ROBOT ... Un termine usato nelle antiche leggende di molti mondi per indicare gli “automi”, nome meno desueto. Stando alle descrizioni, i robot in genere avevano una forma umana ed erano fatti di metallo, anche se pare che ne esistessero alcuni di natura pseudo-organica. Molti ritengono che, durante la Fuga, Hari Seldon abbia visto un autentico robot, ma si tratta di racconti di dubbia origine. Nei suoi voluminosi scritti egli non parla di robot, sebbene...

ENCICLOPEDIA GALATTICA

56

Non li notarono.

Hari Seldon e Dors Venabili rifecero il tragitto del giorno prima e questa volta nessuno si fermò a guardarli. Anche le occhiate di sfuggita furono pochissime e più volte dovettero scostare le ginocchia per consentire a qualcuno seduto verso l’interno di scendere dal bus. Capirono in fretta che quando saliva un nuovo passeggero dovevano farsi in là se c’era un posto libero.

Questa volta si stancarono ben presto dell’odore delle toghe non proprio pulitissime, perché erano meno attratti da quello che accadeva fuori.

Ma alla fine arrivarono a destinazione.

«Ecco la biblioteca» annunciò Seldon sottovoce.

«Dovrebbe essere quella. Almeno, è l’edificio che Micelio Settantadue ha indicato ieri.»

Si incamminarono senza fretta verso la costruzione.

«Respira a fondo» disse Seldon. «Eccoci al primo ostacolo.»

La porta era aperta, la luce all’interno tenue. Cinque ampi gradini di pietra conducevano all’ingresso. Salirono sul primo e attesero qualche secondo prima di rendersi conto che il loro peso non azionava alcun meccanismo di trasporto. Con una lieve smorfia Dors fece cenno a Hari di muoversi.

Salirono i gradini, imbarazzati per quanto Micogeno fosse arretrato. Varcata la soglia, dietro una scrivania notarono un uomo chino sul computer più rudimentale che Seldon avesse mai visto.

L’uomo non sollevò lo sguardo. Sarebbe stato superfluo, pensò Seldon. Toga bianca, testa calva... I micogenesi erano talmente simili fra loro che non c’era bisogno di guardarli, il che, in questo caso, era un vantaggio per i tribali.

Il micogenese sembrava intento a esaminare chissà cosa sulla scrivania, ma chiese: «Studiosi?».

«Studiosi» confermò Seldon.

L’uomo piegò la testa verso una porta. «Entrate, accomodatevi.»

A quanto pareva, erano gli unici in quella sezione della biblioteca: o non era molto frequentata, o gli studiosi erano pochi. Molto probabilmente entrambe le cose.

«Credevo che ci avrebbero domandato di mostrare un permesso o qualcosa del genere,» mormorò Seldon «ed ero pronto a giustificarmi dicendo che l’avevo dimenticato.»

«Con ogni probabilità a quell’uomo la nostra presenza fa piacere comunque. Hai mai visto un posto simile? Se un posto, come una persona, potesse essere morto, be’, saremmo dentro un cadavere.»

La maggior parte dei libri della sezione era come il Libro che Seldon aveva in tasca. Dors passeggiò lungo gli scaffali, esaminandoli. «Vecchi tomi, per lo più. In parte classici, in parte inutili.»

«Libri di fuori? Non micogenesi, cioè?»

«Infatti. Se hanno dei libri loro, devono tenerli in un’altra sezione. Questa è per la ricerca esterna, a disposizione dei poveri sedicenti studiosi come il vecchio di ieri. Siamo nel reparto consultazione, ed ecco l’Enciclopedia imperiale. Avrà una cinquantina d’anni, c’è anche un computer.»

Dors fece per toccare i tasti, ma Seldon la bloccò. «No, aspetta. Potrebbe succedere qualcosa e perderemmo tempo.»

Le indicò un’insegna discreta, sopra una scaffalatura. Le lettere luminose dicevano: AL SACR TORIUM. La seconda “A” era spenta, forse da poco, forse perché a nessuno importava. (L’impero era in decadenza, pensò Seldon. Tutto l’impero, anche Micogeno.)

Si guardò intorno. La misera biblioteca – così importante per l’orgoglio micogenese, forse utilissima agli Anziani che potevano usarla per trovare briciole con cui puntellare le proprie convinzioni e rivestirle di una patina di raffinatezza tribale – sembrava deserta. Dopo di loro non era entrato nessuno.

«Avanti, allontaniamoci in modo che l’uomo all’ingresso non possa vederci e mettiamo la fascia» disse Seldon.

Davanti alla porta, rendendosi conto che non sarebbe stato possibile tornare indietro se avessero superato anche il secondo ostacolo, aggiunse: «Dors, non venire con me».

Lei aggrottò le sopracciglia. «Perché no?»

«È pericoloso e non voglio che tu corra dei rischi.»

«Sono qui per proteggerti» ribatté Dors, la voce bassa ma decisa.

«Che protezione puoi darmi? So proteggermi da solo, anche se forse non ci credi. E dovendo proteggere anche te saresti d’intralcio, non capisci?»

«Non preoccuparti per me, Hari. Preoccuparsi è il mio ruolo.» Dors toccò la fascia nel punto in cui le attraversava il petto fra i seni nascosti.

«Perché te l’ha chiesto Hummin?»

«Perché questi sono i miei ordini.» Dors afferrò il braccio di Seldon appena sopra il gomito e come al solito lui fu sorpreso dalla forza della sua stretta. «Sono assolutamente contraria a questa azione, Hari, ma se tu sei convinto di dover entrare, allora devo farlo anch’io.»

«D’accordo. Ma se succede qualcosa e tu hai la possibilità di svignartela, scappa. Non preoccuparti per me.»

«Stai sprecando il fiato, Hari. E mi stai offendendo.»

Seldon toccò il riquadro d’apertura e la porta scorrevole si aprì. Insieme, muovendosi quasi con perfetto sincronismo, varcarono la soglia.

57

Un’ampia sala, che sembrava ancora più ampia perché era priva di qualsiasi arredo. Non c’erano sedie né panche, e nemmeno altri sedili. Non c’era nessuna piattaforma, né drappi. Niente decorazioni.

