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La vita a rate

Quattro ragazzi. Belli. Sorridenti. Due maschi e due femmine. Vestiti casual. Ognuno col calice di bollicine in mano perché è l’ora dell’happy hour. Chi tiene il bicchiere alzato, chi lo sta alzando. Si brinda. Perché il presente è loro. Il futuro ancora di più. Una foto che da sola vale un messaggio. Già, perché questa è una pubblicità. Di cosa? Di un vino. Di uno spumante. O di un profumo. O di una marca di vestiti. Potrebbe essere una di queste cose…

Poi, l’indizio. Una scritta: Vita. E allora pensi: “È la pubblicità progresso a favore delle nascite!”. Stavolta il ministro della Salute ce l’ha fatta a trovare l’idea giusta per il Fertility Day senza fare figure da pisquani. «Culle vuote, il tracollo delle nascite: nel 2016, appena 474.000; ancora meno dei 486.000 del 2015. Mai così pochi nella storia d’Italia» ci hanno informato poco tempo fa. Quindi… forza, ragazzi! Dai, dateci dentro e che la Vita vi sorrida!

Invece no, perché subito dopo trovi un altro indizio, una scritta un po’ più piccola: Bper. E sotto, in lettere ancora più ridotte, Banca.

Sì, è la pubblicità di una banca. Ma è come se avessero pudore, imbarazzo a rivendicarlo. Tutto è espresso in caratteri discreti: La tua idea di futuro raccontala a una banca solida che sa ascoltare, capire e fare. Vicina. Oltre le attese.

Non so cosa si possa raccontare a una banca nell’epoca in cui si chiudono gli sportelli e i titoli azionari schizzano quando i CEO (gente che prima chiamavamo semplicemente “amministratori delegati” e prima ancora “capi”…) annunciano piani di esubero in nome delle ristrutturazioni aziendali. Tu racconti, va bene. Ma a chi, se non sai mai con chi parlare? Un tempo andavi allo sportello e trovavi il signor Mario o la signora Carla, magari sempre impicciati in qualcosa. «Sono subito da lei.» E sparivano per cinque minuti. Oggi, a chi parli? Al Numero verde? Ai call center 800 eccetera eccetera? O le tue idee, i tuoi bisogni li racconti su Facebook, Twitter, Instagram? Sicuro che la banca che ti ascolta, la banca che ti attrae, la banca che ti aiuta, la banca che ti sta attorno, la banca che ti coccola, insomma sicuro che le banche ci siano, quando devi raccontare loro che vorresti una casa ma non hai un contratto che va oltre i dodici mesi, se ti va bene?

Voglia di saldi? Entra in banca! Scopri i nostri prestiti personali. Ecco, siamo conciati così: un tempo i saldi servivano per comprare e risparmiare, per comprare bene e non svuotare il portafoglio. Vi ricordate, no? «Ho fatto un bell’affare, ho preso una giacca e una gonna e ho speso pochissimo.» Oggi, invece, anche con i saldi ti vogliono indebitare. L’affare lo devono fare solo loro. Dentro le parole c’è un’idea di società che ci sfugge. Che ci fanno apparire normale, ma che normale non è.

È l’inganno malizioso delle parole.

Boh, a guardare gli spot, le banche sembrano un consultorio, un centro d’ascolto, un istituto di anime pie: che bella invenzione, la comunicazione! La pubblicità è la poesia 2.0, ammanta tutto e trasforma la crisi in opportunità.

Questo è iPhone7, mi dice la pubblicità. A tasso zero. In 10 o 18 rate. Scopri come nelle agenzie UnipolSai. Oddio, e che c’entra UnipolSai? Li avevamo lasciati che facevano gli assicuratori, ora si sono buttati sull’elettronica? Scopri le incredibili polizze a tasso zero (asterisco) di UnipolSai. Scegli la tua serenità e puoi avere in 10 o 18 rate (due asterischi) a tasso zero (tre asterischi) anche iPhone, iPad, iMac, MacBook, AppleWatch, AppleTv.

