropicale, quindi è evidente che stiamo andando a nord o a sud e spostandoci di parecchio. Se sapessi in che direzione si trova la linea giorno-notte, potrei stabilire dove.»
Alla fine sorvolarono un tratto di costa in cui le cupole erano orlate di ghiaccio in prossimità del mare.
Poi, all’improvviso, l’avio puntò verso il basso.
Raych urlò: «Cadiamo! Ci sbricioleremo!».
Seldon strinse i braccioli del sedile, mentre i muscoli addominali si tendevano.
Dors rimase impassibile. «I piloti là davanti non sembrano allarmati. Ci infileremo in un tunnel» osservò.
E mentre parlava, le ali dell’avio si piegarono e sparirono sotto la fusoliera: come un proiettile, il velivolo penetrò in una galleria. Per un breve istante furono inghiottiti dall’oscurità, ma poco dopo l’impianto di illuminazione della galleria entrò in funzione. Le pareti del tunnel sfrecciavano lateralmente.
«Probabilmente non mi convincerò mai che i piloti sappiano in anticipo che il tunnel è libero» borbottò Seldon.
«Avranno ricevuto la conferma a qualche decina di chilometri dall’arrivo» disse Dors. «In ogni caso questa dovrebbe essere la parte conclusiva del viaggio e presto sapremo dove siamo.» Si interruppe, quindi aggiunse: «Ho l’impressione che non sarà affatto una scoperta piacevole».
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L’avio uscì dal tunnel posandosi su una lunga pista dove il tetto era talmente alto che, per la prima volta dopo aver lasciato il settore imperiale, Seldon ebbe la sensazione che la luce del giorno fosse quasi autentica, come all’esterno.
Si fermarono prima di quanto Seldon non si aspettasse, ma dovettero sopportare una sgradevole pressione in avanti. Raych, in particolare, si trovò schiacciato contro il sedile che aveva di fronte ed ebbe difficoltà respiratorie, finché Dors non gli mise una mano sulla spalla tirandolo leggermente indietro.
Il sergente Thalus, maestoso ed eretto, lasciò il velivolo e si portò sul retro, dove aprì il portello dello scompartimento passeggeri e aiutò i tre a scendere.
Seldon fu l’ultimo. Passando di fronte al sergente, si girò e disse: «Un viaggio piacevole, sergente».
Un lento sorriso sbocciò sulla faccia di Thalus, curvandogli il labbro superiore baffuto. Il sergente toccò la visiera del berretto abbozzando un saluto militare. «Grazie di nuovo, dottore.»
Furono fatti salire sul sedile posteriore di una terramobile lussuosa e il sergente stesso prese posto ai comandi e guidò il veicolo con mano sorprendentemente delicata.
Percorsero strade ampie, fiancheggiate da edifici alti dalle linee armoniose che scintillavano alla luce del giorno. Come nel resto di Trantor, in lontananza si sentiva il ronzio di una Espressovia. I passaggi pedonali erano affollati di persone che per la maggior parte erano ben vestite. L’ambiente era notevolmente pulito, quasi in modo eccessivo.
Il senso di sicurezza di Seldon vacillò ancora di più. I timori di Dors sulla loro destinazione sembravano giustificati, dopotutto. Seldon si rivolse a lei. «Credi che siamo tornati nel settore imperiale?»
«No, laggiù gli edifici sono pieni di fronzoli mentre qui non c’è traccia della “parcomania” imperiale, se mi concedi il termine.»
«Allora dove siamo?»
«Temo che dovremo chiedere, Hari.»
Non fu un viaggio lungo. Ben presto si fermarono in un parcheggio fiancheggiato da un’imponente struttura a tre piani. Un fregio di animali immaginari percorreva la sommità, decorata da lastre di pietra rosa. Una facciata maestosa, dalle linee decisamente gradevoli.
«Questo è abbastanza rococò, mi pare» osservò Seldon.
Dors fece spallucce, incerta.
Raych fischiò e, cercando di non mostrarsi colpito ma senza riuscirci, disse: «Ehi, guardate che posto da ricchi».