Non c’erano lampade ma un’illuminazione fioca e uniforme. Le pareti non erano completamente spoglie. Qui e là, a varie altezze e in ordine sparso, si notavano piccoli schermi televisivi, primitivi e bidimensionali, tutti in funzione. Dal punto in cui si trovavano Seldon e Dors non si aveva nemmeno l’illusione di una terza dimensione, neanche una parvenza della vera olovisione.

C’erano poche e isolate persone, ognuna delle quali stava per proprio conto, in ordine sparso come gli schermi televisivi. Tutti indossavano la toga bianca e la fascia.

Per lo più regnava il silenzio: non si poteva dire che qualcuno parlasse davvero. Alcuni muovevano le labbra, mormorando sommessamente, e quelli che camminavano lo facevano con passo furtivo, tenendo gli occhi bassi.

L’atmosfera era decisamente funerea.

Seldon si chinò verso Dors, che portò subito un dito alle labbra, poi indicò un monitor. Lo schermo mostrava un giardino idilliaco pieno di fiori, inquadrato con una lenta panoramica dall’obiettivo.

Si incamminarono verso il monitor imitando le altre persone, a passi lenti e leggeri.

Quando furono a mezzo metro dallo schermo, si udì una voce sommessa e insinuante. «Il giardino di Antennin, ricostruito da antiche guide e fotografie, situato nella zona periferica di Eos. Notate...»

«Si accende quando qualcuno è abbastanza vicino e si spegne se ci si allontana» sussurrò Dors con un filo di voce. Col suono proveniente dall’apparecchio, Seldon faticò a sentirla. «Se ci avviciniamo abbastanza, possiamo parlare approfittando del sonoro, ma non girarti e taci subito se arriva qualcuno.»

Seldon, il capo chino, le mani intrecciate di fronte a sé (aveva notato che quella era una posa molto in voga), disse: «Mi aspetto sempre che da un momento all’altro qualcuno cominci a lamentarsi».

«Può darsi. Stanno piangendo il loro Mondo perduto.»

«Spero che cambino trasmissioni di tanto in tanto. Sarebbe tremendo vedere sempre le stesse.»

«Sono tutte diverse» mormorò Dors spostando lo sguardo con circospezione. «Forse cambiano periodicamente. Non so.»

«Aspetta!» disse Seldon, appena troppo forte. Abbassò la voce e continuò: «Da questa parte».

Dors corrugò la fronte, non avendo capito, ma lui le rivolse un cenno con il capo. Si mossero ancora adagio, ma lui impaziente allungò il passo e lei, raggiungendolo, gli diede un breve strattone alla toga per farlo rallentare.

«Dei robot» disse Seldon, quando entrò in funzione il sonoro.

L’immagine mostrava l’angolo di una residenza, con un prato ondulato, siepi in primo piano e tre oggetti che potevano essere descritti solo come robot. Metallici, in apparenza, e vagamente umani come forma.

La registrazione spiegò: «Questa è una veduta, di recente ricostruzione, della famosa tenuta di Wendome, terzo secolo. Il robot che si può notare nel centro si chiamava Bendar, almeno secondo la tradizione. Stando agli antichi documenti servì per ventidue anni prima di essere sostituito».

«“Di recente ricostruzione”,» osservò Dors. «Quindi le trasmissioni cambiano.»

«A meno che non dicano “di recente ricostruzione” da un migliaio d’anni.»

Un micogenese si avvicinò al monitor e a bassa voce, ma non quanto i sussurri di Seldon e Dors, disse: «Salve, Fratelli».

Parlò senza guardarli e, dopo un’involontaria occhiata d’allarme, Seldon tornò a girarsi. Dors non si era minimamente scomposta.

Seldon esitò perché Micelio Settantadue aveva detto che nel Sacratorium nessuno parlava. Forse aveva esagerato: del resto, non era più stato lì dentro da quando era piccolo.

Disperato, Seldon decise che doveva dire qualcosa e mormorò: «Salve a te, Fratello».

Non sapeva se fosse la formula di risposta appropriata o se ci fosse una formula, ma non sembrò che il micogenese giudicasse le sue parole negativamente.

«Lunga vita su Aurora» disse il Fratello.

«Anche a te lunga vita» ribatté Seldon. E poiché aveva l’impressione che l’altro si aspettasse di più, aggiunse: «Su Aurora». E ci fu un impercettibile allentarsi della tensione. Seldon aveva la fronte umida.

«Stupenda!» esclamò il micogenese. «È la prima volta che vedo questa immagine.»

«Un lavoro eccellente» ammise Seldon. Poi, in un impeto di audacia, aggiunse: «Una perdita indimenticabile».

L’altro parve sorpreso. «Proprio. Già» e si allontanò.

«Non rischiare inutilmente» sibilò Dors. «Non dire quello che non devi dire.»

«Mi sembrava una cosa naturale. Comunque, questo è materiale recente. Ma quei robot sono una delusione: quello che ci si aspetta di vedere pensando a degli automi. Io voglio vedere i robot organici, umanoidi.»

«Ammesso che esistessero» osservò Dors esitante «credi che li utilizzassero per lavori di giardinaggio?»

«No, è vero» convenne Seldon. «Dobbiamo trovare la guglia degli Anziani.»

«Sempre che esista. A me pare che in questo salone vuoto non ci sia nulla, a parte un salone vuoto.»

«Diamo un’occhiata.»

Camminarono lungo la parete, passando da uno schermo all’altro e cercando di variare la durata delle soste di fronte a ogni monitor, finché Dors non strinse il braccio di Seldon. Tra due schermi si vedevano le linee di un rettangolo.

«Una porta» disse Dors. Poi, non più tanto convinta, aggiunse: «Secondo te?».

Seldon si guardò intorno furtivamente. Per fortuna, in armonia con l’atmosfera di cordoglio, ogni volto, quando non fissava uno schermo televisivo, era chino verso il pavimento con un’espressione triste e concentrata.

«Come si aprirà?» chiese Seldon.

«Con una placca d’apertura.»

«Io non ne vedo.»