«Scegli la tua serenità?» Una compagnia di assicurazione abbina la parola “serenità” (senza asterisco) alla vendita a rate (con asterischi come se piovessero) di telefoni e simili? Ormai anche loro fanno questo: vendono a rate, vendono prestiti. Ai giovani l’iPhone7 e agli anziani la pensione anticipata, come vedremo meglio dopo. Del resto, se parli di pensione ai giovani, ti guardano come se fossi un becchino. Quindi meglio acchiapparli con i feticci della modernità.

Allora evviva la modernità. Dove tutto è in evoluzione. Tanto che, se alla compagnia di assicurazione chiedi di fare l’assicurazione alla vecchia maniera, può finire così: .Investita mentre attraversava sulle strisce. Era in sella alla bici, l’assicurazione non paga. La vittima, una donna di settantaquattro anni, ha dovuto sottoporsi a numerosi interventi chirurgici. Ma la compagnia non riconosce neppure il concorso di colpa». L’ho presa da un giornale locale. Scelta a caso. E non ho dubbi che ci sarà stato un rigo del contratto che metteva al riparo l’assicurazione, ma – perdonatemi – mi riesce davvero difficile lasciare la povera signora in mezzo al guado.

Se le assicurazioni vendono i telefonini, le compagnie telefoniche che cosa vendono?

Il nuovo smart tv Samsung Full HD è super leggero con Tim. A soli 9,90 euro in bolletta ogni mese e la consegna è gratuita. Un televisore? Ma dammi una rete che funziona! Dammi un centralino che se ho bisogno mi risponde e mi risolve i problemi, non che mi stalkerizza di offerte e di promozioni. Roba che, se poi accetti, il giorno dopo nessuno ti risponde più, come se non ti conoscessero: l’importante è acquisire i clienti, fare volume. Tanto a lasciarsi c’è sempre tempo perché loro un modo per tenerti legato lo trovano sempre. Per esempio, noleggiando smartphone, tablet e persino televisori moderni collegati a contenuti web. Poi c’è il “tutto incluso”, che non è mai davvero tutto incluso perché qualcosina in bolletta te lo ritrovi sempre. E siccome gli hai dato i codici del conto corrente, loro se lo prendono comunque e poi… «Sì, vabbe’, mi faccia causa». Per non dire del passaggio da una compagnia all’altra. «Non si preoccupi, facciamo tutto noi.» Certo, fino a quando non si presenta la vecchia compagnia che ti chiede di pagare gli arretrati. Ed è tutto una catena di sant’Antonio, dove il pollo sei tu.

Ma non è finita…

Per l’auto dei tuoi sogni, vieni all’ufficio postale. Il mio sogno, care Poste Italiane, è molto più alla vostra portata: riuscite a garantire un servizio postale adeguato? Una cosa del tipo che mi eviti di trovare nella casella della posta un avviso di giacenza anche quando sono in casa? Non è che il postino debba per forza bussare due volte, ma una volta fatta bene sì. Che poi in quell’avviso c’è sempre una multa da pagare, un avviso di Equitalia con tutte le more del caso, un pacco da ritirare… Magari un servizio che mi eviti di doverci andare alle Poste, ecco cosa vorrei dalle Poste Italiane. Invece uno va in posta (la prima impresa è trovare un parcheggio, altro che «per l’auto dei tuoi sogni vieni all’ufficio postale») e sembra di essere per metà in un centro commerciale e per metà in una banca. Anche loro vendono tutto. Scopri la gamma Prestiti BancoPosta in tutti gli uffici postali abilitati, anche in quelli aperti il sabato mattina. Prestiti BancoPosta. Ce n’è uno per tutti. Grazie mille, che accortezza. Che bel mondo, questo, dove il postino viene licenziato perché nella modernità dei tempi le Poste cambiano pelle e purtroppo certi lavori sono destinati a morire. C’è internet, quindi non si usano più né le lettere né i francobolli. Che belle le Poste raccontate nella pubblicità che vorrebbero umanizzare i robot, come se i robot per forza debbano entrare nella società e quindi umanizzarsi! Si usa la pubblicità per rendere tutto normale. Che bel mondo, questo, dove Poste Italiane gestisce una liquidità spaventosa, muovendosi con maestria dentro le dinamiche della finanza, dove la logica dei vecchi libretti postali ha di fatto lasciato il passo ai fondi di investimento. Ci torneremo per bene, sulle Poste e sul loro ruolo in quello che io chiamo il “welfare bank”.