Thalus rivolse un gesto a Seldon indicandogli che doveva seguirlo. Lui non si mosse e, sempre ricorrendo al linguaggio universale dei gesti, allargò le braccia verso Dors e Raych.
Il sergente esitò, con un’aria leggermente abbattuta, di fronte all’imponente arcata rosa dell’ingresso. Sembrò quasi che i suoi baffi si afflosciassero.
Poi disse burbero: «Tutti e tre, allora. La mia parola d’onore è sempre valida. Ma forse gli altri non si sentiranno vincolati dalle mie promesse».
Seldon annuì. «Per me lei è responsabile solo delle sue azioni, sergente.»
Thalus era chiaramente commosso e per un istante il suo volto si illuminò, come se stesse prendendo in considerazione la possibilità di stringere la mano a Seldon o di esprimere la propria approvazione in qualche modo.
Infine respinse l’idea e salì sul primo gradino della rampa che conduceva alla porta. La scala cominciò immediatamente a muoversi verso l’alto.
Seldon e Dors salirono subito dopo di lui e mantennero l’equilibrio senza difficoltà. Raych, bloccato per un attimo dallo stupore, saltò sulla scala dopo una breve corsa, infilò le mani in tasca e cominciò a fischiettare disinvolto.
La porta si aprì e uscirono due donne, una su ogni lato. Erano giovani e attraenti, con abiti, stretti in vita da una cintura, che arrivavano quasi alla caviglia, ricadendo in tante pieghe che frusciavano quando le donne camminavano. Entrambe avevano capelli castani raccolti in grosse trecce ai lati della testa. (Un’acconciatura che gli piaceva, pensò Seldon. Chissà quanto impiegavano ogni mattina per sistemarsi i capelli così? Non aveva notato acconciature particolarmente elaborate nelle donne che aveva visto per strada durante il tragitto.)
Le due donne fissarono i nuovi arrivati con evidente disprezzo. Seldon non si stupì; dopo gli avvenimenti della giornata lui e Dors erano male in arnese quasi quanto Raych.
Tuttavia le donne si inchinarono, poi si voltarono e indicarono l’interno con sincronismo e simmetria perfetti. Si esercitavano a compiere quei gesti? Era evidente che loro tre dovevano entrare.
La stanza era piena di mobili e oggetti decorativi di cui Seldon non riuscì ad afferrare subito lo scopo. Il pavimento era chiaro, elastico, luminoso. Imbarazzato, si accorse che le scarpe lasciavano impronte polverose.
Poi una porta interna si spalancò e apparve un’altra donna. Era decisamente più vecchia delle prime due, le quali al suo ingresso si piegarono lentamente e incrociarono le gambe in modo simmetrico. Seldon si meravigliò che riuscissero a mantenere l’equilibrio: senza dubbio dovevano esercitarsi parecchio.
Seldon si chiese se fosse tenuto a compiere anche lui qualche gesto rituale, ma, dal momento che non sapeva quale potesse essere, si limitò a piegare leggermente la testa. Dors rimase perfettamente eretta, l’aria forse un po’ sdegnosa. Raych si guardava intorno a bocca aperta e sembrava che non avesse visto la donna appena entrata.
Era rotondetta, non grassa ma abbastanza formosa. Aveva la stessa acconciatura delle altre due donne e un vestito di linea identica, ma molto più adorno: troppo per i gusti estetici di Seldon.
Era di mezz’età con un accenno di grigio nei capelli, ma le fossette che spiccavano sulle guance le conferivano un’aria ancora giovanile. Aveva occhi castano chiari, allegri, e complessivamente un aspetto materno più che quello di una persona anziana.
«Come state tutti?» esordì. (Non parve sorpresa dalla presenza di Dors e Raych, ma estese il saluto con disinvoltura.) «Vi aspettavo da un po’ di tempo ed ero quasi riuscita a raggiungervi a Streeling, sulla Faccia superiore. Lei è il dottor Hari Seldon, che non vedevo l’ora di incontrare. Lei deve essere la dottoressa Dors Venabili, perché mi è stato riferito che era in sua compagnia. Il giovanotto, invece, temo di non conoscerlo, ma mi fa piacere vederlo. Ora basta con le parole. Certamente vorrete riposare.»