«Be’, non è segnata, ma là c’è un punto scolorito. Vedi? Sai, chissà quante volte hanno appoggiato la mano.»

«Ora provo. Occhi aperti, e dammi un calcio se qualcuno guarda da questa parte.»

Seldon trattenne il respiro, toccò la chiazza scolorita ma non accadde nulla. Allora vi appoggiò il palmo e premette.

La porta si aprì senza un cigolio, senza il minimo scricchiolio. Si affrettò a varcarla e lei lo seguì. La porta si richiuse.

«Il problema è: ci avrà visto qualcuno?» disse Dors.

«Di sicuro gli Anziani passano spesso da questa porta.»

«Già, penseranno che lo siamo.»

Seldon attese, quindi disse: «Se ci avessero osservati e avessero notato qualcosa che non andava, questa porta si sarebbe spalancata al massimo quindici secondi dopo il nostro ingresso».

«Può darsi. O forse non c’è nulla da vedere o da fare, e a nessuno importa chi entra qui.»

«È tutto da dimostrare» borbottò Seldon.

Si trovavano in una stanza stretta, piuttosto buia, ma quando avanzarono la luce aumentò.

C’erano sedie ampie e comode, tavolini, parecchi divani, un frigorifero capiente, armadietti.

«Se questa è la guglia degli Anziani,» commentò Seldon «pare che si trattino bene, nonostante l’austerità del Sacratorium.»

«Come prevedibile. L’ascetismo in una classe dirigente è molto raro, a parte la facciata da presentare al pubblico. Annotalo sul tuo taccuino degli aforismi psicostorici.» Si guardò intorno. «E non c’è nessun robot.»

«Ah, ma una guglia è un posto elevato, ricordi? E questo soffitto è basso. Dobbiamo cercare i piani superiori e la strada dev’essere quella.» Seldon indicò una scala ricoperta da una passatoia.

Non si diresse verso la scala ma si guardò intorno, perplesso.

Dors immaginò cosa stesse cercando. «Dimentica gli ascensori: a Micogeno c’è il culto del primitivismo. Non l’hai dimenticato, no? E non è tutto: scommetto che se andremo sul primo gradino la scala non comincerà a muoversi verso l’alto. Dovremo salire noi, forse parecchie rampe.»

«Salire la scala?»

«Ovvio, deve portare alla guglia, sempre che porti da qualche parte. Vuoi vedere la guglia, no?»

Si avviarono alla scala e cominciarono a salire.

Fecero tre rampe e via via che salivano la luce si abbassò in maniera percettibile. Seldon respirò a fondo e mormorò: «Penso di essere in ottima forma, ma questa è una cosa che detesto».

«Non sei abituato allo sforzo fisico.» Dors non mostrava alcun segno di stanchezza.

Alla sommità della terza rampa la scala terminava. Di fronte a loro c’era una nuova porta.

«E se è bloccata?» chiese Seldon rivolto più che altro a se stesso. «Cerchiamo di sfondarla?»

«Perché dovrebbe esserlo, dal momento che quella di sotto non lo era? Se questa è la guglia degli Anziani, c’è senza dubbio un tabù che impedisce a chi non è dei loro di spingersi fin qui. Un tabù è molto più efficace di qualsiasi serratura.»

«Per chi accetta il tabù» ribatté Seldon, ma non accennò ad avvicinarsi alla porta.

«Siamo ancora in tempo ad andarcene, visto che esiti. In effetti, ti consiglierei di lasciar perdere.»

«Esito soltanto perché non so cosa troveremo all’interno. Se non c’è nulla...» Poi Seldon alzò la voce e aggiunse: «Be’, se non c’è nulla, non c’è nulla e basta». E avanzò, premendo il riquadro d’apertura.

La porta si aprì rapida e silenziosa, e Seldon arretrò di un passo, colpito dalla luce intensissima che sgorgò all’esterno.

E lì di fronte a lui, con gli occhi accesi e luminosi, le braccia alzate a metà e un piede leggermente più avanti dell’altro, c’era una figura umana. Sprigionava uno scintillio metallico, giallognolo. Per alcuni secondi Seldon ebbe l’impressione che indossasse una tunica aderente, ma osservando meglio si accorse che la tunica faceva parte della struttura dell’oggetto.

«È il robot» disse intimidito. «Ma è metallico.»

«Peggio» fece Dors, che si era spostata rapidamente a destra e a sinistra. «Ha lo sguardo fisso. Le sue braccia sono perfettamente immobili. Non è vivo, sempre che si possa usare questa espressione a proposito di un robot.»

A quel punto un uomo – perché quello era un uomo, non c’era alcun dubbio – uscì da dietro il robot e disse: «Forse no. Ma io sono vivo».

E, quasi automaticamente, Dors avanzò e si piazzò tra Seldon e l’uomo apparso all’improvviso.

58

Seldon la spinse da parte, senza volerlo forse un po’ troppo bruscamente. «Non ho bisogno di protezione. È il nostro vecchio amico Caposole Quattordici.»

L’uomo portava una doppia fascia, probabilmente simbolo della sua carica di Sommo Anziano, e disse: «Tu sei il tribale Seldon».

«Certo.»

«E questa, malgrado l’abbigliamento maschile, è la tribale Venabili.»

Dors non aprì bocca.

Caposole Quattordici proseguì: «Naturalmente hai ragione, tribale. Non corri alcun pericolo di aggressione da parte mia. Prego, accomodati. Accomodatevi tutti e due. Dato che non sei una Sorella, tribale Venabili, non c’è bisogno che ti ritiri. C’è una sedia anche per te, e, se apprezzi l’onore, sarai la prima donna a occuparla».

«Non apprezzo l’onore» replicò Dors scandendo bene le parole.

Caposole annuì. «Come vuoi. Mi siederò anch’io, perché devo farvi delle domande e non intendo interrogarvi stando in piedi.»

Si sedettero in un angolo della stanza. Gli occhi di Seldon si spostarono verso il robot di metallo.

«Sì, è proprio un robot» disse Caposole.

«Lo so» tagliò corto Seldon.