Prestiti. Leasing. Mutui. Che mondo leggero è questo del denaro facile. Come ottenere un prestito alla velocità della luce. Scarica l’app e richiedi il prestito via mobile. Benvenuto in UniCredit. È sempre tutto facile, sembra sempre tutto un gioco. Se non fosse che poi i dati ufficiali raccontano di elenchi di cattivi pagatori, di persone che non riescono a rientrare dalle linee di credito. E di banche piene di non performing loans, cioè di sofferenze, crediti che non saranno mai pagati. Il gioco del Monòpoli diventa il gioco della crisi. Eppure il turboconsumismo voluto dal sistema GangBank non si ferma. Spinge per rateizzare tutto. Persino un asciugacapelli modernissimo da quasi 400 euro (giuro!), che puoi pagare in venticinque comode rate da 16 euro: venticinque volte 16 euro, che poi è più o meno il prezzo di un asciugacapelli normalissimo (sempre che l’asciugacapelli serva per l’appunto ad asciugare i capelli e non a impiantarteli in testa).

Trony, Expert, Mediaworld, IperCoop: insomma non c’è centro commerciale o outlet village che non agevoli gli acquisti. Tutto facile. Tutto col sorriso. E con l’asterisco.

Non sanno più come venderti la modernità.

Se vuoi comprarti un drone… Giuro, nella casella della posta una volta ho trovato anche chi mi voleva vendere un drone in comode rate. Lo avevano fatto sotto Natale, così mio figlio mi dice: «Ehi papà, mi regali un drone?». «E che te ne fai, figliolo?» «Boh, i miei compagni ce l’hanno tutti.» Per fortuna non era vero, non ce l’avevano tutti: soltanto tre. Ma d’altronde, oggigiorno, chi non vorrebbe farsi un drone?

Ornamento di separazione

Basta un finanziamento, basta un “sì”, una firma, e ti trovi fregato. Eppure non eravamo così, l’indebitamento privato non era una nostra caratteristica. Prima il mutuo lo si pensava per la casa. Qualcuno per la macchina, che si pagava con le cambiali che erano anche materialmente un qualcosa che non potevi non ricordarti. Il debito aveva una sua tremenda “fisicità”. Ma, se te lo potevi permettere e volevi fare un affare, entravi in concessionaria e dicevi che volevi pagare tutto in un’unica soluzione. Loro ti facevano un signor sconto e ci guadagnavate entrambi. Ora, prova a entrare in una concessionaria e dire: «Dai, te la pago tutta subito, che sconto mi fai?». Ti guardano come se gli avessi menato la madre o la sorella!

Perché il venditore ci guadagna se fai il loro finanziamento… Tu compri più la polizza che il bene. L’affare è diventato questo. Le grandi case automobilistiche ormai hanno in casa la parte bancaria, cosicché il contratto parte dalla vettura ma si ingrossa con la vendita rateizzata, che poi prevede un’assicurazione, gli interessi eccetera eccetera.

Ci hanno spinto all’americanizzazione del turboconsumismo. Tutto anche se non puoi. Così loro vendono e ti tengono pure per il collo. Perché quando sei indebitato, sei loro ostaggio. Non paghi le rate? Eh…

Vi racconto una vecchia storia.

«La casa è mia. Provati a toccarla. Fa’ tanto ad avvicinarti e t’ammazzo come un cane.»

«Ma non sono io. Io non posso far niente. Io perdo il posto se non eseguo gli ordini. Del resto, cosa credete di risolvere ammazzando me? Vi impiccheranno certo, ma prima ancora d’impiccarvi ne manderanno un altro, qui, con la trattrice a buttarvi giù la casa. Come vedete è inutile ammazzare me.»

«Vedo. Ma chi te li dà questi ordini? Vuol dire che andrò a scovare lui. È lui che ammazzo.»

«Non volete proprio capire: anche lui riceve gli ordini dalla banca. La banca dice: “Sbatti fuori quella gente, abbatti la casa o ci rimetti il posto”.»

«Ma ci sarà pure un presidente, una direzione. Io prendo il fucile e vado alla banca a fare una carneficina.»