«E lavarci, signora» aggiunse Dors. «Abbiamo tutti bisogno di una lunga doccia.»
«Sì, certo. E di cambiarvi, soprattutto il giovanotto.» La donna guardò Raych, senza mostrare il disprezzo o la disapprovazione delle due donne alla porta. «Come ti chiami, giovanotto?»
«Raych» rispose lui, la voce un po’ strozzata e impacciata. E aggiunse a titolo di prova: «Signora».
«Che strana coincidenza» disse la donna, gli occhi raggianti. «Un presagio, forse. Io mi chiamo Rashelle, non è curioso? Ma ora venite, provvediamo a voi. Avremo tutto il tempo necessario per cenare e parlare.»
«Aspetti, signora» disse Dors. «Posso chiederle dove siamo?»
«A Wye, mia cara. E la prego, quando si sarà ambientata maggiormente mi chiami Rashelle. Mi sento più a mio agio quando si mettono da parte le cerimonie.»
Dors si irrigidì. «Come ha detto che si chiama questo posto? Non sono sicura di aver capito.»
Rashelle proruppe in una risata simpatica e argentina. «È vero, dottoressa Venabili, bisogna fare qualcosa per il nome. Non ho detto “Hawai”, cara, ho detto “Wye”. Siete nel settore di Wye.»
«Cosa?» sbottò Seldon.
«Certo, dottore. Vogliamo averla con noi da quando ha parlato al Convegno decennale, quindi siamo felicissimi che sia arrivato.»
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Fu necessario un giorno intero per riposare, lavarsi, attendere i vestiti nuovi (lucenti e piuttosto ampi, secondo lo stile di Wye) e dormire parecchio.
Solo la seconda sera ci fu la cena promessa da Rashelle.
Il tavolo era grande, troppo, considerato che a occuparlo erano solo in quattro: Hari, Dors, Raych e Rashelle. Le pareti e il soffitto avevano una tenue luminosità e i colori cambiavano a un ritmo che si notava ma che non era tanto rapido da disturbare la mente. La tovaglia stessa, che non era di tessuto (Seldon non aveva individuato con sicurezza di quale materiale si trattasse), sembrava luccicare.
I servitori erano numerosi e silenziosi, ma quando la porta si apriva Seldon aveva l’impressione di scorgere dei soldati pronti a intervenire. Se la stanza era un guanto di velluto, il pugno di ferro non era molto lontano.
Rashelle era garbata e cordiale, con una particolare simpatia per Raych che aveva voluto insistentemente accanto a lei.
Il ragazzino era stato lavato, strofinato e tirato a lucido; quasi irriconoscibile nei suoi abiti nuovi, con i capelli puliti, tagliati e spazzolati, non osava pronunciare parola. Sembrava che pensasse di non possedere una grammatica adatta al proprio aspetto. Era imbarazzatissimo e osservava attentamente Dors, mentre lei passava da una posata all’altra, cercando di imitarla alla perfezione.
Il cibo era gustoso ma piccante, al punto che Seldon non riusciva a riconoscere bene la natura delle portate.
Rashelle, il volto paffuto illuminato da un dolce sorriso a denti candidi, cominciò: «Probabilmente penserete che questi cibi contengano additivi micogenesi, ma non è così. Produciamo tutto noi, qui a Wye, il settore più autosufficiente del pianeta. Lavoriamo alacremente per mantenere questa situazione».
Seldon annuì serio. «Tutto quello che ci ha offerto è di prima qualità, Rashelle. Le siamo molto obbligati.»
Eppure, nel proprio intimo, non riteneva che quei piatti fossero all’altezza del cibo micogenese; inoltre, come aveva mormorato prima a Dors, aveva la sensazione di festeggiare la propria sconfitta o la sconfitta di Hummin, il che gli sembrava la stessa cosa.
Dopotutto, era stato catturato da Wye, un’eventualità che aveva preoccupato moltissimo Hummin all’epoca dell’incidente sulla Faccia superiore.
«Forse mi perdonerete se,» disse Rashelle «nel mio ruolo di padrona di casa, vi farò qualche domanda personale. Sbaglio, o voi non rappresentate una famiglia? Hari e Dors, non siete sposati, vero? Raych non è vostro figlio.»