«So che lo sai» ribatté il micogenese altrettanto secco. «Ma adesso che abbiamo risolto la questione, perché siete qui?»

Seldon fissò Caposole Quattordici. «Per vedere il robot.»

«Lo sai che solo gli Anziani possono entrare nella guglia?»

«Non lo sapevo ma lo sospettavo.»

«Lo sai che i tribali non possono entrare nel Sacratorium?»

«Mi è stato detto.»

«E hai ignorato questo fatto, vero?»

«Come ti ripeto, volevamo vedere il robot.»

«Lo sai che nessuna donna, nemmeno una Sorella, può entrare nel Sacratorium se non in rare occasioni prestabilite?»

«Mi è stato detto.»

«E lo sai che nessuna donna, mai, per nessuna ragione, può indossare indumenti maschili? Questo vale, nei confini di Micogeno, sia per le tribali sia per le Sorelle.»

«Non lo sapevo ma non mi sorprende.»

«Bene. Voglio che tutto questo sia chiaro. Ora, perché ti interessava vedere il robot?»

Seldon fece spallucce. «Curiosità. Non ne avevo mai visto uno e non sapevo che esistessero.»

«Come hai fatto a scoprire che esistevano e che uno si trovava proprio qui?»

Seldon tacque, poi disse: «Non voglio rispondere a questa domanda».

«È per questo che siete stati condotti a Micogeno dal tribale Hummin? Per indagare sui robot?»

«No. Il tribale Hummin ci ha condotti qui perché fossimo al sicuro. Comunque, la dottoressa Venabili e io siamo studiosi. Il nostro campo è la conoscenza e il nostro scopo è quello di apprendere nuove cose. Micogeno non è molto capito fuori dai suoi confini, e noi vogliamo conoscere meglio le vostre tradizioni e il vostro pensiero. È un desiderio naturale, ci sembra. Un desiderio innocuo, perfino lodevole.»

«Ah, ma non vogliamo che le tribù e i Mondi esterni sappiano troppo di noi. È il nostro desiderio naturale e spetta a noi giudicare quel che è innocuo o dannoso per quanto ci riguarda. Dunque, tribale, ti chiedo ancora: come hai fatto a sapere che a Micogeno c’era un robot e che si trovava in questa stanza?»

«Voci sentite in giro» rispose alla fine Seldon.

«È questa la tua risposta?»

«Voci sentite in giro. Sì, è questa la mia risposta.»

Gli occhi azzurri di Caposole Quattordici parvero farsi più penetranti. Senza alzare la voce, il Sommo Anziano disse: «Tribale Seldon, collaboriamo da tempo col tribale Hummin. Per essere uno di voi, ci è parso una persona onesta e fidata. Quando vi ha condotti qui e affidati alla nostra protezione, abbiamo accettato. Ma nonostante le sue virtù, è pur sempre un estraneo e avevamo i nostri timori. Non sapevamo con certezza quale potesse essere il vostro, o il suo vero scopo».

«Lo scopo è la conoscenza» disse Seldon. «Conoscenza accademica. La tribale Venabili è una storica e questo campo interessa anche a me. Perché non dovremmo occuparci di storia micogenese?»

«Innanzitutto, perché noi non vogliamo che vi interessi. Comunque, vi abbiamo mandato due Sorelle fidate. Dovevano collaborare con voi, cercare di scoprire cosa volevate e... Com’è l’espressione che usate voi tribali? Stare al vostro gioco, ma senza darvi il modo di accorgervene.» Caposole Quattordici abbozzò un sorriso sinistro.

«Gocciadipioggia Quarantacinque» riprese «ha accompagnato nei negozi la tribale Venabili e in quelle occasioni non ci è sembrato di notare alcunché che non andasse. Ci è stato fatto un resoconto dettagliato, ovvio. Gocciadipioggia Quarantatré, tribale Seldon, ti ha mostrato le nostre microcolture. Avresti potuto insospettirti per la sua disponibilità a venire con te da sola, un comportamento inammissibile per noi, ma hai sostenuto che quello che valeva per i Fratelli non valeva per i tribali e ti sei compiaciuto per averla convinta con quel fragile ragionamento. Lei ha accolto la tua richiesta, anche se questo ha sconvolto non poco la sua pace interiore. E alla fine tu hai chiesto il Libro. Se te lo avesse consegnato troppo prontamente, tu avresti potuto sospettare qualcosa, così lei ha finto di avere un desiderio perverso che solo tu potevi soddisfare. La sua abnegazione non sarà dimenticata. Immagino che tu abbia ancora il Libro, tribale. Anzi, che tu lo abbia con te adesso. Posso averlo?»

Seldon rimase in silenzio, ostile.

Senza ritrarre la mano rugosa, Caposole Quattordici disse: «Preferisci che ti venga strappato con la forza?».

Seldon consegnò il Libro. Il Sommo Anziano lo sfogliò un attimo, quasi volesse rassicurarsi che non fosse stato danneggiato.

Poi sospirò. «Dovrà essere distrutto secondo le regole. Peccato! Dopo che hai avuto il Libro, naturalmente, non siamo rimasti sorpresi quando vi siete diretti al Sacratorium. Eravate continuamente sorvegliati, perché a meno di non essere assorti in qualcosa, un Fratello o una Sorella riconoscono subito un tribale. Sappiamo riconoscere una guaina a prima vista e a Micogeno ce ne sono meno di settanta. Appartengono per lo più a tribali che si trovano qui per motivi ufficiali e che durante il loro soggiorno restano sempre negli edifici governativi. Quindi voi siete stati visti e identificati senza ombra di dubbio, ripetutamente.

«Il vecchio Fratello che vi ha incontrati si è premurato di parlarvi della biblioteca oltre che del Sacratorium, ma vi ha anche spiegato quali fossero le proibizioni esistenti, perché non volevamo intrappolarvi. Anche Fasciadicielo Due vi ha avvisati in modo energico. Tuttavia, non avete desistito.

