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Stato svendesi al peggior offerente

Manca il lavoro? L’economia non cresce? Le aziende chiudono? Le tasse non calano? Non c’è la ricchezza promessa?

Loro ti rispondono sempre così: «Il mercato non è abbastanza libero. C’è ancora troppo Stato. E lo Stato è inefficiente e ladro». Poi però, coloro che dicono che lo Stato è ladro sono i compari dei politici con cui apparecchiano la tavola delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. La loro ricetta è semplice: tagliare, vendere e guadagnare alle nostre spalle. Spiegarlo con le parole dell’economista liberista Milton Friedman suona più elegante, più chic: se l’economia non cresce, occorre incentivare la deregulation, privatizzare e ridurre le spese sociali. Seguendo queste ricette la politica ha perso il suo senso e si è lasciata corrompere dal neoliberismo, ha ubbidito.

C’è un motivo per cui ciò è accaduto: in tutto il mondo, gli uomini del sistema GangBank si sono cambiati d’abito passando dal sistema finanziario alle istituzioni politiche e viceversa. Negli anni in cui usavano l’Europa e la globalizzazione come cavallo di Troia per mutilare la sovranità degli Stati, riscrivere le Costituzioni e riformare ciò che serviva loro, questo sistema di sliding doors è diventato la prassi. Dell’ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso oggi in Goldman Sachs si è detto abbondantemente. Ma non è certo l’unico caso. Un altro ha a che fare direttamente con la crisi greca. Lucas Papademos fu governatore della Banca Centrale greca dal 1994 al 2002 e a questo titolo ha svolto un ruolo poco chiaro nel mascheramento dei conti pubblici compiuto dal governo ellenico con l’aiuto di Goldman Sachs. Quando il trucco venne scoperto, causando il crollo finanziario del paese, Papademos fu chiamato a riparare i danni su cui precedentemente aveva chiuso gli occhi: nel 2011 viene nominato primo ministro. Ebbene, il suo principale collaboratore, con il ruolo di amministratore del debito pubblico greco fu Petros Christodoulou, ex trader della banca americana a Londra.

Anche in Italia la schiera dei rigoristi era ben nutrita. «I debiti si pagano» si permetteva di dire qualche “vispa Teresa” del governo di Roma, riferendosi alla volontà di Atene di respingere le condizioni imposte dalla troika. Una volta me lo dissero anche in televisione. Risposi: «Avete ragione, i debiti si pagano». L’altro sorrise soddisfatto perché si aspettava la mia difesa a oltranza delle ragioni greche contro l’Europa, e così abbassò la guardia. «Quindi iniziate a saldare tutti i debiti che la pubblica amministrazione ha nei confronti delle imprese italiane! Tutti. Adesso. Esattamente come tutto e subito state chiedendo alla Grecia.» Balbettò qualcosa e rimase abbacchiato tutto il resto della puntata. Perché questi professorini sono fatti così. Finché si trovano davanti giornalisti mainstream tutto bene, appena uno cambia la prospettiva scompaiono.

Anche Matteo Renzi sulla Grecia faceva il bullo: «Una cosa è chiedere flessibilità nel rispetto delle regole. Un’altra è pensare di essere il più furbo di tutti, essere cioè quello che le regole non le rispetta». Così rispondeva il 30 giugno 2015 al direttore de «Il Sole 24 Ore» in una lunga intervista dove rompeva con il premier ellenico antiausterity Tsipras e abbracciava il rigore della Merkel. «Il punto è che la Grecia può ottenere condizioni diverse ma deve rispettare le regole. Altrimenti non c’è più una comunità. Scusi, noi abbiamo fatto la riforma delle pensioni: ma non è che abbiamo tolto le baby pensioni agli italiani per lasciarle ai greci, eh! Noi abbiamo fatto la riforma del lavoro, ma non è che con i nostri soldi alcuni armatori greci possono continuare a non pagare le tasse. Potrei continuare.»

Le regole vanno rispettate sempre o solo quando conviene? Le tasse degli armatori greci valgono o no quanto le tasse che le multinazionali dovrebbero pagare in Italia? Perché, a quanto mi risulta, parecchi colossi eludono il fisco o transano con l’Agenzia delle Entrate con notevoli sconti.

Insomma, le famose regole di Renzi sono opinioni. Le uniche regole che non si sgarrano sono quelle del sistema GangBank, in nome del quale è stata barattata, svenduta e umiliata la democrazia. Anche ad Atene, dove il voto del referendum con cui i greci bocciavano le ricette dell’austerity europea è stato stravolto dalle politiche di Tsipras (tanto che il suo ministro dell’Economia Varoufakis fu costretto a dimettersi), il quale ora dovrà rivedere un’altra volta i conti pubblici con la troika.

Il sistema di porte girevoli, vi raccontavo. Ora vi faccio l’elenco di alcuni uomini delle istituzioni, italiani, che hanno imboccato le porte girevoli di cui sopra.

Giuliano Amato è stato dal 2010 uno dei maggiori consulenti in Italia di Deutsche Bank. Se la parola “consulente” ha ancora un senso, significa che l’uomo in lizza per il ruolo di presidente della Repubblica italiana “consigliava” – in quanto consulente, appunto – una banca tedesca affinché facesse al meglio i propri interessi.

Di Mario Monti abbiamo detto prima: Trilateral, Bilderberg, Goldman Sachs.

Romano Prodi, ex presidente del Consiglio italiano ed ex presidente della Commissione europea, ha avuto rapporti di consulenza con Goldman Sachs dal 1990 al 1993.

Anche Gianni Letta, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con Berlusconi, è stato consulente di Goldman Sachs per un paio d’anni: 2007-2008.

Domenico Siniscalco, dopo l’esperienza al ministero dell’Economia, prima come direttore generale del Tesoro e poi come ministro, diventa managing director e vicepresidente di Morgan Stanley International. Nel dicembre del 2007, sempre per Morgan Stanley, assume la carica di country head per l’Italia. Lo abbiamo incontrato nella vicenda dei derivati. Tanto per gradire vi dico anche che è stato presidente di Assogestioni, l’associazione italiana del risparmio gestito.

Dopo Siniscalco, al ministero torna Giulio Tremonti (presidente di Aspen Institute Italia, cosa che nel suo curriculum omette: chissà perché…) fino a quando arrivano i tecnici di Mario Monti e all’Economia (dopo un lungo interim dello stesso Monti: una concentrazione di poteri straordinaria e inconsueta; ma agli uomini del sistema neoliberista è concesso tutto senza che i giornali battano ciglio) approda Vittorio Grilli, prima come viceministro e poi come ministro. Anche Grilli, come Siniscalco, arriva al ministero direttamente dalla direzione generale del Tesoro. E cosa fa Grilli quando smette i panni di superministro dell’Economia? Diventa presidente del Corporate & Investment Bank per l’area Europa, Medio Oriente e Africa della banca d’affari americana J.P.Morgan, presieduta da quel Jamie Dimon che andò a pranzo con Matteo Renzi per decidere il futuro di MPS.

Massimo Tononi è stato fino a pochi mesi fa ai vertici della banca senese (se n’è andato proprio in contrasto con le decisioni prese dal governo sul nuovo management di MPS, forse frutto anche di quel pranzo). Ma è stato anche sottosegretario dell’Economia tra il 2006 e il 2008 (governo Prodi) subito dopo una lunga esperienza a… Goldman Sachs.

Sempre in Goldman Sachs (con incarichi di grande responsabilità) è stato anche Claudio Costamagna, l’attuale presidente della potente (qualcuno la definisce la nuova IRI) Cassa Depositi e Prestiti.

Lascio per ultimo Mario Draghi. Perché ci consente di entrare nel vivo della questione che tratteremo adesso: le privatizzazioni. Ecco dove ha lavorato l’attuale “salvatore dell’euro e dell’Europa”. Dal 1991 al 2001 è direttore generale del Tesoro, dopo aver ricoperto a lungo l’incarico di direttore esecutivo della Banca Mondiale (1984-1990). Esce dalla direzione generale del Tesoro (lo sostituirà Siniscalco, come abbiamo visto) e il 28 gennaio 2002 entra subito in Goldman Sachs International come vice chairman e managing director. Ci resterà fino al 2005. Il 29 dicembre di quell’anno, Mario Draghi sostituisce alla Banca d’Italia Antonio Fazio, su cui si era abbattuto lo scandalo Bancopoli (nessuno però trova inopportune le sliding doors di Draghi). Il 1° novembre 2011 viene nominato presidente della Banca Centrale Europea. Una bella carriera dove nulla è mai… fuori posto.

Oltre ai loro rapporti professionali con le banche d’affari americane qual è il comune denominatore nei curricula di questi uomini di potere impegnati nelle istituzioni economico-finanziarie? La passione smodata per le privatizzazioni. Una delle parole magiche del vocabolario neoliberista.

Per capire cosa si nasconde dietro le mitizzate liberalizzazioni e privatizzazioni, che secondo il pensiero mainstream sarebbero la soluzione a tutti i mali del mondo, bisogna uscire dall’inganno delle parole accattivanti e interpretare gli abusi lessicali del neoliberismo.

Innanzitutto, è necessario smarcarsi dall’abuso della parola “libertà”, che fa da base semantica ai profeti neoliberisti. Le teorie di Friedman e del suo maestro, il filosofo austriaco Friedrich von Hayek, si basano su concetti di principio anche condivisibili: «A society that puts equality before freedom will get neither. A society that puts freedom before equality will get a high degree of both»; «Una società che mette l’uguaglianza dinnanzi alla libertà non otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza trarrà un elevato grado di entrambe».

Il corso degli eventi non ha tenuto fede al principio di fondo: i signori del liberismo si sono avventati come lupi sulle prede lasciate sguarnite da una classe politica complice. Nel mondo decine di milioni di persone sono state di fatto spogliate dei loro diritti e dei loro beni materiali, intesi sia come beni collettivi (welfare, servizi pubblici) sia come proprietà, a cominciare dalla casa.