«Tra noi non esiste alcun rapporto di parentela» spiegò Seldon. «Raych è nato su Trantor, io su Helicon, Dors su Cinna.»
«E come vi siete conosciuti?»
Seldon lo spiegò brevemente, limitando al massimo i particolari. «Non c’è nulla di romantico o di significativo in questi incontri» aggiunse infine.
«Eppure, se non erro, lei ha messo in difficoltà il mio aiutante personale, il sergente Thalus, quando lui voleva prelevare da Dahl soltanto lei.»
Seldon rispose con un’espressione solenne: «Mi sono affezionato a Dors e a Raych, non volevo separarmi da loro».
Rashelle sorrise. «Vedo che è un sentimentale.»
«Sì, lo sono. E anche perplesso.»
«Perplesso?»
«Sì. E dal momento che è stata così gentile da rivolgerci domande personali, posso farne una anch’io?»
«Certo, mio caro Hari. Chieda pure quello che vuole.»
«Al nostro arrivo ha detto che Wye mi voleva dal giorno in cui sono intervenuto al Convegno decennale. Perché?»
«Non credo che sia così ingenuo da non saperlo. La vogliamo per la psicostoria.»
«D’accordo, questo l’avevo capito. Ma cosa vi fa pensare che avere me significhi avere la psicostoria?»
«Non sarà tanto sbadato da averla persa, per caso?»
«Peggio, Rashelle. Non l’ho mai avuta.»
Le fossette di Rashelle si accentuarono. «Eppure nel suo discorso ha affermato il contrario. Non che io abbia capito i particolari, non sono un matematico e odio i numeri. Ma ho dei matematici che lavorano per me e che mi hanno spiegato quel che ha detto.»
«In tal caso, cara Rashelle, deve ascoltare con maggiore attenzione. Senza dubbio ho dimostrato che le predizioni psicostoriche sono possibili, ma ho anche detto che non sono attuabili.»
«Non posso crederci, Hari. Il giorno dopo lei è stato convocato per un’udienza da quello pseudo-imperatore di Cleon.»
«Pseudo-imperatore?» mormorò Dors ironica.
«Oh, sì» disse Rashelle, come se rispondesse a una domanda seria. «Non ha alcun diritto al trono, in realtà.»
«Rashelle» riprese Seldon accantonando il commento leggermente spazientito. «A Cleon ho detto le stesse cose che ho appena detto a lei e lui mi ha lasciato andare.»
Questa volta Rashelle non sorrise e la sua voce si incrinò un poco. «Sì, l’ha lasciata andare come il gatto della favola lascia andare il topo. Le ha dato la caccia fin da allora, inseguendola a Streeling, Micogeno e Dahl. E la inseguirebbe anche qui, se avesse il coraggio di farlo. Ma via, il nostro discorso è troppo serio. Divertiamoci e ascoltiamo un po’ di musica.»
Appena ebbe pronunciato quelle parole, una melodia strumentale si diffuse nell’aria, sommessa e gioiosa. Rachelle si chinò verso Raych. «Ragazzo mio, se sei a disagio con la forchetta, usa il cucchiaio o le dita. Non ho nulla in contrario.»
«Sì, signora» disse Raych e deglutì impacciato. Ma Dors incrociò il suo sguardo e con le labbra formò in silenzio la parola: «Forchetta».
Raych continuò in quel modo.
«La musica è deliziosa, signora,» disse Dors (si rifiutava di rivolgersi a lei con familiarità) «ma non deve distrarci. Forse i nostri inseguitori, nei settori che ha nominato prima, agivano in realtà per conto di Wye. Secondo me, non sarebbe così bene informata sugli avvenimenti se l’iniziativa non fosse partita da Wye.»
Rashelle rise. «Questo settore ha occhi e orecchie dappertutto, è naturale, ma non eravamo i vostri inseguitori. Se fossimo stati noi vi avremmo presi senza fallo, come è successo infine a Dahl quando l’iniziativa è partita da qui. Di fronte a una caccia che fallisce, a una mano che cerca di afferrare ma manca l’obiettivo, si può star certi che si tratta di Demerzel.»