«Anche la banca, da quello che so, riceve gli ordini. Gli ordini dicono: “O ci mostrate gli utili o vi mettiamo in liquidazione”.»

«Da chi devo andare, maledizione? Ci sarà pure un responsabile da fare fuori. Io non ho nessuna intenzione di crepare di fame senza ammazzare chi mi assassina.»

«Non so cosa dirvi. Forse non esiste un responsabile da far fuori. Probabile che, come dite, responsabile di tutto è la proprietà.»

Non è una storia di oggi. È una pagina tratta da Furore di John Steinbeck. Anno del Signore 1939, il racconto della Grande depressione americana. E mica è cambiato niente: il fantasma di Tom Joad è sempre imprigionato nelle menzogne della speculazione. L’America è crollata sulla grande menzogna del tutto a tutti, del debito che si spalma… E questa crisi ha trascinato tutto il mondo, in fasi diverse e con modalità diverse. La crisi che stiamo vivendo è la grande crisi del debito impossibile da ristrutturare, del grande inganno del credito che invece è debito. È la grande crisi della vita a rate.

«Complessivamente i debiti finanziari derivanti dal credito a consumo superano i 2,1 miliardi con un peso vicino al 70% del totale delle esposizioni.» Lo rivelava uno studio dell’Osservatorio di Si Collection, società specializzata nella gestione del recupero crediti, condotto scandagliando nel proprio database tutte le linee di credito attivate da quasi settecentomila consumatori (lo studio riguarda anche stranieri regolarmente in Italia) tra il 2006 e metà del 2016, cioè l’arco temporale centrale della crisi. Secondo questa analisi, il “profilo medio” del cattivo pagatore è un maschio di età compresa tra i quarantasei e i cinquantacinque anni che vive nel Nord Italia con un saldo da pagare che raggiunge i 4.600 euro. Milano è il capoluogo più strozzato: rate non pagate per 121 milioni; Genova la città con il maggior importo pro capite con 5.900 euro.

La fascia di età più colpita è tra i trentasei e i cinquantacinque anni: si tratta per lo più di uomini – spesso capifamiglia – i quali devono fronteggiare o la perdita del lavoro o scadenze che riguardano la vita familiare. Sempre secondo questi dati, se il 70% delle sofferenze arriva dal credito al consumo spinto da pubblicità, articoli di giornali e quant’altro, un’altra parte di sofferenze arriva da crediti bancari e conti correnti scoperti, da bollette della luce, del gas, dell’acqua o della spazzatura non pagate, e ancora dalla cessione del quinto dello stipendio, pratica che sta prendendo sempre più piede. Gli aumenti costanti e progressivi delle tariffe nel settore dei servizi dimostrano che le tanto strombazzate liberalizzazioni e privatizzazioni non hanno affatto prodotto migliorie nei bilanci famigliari. Di contro, le liberalizzazioni hanno aumentato le truffe contro gli anziani, il cui consenso al passaggio ad altre aziende viene spesso strappato con l’inganno.

Come dicevo prima, questa attitudine all’indebitamento privato non ci apparteneva: eravamo sempre pronti a ribaltare il discorso del grande debito pubblico italiano con il bassissimo debito privato accompagnato da un grande risparmio cumulato. La progressiva crescita dell’indebitamento privato fotografa una situazione che definirei così: siamo una bella preda. Pensate un po’: in Italia, nel 1995 il debito familiare medio (cioè il debito a carico delle famiglie espresso in percentuale sul reddito netto disponibile) si attestava intorno al 38%. A fine 2015 era salito all’89% (fonte: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – OCSE).

Non voglio tediarvi con i numeri, ma ne voglio aggiungere qualcun altro per mettere meglio a fuoco la questione della vita a rate. Dall’avvio dell’euro, la Germania (sempre dati OCSE) è l’unico paese dell’eurozona in cui il debito familiare è diminuito costantemente: dal 115% del 1999 al 93% del 2015. Ma guarda caso, prima dell’introduzione della moneta unica, dal 1995 al 1999, stava aumentando costantemente. Tra il 1999 e il 2014, la Grecia è invece passata dal 23%al 120%; eppure, nel 1995 aveva uno dei debiti privati più bassi d’Europa e dei paesi OCSE: udite udite… soltanto il 17%!