Le cosiddette privatizzazioni dei servizi pubblici, venduteci dal pensiero mainstream come mezzi indispensabili per raggiungere la libertà economica che porta efficienza, prezzi competitivi e vantaggi per tutti, hanno prodotto effetti molto diversi da quelli propagandati. John Perkins oggi è un apprezzato economista, prima però lavorò come economista capo in una multinazionale; in un libro autobiografico dal titolo esemplicativo – Confessioni di un sicario dell’economia – ha svelato il sistema GangBank, cioè i meccanismi di corruzione e collusione intrattenuti dagli Stati Uniti con banche, grandi aziende e governi di vari paesi nel mondo. Egli scrive: «Costruire l’impero è ciò che noi sicari dell’economia sappiamo fare meglio. Siamo una élite di persone che utilizza le organizzazioni della finanza internazionale per creare le condizioni affinché altri paesi si sottomettano all’intreccio di potere tra le nostre corporation, il nostro governo e le nostre grandi banche. Come i loro omologhi della mafia, i sicari dell’economia distribuiscono favori. Questi assumono la forma di prestiti per lo sviluppo di infrastrutture: centrali elettriche, autostrade, porti, aeroporti o poli industriali. Una condizione di questi prestiti è che a costruire siano sempre le imprese del sistema o che le ricchezze siano svendute per creare profitto per pochi». Questa è la filosofia che un insider ha avuto il coraggio di svelare. Altro che benessere in nome delle libertà e del libero mercato.

Ornamento di separazione

Torniamo alle cose di casa nostra. In questo capitolo forniremo molti esempi e analizzeremo diversi casi in cui soggetti privati di varia natura hanno tratto un vantaggio particolare da beni precedentemente collettivi. A spese della comunità e fallendo gli obiettivi annunciati, cioè la competitività dei prezzi e la qualità del servizio. Prima, però, per scardinare fin da subito il dogma secondo cui i servizi pubblici sono meglio gestiti da mani private, abbozziamo qualche approfondimento linguistico. In latino, l’aggettivo publicus può voler dire, oltre che “pubblico” e “dello Stato” in senso stretto, anche “notorio”, “manifesto”, “aperto” (per estensione “trasparente”), “di tutti”. Per contro, l’aggettivo italiano “privato” deriva dal verbo “privare” ed è quindi relativo alla “privazione” di qualcosa a inevitabile detrimento di qualcuno, all’esclusione di una parte per favorirne un’altra. E ancora: ciò che è privato è notoriamente riservato, occulto, segreto. Di più. Un servizio pubblico gestito da privati è una contraddizione in termini. Rendere privato il servizio pubblico è un ossimoro.

Il vero significato della privatizzazione dei servizi pubblici sta nell’effetto finale dell’azione stessa, sintetizzabile in espressioni un po’ crude ma chiarificatrici come: «Ti scippo ciò che è tuo, ovvero della collettività, e poi ti massacro di tariffe», oppure: «Mi prendo quasi gratis i beni, i servizi e le infrastrutture che tu, tuo padre e tuo nonno avete contribuito a realizzare con il vostro lavoro e le vostre tasse, e poi mi siedo alla cassa a ingrassarmi», o anche: «Mi approprio di un bene o di uno spazio pubblico e ne faccio il mio feudo. Chi vuole passare o chi vuole farne uso mi deve pagare».

La proprietà privata individuale è certamente sacra e noi ne siamo i primi alfieri, ma in una comunità (piccola o grande che sia) i beni collettivi vanno condivisi e tutelati, perché danno senso alla comunità stessa. Come afferma, ancora una volta, la Costituzione.

Ornamento di separazione

La deriva neoliberista e l’assalto al patrimonio collettivo, incluso quello che ci ha fornito madre natura (l’acqua e il suolo), in Italia hanno radici relativamente lontane. Il pressing funzionale all’appropriazione di infrastrutture, servizi, aziende di Stato, beni comuni e reti pubbliche da parte del GangBank non è roba di oggi. La storia parte sì dal Prodi degli anni Ottanta e dallo smantellamento dell’IRI, ma ha il suo vero epicentro, diremmo il suo vero peccato originale, nel Britannia del 1992.

Tutto inizia su una nave: il Royal Yacht Britannia, appunto, ormeggiato in rada tra Civitavecchia e l’Argentario. Questo panfilo, di proprietà della regina Elisabetta II, era stato affittato per l’occasione a un centinaio di banchieri. Tra cui manager di Goldman Sachs, Barclays e lo speculatore George Soros. In mezza giornata si posero le basi affinché gli astanti Carlo Azeglio Ciampi, a quei tempi capo del Governo, e l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi avviassero la privatizzazione delle aziende di Stato, dei beni comuni e delle banche pubbliche. Chiaro, non ci fu il tempo materiale per discutere i dettagli di tutte le operazioni, ci mancherebbe, ma indubbiamente il nucleo della questione fu evidente fin da subito: sul Britannia si diede il segnale di “semaforo verde”.

La SIP, la società pubblica dei telefoni, che diventa Telecom si può far risalire a quell’episodio. Un’azienda che dapprima fu spolpata dai nostri “capitani coraggiosi” (così nel 1999 l’allora presidente del Consiglio D’Alema appellò Roberto Colaninno che scalava con soldi non suoi la Telecom), poi venne indebitata fino al collo, e passò più volte di mano per finire in ultimo agli stranieri. Il “la” per la privatizzazione di Eni, delle Poste, della Comit, la più importante banca pubblica italiana, e poi degli elettrodotti, dei gasdotti e di tutti i servizi pubblici venne intonato simbolicamente lì, in mare aperto, lontano dagli occhi del pubblico, quasi clandestinamente. I beni della collettività, cresciuti con il lavoro degli italiani e con le loro tasse, sarebbero dunque stati destinati alle mani dei privati. In moltissimi casi a mani straniere, come vedremo più avanti. Era il 2 giugno, festa della Repubblica: più insolenti e beffardi non potevano essere.

Perfino la fortuna di Benetton con le autostrade è parente delle logiche tecnocratico-politico-affaristiche del Britannia. La concessione di tremila chilometri di rete autostradale alla famiglia Benetton fu un vero e proprio cadeau. Facendo un paio di conti e utilizzando i costi di costruzione disponibili in letteratura (da 25 a 50 milioni al km), quei tremila chilometri valgono non meno di 75 miliardi, ma più verosimilmente 150 miliardi tutto compreso. Ebbene, questo patrimonio da capogiro di una struttura pubblica è stato dato in gestione a un privato, sostanzialmente senza considerevoli contropartite se non l’impegno a provvedere ai lavori di manutenzione e ammodernamento delle tratte. I pedaggi di cittadini, lavoratori e imprese oggi garantiscono 3,7 miliardi di ricavi annui alla concessionaria, con margini operativi del 44% sul conto economico del 2015, che uniti al 25% di utile netto sui ricavi fanno una fortuna che neanche le aziende del lusso… Per non parlare delle società industriali, che certi margini se li sognano proprio.

Fra le tre componenti che formano gli importi dei pedaggi concordati tra governo e Autostrade per l’Italia, abbiamo: 1) il valore dell’infrastruttura già esistente e già pagata dai contribuenti; 2) le spese di manutenzione; 3) una formula arbitraria e poco chiara che richiama agli investimenti. Non bastasse, si aggiunge l’inflazione, arrotondandola spregiudicatamente per eccesso. Infatti (dati Federconsumatori), l’aumento dei pedaggi medi nazionali nel decennio tra il 2006 e il 2016 è stato complessivamente del +42,6% a fronte di un’inflazione del +15,1%.

Ornamento di separazione

Non è tutto. Siccome alla generosità verso i ricchi non c’è limite, la collettività versa a Luciano Benetton anche tremila euro al mese di vitalizio per i suoi due anni scarsi come parlamentare eletto nel Partito repubblicano italiano. Ovviamente sarebbe solo ingeneroso e pretenzioso pensare che in Parlamento abbia tessuto quelle relazioni politiche utili alla stagione delle privatizzazioni. Benetton è Benetton, no?

Per ricapitolare, la famiglia Benetton controlla quasi il 50% della nostra rete autostradale. Avete letto bene: la nostra. Quella costruita dalla fine degli anni Cinquanta e soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta con risorse pubbliche e con il lavoro dei cittadini alla faccia del solito dogma dell’inefficienza statale con cui ci bombardano i neoliberisti, il GangBank e i commentatori amici degli amici. Le autostrade costruite dallo Stato e dall’IRI sono sotto gli occhi di tutti: gli investimenti per la loro costruzione grazie ai nostri pedaggi furono recuperati completamente già negli anni Novanta. E allora perché concederle praticamente gratis a un privato, proprio negli anni Novanta, con concessioni quarantennali e che saranno probabilmente estese fino al 2045?

Ragazzi, a parte la Francia, l’Italia autostradale dei Benetton, dei Gavio (il cui gruppo controlla quasi 1.500 chilometri dei circa 6.700 complessivi della nostra rete) e degli altri concessionari è il paese più caro d’Europa. Da noi i pedaggi garantiscono mediamente 841.000 euro di ricavi al chilometro, quasi il doppio della Spagna (477.000 euro al km), quasi il triplo della Grecia (311.000 euro al km) e infinitamente più che in Germania, dove i pedaggi valgono zero. In terra tedesca, nessuno specula su ciò che è pubblico ed è stato già pagato.

Tirando le somme, si può dire che il governo ha affidato ai Benetton per quarant’anni, senza gara e senza concorrenza, un controvalore infrastrutturale stimabile in 75-150 miliardi di euro finanziato con i soldi nostri, dei nostri padri e dei nostri nonni. Per capire di che regalo si tratta vi diciamo che se fosse toccato al signor Benetton costruire direttamente queste autostrade, pagandole di tasca propria, avrebbe dovuto sborsare – nel caso di un piano di ammortamento di durata quarantennale – 3,7 miliardi l’anno. Ergo non dovremmo essere noi a pagare il pedaggio ma…

Invece i 3,7 miliardi all’anno Benetton li riscuote come pedaggi, rendite di posizione in regime di monopolio su un’infrastruttura non sua, che come tutte le reti fisiche assegnate a mani private diventa una specie di feudo. E cosa fa Autostrade per l’Italia per meritarsi la pagnotta? Nero su bianco, dal 1997 a tutto il 2015 ci sono solo 21 miliardi di investimenti (complessivi, tra quelli effettuati e quelli pianificati) per manutenzioni, ammodernamenti e ampliamenti. Questa cifra è pari soltanto al 14% del valore infrastrutturale stimato.