«Ha una così scarsa considerazione di lui?» mormorò Dors.
«Sì. La sorprende? Lo abbiamo battuto.»
«Lei o il settore di Wye?»
«Il settore, certo, ma se Wye è vittorioso lo sono anch’io.»
«Strano...» disse Dors. «Secondo un’opinione molto diffusa a Trantor, gli abitanti di Wye non hanno nulla a che vedere con la vittoria, la sconfitta o qualsiasi altra cosa. Pare che qui esista un’unica volontà, quella del sindaco. Lei o qualsiasi altro cittadino non contate davvero nulla, al confronto.»
Rashelle sorrise. Guardò Raych benevola e gli pizzicò una guancia, poi disse: «Se pensa che il nostro sindaco sia un autocrate e che a Wye conti un’unica volontà, forse ha ragione. Ma anche in questo caso posso continuare a usare il pronome personale, perché la mia volontà conta».
«Perché?» chiese Seldon.
«Perché no?» fece Rashelle, mentre i servitori cominciavano a sparecchiare la tavola. «Io sono il sindaco di Wye.»
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Fu Raych il primo a reagire a quell’affermazione. Liberandosi del manto dell’educazione, così scomodo da indossare, scoppiò a ridere e disse: «Ehi, non può essere sindaco. I sindaci sono maschi!».
Rashelle lo guardò con affetto e imitando alla perfezione il suo tono ribatté: «Ehi, piccolo, certi sindaci sono maschi e certi sono femmine. Ficcatelo nella zucca e fai lavorare il cervello».
Raych strabuzzò gli occhi e parve sbalordito. Infine riuscì a dire: «Lei parla normale, signora».
«Garantito. Normale finché vuoi» ribatté Rashelle, sempre sorridendo.
Seldon si schiarì la voce. «Un accento notevole, il suo.»
Rashelle agitò leggermente la testa. «Non lo usavo da molti anni, ma è impossibile dimenticarlo. Una volta, quando ero molto giovane, avevo un amico... un caro amico dahlita.» Sospirò. «Non parlava così, naturalmente. Era intelligentissimo, ma volendo era in grado e mi ha insegnato. Era eccitante parlare in questo modo con lui. Si creava un mondo che escludeva l’ambiente circostante. Era meraviglioso e anche impossibile, mio padre lo ha messo bene in chiaro. E adesso ecco che arriva questo furfantello, Raych, a ricordarmi quei giorni lontani. Ha l’accento giusto, gli occhi, quell’atteggiamento impudente e fra qualche anno sarà la delizia e il terrore delle ragazze. Vero, Raych?»
«Non so, ehm, signora.»
«Sì che lo sarai e somiglierai moltissimo al mio vecchio amico. Allora sarà meglio che io non ti veda... Be’, la cena è finita, ed è ora che tu vada in camera tua, Raych. Puoi guardare l’olovisione per un po’, se vuoi. Immagino che tu non legga.»
Il ragazzino arrossì. «Leggerò, un giorno. Il signor Seldon dice che leggerò.»
«Allora non ne dubito.»
Una giovane donna si avvicinò a Raych, rivolgendo un inchino rispettoso a Rashelle. Seldon non aveva visto il segnale che l’aveva fatta accorrere.
«Posso stare con il signor Seldon e la signora Venabili?» chiese Raych.
«Li vedrai più tardi» rispose Rashelle con dolcezza. «Adesso il signore, la signora e io dobbiamo parlare. Quindi tu devi andare.»
In silenzio, la bocca di Dors scandì decisa: «Vai!» e con una smorfia il ragazzo si alzò e seguì l’inserviente.
Non appena Raych fu uscito, Rashelle disse: «Il ragazzo sarà al sicuro, naturalmente, e verrà trattato con ogni riguardo, non temete. Anch’io sarò al sicuro. Come è arrivata quella ragazza, può arrivare una decina di uomini armati e molto più rapidamente, basta un segnale. Voglio che lo sappiate».
Seldon replicò pacato: «Non abbiamo alcuna intenzione di aggredirla, Rashelle. Oppure devo chiamarla “signor sindaco”, adesso?».