«Il negozio dove avete comprato la toga bianca e le due fasce ci ha informati subito, così abbiamo capito le vostre intenzioni. Abbiamo fatto in modo che la biblioteca fosse deserta, abbiamo detto al bibliotecario di ignorarvi, il Sacratorium è rimasto quasi inutilizzato. L’unico Fratello che inavvertitamente vi ha parlato per poco non ha rovinato tutto, ma si è affrettato ad allontanarsi quando ha capito con chi aveva a che fare. Poi siete venuti quassù.

«Come vedete, era vostra intenzione venirci; non vi abbiamo attirati in alcun modo. Se siete qui adesso, è solo perché ci siete arrivati in seguito alle vostre azioni e al vostro desiderio. Torno a chiedere: perché?»

Questa volta fu Dors a rispondere, la voce ferma, l’espressione dura. «Te lo diciamo una volta ancora, micogenese. Siamo studiosi, per noi la conoscenza è sacra ed è solo la conoscenza che cerchiamo. Non ci avete attirati qui ma non ci avete nemmeno fermati, mentre avreste potuto farlo prima che ci avvicinassimo a questo edificio. Ci avete spianato la strada, ci avete facilitato il compito e, volendo, anche questo è una specie di adescamento. Che male abbiamo fatto? Non abbiamo danneggiato in alcun modo l’edificio, né questa stanza o te. Nemmeno quello.»

Dors indicò il robot. «Un pezzo di metallo morto, ecco cosa nascondete qui dentro. Adesso sappiamo cos’è e non ci interessa sapere altro. Ci aspettavamo che fosse diverso e siamo delusi, ma abbiamo scoperto che è soltanto un pezzo di metallo e ce ne andremo. Se vuoi, lasceremo Micogeno.»

Caposole ascoltò inespressivo e, quando Dors ebbe finito, si rivolse a Seldon. «Questo robot, come vedi, è un simbolo, un simbolo di tutto ciò che abbiamo perso, di tutto ciò che nel corso dei millenni non abbiamo dimenticato e che un giorno intendiamo riavere. È l’unica cosa concreta e autentica che ci rimane, quindi ci è cara. Eppure per la tua donna è solo “un pezzo di metallo morto”. Sei d’accordo con lei, tribale Seldon?»

«Apparteniamo a società che non sono legate a un passato che risale a migliaia di anni fa, che rifiutano qualsiasi contatto con quello che è esistito fra quel passato e l’epoca attuale. Noi viviamo nel presente, che per noi è il prodotto di tutto il passato e non di un unico momento lontanissimo a cui aggrapparsi. Ci rendiamo conto del significato che può avere il robot per voi e siete liberi di continuare a considerarlo come preferite. Ma non possiamo che vederlo con i nostri occhi, mentre voi continuerete a vederlo con i vostri. Per questo abbiamo detto che è un pezzo di metallo morto.»

«E adesso ce ne andremo» aggiunse Dors.

«No» disse Caposole Quattordici. «Venendo qui avete commesso un reato. È un reato solo ai nostri occhi, come vi affretterete senza dubbio a far notare,» le sue labbra si curvarono in un sorriso gelido «ma questo è il nostro territorio, e sul nostro territorio spetta a noi definire le cose. Secondo tale definizione, è un reato punibile con la morte.»

«E ci sparerete, ci eliminerete?» fece Dors altera.

Caposole Quattordici assunse un’espressione sprezzante e continuò a rivolgersi solo a Seldon. «Per chi ci prendete, tribale Seldon? La nostra cultura è antica come la vostra, altrettanto complessa, civile e umana. Non sono armato. Sarete processati e, dal momento che siete evidentemente colpevoli, verrete giustiziati secondo la legge, in maniera rapida e indolore.

«Se voi tentaste di andarvene adesso, io non vi fermerei ma ci sono molti Fratelli qui sotto, molto più numerosi di quelli che avete visto entrando nel Sacratorium. Furiosi per il vostro gesto potrebbero aggredirvi con estrema violenza. È successo in passato che dei tribali siano morti così e non è una morte piacevole. Di sicuro non è indolore.»

«Fasciadicielo Due ci ha avvertiti di una simile possibilità» disse Dors. «Così la vostra sarebbe una cultura complessa, civile e umana, vero?»

«Le persone possono ricorrere alla violenza quando subentrano emozioni intense, tribale Seldon, anche se in circostanze normali sono miti e pacifiche» replicò il Sommo Anziano calmo. «Questo vale per ogni cultura, come saprà certamente la tua donna, che dovrebbe essere una studiosa di storia.»

«Cerchiamo di ragionare, Caposole Quattordici» disse Seldon. «Potrai anche amministrare la giustizia a Micogeno nelle questioni locali, ma non puoi giudicare noi, e lo sai. Siamo cittadini non micogenesi e spetta all’imperatore e ai suoi funzionari occuparsi dei delitti passibili di pena capitale.»

«Può darsi che sia così nei codici e sugli schermi olovisivi, ma qui non stiamo parlando di cose teoriche. Da tempo il Sommo Anziano ha la facoltà di punire i reati di sacrilegio senza interferenze da parte del trono imperiale.»

«Se i trasgressori appartengono alla tua gente» insistette Seldon. «Il discorso cambia se si tratta di stranieri.»

«Ne dubito, in questo caso. Il tribale Hummin vi ha condotti qui come latitanti e, dato che a Micogeno non abbiamo lievito al posto del cervello, siamo convinti che vi siate sottratti alle leggi dell’imperatore. Perché dovrebbe obiettare, se il suo lavoro lo sbrigheremo noi?»

«Obietterebbe» ribatté Seldon «anche se stessimo fuggendo l’autorità, anche se ci volesse solo per punirci; anzi, a maggior ragione. Consentirvi di uccidere, con qualsiasi mezzo e per qualsiasi motivo, dei non micogenesi senza il procedimento imperiale equivarrebbe a consentirvi di sfidare la sua autorità e l’imperatore non può permettere che si crei un precedente del genere. Certo, gli dispiacerebbe danneggiare il commercio dei microalimenti, ma ristabilire il suo privilegio e il potere avrebbe la precedenza. Nella vostra smania di ucciderci, volete che arrivi una divisione di soldati imperiali a saccheggiare le vostre colture e le vostre abitazioni, a profanare il Sacratorium e a prendersi delle libertà con le Sorelle? Rifletti.»