Come tutte le risme di “imprenditori liberalizzatori” (multiutility, grandi reti ecc.) anche i gestori autostradali si finanziano per lo più a debito, specie attraverso obbligazioni e prestiti bancari. A ciò si aggiunga che in un regime tariffario non si capisce dove stia il rischio di impresa; e allora ha ragione mio nonno quando dice che «a fare l’imprenditore così sono capace anch’io». Già, ma mio nonno non ha una rete di relazioni così potente.

E che dire della fortuna delle banche accompagnata dalle disgrazie di correntisti, risparmiatori e contribuenti? Nel corso del tempo, già dagli anni Ottanta e fino ai Novanta, Comit, Credit, le Casse di Risparmio, le popolari, BNL, San Paolo, Banco di Roma e chi più ne ha più ne metta: privatizzate per cosa? Abbiamo visto i danni che ha fatto il sistema bancario, a cominciare da Monte dei Paschi di Siena: un gorgo di clientelismo che è costato la bellezza di tre salvataggi. L’ultimo in ordine di cronaca, ovviamente a spese dei contribuenti, al modico prezzo di 20 miliardi di euro, somma stanziata da Padoan per coprire il cumulo dei danni procurati dalla mala gestione delle banche italiane nel solo 2016. Venti miliardi a debito: soldi che non abbiamo e che – come se non l’avessimo già detto abbastanza – in assenza di una nostra indipendenza monetaria ci condannano alla schiavitù eterna. Sotto il giogo del GangBank tocca sempre a noi dover mettere le pezze. E ogni volta che emettiamo debito pubblico, le banche fanno profitti privati maturandoli in commissioni.

Infatti le banche straniere (ben diciassette su venti nel 2015, tra cui J.P.Morgan in pole position) e le banche italiane (solo tre nel 2015, tra cui la stessa inguaiata MPS) sono storici gestori specializzati dei nostri titoli di Stato. Praticamente organizzano aste e collocamenti prendendosi fior di commissioni. Capito? Non solo il sistema ci tiene per il collo, ma più noi emettiamo debito più loro incassano. Come se la presa in giro non bastasse, MPS è stata la più attiva per ben due anni di fila. Già, il Monte dei Paschi di Siena, l’istituto peggio governato degli ultimi decenni, è – tenetevi forte – il primo gestore del nostro debito pubblico. Primo in classifica per due anni di fila: nel 2014 e nel 2015, con diploma in carta filigranata emesso dal ministero dell’Economia. Lo dicono i protocolli del ministero del Tesoro.

Persino la Banca d’Italia è privata, come abbiamo già visto. La nostra Banca Centrale, quella che dovrebbe essere dello Stato, quella che custodisce le nostre riserve di duemilatrecento tonnellate d’oro (di chi sono adesso?), quella che dovrebbe controllare la nostra politica monetaria e che invece per effetto delle eurofollie di Maastricht, Francoforte e Bruxelles non può più farlo. La Banca d’Italia è PRI-VA-TA. Lo svelò un articoletto di «Famiglia Cristiana», passato alla storia.

La svendita dell’Italia passò (e tuttora passa) per i nomi dei santoni intoccabili. Degli insospettabili. Dei tecnocrati di ieri e di oggi del sistema GangBank riunitosi clandestinamente sul Britannia. E dei politici di ieri e di oggi, dei politici delle sliding doors, dei convinti europeisti o neoliberisti. Sono gli Amato, i Prodi, i Draghi, i Ciampi, i Monti, i Padoan, i Renzi. Tutta questa gente ci ha tenuto (e ci tiene tuttora) in fibrillazione, a periodi alterni, dal 1992 ai giorni nostri, assecondando – anche non consapevolmente – gli stati di crisi procurati artificialmente dalle banche internazionali.

Apro una parentesi. A proposito di tali gigantesche crisi Michail Gorbacëv in un’intervista al «Guardian» nell’aprile 2016 raccontò che «losche strutture finanziarie hanno vissuto di crisi artificiali create in tutto il mondo, così come talune organizzazioni criminali di proporzioni globali», crisi capaci di «gonfiare una bolla finanziaria dopo l’altra guadagnando miliardi dal nulla». Gorbacëv aggiunse che ci sono «organizzazioni criminali che si trovano a proprio agio nel mondo globalizzato. Fra loro: trafficanti d’armi, narcotrafficanti, trafficanti di esseri umani, pirati informatici e naturalmente terroristi». Chiusa parentesi.

Prede del neoliberismo sono anche i nostri gioielli di Stato svenduti per quattro soldi, il nostro debito pubblico che passa di mano per due lire (dalle nostre mani a quelle delle banche internazionali che ora ci ricattano), e infine i nostri beni comuni. Da quel 2 giugno 1992 sul Britannia, è tutto un piovere di manovre “lacrime e sangue” (Amato, Monti, Letta), prelievi forzosi (il 6‰ una tantum di Amato), prelievi forzosi permanenti (le imposte di bollo e il 2‰ annuale di Monti da qui all’eternità), eurotasse (Prodi), eurotasse mascherate nei fondi salva Stati (Monti). Risultati? Una moneta che è una gabbia, lo svuotamento della Banca d’Italia, l’annullamento dell’equilibrio sociale, una povertà dilagante per undici milioni di persone, le crisi permanenti e i fallimenti bancari, con truffe eseguite a norma di legge contro centinaia di migliaia di risparmiatori.

GangBank si è mossa usando il glossario ingannevole di un mercato amico dei cittadini, dei consumatori, di una flessibilità che avrebbe assicurato lavoro e remunerazione. GangBank si presentava con la faccia pulita, «per aumentare la competitività e l’efficienza», «per ridurre i prezzi»… Invece i prezzi aumentano e di investimenti non si vede manco l’ombra, salvo quando i bravissimi privati vanno a batter cassa dallo Stato, che per salvarli sforna altro debito pubblico e taglia quel che è rimasto da tagliare ai cittadini.

Pensate, l’inizio della svendita dell’Italia è stato accordato in mezza giornata su un panfilo di lusso. Nella massima segretezza. E il Parlamento? E le istituzioni? Facevano da notai: prendevano nota. Perché «ce lo chiede l’Europa», perché c’era una «sfida di modernità». E noi cittadini? Tutti presi, a quel tempo, da Tangentopoli e dai cruenti attentati di mafia, non capivamo. Da allora, le tempeste finanziarie si sono abbattute a ondate. Prima la speculazione contro la lira negli anni Novanta, che permise alle società angloamericane di rilevare alcune nostre imprese a prezzi stracciati (almeno il 30% in meno del loro valore), poi la crisi che ha bruciato miliardi e miliardi di dollari del nostro bilancio con conseguenti manovre “lacrime e sangue”.

Il conto? Sempre sul nostro tavolo. Altro che liberalizzazioni e privatizzazioni per «farci scegliere il servizio più conveniente». Le tariffe di tutti i servizi pubblici aumentano a una velocità stratosferica, molto più di quella che ci dicono essere l’inflazione; tanto da domandarsi se il paniere di beni sulla cui base l’Istat misura l’andamento dei prezzi sia adeguato a calcolare l’inflazione.

Dal 2006 al 2016 acqua +88%, rifiuti +53%, pedaggi +43%, servizi postali +41%, trasporti urbani +41%. E l’inflazione? +15,1%. E i salari? Aumentano troppo solo secondo Confindustria, perché la curva della crescita degli stipendi reali italiani è poco più che piatta. Basta verificarlo navigando con pazienza sul sito dell’OCSE, dove si scopre – e non c’era da dubitarne – che gli stipendi degli italiani sono il fanalino di coda della crescita mondiale.

Al giorno d’oggi, i nostri soldi finiscono per pagare le bollette e dovremmo pure ringraziare chi ce li toglie: il marketing delle compagnie di servizi prova a ubriacarti di parole concedendoti «il privilegio, la comodità e i vantaggi della domiciliazione bancaria dei pagamenti». Così non ti accorgi se i prezzi scendono o salgono, anche perché le fatture che poi arrivano a casa sono talmente astruse che ci vuole una settimana con un commercialista esperto per capirle. E qualche bustina di antidolorifico per farti passare il mal di testa.

Chi non può saldare entra in morosità; chi ha bisogno del servizio si indebita, vuoi sul servizio stesso vuoi – più facilmente – su altre voci di spesa familiare. E chi è già alla canna del gas rinuncia alle forniture. Oppure gliele tagliano i fornitori a forza. Eni, Enel, Edison e Sorgenia hanno deciso di rivolgersi alle agenzie di recupero crediti: pagare le bollette si deve fare, per carità, ma non si può negare che vi siano casi in cui l’impossibilità a pagare è oggettiva.

La denuncia di Federconsumatori e ADUSBEF è chiara: «Nonostante la crisi e il concomitante calo del potere d’acquisto delle famiglie, […] alcune tariffe (acqua, pedaggi e parcheggi, trasporti urbani e ferroviari e servizi postali) sono aumentate in maniera più pesante rispetto alla fase pre-recessione». Secondo i movimenti dei consumatori sono diverse le cause di questo picco dei prezzi, per questo «la concorrenza in alcuni settori non ha prodotto contenimento delle tariffe o non è mai decollata». Sempre per dirla con le due associazioni, l’aumento del costo dei servizi ha comportato anche un incremento della morosità e delle richieste di sospensione delle forniture.