«Sempre Rashelle. A quanto pare, Hari, lei è un lottatore da non sottovalutare e lei, Dors, è molto abile coi coltelli che abbiamo provveduto a togliere dalla sua stanza. Non voglio che contiate inutilmente su certe doti, dal momento che a me Hari interessa vivo, integro e ben disposto.»
«Signor sindaco,» disse Dors non mascherando minimamente la propria ostilità «tutti sanno che da quarant’anni il sovrano di Wye è Mannix, Quarto del Nome, e che Mannix è ancora vivo e in pieno possesso delle sue facoltà. Dunque chi è lei, in realtà?»
«Esattamente quello che affermo di essere, Dors. Mannix IV è mio padre. Certo, è ancora vivo e in possesso delle sue facoltà. Agli occhi dell’imperatore e di tutto l’impero è il sindaco di Wye, ma è stanco del logorio del potere e finalmente è pronto a passarlo a me, che sono altrettanto pronta ad accettarlo. Sono la sua unica figlia e sono stata allevata per governare. Mio padre è sindaco di nome, ma io lo sono di fatto. È a me che le forze armate di Wye hanno giurato fedeltà e a Wye è questo che conta.»
Seldon annuì. «D’accordo, sia pure. Ma in ogni caso, indipendentemente da Mannix IV o da Rashelle la Prima, indipendentemente da chi è il sindaco, non vedo lo scopo di essere trattenuto qui. Le ho detto che non dispongo di una psicostoria applicabile e secondo me nessuno arriverà ad averla. L’ho detto all’imperatore, non servo né a lei né a lui.»
«Com’è ingenuo! Conosce la storia dell’impero?» disse Rashelle.
Seldon scosse il capo. «Ultimamente rimpiango di non conoscerla meglio.»
Dors intervenne caustica. «Io la conosco piuttosto bene, signor sindaco, anche se, a dire il vero, sono specializzata nel periodo pre-imperiale. Ma che importanza ha?»
«Se conosce la storia dell’impero, saprà che la Casa di Wye è antica e onorabile e discende dalla dinastia daciana.»
«I daciani governavano cinquemila anni fa. Nelle centocinquanta generazioni successive, il numero dei loro discendenti può essere aumentato fino a comprendere la metà della popolazione della galassia... se vogliamo accettare tutte le rivendicazioni di carattere genealogico, anche le più sfrontate.»
«Le nostre rivendicazioni genealogiche, dottoressa Venabili, non sono sfrontate.» Per la prima volta il tono di Rashelle si fece gelido e ostile, gli occhi che lampeggiavano di collera trattenuta. «Anzi, sono documentate. In tutte queste generazioni la Casa di Wye ha conservato la sua considerevole posizione di potere e in alcune occasioni ha occupato il trono imperiale, governando col titolo di imperatore.»
«Di solito i videolibri considerano i sovrani di Wye degli “anti-imperatori”, mai riconosciuti dal grosso dell’impero.»
«Dipende da chi li scrive. In futuro lo faremo noi, perché il trono che è stato nostro tornerà a esserlo.»
«Per riuscirci dovrete provocare una guerra civile.»
«Difficilmente ci sarà una guerra.» Rashelle tornò a sorridere. «È questo che devo spiegarvi: perché voglio l’aiuto del dottor Seldon per evitare una catastrofe del genere. Mio padre, Mannix IV, per tutta la vita è stato un uomo pacifico. È sempre stato fedele ai sovrani che governavano dal palazzo imperiale e ha fatto sì che Wye rimanesse un pilastro saldo e prospero dell’economia trantoriana, per il bene dell’impero.»
«Nonostante questo, ho l’impressione che la diffidenza dell’imperatore nei suoi confronti sia rimasta immutata.»
«Certo» ammise Rashelle calma. «Perché gli imperatori che hanno occupato il palazzo all’epoca di mio padre sapevano di essere usurpatori appartenenti a una stirpe illegale. Gli usurpatori non possono permettersi di fidarsi dei veri sovrani. Eppure mio padre ha mantenuto la pace; naturalmente, ha creato e addestrato un magnifico apparato di sicurezza per tutelarla, garantendo la prosperità e stabilità del settore, ma le autorità imperiali glielo hanno consentito perché volevano che Wye fosse un settore pacifico, prospero, stabile... e fedele.»