Il debito familiare nell’eurozona e nell’“eurotempo” (cioè da quando siamo entrati nella stagione dell’euro) è andato a peggiorare dovunque, sia nei cosiddetti paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sia in Francia e in Finlandia. Dunque peggio per tutti eccetto che per la Germania, che ha tratto un gran beneficio dalla moneta unica, dall’austerità e dalle politiche neoliberiste di Bruxelles, facendo delle altre nazioni le proprie dependances abitate da cittadini di serie B sottopagati. E spogliati del lavoro, dei servizi sociali e dei diritti. Dunque inevitabilmente sempre più indebitati.

Alzando il tiro, possiamo trarre le stesse conclusioni se ci spostiamo dal debito meramente familiare all’intero stock del debito privato, e cioè alla somma di tutti i debiti in carico a soggetti privati di varia natura quali imprese, banche, individui eccetera. Ebbene, nell’era dell’euro la Germania ha migliorato la propria posizione debitoria scendendo dal 170% circa al 150% circa a scapito dei soliti PIIGS e della maggior parte dei paesi dell’eurozona. Per esempio, lo stock di debito privato dell’Italia è lievitato da valori intorno al 130% sino alle vicinanze del 180%.

Fa specie come alcune mani invisibili abbiano spinto alla deriva dell’indebitamento cronico quelli che vent’anni fa erano i cittadini più virtuosi, ovvero i greci e gli italiani, oggi oggetto di ingiusto biasimo pubblico internazionale. Da parte di chi? Da parte di quegli stessi apparati che hanno creato le condizioni per spingerli nel burrone e che hanno promosso quelle campagne mediatiche blame the victim, “incolpare la vittima”, più volte descritte dal premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo ultimo lavoro sull’euro.

Anche l’informazione ha delle grosse responsabilità: la materia del debito pubblico è stata data in pasto ai cittadini pensando solo agli share di gradimento, con la conseguenza che ormai tutto ciò che è pubblico è infettato (salvo poi alzarsi in piedi quando i vigili del fuoco salvano eroicamente persone intrappolate sotto le macerie o le forze dell’ordine compiono blitz di grande pericolosità), mentre ciò che accade sotto l’ombrello del privato o del mercato ha una virtuosità in re ipsa: cosa che dimostreremo non essere vera. Da anni analisti e commentatori (molti dei quali digiuni di glossario economico) ripetono a pappagallo ciò che nei salotti elitari (Dio quanto godono i giornalisti nel far parte di certi salotti!) era oggetto di discussione.

L’Europa era di per sé il Bene, il Sogno, la Terra promessa cui far approdare quest’Italietta corrotta e mafiosa. Nessuno si prendeva la briga di mettere in discussione il profilo e la corruzione dei nuovi padri eurocostituenti, i loro giganteschi conflitti d’interesse, il loro viavai tra ruolo pubblico e incarichi privati al soldo delle merchant bank. Per anni ci siamo sentiti raccontare la tragedia dell’«abbiamo vissuto ben oltre le nostre possibilità, quindi ora dobbiamo tirare la cinghia per salvare le nuove generazioni». I risultati ci stanno dicendo che le prossime generazioni saranno senza più speranze proprio per colpa di queste salvifiche ricette neoliberiste. Abbiamo distrutto un diritto del lavoro che era tra i migliori possibili, e adesso ci ritroviamo con un mercato del lavoro dopato di voucher e accordi ingannevoli. Così, mentre l’economia reale va a rotoli, l’economia di carta si gonfia, tronfia. Troviamo scritto sui giornali: «Profitti record per J.P.Morgan Chase. In tutto il 2016 gli utili toccano il livello di 24,73 miliardi di dollari»; «BlackRock ha raggiunto il record di raccolta della sua storia con 202,2 miliardi di flussi in entrata netti nel 2016, cifra che ha fatto salire a 5,15 trilioni di dollari (+15%) il totale degli asset gestiti». Ma anche: «Udine, sviene in classe: non mangiava da due giorni. Pensavano che si trattasse di disturbi alimentari, casistica non rara quando ci si imbatte nelle adolescenti. Invece la ragazzina viveva in condizioni di disagio economico e sociale; faceva la doccia con l’acqua fredda. Il dirigente scolastico ammette: “Non è la prima volta che capitano casi simili”».Tutto questo a Udine, nel ricco Nordest, frontiera che forse non è più così ricca…