Caposole Quattordici sorrise di nuovo, ma non mostrò alcun tentennamento. «In effetti, ho riflettuto sul problema e c’è un’alternativa. Dopo la vostra condanna, potremmo rimandare l’esecuzione per permettervi di appellarvi all’imperatore per una revisione del caso. Probabilmente lui gradirà la nostra prova di sottomissione, sarà contento di avervi in pugno per ragioni sue e Micogeno ne trarrà dei vantaggi. È questo che volete? Appellarvi all’imperatore a tempo debito ed essere consegnati a lui?»

Seldon e Dors si guardarono un attimo e non risposero.

«Mi pare che preferiate essere consegnati piuttosto che morire, ma chissà perché, ho la sensazione che il margine di preferenza sia minimo.»

«A dire il vero» intervenne una nuova voce «penso che siano due soluzioni poco soddisfacenti, e che dobbiamo cercarne una terza.»

59

Fu Dors a identificare per prima il nuovo venuto, forse perché aspettava il suo arrivo.

«Hummin,» esclamò «grazie al cielo ci ha trovati! Mi sono messa in contatto con lei appena ho capito che non sarei riuscita a far desistere Hari da...» alzò le mani gesticolando «... questo.»

Il sorrisetto di Hummin non intaccò la naturale serietà del suo viso. Aveva un’aria leggermente stanca.

«Mia cara, ero impegnato in altre faccende e non sempre posso assentarmi subito. Quando sono arrivato a Micogeno mi sono dovuto procurare una toga e una fascia prima di raggiungere questo luogo, proprio come lei. Per non parlare della guaina! Se fossi arrivato prima, forse avrei impedito che accadesse quel che è successo. Comunque, non credo di essere arrivato troppo tardi.»

Caposole Quattordici si era ripreso da quello che aveva tutta l’aria di essere stato uno shock doloroso. Con voce priva dell’abituale, severa cupezza, chiese: «Come sei entrato qui, tribale Hummin?».

«Non è stato facile, Sommo Anziano, ma come dice spesso la tribale Venabili, sono una persona molto persuasiva. Alcuni micogenesi ricordano chi sono e cosa ho fatto in passato per il settore, oltre al fatto che sono un Fratello onorario. Tu hai dimenticato, Caposole Quattordici?»

«Non ho dimenticato, ma perfino i ricordi più favorevoli scompaiono di fronte a certe azioni. Un tribale e una tribale, qui! Non esiste crimine più grave. Tutto quello che hai fatto non basta a compensare un episodio del genere. La mia gente non è ingrata. Ti ripagheremo in qualche altro modo, ma questi due devono morire o essere consegnati all’imperatore.»

«Anch’io sono qui» replicò calmo Hummin. «Non è un crimine come il loro?»

«Per te, solo per te che in fondo sei un Fratello onorario, posso chiudere un occhio questa volta. Ma non con loro due.»

«Perché ti aspetti una ricompensa dall’imperatore? Qualche favore? Qualche concessione? Ti sei già messo in contatto con lui, o più probabilmente col suo capo di gabinetto, Eto Demerzel?»

«Questo non è un argomento pertinente.»

«Il che equivale a un’ammissione. Via, non voglio sapere cos’ha promesso l’imperatore, ma non può essere molto. Non ha tanto da offrire in questi giorni di degenerazione. Lascia che sia io a farti un’offerta: quei due ti hanno detto che sono studiosi?»

«Sì.»

«E lo sono, non mentono. La tribale è una storica, il tribale un matematico. Stanno cercando di fondere le loro capacità per mettere a punto una matematica della storia, che chiamano “psicostoria”.»

«Non so nulla di questa psicostoria, né mi interessa saperlo. E non mi interessa nessun altro ramo del vostro sapere tribale.»

«Comunque,» riprese Hummin «ti suggerisco di ascoltarmi.»

In un quarto d’ora, conciso, illustrò la possibilità di organizzare le leggi naturali della società (qualcosa che menzionava sempre con virgolette udibili nel tono di voce), in maniera tale da consentire la previsione del futuro con considerevole precisione a livello di probabilità.

Quando ebbe terminato, il Sommo Anziano che aveva ascoltato impassibile osservò: «Una congettura molto inverosimile, direi».

Seldon, l’espressione mesta, sembrò sul punto di parlare, senza dubbio per dichiararsi d’accordo, ma la mano di Hummin, posata sul suo ginocchio, si strinse in modo inequivocabile.

«Può darsi, Sommo Anziano,» disse Hummin «eppure l’imperatore non è di questo avviso. E parlando dell’imperatore, una brava persona tutto sommato, in realtà mi riferisco a Demerzel. Circa le ambizioni di Demerzel, non credo che tu abbia bisogno di delucidazioni. A loro piacerebbe moltissimo avere i due studiosi, appunto per questo li ho condotti qui al sicuro. Non mi aspettavo che avresti fatto tu il lavoro per Demerzel, consegnandoli senza discutere.»

«Hanno commesso un reato che...»

«Lo sappiamo, Sommo Anziano, ma è un reato solo perché voi volete considerarlo tale. In realtà non è stato fatto alcun danno.»

«È stata lesa la nostra fiducia, la cosa più...»

«Ma pensa a quali saranno i danni se la psicostoria cadrà in mano a Demerzel. D’accordo, forse non ne verrà fuori nulla, ma supponiamo per un attimo che la teoria di Seldon dia qualche frutto e che il governo imperiale possa servirsene per prevedere il futuro, prendere provvedimenti grazie a questa precognizione esclusiva. Provvedimenti destinati a determinare un futuro alternativo gradito all’apparato del potere.»

«E allora?»

«Mi pare ovvio che il più gradito agli imperiali sarebbe un futuro di rigida centralizzazione. Da secoli ormai, come sai benissimo anche tu, nell’impero si verifica un decentramento costante. Molti mondi sono fedeli all’imperatore soltanto a parole e in pratica si governano da soli. Perfino qui su Trantor c’è decentralizzazione. Micogeno, tanto per fare un esempio, è in gran parte libero da qualsiasi ingerenza. Tu governi in qualità di Sommo Anziano e non ci sono funzionari imperiali al tuo fianco a controllare le tue azioni e decisioni. Secondo te, quanto durerà questa situazione se uomini come Demerzel potranno modificare il futuro a loro piacimento?»