Nello scenario appena descritto, fanno eccezione soltanto due voci di spesa: il gas naturale, perché le quotazioni internazionali della materia prima sono per terra (anzi c’è da scandalizzarsi perché al momento in cui scriviamo il gas vale la metà rispetto a dieci anni fa, ma il prezzo al consumo per i cittadini è aumentato del 3,1% anziché dimezzarsi); e le telecomunicazioni, dove effettivamente possono esistere le premesse tecniche per una vera concorrenza.

In quest’ultimo settore, però, l’architettura delle aziende e delle offerte è tale da mettere il consumatore sempre all’angolo. Per esempio con i classici 9-10 euro al mese che diventano 13 o 15 o 20 con le una tantum di sottoscrizione dell’offerta, con il mese che si accorcia a 28 giorni, con le clausole d’uso di una tariffa fissa che diventa variabile in certe condizioni, con il vincolo dei 10 euro legati a un’altra tariffa base obbligatoria, con un gruppo di aziende concorrenti che si muovono talmente all’unisono da far sospettare che si scambino informazioni, ecc…

E l’attenzione al cliente? A sentire chi ci fornisce i servizi, è un mondo da fiaba. Tutti i siti internet pubblicizzano una calorosa vicinanza a te, pullulano di visi rassicuranti, numeri verdi, indirizzi e-mail, immagini tranquillizzanti. E ancora sms gratuiti e via dicendo. Sei come a casa! In famiglia!

E invece no. Se hai bisogno di qualcuno per un reclamo, un problema tecnico o un chiarimento su una fattura, hai voglia a cercare un essere umano con cui interloquire. Sei libero di chiamare tutti i numeri che vuoi: sarai rimbalzato da un risponditore automatico all’altro per cinque, dieci, quindici volte fino a che non ti verrà l’esaurimento nervoso. Ascolterai grandi hit di musica classica per interi quarti d’ora in attesa che si liberi un operatore.

«Be’,» dirai «allora vado allo sportello». Dico, ci sarà uno sportello clienti a cui rivolgersi? Eh no, non c’è. Mica siamo nel vecchio mondo! È la modernità, ragazzi.

Quando però si tratta di venderti i loro prodotti, ecco stuoli di venditori, consulenti, assistenti. Ti contattano a casa; ti chiamano sul telefonino; ti scrivono; ti cercano fino a importunarti. Non mollano mai la presa, perché ogni tua firma è per loro un surplus di guadagno. È la giungla delle retribuzioni variabili. La giungla del mercato libero e liberalizzato.

A proposito di modernità. Se ne era accennato nel primo capitolo: negli ultimi anni, le notizie di cronaca riguardanti Poste Italiane sono uno stillicidio di tagli ai servizi, riduzione del personale, chiusure di uffici e limitazioni degli orari di apertura. Ecco un piccolo campionario, preso a caso dai giornali locali: Ferentino: l’ufficio postale centrale riduce il servizio; Poste Italiane riduce il servizio di recapito in Basilicata; Magenta, Poste Italiane riduce gli orari per l’estate; Poste Italiane e il caso dei duemila cassintegrati: «Noi lasciati a casa…»; Poste riduce il recapito. A rischio 100 portalettere; Messina sepolta sotto una montagna di posta; «30 maggio 2016: a giugno il servizio sarà tagliato del 25 per cento in 86 zone. Il personale in esubero sarà solo in parte riqualificato».

Le motivazioni sono sempre le solite: necessità di migliorare l’efficienza, ottimizzazione, riduzione dei costi. Razionalizzazione. Quanti sinonimi offre il vocabolario della modernità. E poi il solito dogma: i privati offrono un miglior servizio a un minor costo. Ciao core, dicono a Roma…

Il ridimensionamento del servizio pubblico postale fa a pugni con quelle stesse liberalizzazioni che dovrebbero ampliare le piattaforme d’offerta dei servizi e creare posti di lavoro nonché ricchezza diffusa. E invece? Partendo dai tempi in cui Pier Luigi Bersani era ministro dello Sviluppo economico per arrivare al professor Monti nel 2012, i governi decretano a macchinetta per liberalizzare di tutto e di più, anche per ampliare gli orari di apertura dei negozi. Ebbene, Poste Italiane cosa fa? Li riduce per regalare quote di mercato ai corrieri privati e per focalizzarsi su attività finanziarie, bancarie, fondiarie e assicurative. Business parassitari che non creano ricchezza, bensì agiscono sui risparmi di cittadini non sempre ben informati.

Da svariati anni, il settore postale (tradizionalmente riservato allo Stato) è stato liberalizzato. Quindi i servizi postali non sono più erogati soltanto dalla mano pubblica, ma anche dai privati. Perché? Perché, come sempre, ce lo chiede l’Europa. La direttiva UE che imponeva la liberalizzazione (97/67/CE) è stata diligentemente recepita dall’Italia con un decreto legislativo (n. 261 del 22 luglio 1999). L’Unione Europea ha inoltre emanato una nuova direttiva (2002/39/CE del 10 giugno 2002) allo scopo di proseguire sulla strada della liberalizzazione del settore. Fino al 31 marzo 2011 quando, dopo nove anni di ritardo (o di melina a seconda dei punti di vista), il governo Berlusconi decreta l’istituzione di un mercato dei servizi postali in piena e libera concorrenza (d.l. 58/2011).

Leggete bene: piena e libera concorrenza. Con quali risultati? Meno servizi e tariffe più care.

Negli ultimi anni, l’aumento dei prezzi per i servizi postali è stato incessante e vertiginoso. Come certifica Federconsumatori, negli ultimi dieci anni, dal 2006 al 2016, le tariffe postali sono aumentate del +40,9% a fronte di un tasso d’inflazione al +15,1%. Quasi il triplo. A partire dalla crisi del 2008, la forbice si è ampliata: +39,7% per le tariffe postali in otto anni, contro un’inflazione al +9,2% nello stesso periodo. Più del quadruplo.

Se non vi basta, ecco la mazzata finale per il vostro morale già a terra.

Prendendo gli anni antecedenti sia la crisi sia il decreto delle “liberal-privatizzazioni” (periodo 2002-2008), si scoprono un +12,7% per i prezzi postali e un +15% per l’inflazione. In parole povere, prima della crisi e del “mitico” libero mercato, le lettere arrivavano e i prezzi aumentavano pochissimo.

Proviamo a leggere gli stessi dati di aumento dei prezzi anche in un altro modo.

– Prima della crisi e prima delle “liberal-privatizzazioni” (2002-2008): +2,12% all’anno.

– Dopo la crisi e dopo le “liberal-privatizzazioni” (2008-2016): +4,96% all’anno.

Insomma, ti tolgono ciò che è tuo (i servizi postali dello Stato finanziati con le tue tasse) e ti bastonano con le tariffe.

Orbene, se si liberalizza e si privatizza il servizio postale, ci sarà pur qualcuno che ci guadagna, no?

Certo.

Primo: i nuovi padroni di Poste Italiane, cioè i cosiddetti investitori istituzionali e i fondi d’investimento. Le cui quote e il cui peso sono destinati ad aumentare incessantemente, salvo improbabile interruzione della deriva neoliberista che sta spogliando l’Italia del suo patrimonio.

Secondo: i corrieri privati a cui è stato di fatto consegnato il mercato delle consegne postali e dei pacchi.

Oggi c’è un fiorire di corrieri privati. Si piccona il servizio pubblico, così si è costretti a pagare 24 euro un DHL “per essere più sicuri” che il pacco arrivi. Compaiono i corrieri Posta Express con nome, logo e colori ingannevolmente simili a quelli di Poste Italiane, in un perfetto gialloblu che ti fa credere di essere ancora al tuo vecchio ufficio postale.

E, nel vuoto di mercato creato artificiosamente dalla scure dei governi filoliberisti, tutti hanno gioco facile a ritoccare all’insù le tariffe. Comprese le stesse Poste Italiane, che si quotano in Borsa promuovendo questo fatto come un benefit per gli (stolti) italiani, come un must di tendenza che fa figo!

E allora cosa possiamo dire? Semplice: lo Stato che non è più Stato, ma dépendance della Commissione europea, della finanza, dei neoliberisti, dei privati e delle multinazionali, piccona esso stesso il proprio servizio pubblico. Smantella di fatto i servizi postali diminuendo la frequenza delle consegne, restringendo gli orari di apertura degli sportelli, riducendo la presenza sul territorio (meno sedi) e fiaccando la forza lavoro. Obbedendo ai diktat europei su liberalizzazioni e privatizzazioni.

E così, una raccomandata semplice con Nexive ti costa – secondo il listino 2015 – da due euro e mezzo a sei euro e venti. Ragazzi, scusate, ma queste liberalizzazioni a chi convengono? Da cinquemila a oltre dodicimila delle vecchie lire! Chi ha qualche anno sulle spalle, ma neanche troppi, si ricorda ancora i francobolli da cinquanta lire. E la posta arrivava. Dico, le lettere arrivavano. Se proprio vogliamo, facciamo duecentocinquanta lire. Esageriamo: cinquecento. Ma qui ci chiedono il decuplo se va bene, duecentoquaranta volte tanto se va male.

Capito? Ti sfilano i servizi e tu non te ne accorgi finché non ti arriva la botta. E per giunta sembra quasi che ti prendano per i fondelli con spot come questo: «È arrivata InZona, la tua posta vicino a casa», annuncia Nexive sul proprio sito web. Ma come? Abbiamo sempre avuto gli sportelli sotto casa in ogni angolo d’Italia, anche nei paesini più sperduti. Anche in mezzo ai lupi! Gli sportelli dello Stato. E adesso che chiudono gli uffici postali di periferia mi reclamizzano qualcosa che era già mio, per vendermi un servizio di tipo postale, oltretutto facendo uso di ciclisti-postini le cui paghe sono spesso bassissime. Mah…

E intanto le stesse Poste Italiane reclutano precari su precari. I nuovi postini possono sognare il lavoro solo per una stagione. «Aperto un nuovo recruiting di Poste Italiane per reclutare postini che lavoreranno durante il periodo autunno inverno 2016-2017» si legge sul web. «Durata di 3 o 4 mesi», quindi «i candidati saranno impiegati per novembre e dicembre 2016, gennaio 2017 e febbraio 2017». Si tratta di un «lavoro temporaneo a carattere stagionale».