«E lo è ancora?»
«Al vero imperatore, certo. E adesso abbiamo raggiunto una fase in cui la nostra forza è tale da permetterci di impadronirci del potere rapidamente, in un lampo. Prima che qualcuno possa dire “guerra civile”, ci sarà un vero imperatore o imperatrice, se preferite. E a Trantor regnerà la stessa pace di prima.»
Dors scosse il capo. «Posso illuminarla, come storica?»
«Sono sempre pronta ad ascoltare.» Rashelle piegò leggermente la testa verso Dors.
«Quali siano le dimensioni delle vostre forze di sicurezza, per quanto bene addestrate ed equipaggiate, non possono competere con quelle imperiali che hanno il sostegno di venticinque milioni di mondi.»
«Ah, ma ha messo il dito sul punto debole dell’usurpatore, dottoressa Venabili. Ci sono venticinque milioni di mondi, con le forze imperiali sparse sulla loro superficie. Forze disseminate su un’estensione di spazio incalcolabile, comandate da un’infinità di ufficiali non particolarmente pronti ad azioni all’esterno delle rispettive province ma abituati ad agire pensando ai propri interessi, non a quelli dell’impero. Le nostre forze, d’altra parte, sono tutte qui, tutte su Trantor. Noi possiamo agire e concludere prima che i generali e gli ammiragli, così lontani, riescano a capire che c’è bisogno di loro.»
«Ma poi una reazione ci sarà, e di intensità incredibile.»
«Ne è sicura? Saremo nel palazzo. Trantor sarà nostro, in pace. Perché le forze imperiali dovrebbero intervenire dal momento che, badando ai fatti suoi, ogni piccolo capo militare potrà avere un mondo tutto per sé, un proprio territorio da governare?»
«Ma è questo che vuole?» domandò Dors pensierosa. «Vuole un impero che si spacchi in tanti frammenti?»
«Esatto. A me interessa governare Trantor, i suoi insediamenti spaziali, i pochi sistemi planetari vicini che fanno parte del territorio. Preferisco essere il signore di Trantor piuttosto che l’imperatore della galassia.»
«Si accontenterebbe di questo?» fece Dors incredula.
«Perché no?» ribatté Rashelle infervorandosi di colpo e chinandosi in avanti, con il palmo delle mani premuto sul tavolo. «Mio padre si prepara da quarant’anni e, se resta aggrappato alla vita, è solo per vedere realizzato il suo progetto. A cosa servono milioni di mondi, pianeti remoti che per noi non significano nulla, che anzi ci indeboliscono e sottraggono forze per disseminarle in parsec cubi di spazio? Realtà che ci soffocano nel caos amministrativo, che ci rovinano con i loro problemi e i loro interminabili conflitti? A che servono, dal momento che per noi sono nullità lontanissime? Il nostro mondo popoloso, la nostra città planetaria è già una galassia. Abbiamo tutto quello che occorre per continuare da soli, che il resto si spezzi pure in tanti frammenti. Ogni piccolo e insignificante militarista può prendere il suo. Non c’è bisogno che lottino fra loro, ce ne saranno abbastanza per tutti.»
«Combatteranno ugualmente. Nessuno si accontenterà del proprio territorio e tutti avranno paura che il vicino non si accontenti di stare nell’orticello. Si sentiranno insicuri e sogneranno un governo galattico, perché vedranno nella galassia l’unica garanzia di sicurezza. Questo è certo, signora Imperatrice di Nulla. Ci saranno guerre a non finire, in cui voi e Trantor sarete inevitabilmente coinvolti. E sarà la rovina per tutti.»
Rashelle replicò sprezzante: «Si può avere questa impressione, se non si vede più in là di quel che vede lei, se ci si basa sulla normale lezione della storia».
«Cosa c’è da vedere più in là? Su cosa ci si può basare se non sulla lezione del passato?»
«“Cosa”, lei dice? Ma è chiaro, lui!»
E il suo braccio scattò verso Seldon, con l’indice puntato.
«Io? Le ho già detto che la psicostoria...» fece il matematico.