Negli ultimi anni, molti paesi europei e mediterranei sono stati plasmati su modelli anglosassoni, e cioè sono stati resi schiavi di una cultura non loro: quella del debito privato che da sempre attanaglia, per esempio, gli Stati Uniti, il Regno Unito e anche l’Australia. Guardare per credere: quando nel 1995 le famiglie americane, inglesi e australiane erano già oppresse da montagne di debiti nei pressi della tripla cifra (poco più o poco meno del 100%), i cittadini greci vivevano sereni del loro 17% e si godevano la vita.

L’Italia è stata campione di risparmio privato perché quella mentalità era un pilastro portante di un edificio sociale ed economico. Sul risparmio abbiamo reso forti le famiglie (la casa di proprietà, una macchina, lo studio per i figli…) e le aziende familiari, dando così vita a un modello microaziendale reso possibile da banche gestite con senso di comunità. Da questo contesto è scaturito il miracolo dei distretti industriali. Poi sono arrivati i liberisti con le loro teorie americane del debito, degli investimenti finanziari, delle diversificazioni. «“Piccolo è bello” non reggerà nel mercato globale» dicevano gli yuppies ai cumenda dalle mani callose. Ai quali non sembrava vero di sentirsi dire, dopo una vita passata nei capannoni, che si poteva crescere e arricchirsi senza lavorare, cioè investendo nella finanza. Già, finché è durata era un mondo fantastico. Poi, però, i trucchetti sono venuti al pettine e gli investimenti sbagliati di questi giovani rampanti sono diventati un boomerang a danno delle aziende. Così la finanza si è impadronita delle stesse imprese. Il vecchio mondo solido è franato con velocità e potenza crescente con il progredire della cultura GangBank, cioè l’opposto del modello “risparmio-famiglia-azienda-territorio”.

Ma torniamo al punto dolente della vita a rate. Da una parte le continue tentazioni, le continue offerte di prestiti a vario titolo; dall’altra la contrazione dei salari, degli stipendi, se non addirittura il ricorso agli ammortizzatori sociali a fronte della chiusura di molte aziende. Una tenaglia mortale che sta producendo il risultato di precarizzare sempre di più il lavoro senza per questo creare ribellioni di piazza. Ci avete pensato? Perché la crisi non ha trovato sbocco in contestazioni di massa? Io penso questo: senza lavoro o con buste paga leggere, qualsiasi lavoro e qualsiasi stipendio diventano essenziali per fare fronte ai debiti contratti. La questione salariale segna il passo a favore dell’esposizione debitoria. Non sono più il salario o le condizioni di lavoro a essere centrali, ma i debiti che ci strangolano. Il senso del collettivo crolla, il senso della sopravvivenza individuale emerge. Eccolo qui uno dei veleni mortali della vita a rate: la produzione di un ceto sociale impaurito e dunque senza voce. Anche su questo torneremo.

«Non te lo ordina il medico di indebitarti.» Quante volte avete sentito questa frase? Io tante. Non solo, mi ricorda anche l’altra: «Nessuno gli aveva detto di drogarsi. Adesso cosa vuole?». Già, l’indebitamento privato è come una droga a portata di mano. Come abbiamo visto all’inizio del capitolo, la comunicazione e la pubblicità spingono per promuovere il debito, ma sono soprattutto i consulenti con i loro dizionari sempre più tecnici e anglofoni a indirizzare verso la cultura dell’indebitamento: più loro ne creano e più ci guadagnano. Lo shopping diventa facile perché c’è sempre una finanziaria pronta a darti una mano. E quando non è il turboconsumismo con le parole dolci del marketing, ecco pronto un altro maglio d’attacco: i consigli di investimenti sui dorsi economici dei giornali. Dopo la salute, assistiamo al boom di sezioni dedicate agli investimenti finanziari. Il meccanismo rischia di essere lo stesso: «Ho capito tutto, faccio tutto da me». Poi la malattia si aggrava e si rischia di morire. Certo, la gente si espone al rischio, ma è proprio la tecnica persuasiva della comunicazione a rendere la tentazione un dato di fatto.