Stagionale? Ma dico, un reciproco impegno professionale di lunga durata mai? Quotiamo Poste in Borsa e non c’è più lavoro a tempo indeterminato? Niente più posto fisso? Be’, scusate ma era meglio prima. Nel mondo antico.

Eppure qualcosa di consistente lo si trova ancora, in Poste Italiane. Al primo dicembre 2016 erano aperte diverse posizioni di lavoro stabile. Finalmente dei postini che recapitano e smistano pacchi, tutti i giorni e in tutta Italia? Macché, si tratta di promotori finanziari senior. Ecco quali sono le figure strategiche di Poste Italiane nel terzo millennio: i piazzisti di prodotti finanziari.

Come testimonia la pubblicità, le Poste non fanno più il loro lavoro. Sono diventate una banca. Sono diventate finanza. Sono diventate rivendite di assicurazioni, uno spaccio all’ingrosso di prestiti e di cessioni del quinto. La loro trasformazione ha alle spalle un lavoro subdolo di lunga data, organizzato da lontano, quando uscirono le direttive europee sulle privatizzazioni del settore (1999 e 2002). Un lavoro per preparare il futuro utile dei nuovi azionisti.

Le Poste si sono quotate in borsa nell’ottobre del 2015, quando lo Stato ha messo sul mercato una quota del 35% (alla quale presto o tardi verrà aggiunto un altro 30%). Investitori istituzionali e individuali hanno sottoscritto le azioni. E chi sono codesti investitori istituzionali di cui ci parlano così bene i soloni del governo e quelli di tivù e giornali allineati? Sono i grandi fondi d’investimento, le banche, gli agenti di cambio, le società di gestione del risparmio, le società di investimento a capitale variabile, i fondi pensione, le assicurazioni, le società finanziarie, le fondazioni bancarie.

Il primo collocamento di Poste, valutabile in 3,3 miliardi di euro, annoverava tra gli altri i seguenti investitori istituzionali: fondi sovrani cinesi, Kuwait Investment Office, Norges Bank, George Soros (uno dei più grandi speculatori finanziari individuali al mondo), BlackRock (un fondo di fondi gigantesco con partecipazioni in quasi tutte le grandi aziende del globo e un patrimonio investito – più o meno fluttuante – di circa 4.600 miliardi di dollari, superiore alla somma dei PIL di Canada, Italia e Spagna).

Che le Poste Italiane siano una società finanziaria lo dimostrano anche i numeri. Quasi il 90% dei ricavi si basa su attività finanziarie, bancarie, assicurative e di risparmio gestito. Ma come, non si chiamano Poste?

E mentre la parte finanziaria scoppia di salute, i servizi postali sono al lumicino e in decrescita (non c’è interesse a servire i cittadini e si tagliano i servizi): solo il 10,6% dei ricavi.

Ecco il prospetto che lo dimostra, aggiornato al 30 settembre 2016.

RICAVI PERIODO 1/1/2016 - 30/9/2016

Ricavi (mld di euro)

Quota

Crescita/Decrescita

Servizi postali e commerciali

2,7

10,6%

-3,2%

Servizi finanziari

4,1

16,1%

+4,0%

Servizi assicurativi e risparmio gestito

18,7

73,3%

+10,4%

Ricavi totali

25,5

100,0%

7,6%

Cari utenti postali, quel misero 10,6% in decrescita al –3,2% rappresenta il taglio dei vostri servizi. Pensate, i ricavi diminuiscono nonostante l’aumento delle tariffe.

Cari risparmiatori delle Poste, quei ricavi stratosferici (nei soli primi nove mesi del 2016) di 4,1 miliardi per i servizi finanziari e di 18,7 miliardi in assicurazioni e risparmio gestito sono i vostri soldi che passano dalle vostre tasche alle loro.

Del resto, per capire il business di Poste basta leggere i cataloghi. Perciò voglio riportare qui gli spot di alcuni dei loro prodotti con una mia personale lettura ironica.

– Assicurazioni (I): «La protezione connessa con il tuo stile di vita. Per te il braccialetto fitness se sottoscrivi la protezione full time». Tradotto: ti approcciano in maniera rassicurante e ti rifilano un regalo inutile per venderti un’assicurazione che non ti serve o, peggio, per darti un’assicurazione sul lavoro che molti datori non garantiscono più.

– Assicurazioni (II): «Più protezione con la polizza salute. Assicurarsi fa bene». Tradotto: il governo taglia la sanità pubblica e ti costringe ad assicurarti. Sempre che tu ti possa permettere di pagare il premio, altrimenti sono fatti tuoi.

– Previdenza: «Piano pensione per pianificare un futuro più sereno». Tradotto: dopo che il governo ha fatto strage di pensioni e TFR, sei grossomodo costretto a mettere i tuoi soldi – se ne hai ancora – nelle mani dei fondi internazionali.

– Prestiti (I): «Ogni tuo progetto ha una strada più semplice… Scopri la gamma prestiti BancoPosta». Tradotto: vieni pure a indebitarti da noi, staremo assieme per un bel po’ con le rate e gli interessi, da dodici a diciotto mesi, e se va male anche oltre… magari per sempre. Un matrimonio, insomma.

– Prestiti (II), cessione del quinto: «Ti permette di rimborsare in maniera automatica il tuo finanziamento con rate mensili trattenute direttamente sulla tua pensione o sul tuo stipendio». Capito? Dicono: «Ti permette…». Sembra che ti facciano un favore! Invece la traduzione è: lo Stato, che non ti garantisce più la pensione e che ti ha tolto i servizi postali pagati con le tue tasse, non dice nulla se gli stessi servizi postali ora diventati “finanza” ti ammaliano con la magia del quinto dello stipendio o della pensione.

– Conti correnti: «Scegli e usa tutti i giorni il conto che ha tutto, anche gli sconti BancoPosta». Sul depliant c’è un’immagine promozionale: capi di abbigliamento e scarpe. Tradotto: vieni da noi, metti i tuoi soldi nei nostri conti e compra, compra, compra! Anche a debito…

– Risparmio e investimenti: «Per cogliere nuove opportunità finanziarie… selezioniamo per i nostri clienti il meglio dei mercati finanziari». Tradotto: i mercati finanziari sono a caccia dei tuoi risparmi, sono smaniosi di impossessarsene.

Un altro settore che fa gran gola al sistema GangBank è quello delle vecchie municipalizzate. Le società multiservizi, o multiutility, sono aziende diversificate che si occupano tipicamente di acqua potabile, acque reflue, fornitura di elettricità e di gas, gestione dei rifiuti e altro ancora. A titolo d’esempio, citiamo alcune tra le più note: Acea, Iren, a2a, Hera.

La maggior parte dei suddetti servizi viene gestita in regime di monopolio. Si tratta di un monopolio naturale, su quelle uniche reti esistenti (acquedotti cittadini, condotte, elettrodotti e cablaggi, tubazioni) già costruite a suo tempo dallo Stato e quindi pubbliche per definizione, di tutti. Reti complesse, capillari e costose alle quali ha contribuito la comunità italiana con il proprio lavoro e le proprie tasse. Questi monopoli naturali sono spezzettati in monopoli locali su base territoriale: in sostanza, è come se la torta statale venisse suddivisa in fette o lotti in base al territorio.

Oggi su queste reti pubbliche a base locale lavorano prevalentemente società a capitale misto pubblico-privato ma a trazione decisamente privata. Dove il pubblico fa la bella statuina. Negli ultimi anni le multiutility sono cresciute moltissimo e si sono sostituite di fatto ai comuni e alle loro imprese municipalizzate nell’erogazione dei servizi pubblici. Le multiutility sono aziende quotate, e nei bollettini di borsa vengono appunto chiamate anche “ex municipalizzate”. Hanno preso il posto dei comuni e degli enti locali che, vuoi direttamente vuoi attraverso le proprie società con un meccanismo di gestione cosiddetto in house, sarebbero le istituzioni più titolate a erogare servizi pubblici, al pubblico, attraverso reti pubbliche. Ne hanno preso il posto facendosi pagare, cioè riscuotendo fior di tariffe dai cittadini – oggi chiamati utenti – per remunerare gli azionisti privati, pur ereditando un bene collettivo. Non hanno parimenti assunto le stesse responsabilità di un sindaco, che per definizione è chiamato in prima persona a rispondere ai bisogni della cittadinanza e a dare conto del proprio operato.

Il regime di monopolio, per sua natura, consente di trarre guadagni da posizioni dominanti instaurando rendite di posizione. Per questo le banche e i “capitalisti di relazioni”, con l’aiuto di una stampa culturalmente alleata, si sono avventati sulla gallina dalle uova d’oro. “Le piccole IRI”, le avevano chiamate. La dismissione pubblico-privato finora non sembra aver portato particolare giovamento ai cittadini utenti, né mediamente sotto il profilo delle bollette né sotto il profilo della qualità dei servizi erogati. La famosa lettera a firma Draghi-Trichet chiedeva il colpo finale sulla liberalizzazione del settore. Del resto, acqua, gas e rifiuti sono certamente un affare appetitoso.

La spartizione privata dei servizi locali affonda le proprie radici negli anni Novanta, un po’ come tutte le privatizzazioni. Di riffa o di raffa, è anch’essa figlia del Britannia o delle sue logiche. È figlia di politiche accomodanti da parte dei politici di sinistra, sia quella centrale romana sia quella locale. La sinistra filoblairiana, la sinistra al caviale, la sinistra di Capalbio. La sinistra neoliberista. La sinistra che da oltre vent’anni ha abbandonato il popolo.

Sul business dei servizi pubblici locali, poiché le infrastrutture sono dello Stato e quindi dei cittadini, da parte dei sedicenti impresari non c’è che da fare lobbying sui politici al fine di impossessarsi di ciò che è di tutti noi. Non c’è mica concorrenza: costruire nuove reti costerebbe un occhio della testa, per cui è assai più conveniente gestire quelle esistenti facendosele assegnare. Oltretutto, c’è anche una questione di non opportunità fisica: non avrebbe senso costruire reti su reti e strutture su strutture in un groviglio inestricabile.