Rashelle lo interruppe. «Non ripeta quello che ha già detto, caro dottor Seldon: è inutile. Secondo lei, dottoressa Venabili, mio padre non si è mai reso conto del pericolo di una guerra civile interminabile? Pensa che non si sia spremuto il cervello per trovare il modo di evitarla? Negli ultimi dieci anni in qualsiasi momento avrebbe potuto impossessarsi dell’impero in un sol giorno. Gli mancava soltanto la garanzia della sicurezza dopo la vittoria.»
«Che non potete avere» disse Dors.
«Che abbiamo avuto non appena abbiamo sentito la relazione del dottor Seldon al Convegno decennale. Ho capito subito che era quello ciò di cui avevamo bisogno. Mio padre era troppo vecchio per afferrarne subito l’importanza, ma quando gli ho spiegato la cosa, ha capito anche lui ed è stato allora che ufficialmente ha passato i suoi poteri a me. Quindi devo a lei la mia posizione, Hari, e a lei dovrò la carica più alta che occuperò in futuro.»
«Continuo a dire che non è possibile» iniziò Seldon seccato.
«Non ha importanza quel che è possibile o no. L’importante è quel che crede la gente e la gente le crederà, quando dirà che secondo la predizione psicostorica Trantor può governarsi autonomamente e le province si trasformeranno in regni che vivranno in pace tutti insieme.»
«Non farò predizioni del genere in assenza di un’autentica psicostoria» disse Seldon. «Non farò il ciarlatano. Se vuole certe predizioni, le faccia lei.»
«Hari, non mi crederanno, mentre crederanno a lei, il grande matematico. Perché non accontentarli?»
«Guarda caso, anche l’imperatore pensava di usarmi così. Ho rifiutato, perché dovrei accettare di fare la stessa cosa per lei?»
Rashelle restò in silenzio per alcuni istanti e quando riprese a parlare la sua voce non era più eccitata ma quasi carezzevole.
«Hari, pensi un attimo alla differenza tra Cleon e me. Indubbiamente Cleon voleva soltanto propaganda per conservare il trono: una cosa inutile, dal momento che è impossibile tenerselo. Non sa che l’impero galattico è in uno stato di decadenza tale che non può durare ancora a lungo? Trantor stesso lentamente sta andando in rovina perché gravato dal peso sempre più grande dell’amministrazione di venticinque milioni di mondi. Di fronte a noi ci sono il crollo e la guerra civile, qualunque cosa faccia per Cleon.»
«Ho sentito qualcosa del genere, può darsi addirittura che sia vero. E allora?»
«Allora aiuti l’impero a frantumarsi senza guerra. Mi aiuti a conquistare Trantor. Mi aiuti a instaurare un governo energico in un regno abbastanza piccolo da poter essere amministrato con efficienza. Mi lasci concedere la libertà al resto della galassia, in modo che ogni parte scelga la strada da seguire secondo le proprie culture e tradizioni. I sistemi stellari torneranno a essere un insieme funzionante grazie al commercio, al turismo, alle comunicazioni che si svolgeranno in un regime di libertà. Sarà scongiurato il pericolo di un crollo disastroso causato dal governo autoritario attuale, che malgrado tutto non ha una forza di aggregazione sufficiente. Le mie ambizioni sono davvero moderate: un mondo, non milioni di mondi. La pace, non la guerra. La libertà, non la schiavitù. Ci pensi e mi aiuti.»
«Se a lei la galassia non crederà, perché dovrebbe credere a me? La gente non mi conosce; quali comandanti della nostra flotta si lasceranno impressionare dalla semplice parola “psicostoria”?»
«Non le crederanno adesso, ma io non pretendo un’azione immediata. La Casa di Wye ha aspettato migliaia di anni, può aspettare ancora qualche migliaio di giorni. Collabori con me e renderò famoso il suo nome. Farò splendere la promessa della psicostoria su tutti i mondi e al momento giusto, quando lo riterrò opportuno, lei farà la sua predizione e colpiremo. In un batter d’occhio nella galassia ci sarà un ordine nuovo che le garantirà stabilità e felicità eterne. Via, Hari, come può rifiutare?»