Walt Disney, Nike e McDonald’s: baby azioni per cominciare. Era il titolo di un prestigioso giornale milanese a tiratura nazionale, un invito all’“educazione finanziaria” dove però l’abc rischia di essere composto da azioni e derivati. Sicuri che sia la strada giusta per fermare quella poco virtuosa vita a rate di cui parliamo? Sicuri che la tutela del risparmio garantita dalla Costituzione interessi ancora i Palazzi? Oppure quelle banche che di fatto hanno in mano l’anima dell’editoria italiana spingono per restare sulla stessa strada a senso unico, cioè scucire soldi agli italiani imbottendoli di prodotti finanziari a pagamento, talvolta persino rischiosi?

Fateci caso. Sta diventando sempre più consistente la campagna contro la moneta, contro i contanti. Come se i grandi percorsi elusivi non appartenessero al sistema bancario, assicurativo, finanziario e non venissero realizzati sulle linee invisibili della moneta virtuale! La scusa è quella di rendere tutto tracciato e tracciabile, così da bloccare l’evasione fiscale; infatti con questa illusione della lotta all’evasione e al riciclaggio si inventano limiti e tetti: chi li sfora deve dare spiegazioni, cioè deve provare di non essere un evasore o, peggio, un colluso con la criminalità. Assistiamo a un altro esempio di inversione dell’onere della prova.

Ma torniamo alla battaglia sull’abolizione del contante a vantaggio delle carte di credito. Intanto va detto che il contante è un qualcosa che vedi, tocchi e in un certo senso pesi: il fatto di averne una certa disponibilità ti può dissuadere dall’effettuare acquisti incauti, spericolati o a debito. L’opposto dell’illusione che crea la carta, la quale è chiamata di credito sebbene di fatto sia sempre una carta di debito. Ma veniamo al punto: a chi conviene? Un dato di inizio dicembre scorso conferma che il canone medio è in costante aumento e il prelievo per anticipo contante costa moltissimo, per non parlare della commissione benzina: la mette uno su quattro. Stando a uno studio dell’Università Bocconi, se è vero che l’uso del contante sta diminuendo, è altrettanto vero che l’uso più frequente della carta è per ottenere cash, cioè denaro in anticipo; con la contraddizione che questa operazione è tra le più costose per l’utente perché ha un costo medio assai elevato (a questo punto meglio il vecchio bancomat…). Va inoltre aggiunto che chi paga con la carte di credito – specie nel settore del commercio online – spesso si ritrova dei sovrapprezzi (il più delle volte nascosti, quindi illegali), malgrado le costanti sanzioni comminate dall’antitrust. Per non dire poi del costo delle commissioni che si devono sobbarcare i commercianti…

L’analisi dell’Università Bocconi per il «CorrierEconomia» è esemplificativa di questo sistema spesso poco conveniente per il consumatore e, di contro, redditizio con poca fatica per chi gestisce il servizio. Le carte di credito, al contrario di quello che si può pensare, sono infatti un servizio non più proprio solo delle banche ma anche di finanziarie e persino di ipermercati (Carrefour, Esselunga). Bene, dati ufficiali al 14 novembre 2016, il canone medio annuo è salito del 9%, da 32 a 35 euro, in soli cinque mesi, da luglio a novembre 2016. La carta delle Poste ti accalappia con un canone di 23,24 euro per il primo anno, ma poi schizza a 37 dal secondo anno. La più cara è American Express; subito dopo viene quella di Intesa Sanpaolo. Ognuno, in questa ricerca, spiega i perché, i percome e le convenienze legate a un uso più frequente; però io resto ai fatti della Bocconi.