Fatto sta che la connection tra politica e affari funziona. La parte affaristica si arricchisce e contribuisce a rafforzare la parte politica da cui ha ricevuto i benefici. Le società non hanno un volto, diversamente dai sindaci, molti dei quali, però, oggigiorno accettano ben volentieri di farsi da parte. Le società del settore digeriscono poco volentieri i processi, i dibattiti e le decisioni democratiche. Gli umori dei mercati azionari che influiscono sulle tendenze dei titoli, quegli umori che si chiamano i “sentimenti” di borsa (in gergo sentiment), si rafforzano nei momenti in cui la volontà popolare non può essere espressa, oppure quando la volontà popolare non viene applicata.

In Italia e in Europa, le società del settore sono solidamente sotto l’egida dell’eurotecnocrazia che lavora per sottrarre al popolo i beni comuni. Viceversa, si sgonfiano quando la finanza teme che la gente reclami indietro ciò che è suo: servizi, beni comuni e infrastrutture. Durante la campagna per il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, la tensione sui titoli di borsa delle società multiservizi si tagliava con il coltello. Per diversi titoli come a2a, Acea ed Hera, ma anche per le big utility come Snam ed Enel, i due possibili esiti del referendum – il e il NO – significavano rispettivamente un su e un giù da montagne russe nelle contrattazioni; in una fibrillazione continua da volatilità borsistica che scaricava inutili tensioni sull’intero paese. I bollettini di borsa quotidiani, nel periodo prereferendario, consigliavano testualmente di «stare alla larga» dalle multiutility e dalle utility (anche quelle grosse) in caso di vittoria del NO

Acqua, trattamento delle acque reflue, rifiuti, energia: ci portano in casa servizi attraverso infrastrutture già finanziate da noi e dai nostri padri. Vengono “liberalizzate” (leggi “privatizzate”) tramite relazioni con politici e tecnocrati amici o non ostili. A loro i profitti, a noi il caro-bollette.

D’altronde, i numeri parlano chiaro: per esempio, l’utile netto aggregato dei quattordici principali fornitori multiservizi italiani marca un +86% nei risultati trimestrali di settembre 2016 rispetto all’anno precedente. Per lo stesso periodo, il risultato operativo di alcune ex municipalizzate marcia a colpi di +29% (Ascopiave), +18,7% (Iren) e “solo” +13,9% (la “povera” Acea). Vacche grasse, anzi grassissime, per gli azionisti e gli investitori. Soldi vostri, di voi lettori che avete la pazienza di seguirmi.

I bollettini di borsa live quotidiani, come già detto, le chiamano “ex municipalizzate”. Capito? Significa che non sono più vostre anche se le avete finanziate voi con le vostre tasse. Significa che, anche qualora un ente locale fosse socio di una partnership pubblico-privata, per le borse la sua presenza non conta già più.

Ma cosa mai investono, poi, questi investitori che entrano nel capitale delle multiutility? In carta. Cioè in titoli. In azioni. Che oggi sono carta virtuale. E questi soldi servono per il miglioramento, l’ampliamento e l’ammodernamento di strutture e servizi? In linea di massima diremmo ancora di no. Possiamo girarci intorno finché vogliamo, ma i soldi di carta servono sostanzialmente a garantire le rendite di posizione, a tenere i piedi saldamente in azienda, a sedersi al tavolo di comando. I denari per gli investimenti, invece, si cercano prevalentemente a debito. Sui mercati. Presso le banche. Emettendo obbligazioni. O con altri strumenti finanziari. È il solito grande inganno della finanza.

In soldoni: le utility e le multiutility sono piene di debiti. E se i tassi d’interesse salgono, i loro debiti pesano di più. Così, per pagare i debiti, da qualche parte dovranno pur trovare i soldi. E cosa c’è di più facile che ritoccare le tariffe su acqua, rifiuti, elettricità e gas?

Capitolo acqua, il petrolio blu. Negli ultimi anni, l’aumento tariffario dei servizi idrici è stato scandaloso, a dispetto del popolo italiano che si espresse chiaramente nel referendum del 12 e 13 giugno 2011: il 96% degli elettori rifiutò la gestione privata dei servizi idrici e chiese l’eliminazione dei profitti dal “bene comune” acqua. Dopo diversi referendum senza il raggiungimento del quorum, gli italiani hanno detto chiaramente: giù le mani dall’acqua pubblica!

Mai maggioranza fu tanto schiacciante. E mai volontà popolare fu tanto disattesa. Perlomeno nella storia recente europea. Forse solo il capovolgimento dell’esito referendario antitroika, tenutosi in Grecia nel 2015, grida maggior vendetta. O forse nemmeno. Al di là dei numeri, lo spessore dei contenuti democratici rovesciati è lo stesso: la forza della finanza e degli eurotecnocrati che sovverte la decisione democratica presa dai greci è pari alla cancellazione dell’acqua come diritto inalienabile dell’essere umano. Perché, come sostengono i comitati per l’acqua pubblica, «si scrive acqua e si legge democrazia». A chi fa paura quel voto referendario? A chi fa paura questo rigurgito di senso del pubblico che finalmente gli italiani hanno avuto nonostante il pressing dei soliti noti?

Ebbene, dicevamo dei prezzi dell’acqua. Vediamoli: +88% in Italia dal 2006 al 2016, con una media del +8,8% annuo e un picco stratosferico del +9,8% proprio alla fine del 2011, l’anno del referendum. Una bella mazzata punitiva che i gestori, ben lungi dal fare un passo indietro, hanno calato sui cittadini che avevano osato esprimersi democraticamente. E ancora: +9,2% nel 2015. Roba da non credere. Ma nulla viene per caso.

L’acqua privata nasce negli anni Novanta con la riforma Bassanini (1997, governo Prodi I), che imponeva «la semplificazione delle procedure amministrative e dei vincoli burocratici alle attività private», con le municipalizzate trasformate in società per azioni come primo passo verso la privatizzazione, con lo svuotamento del ruolo dei consigli comunali e il trasferimento dei poteri gestionali ai tecnici.

Così, ovunque nel mondo, se il gestore è privato aumenta i prezzi e punto. Se è pubblico, in Italia si inchina al mercato, come vedremo più avanti. Se è misto, come nella maggioranza dei casi italiani, comandano sempre e comunque i privati. Per cui nella Acea (Roma e Lazio) comandano la francese Suez e il costruttore-editore Francesco Gaetano Caltagirone. Nella Publiacqua fiorentino-toscana comanda, di nuovo, la francese Suez con la complicità dei consiglieri della quota pubblica, che fanno le belle statuine. Il 48,7% di Hera (Emilia Romagna) è quotato in borsa, così come il 50% di a2a (Lombardia). E i soci pubblici? Fanno le belle statuine, su ordine di una politica che lascia fare. La partnership pubblico-privata è in realtà un inciucio sulla testa dei cittadini. E così si scopre che un po’ di gens nova con curricula leggerini, più una manciata di Pd e persino futuri direttori de «l’Unità» (Erasmo D’Angelis) sono entrati nel consiglio di Publiacqua, l’azienda della Firenze renziana. Per non disturbare l’operato dei soci privati. Una giovane Maria Elena Boschi viene nominata consigliere d’amministrazione dal 2009 al 2013 (anno in cui entra in Parlamento), ma guai a domandarsi se ne abbia le competenze; lo spirito del cambiamento ormai è l’unica cosa che conta (ah, quante cretinate si commettono nel nome del cambiamento a prescindere…). La figlia del banchiere di Banca Etruria lavora con tanta diligenza e ubbidienza da venire promossa a ministro della Repubblica. Sempre senza curriculum, ma tanto fidata da essere catapultata nel governo Renzi per provare a ringiovanire pure quella Costituzione italiana che tanto infastidisce le merchant bank.

La storia lo ha dimostrato: ovunque, nel mondo, la privatizzazione dei servizi idrici ha comportato (come minimo!) l’aumento abnorme delle bollette agli utenti nel brevissimo termine, il dimezzamento degli investimenti in manutenzione e nuovi impianti, e dulcis in fundo il licenziamento di migliaia e migliaia di persone. Dal Regno Unito alla Spagna, da Parigi a Cochabamba in Bolivia o Dar es Salaam in Tanzania, e chi più ne ha più ne metta: la privatizzazione dell’acqua diventa una mangiatoia per la ricca finanza e una pessima eredità in quanto a servizi e infrastrutture per la gente.

Eppure il destino non è segnato: Parigi, pochi anni fa, ha deciso di togliere ai privati il controllo dell’acqua dopo un ventennio di gestione disastrosa e di prezzi astronomici. Lo stesso hanno fatto di recente Berlino e altre 235 grandi città del mondo: l’acqua è stata resa pubblica.

In Italia no, noi arriviamo sempre tardi. E il caso più paradossale degli aumenti di prezzo di casa nostra riguarda proprio le (poche) società rimaste pubbliche, o meglio presunte tali: aumenti applicati anche dai più insospettabili, ovvero da quelle giunte arancioni elette come paladine del popolo. Che gonfiano surrettiziamente i prezzi dell’acqua di Milano pensando di non essere viste. Che, passo dopo passo, applicano perfino aumenti retroattivi. Sì, incrementi del 6% fatturati indietro nel tempo. Spieghiamo: con ricalcoli a noi incomprensibili, nel 2014 la società Metropolitana Milanese di Pisapia scava nel passato remoto dei cittadini, ricaricando i prezzi di tutti i loro consumi idrici del 2013, di tutto il 2014 trascorso alla data della delibera, e da lì in avanti. Praticamente, un’incidenza del +12% sulle bollette del 2014.