«È sempre una congettura molto esile,» disse Caposole Quattordici «ma è preoccupante, lo ammetto.»

«D’altra parte, se questi studiosi potranno completare il loro compito – ipotesi improbabile, certo, ma non del tutto –, ricorderanno di essere stati risparmiati da te, anche se avresti potuto decidere diversamente. In tal caso, mi pare lecito aspettarselo, cercheranno di favorire un futuro che, per esempio, consenta a Micogeno di avere un mondo proprio, un mondo che potrebbe essere trasformato a somiglianza di quello perduto. E se per caso dovessero dimenticare la tua magnanimità, ci sarei io a ricordargliela.»

«Ebbene...» fece Caposole.

«Via,» disse Hummin «è facile capire cosa stai pensando. Fra tutti i tribali, Demerzel deve essere quello di cui ti fidi di meno. E anche se le probabilità di applicare la psicostoria sono scarse (se non fossi onesto con te, non te lo direi), è chiaro che non sono zero. In breve, è possibile che la psicostoria vi permetta di ricreare il Mondo perduto, la cosa che desiderate maggiormente. Non sareste disposti a correre qualsiasi rischio di fronte a una prospettiva del genere? Via, è una promessa e io non faccio promesse alla leggera. Libera questi due e scegli una piccola probabilità contro nessuna. Una piccola probabilità di realizzare il tuo sogno più grande.»

Seguirono alcuni momenti di silenzio, poi Caposole sospirò. «Non so come, tribale Hummin, ma tutte le volte che ci incontriamo mi convinci a fare qualcosa che in fondo non vorrei fare.»

«Ti ho mai indotto in errore, Sommo Anziano?»

«Non mi hai mai offerto una possibilità così esigua.»

«Né una ricompensa possibile così grande. Le due cose si bilanciano.»

Caposole Quattordici annuì.

«Hai ragione. Prendi questi due e portali fuori da Micogeno. Non voglio più rivederli, a meno che non arrivi davvero il giorno in cui... Ma sicuramente non arriverà nel corso della mia vita.»

«Forse no, Sommo Anziano. Ma la tua gente sta aspettando paziente da quasi ventimila anni. Ti sembra troppo aspettare ancora, chissà, duecento anni?»

«Io preferirei non aspettare un solo istante, ma la mia gente aspetterà per tutto il tempo necessario.» Il vecchio micogenese si alzò. «Vi sgombrerò la strada. Portali via!»

60

Erano di nuovo in un tunnel. Hummin e Seldon ne avevano percorso uno quando erano andati dal settore imperiale all’Università di Streeling a bordo dell’aerotaxi. Ora si trovavano in un altro tunnel, che da Micogeno conduceva a... Seldon non lo sapeva ed esitava a chiederlo. La faccia di Hummin sembrava una maschera di granito e non incoraggiava la conversazione.

Hummin era seduto nella parte anteriore del veicolo a quattro posti; alla sua destra non c’era nessuno. Seldon e Dors occupavano i sedili dietro.

Seldon provò a sorridere a Dors, che aveva un’aria tetra. «È bello indossare di nuovo dei vestiti veri, non trovi?»

Dors rispose sincera: «Non porterò né guarderò mai più qualcosa che assomigli a una toga. E non metterò mai più una guaina in testa, in nessun caso. Anzi, mi sentirò a disagio se vedrò un uomo calvo. Parlo di calvizie naturale».

Fu Dors, infine, a porre la domanda di fronte alla quale Seldon aveva esitato. «Chetter,» domandò infine piuttosto spazientita «perché non ci dice dove stiamo andando?»

Hummin si spostò su un fianco e si voltò, fissando serissimo Dors e Seldon. «In un posto dove non vi sarà facile cacciarvi nei guai, anche se non sono sicuro che un posto del genere esista.»

Di colpo Dors parve avvilita. «A dire il vero, Chetter, la colpa è mia. A Streeling ho lasciato che Hari salisse sulla Faccia superiore senza accompagnarlo. A Micogeno almeno l’ho seguito, ma immagino che avrei dovuto impedirgli di entrare nel Sacratorium.»

«Ero deciso a farlo» intervenne Seldon con fervore. «Non è stata assolutamente colpa di Dors.»

Hummin non si sforzò di ripartire le responsabilità. Si limitò a dire: «Se ho ben capito, voleva vedere il robot. C’era una ragione particolare? È possibile conoscerla?».

Seldon arrossì. «Mi sono sbagliato, Hummin. Non ho visto quel che mi aspettavo di vedere o che speravo di vedere. Se avessi saputo cosa c’era nella guglia, non mi sarei certo disturbato ad andarci. È stato un fiasco totale.»

«Ma cosa sperava di vedere, Seldon? Me lo dica. Si spieghi pure con comodo. Sarà un viaggio lungo e sono pronto ad ascoltare.»

«Hummin, credevo che esistessero robot umanoidi molto longevi e che almeno uno fosse ancora vivo e si trovasse nella guglia. Infatti c’era un robot ma era di metallo, morto, un semplice simbolo. Se solo avessi saputo...»

«Già, se solo sapessimo, qualsiasi domanda e qualsiasi ricerca sarebbero superflue. Dove ha trovato le informazioni sui robot umanoidi? Dato che è impossibile che un micogenese le abbia parlato dell’argomento, mi viene in mente un’unica fonte: il loro Libro, stampato automaticamente in auroriano antico e in galattico moderno. Giusto?»

«Sì.»

«E come ha fatto a procurarsene una copia?»

Seldon esitò, poi borbottò: «È una storia un po’ imbarazzante».

«Non m’imbarazzo facilmente, Seldon.»

Seldon gli raccontò l’episodio e un sorrisetto contrasse per un attimo i lineamenti di Hummin.

Poi disse: «Non ha pensato che doveva trattarsi di una messinscena? Nessuna Sorella farebbe mai una cosa simile, se non per obbedire a degli ordini e dopo un’opera di persuasione notevole».