Analogamente, altri enti locali hanno saccheggiato le tasche degli italiani attraverso società idriche più o meno controllate. Parola d’ordine: bisogna fare cassa. Si introitano gli utili e, invece di investirli sul miglioramento del servizio, li si smista su altre voci qua e là, a tappare i buchi dei bilanci comunali provocati dai governi sinistri e neoliberisti dell’austerità. Sinistri in quanto di sinistra, almeno sulla carta, esattamente come il sindaco Pisapia eletto anche sulla scia del referendum vinto sull’acqua pubblica. Una sinistra che si riempie la bocca di retorica buonista ma che nelle scelte pratiche prende altre strade. Strade neoliberiste. Scelte di… cassa.

Referendum o no, l’acqua pubblica è sotto assedio. Le provano tutte. Ci provano tutti. Monti, appena insediato a palazzo Chigi, tentò subito il ribaltamento del fresco esito referendario con un decreto sulle liberalizzazioni. A volte basta poco: un paio di articoli in un contesto avulso dal merito della questione, e sono sicuri di farla franca. Ci provano sindaci come Fassino e Pisapia nel 2012 proponendo di costituire una mega società del Nord attraverso la fusione di a2a, Hera e Iren.

Quella delle operazioni finanziarie è la strada più battuta per arrivare alla privatizzazione dell’acqua lasciando le reti al pubblico perché faccia manutenzione e opere: «Strategie aziendali […] che puntano a costruire […] processi di acquisizione, aggregazione e fusione», così che «i quattro colossi multiutilities attuali – a2a, Iren, Hera e Acea – […] potranno inglobare tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici», come denunciava il Forum italiano dei movimenti per l’acqua il 22 novembre 2016. Insomma, strategie di mercato. Strategie di crescita.

Anche nella riforma costituzionale, poi bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, ci avevano provato. Il famigerato decreto legge Boschi, infatti, attraverso il riassetto soverchiante dei poteri centrali su quelli periferici e con il burocratese nascosto tra le righe del testo, avrebbe di fatto indebolito ulteriormente i servizi locali a gestione pubblica.

È la logica del sistema GangBank. Logica legale: tutto è a norma di legge. Perché le leggi le dettano ai politici del proprio network. Ecco dove la politica ha le sue grandi responsabilità, ecco dove ormai stanno svendendo il bene pubblico perché «ce lo chiede l’Europa» o «ce lo chiede la modernità: lo Stato non può fare tutto».

La riforma della pubblica amministrazione, promossa dal duo Renzi-Madia parallelamente alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, conteneva – tra l’altro – alcuni elementi di destabilizzazione dei servizi locali a gestione pubblica. E prendeva di mira – tra le altre cose – anche l’esito del referendum sull’acqua pubblica del 2011. La Corte costituzionale, però, l’ha sostanzialmente demolita alla fine di novembre del 2016, «dichiarando l’incostituzionalità di diversi articoli relativi a dirigenza, società partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego». La Madia te li porta via: questo il titolo della vittoriosa campagna di sensibilizzazione promossa dal Forum dei movimenti per l’acqua a difesa dei beni comuni e contro la riforma Madia. In seguito alla sentenza della Consulta, «il governo è stato costretto a ritirare il decreto sui servizi pubblici locali», hanno affermato gli attivisti per l’acqua pubblica.

Morale: dal 2011 non solo non è stato fatto quasi nulla per attuare il referendum, e quindi per restituire agli enti locali gli acquedotti, ma – come abbiamo già spiegato – sia a livello nazionale sia in molte città si è andati nella direzione opposta. Sempre con metodi surrettizi e con forzature. Da Milano (vorremmo sbagliarci, ma temiamo che Sala darà il colpo di grazia definitivo all’acqua pubblica milanese) alla Puglia (attenzione all’Acquedotto Pugliese: un ricco piatto di ventitremila chilometri di rete pubblica che fa gola a capitalisti ingordi), c’è un boccone prelibato per gli stessi che sputano sentenze qualunquiste sull’inefficienza dei lavoratori pubblici attraverso mezzi di comunicazione compiacenti. Tra le grandi città, finora solo Napoli con De Magistris ha dato segno di voler attuare l’esito del referendum; e siamo in attesa di vedere se a Roma Virginia Raggi riuscirà a invertire le politiche finora imperanti.

Arriviamo ora alla privatizzazione e alla finanziarizzazione delle grandi aziende di Stato. Abbiamo volutamente trattato prima le multiutility perché sono il boccone più pregiato e più ambito. La difesa degli asset pubblici è la prossima prova di maturità degli italiani, quindi la domanda è: meglio difendere un pubblico che almeno controlliamo o un privato che si pappa tutto con lunghe concessioni regalate? Poiché le inefficienze non scompaiono passando dal pubblico al privato, né troviamo da una parte i ladri e dall’altra i virtuosi, sta a noi decidere se accettare ancora il mainstream culturale dettato dal GangBank.

Abbiamo smascherato il cosiddetto libero mercato, che sulle reti fisiche non funziona e abbiamo constatato che (alla faccia della competitività!) i prezzi al consumo non solo non scendono, ma si impennano vertiginosamente. I nostri bilanci familiari o aziendali parlano per noi: con la liberalizzazione non ci abbiamo guadagnato. Vi diranno: «Ma dove sono le liberalizzazioni? Finora non è stato fatto nulla!». Insomma, ne vorranno ancora. Vogliono tutto il piatto, non solo la maggior parte. Ripeto: toccherà a noi fare una scelta di campo.

Ora, per ampliare il discorso, proviamo a porci qualche altra domanda. Le grandi aziende di Stato sono dello Stato? I maggiori servizi pubblici italiani sono italiani? E tali servizi pubblici sono pubblici?

In un momento storico di progressivo e dilagante impoverimento, che ha spogliato undici milioni di italiani dei propri risparmi, dei servizi al cittadino, della tutela della salute e dei diritti del lavoro, interrogarsi su tutto è lecito. Perché è l’Italia che, ormai, è spoglia.

La risposta alle tre domande non è univoca.

Prendiamo Snam, il nostro gioiello industriale del gas. Si occupa di rigassificazione, trasporto, stoccaggio e (fino a che non è stata scorporata Italgas) di dispacciamento del gas naturale. Insomma: è l’azienda che fornisce il gas a chi a sua volta ce lo porta in casa.

A ottobre 2016, il 69% del capitale di Snam è controllato dal “mercato”, con gli investitori istituzionali a quota 58%. Il 92% è in mani straniere. Per lo più fondi d’investimento, anche speculativi.

E l’Italia? In minoranza. Cassa Depositi e Prestiti non arriva al 30%, l’imprenditore della ceramica Romano Minozzi possiede da solo poco più del 4%. È vero, bisogna dire che l’esecutivo aziendale guidato da Marco Alverà è praticamente tutto tricolore. Ma di chi cura gli interessi?

O meglio: i governi della Repubblica, quando privatizzano le nostre eccellenze nazionali o parte di esse, rendono davvero un servizio ai cittadini e alla nazione? Siccome oggi i cittadini si chiamano “utenti”, il dubbio è più che lecito.

Quanto vale Snam? Anche questo è difficile a dirsi univocamente. Seguendo i paradigmi della finanza, dovremmo attenerci al valore di borsa: più o meno 12,7 miliardi di euro di capitalizzazione al 9 dicembre 2016. Altro conto è il costo di realizzazione delle infrastrutture, che gli azionisti di oggi hanno in gran parte ereditato dalla comunità dei cittadini italiani.

Senza voler mettere in dubbio l’operato del management aziendale, gli investimenti correnti, l’importanza del servizio, l’eccellenza ingegneristica e il ruolo di chi lavorando riscalda le nostre case, c’è da chiedersi se i cosiddetti “investitori internazionali” abbiano pagato un prezzo equo per sedersi al tavolo di comando e incassare i dividendi. La costruzione ex novo degli oltre trentamila chilometri di gasdotti, completi dei campi di stoccaggio, delle centrali di compressione e rigassificazione e di tutte le attrezzature accessorie potrebbe valere – oggi – moltissime centinaia di miliardi di euro. L’esborso complessivo degli investitori privati che hanno sottoscritto le azioni è stato, invece, di pochi miliardi.

La stessa sproporzione tra valore dell’infrastruttura e apporto di capitale si ripropone quando si parla di distribuzione di energia elettrica, e quindi di Terna. Un gioiello, non c’è dubbio, e quindi non è nostra intenzione polemizzare con chicchessia. Ma chi lo monetizza? Il trasporto di elettricità anche dopo le liberalizzazioni è rimasto un monopolio naturale, poiché non sarebbe conveniente realizzare nuove reti per il trasporto in concorrenza con quelle esistenti, già finanziate e costruite dallo Stato.

Settantaduemila chilometri di linee, oltre ottocentocinquanta stazioni elettriche e quasi settecento trasformatori: ci vogliono decenni di lavoro e centinaia e centinaia di miliardi per costruirli, ma in Borsa (dati indicativi, ultimo trimestre 2016) Terna vale appena 9 miliardi suddivisi in quote del 70% (mercato) e 30% (CDP Reti). Il piccolo capitale di borsa è quello che ha garantito un cumulo di 4 miliardi di dividendi (a partire da quando la società si è quotata, nel 2004, fino al 2016). Un broker di borsa che 13 anni fa avesse investito in Terna 1.000 euro oggi si ritroverebbe in tasca 4.500 euro, grazie ai dividenti e a un titolo il cui valore nel corso degli anni è triplicato. Un bell’investimento per chi ha messo i soldi in “carta”, cioè in azioni, meno per chi ha costruito le infrastrutture, cioè per il pubblico. A valle dell’alta e media tensione di Terna, poi, rivoli di multiutility e operatori fingono di farsi concorrenza nel portarci la luce in casa. Ma in realtà operano in tanti regimi di monopolio locale, appoggiandosi alla singola rete di distribuzione preesistente.

In soldoni, quando si privatizza l’affare lo fa sempre chi compra, soprattutto se ha le spalle larghe. Soprattutto se compra carta virtuale, cioè azioni, anziché i beni fisici al loro valore di messa in opera. L’affare non lo fanno mai i cittadini. Certo, sì, lo fa qualche buon cassettista con un buon conto in banca, sempre che sia sufficientemente attento ai saliscendi di borsa e reinvesta proficuamente i dividendi. E mai ci guadagna lo Stato, i cui governi – uno dopo l’altro – prendono come scusa la necessità di ridurre il debito pubblico per svendere, pardon privatizzare, pezzi d’Italia.

Ma cosa ottengono? Qualche spicciolo che si perde nell’oceano degli oltre duemiladuecento miliardi di euro di debito, che continua a crescere (anche) perché continuiamo a svendere aziende, valore e know-how in un circolo vizioso suicida.

Va detto che ogni valutazione fatta finora non è tesa a giudicare il management: si giudica e si critica la costruzione politica di privatizzazione. È questo paradigma che vogliamo fermare. Gli investitori fanno il loro guadagno, il loro business. Ma il mercato, se viene lasciato libero da regole, si pone fuori dallo spirito della Costituzione, la cui centralità sta nella difesa dei cittadini e dei loro interessi comuni.

Chiarito questo, torniamo agli investitori. Com’è che sono entrati così massicciamente in Snam? Prima che quest’azienda fosse scorporata da Eni, che la controllava al 52%, la finanza deteneva solo il 30% del capitale. Dopo il decreto Monti del 2012, come abbiamo detto poco sopra, è salita al 58% con una presenza straniera del 92%.

Eh sì, questo Monti! Sa tutti i trucchi. Prima ci confonde con la «cessione» di Snam da Eni a Cassa Depositi e Prestiti e con le «procedure di vendita trasparenti e non discriminatorie rivolte al pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali». E poi, con il gioco delle tre carte, mette la finanza internazionale in maggioranza e lo Stato italiano in minoranza. Privatizzando per decreto. Per sistemare i conti e per esaltare il credo neoliberista, diciamo noi. Lui, invece, dice che lo fa in nome della concorrenza e per eliminare posizioni dominanti. E perché «ce lo chiede l’Europa»: c’è sempre una qualche direttiva europea che prescrive come redimerci.

Lo spezzatino dell’Eni, cioè la strategia di svendita progressiva e a pezzi (Snam, Italgas, poi toccherà alla chimica e a Saipem) è purtroppo funzionale alla distribuzione di spuntini prelibati ai mercati internazionali in cerca di rendite facili a prezzi da hard discount. Rendite in posizione dominante, appunto, qual è quella di un gasdotto, privato o di Stato che sia. E intanto Eni, da gigante industriale altamente diversificato e leader di mercato, diventa un nano vulnerabile in balia degli umori internazionali. Un bocconcino a buon mercato dove, al solito, si sono introdotti i cosiddetti “investitori istituzionali”. Eni, debole con i forti ma forte con i deboli. Il cane a sei zampe è costretto a dismettere fette enormi dei maxi giacimenti in Egitto e Mozambico per coprire le perdite d’esercizio 2015-2016 e per garantire i dividendi agli azionisti affamati. L’azienda è però spietata sui prezzi alla pompa con gli italiani. E non si fa problemi nel tagliare, senza preavviso adeguato, le forniture di gas a settemilatrecento clienti retail (per questo a dicembre del 2016 Eni è stata sanzionata dall’Autorità per l’energia). Per la cronaca, al 13 settembre 2016 Eni è un ente pubblico-privato rispettivamente al 30 e 70%. Quindi, dando il peso corretto ai numeri, è un ente privato-pubblico.

Ornamento di separazione

E poi non si capisce perché chi produce il gas (Eni) non possa anche trasportarlo, distribuirlo e venderlo attraverso proprie società. Da che mondo è mondo, se io coltivo pomodori posso anche portarli al mercato in città e metterli in vendita. E non si capisce perché uno Stato non possa provvedere ai servizi al cittadino, vuoi direttamente vuoi tramite le sue società.

Il libero mercato, che in questa sede nessuno vuole soffocare, esiste già nell’atto stesso della realizzazione delle reti e nella fornitura dei servizi a esse funzionali. Ce n’è per tutti: si possono produrre e fornire pompe, compressori, tubazioni, valvole, serbatoi, procurare la logistica; ci si può occupare degli scavi e della posa dei manufatti; costruire questo e quello, smontare questo e quell’altro, lavorare nell’indotto ecc. Industria meccanica, manifatturiera, della chimica e della plastica, dei mezzi di trasporto, dei servizi, siderurgia, minuteria metallica, attrezzature, abbigliamento da lavoro, mense e ristorazione… c’è di tutto. Ed è qui che deve esserci competizione tra imprese su qualità, prezzi, efficienza. Questo sì, è compito dei privati.

Ma nel settore della gestione dei servizi pubblici, ahimè, abbiamo dei mercati smaniosi di schiacciare gli Stati, anziché privati interessati a competere nel mercato per creare ricchezza. Purtroppo, l’obiettivo della finanza moderna non sta nel creare valore, ma nel prendere il controllo dei rubinetti, degli interruttori e dei contatori: quelli del gas, dell’acqua, dell’elettricità. A monte e a valle della filiera.

La finanza, anziché mettersi al servizio dell’economia reale, la opprime. E così, strutture che sono inequivocabilmente pubbliche, finanziate dalla comunità, servono a «offrire grandi soddisfazioni nel tempo agli azionisti», come recitano le brochure delle (ex?) aziende di Stato dedicate agli investitori.

Qui non siamo mossi da demagogia né vogliamo esercitarci in un j’accuse a buon mercato contro nessuno. Proviamo semplicemente a fornire una lettura diversa della realtà comunemente accettata. Per questo puntiamo l’indice contro il sistema GangBank.

Sono in corso ulteriori disimpegni statali che dovrebbero sollecitare altri interrogativi. È per esempio il caso di Enel, da cui il ministero dell’Economia continua la sua ritirata silenziosa e poco redditizia. Il risultato della partita delle quote di controllo è chiaro: “mercati” battono “Stato” 77% a 23%; “finanza internazionale” batte “finanza italiana” 90% a 10%. Dati di fine 2016.

Se è vero che il ministero è il socio con la quota pro capite più alta (maggioranza relativa), l’impressione è che abbia un ruolo assai passivo e che si attivi soltanto al momento delle nomine dirigenziali, con un occhio alla politica e uno agli investitori.

I travasi delle sovranità aziendali all’estero non sono privi di rischi: quando l’Italia non servirà più per incassare rendite di posizione, chi ci dice che i nuovi padroni non portino le aziende all’estero? O che non lo stiano già facendo, un pezzettino alla volta? Se e quando il mercato italiano non sarà più attrattivo – cosa possibile, vista la povertà che c’è in giro –, non è che si porteranno via il giocattolo? O non è che se ne disfaranno dall’oggi al domani gettandolo via come un limone spremuto? E i posti di lavoro che fine faranno?

C’è da augurarsi che la strada imboccata dalle società (ex) pubbliche italiane non replichi quella di Telecom Italia: una volta data in pasto al mercato, la società di telecomunicazioni è diventata una preda debole, indebitata, è passata più volte di mano ed è stata costantemente spremuta. Quindi, una volta sgonfia, è finita fatalmente alla francese Vivendi per il 24,6% del capitale, e alla finanza estera per il 54,6%. Come ha scritto Daniele Manca su «CorrierEconomia» il 19 dicembre 2016, «la filiera industriale creata dai grandi agglomerati è quella che alimenta il tessuto del nostro paese fatto di piccole e medie imprese. Un terzo di esse è alimentato dalle commesse di soli sei gruppi a capitale pubblico: Eni, Enel, Fs, Finmeccanica, Fincantieri e Poste». Smembrare ulteriormente questi gruppi, perderne il controllo e metterli totalmente in balia dei mercati potrebbe esserci fatale.

Non dimentichiamocelo: la ricchezza dell’Italia è frutto della mano pubblica, che anche attraverso l’IRI, manager pubblici come Enrico Mattei e gli investimenti diretti ha costruito il miracolo economico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, che diede impulso alle nostre imprese in regime di libero mercato fino a farci diventare la (ex) quinta potenza industriale del mondo.

Oggi qual è il contributo degli “investitori” allo sviluppo dei nostri beni comuni? Soldi in investimenti, di tasca loro, non sembra che ne mettano. Più che altro, li prendono a prestito. Dalle banche (indirettamente sono sempre soldi nostri, oppure è liquidità immessa dalla BCE, oppure sono prestiti della BEI, la Banca Europea degli Investimenti). O sfornano obbligazioni. Quindi: non è che sborsino esattamente del loro; più che altro sembrano avere il vizio di indebitare il nostro sistema economico-industriale. Una volta che gli investitori hanno i controlli societari, fanno quadrato attorno alla loro linea. Tradotto, significa che ci ricattano gentilmente in casa nostra, minacciando di andarsene se non impostiamo politiche di loro gradimento. E se vanno via, ecco i crolli di borsa, perché si disfano delle azioni esattamente come fa un bambino con un giocattolo rotto. E poi giù anche i BOT e i BTP. E la nostra economia finisce in ginocchio.

E qui si scatenano i derivati, le leve e altri strumenti che – nei momenti di tensione – consentono agli avvoltoi dei mercati di scommettere al ribasso sui fallimenti delle aziende, delle banche e degli Stati. Quindi, per evitare questo, ci prostriamo di nuovo al GangBank. Perché non controlliamo la nostra moneta, non controlliamo le nostre politiche economico-monetarie e la Banca d’Italia è in mano alle banche private. E alcune di queste banche sono imbottite di azionisti stranieri. Insomma, siamo in trappola e ci siamo privati da soli degli strumenti per uscirne.

Siamo tutti ipnotizzati dai luoghi comuni secondo cui l’efficienza dei privati nei servizi pubblici migliorerebbe le nostre vite. Ora, se i privati sono così bravi, perché invece di imbonirci di retorica non costruiscono le loro decine di migliaia di chilometri di reti, a proprie spese, per centinaia e centinaia di miliardi ciascuna, invece di prendersi le nostre?

La sfida è aperta.