Seldon aggrottò le sopracciglia e sbottò aspro: «Non era affatto evidente. La gente è perversa, ogni tanto. Comodo per lei sogghignare, ma io non disponevo delle sue informazioni e nemmeno Dors. Se voleva evitare che cadessi in qualche tranello, avrebbe dovuto avvisarmi che c’erano dei tranelli».

«Ha ragione, ritiro quel che ho detto. Comunque, il Libro non lo ha più, suppongo.»

«No. Lo ha preso Caposole Quattordici.»

«Ne ha letto molto?»

«Solo una piccola parte, mi è mancato il tempo. È un libro enorme, Hummin, e anche terribilmente noioso.»

«Lo so, perché credo di averne letto più di lei. È noioso e del tutto inattendibile. È una visione micogenese e unilaterale della storia: mira soprattutto a presentare se stessa anziché a compiere un’analisi obiettiva. In alcuni punti è volutamente oscuro per impedire una chiara comprensione ai non micogenesi, casomai qualche straniero dovesse leggerlo. Ma cosa l’ha interessata in quello che ha letto sui robot?»

«Gliel’ho già detto. Parlano di robot umanoidi, esteriormente identici agli esseri umani.»

«E quanti sarebbero?»

«Non lo dicono. Almeno, non ho incontrato nessun punto dove fornissero delle cifre. Può darsi che ce ne fossero pochissimi, ma nel Libro uno di loro è chiamato “Rinnegato”. Mi è parso un nome dal significato sgradevole, ostile, anche se non sono riuscito a capire altro.»

«Questo non me l’hai detto» intervenne Dors. «Ti avrei spiegato che non si tratta di un nome proprio. È un’altra parola arcaica e significa grosso modo “traditore”. Il termine antico ispira una paura più profonda, perché un traditore agisce furtivamente, mentre un rinnegato si vanta del proprio tradimento.»

«Le precisazioni sulla lingua arcaica le lascio volentieri a lei, Dors» disse Hummin. «Comunque, se il Rinnegato è esistito davvero ed era un robot umanoide, trattandosi di un traditore e di un nemico, non vedo perché avrebbe dovuto essere conservato e venerato nella guglia degli Anziani.»

«Non conoscevo il significato di “Rinnegato”, ma, come ho detto, ho avuto l’impressione che fosse un nemico. Ho pensato che fosse stato sconfitto e poi conservato per ricordare il trionfo micogenese» disse Seldon.

«Il Libro accennava a una sconfitta del Rinnegato?»

«No, ma può darsi che quella parte mi sia sfuggita.»

«Difficile. Le vittorie micogenesi sono riportate in modo chiarissimo nel Libro, e con continui riferimenti.»

«Il Libro diceva un’altra cosa a proposito del Rinnegato.» Seldon esitò. «Ma non sono affatto sicuro di aver afferrato bene.»

«Appunto. A volte sono volutamente oscuri» gli rammentò Hummin.

«Be’, mi è parso di capire che il Rinnegato, non so come, potesse intercettare i sentimenti umani. Percepirli, influenzarli.»

«Tutti gli uomini politici ne sono capaci.» Hummin alzò le spalle. «Si chiama carisma, quando funziona.»

Seldon sospirò. «Un pio desiderio, ecco cos’era. Avrei dato non so cosa pur di trovare un antico robot umanoide ancora vivo a cui rivolgere delle domande.»

«A che scopo?» chiese Hummin.

«Per scoprire i particolari della società galattica primordiale, nel periodo in cui comprendeva ancora solo pochi mondi. Da una galassia così ridotta si potrebbe ricavare più facilmente la psicostoria.»

«E si fiderebbe di certe informazioni?» domandò Hummin. «Dopo tante migliaia di anni, riterrebbe attendibili i primi ricordi di un robot del genere? E le distorsioni subentrate?»

«Giusto!» esclamò di colpo Dors. «Vale quello che ti ho detto circa i documenti computerizzati, Hari. Anche nel caso dei ricordi del robot ci sarebbero fenomeni di eliminazione, perdita, cancellazione, distorsione. Si può risalire nel tempo fino a un dato punto, e più si va indietro, meno le informazioni sono attendibili. Non c’è niente da fare.»

Hummin annuì. «Una specie di principio di indeterminazione dell’informazione, l’ho sentito definire così.»

«Ma può darsi che alcune informazioni, per motivi speciali, vengano conservate, no?» fece Seldon pensieroso. «Certe parti del Libro micogenese possono benissimo riguardare eventi di ventimila anni fa e riportarli comunque fedelmente. Se una particolare informazione è considerata preziosa e conservata con cura, può darsi che sia più duratura e più precisa, non trovate?»

«La parola chiave è “particolare”. Può darsi che il Libro voglia conservare dati che a lei non interessano. Può darsi che i dati che un robot ricorda meglio non abbiano nessun valore per lei.»

Seldon sbottò disperato: «Qualsiasi strada imbocchi per cercare un modo di elaborare la psicostoria, viene a crearsi una situazione tale da rendere impossibile il mio compito. Perché prendersi la briga di tentare?».

«Può sembrare un’impresa disperata, adesso» osservò Hummin impassibile. «Ma col talento necessario forse si scoprirà la strada giusta per arrivare alla psicostoria, una strada di cui non sospettiamo nemmeno l’esistenza. Non abbia fretta. Ah, siamo vicini a un’area di sosta. Fermiamoci per un pasto.»

Mentre mangiavano pasticcio d’agnello e pane piuttosto insipido (cibo decisamente scadente dopo i piatti micogenesi), Seldon disse: «Hummin, mi sembra che dia per scontato che sia io a possedere il “talento necessario”. Be’, può darsi invece che non lo possieda».

«È vero, può darsi di no. Comunque non conosco altri candidati a questo ruolo, quindi devo insistere con lei.»

Seldon sospirò. «D’accordo, proverò, ma ho esaurito anche l’ultimo barlume di speranza. Possibile ma irrealizzabile: l’ho detto all’inizio e ne sono sempre più convinto.»