Le carte, dicevamo. Non sono tutte “a taglia unica”; ce ne sono di diverse tipologie. Una delle più pericolose resta la carta revolving, tornata a crescere dopo alcuni anni di ridimensionamento dovuto anche a servizi televisivi in cui si denunciavano vere e proprie truffe. I tassi di interesse sono elevatissimi e costituiscono una “droga” – in senso assolutamente metaforico, sia chiaro: uso questa immagine perché il suo punto più debole sta nel difficile controllo dei costi – pericolosa per il consumatore, in quanto consente di spendere al di là di ciò che si ha nella disponibilità del conto corrente (non a caso è utilizzata per lo shopping sia reale sia virtuale), salvo poi saldare secondo le modalità concordate. Insomma, è un prestito di denaro ricaricabile: l’ideale in questa età di turboconsumismo a rate!

Aggiungendo infine che i casi di truffe legate alle clonazioni delle carte sono in costante aumento, ribadisco: davvero volete togliervi la libertà del contante a esclusivo vantaggio delle carte di credito? Io ci penserei.

Sulla spinta della liquidità a tasso zero della BCE, l’Italia pullula di società specializzate, di banche e di eccetera eccetera che si fanno una grande concorrenza proponendo «le più svariate offerte di prestiti personali», da restituirsi con rate gonfie di interessi. Società che vogliono accaparrarsi il mercato del terzo millennio: vogliono te!

Ti accalappiano in maniera tanto rassicurante che non si può non cascarci: «Realizziamo i tuoi sogni» recitano gli slogan pubblicitari che campeggiano su sfondi sereni di famiglie felici. La mamma e il papà sorridono su immagini patinate insieme ai loro due figlioli angelici, immancabilmente un bimbo e una bimba. L’idea che si possa tutto diventa un dato di fatto. Fino al patatrac! Se con il tuo stipendio o con la tua pensione vivi sul limite della precarietà, nel momento in cui ti metti nelle mani di un creditore diventi il suo schiavo. Perché persino la Costituzione, il ventre dei diritti e dei doveri, l’utero materno che sanciva i diritti fondamentali (dal lavoro allo studio, dalla salute al risparmio, dalla proprietà privata alla libertà di espressione) diventa ostaggio del sistema GangBank. Per il quale le Costituzioni non vanno semplicemente riformate: vanno liquefatte, vanno rese impalpabili. Lo Stato sociale (con la scusa di voler archiviare le ideologie del Novecento, il secolo breve) va disintegrato e umiliato, e così pure il capitalismo temperato dei sistemi liberali moderati e bilanciati.

L’unica ideologia ammessa è quella del neoliberismo, del turboconsumismo, del mercato oltre tutti i diritti. Questa è la Costituzione de facto della globalizzazione. Altrimenti non si spiegherebbe l’assurda sperequazione che Oxfam rileva nel mondo e anche in Italia. I primi sette miliardari italiani possiedono quanto il 30% dei più poveri. In Italia il 20% più ricco ha in tasca il 69,05% della ricchezza, un altro 20% ne controlla il 17,6%, lasciando al 60% più povero il 13,3%. O, più semplicemente, la ricchezza dell’1% più ricco è settanta volte la ricchezza del 30% più povero.

A contribuire al trend mondiale è stata l’elusione fiscale. In particolare quella delle multinazionali: «L’elusione fiscale delle multinazionali» ha dichiarato Roberto Barbieri, il direttore generale di Oxfam Italia, «ha un costo per i paesi in via di sviluppo stimato in 100 miliardi di dollari all’anno, ma ha un impatto importante anche nei paesi OCSE come l’Italia». A conferma di ciò, la cronaca racconta (vedremo meglio nelle pagine a seguire) degli accordi con il fisco italiano di Apple e di Google dopo importanti contestazioni fiscali.

È sempre più chiaro il passaggio dal senso della comunità, della Costituzione, dello Stato, alla violenza della legge del più potente, delle élite, dell’establishment. Mi rifaccio ancora al premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz in La globalizzazione che funziona: «Le grandi imprese hanno capito di poter influire di più sui trattati internazionali che non sulle “politiche nazionali”. La segretezza con cui vengono condotte le trattative commerciali facilita le imprese che vogliono eludere i processi democratici per piegare leggi e regolamenti al loro volere». Stiglitz sa benissimo che questo non accade più nella sola America, ma è il cavallo di Troia con cui, in nome dei trattati internazionali, si riformulano le Costituzioni (le famose riforme all’insegna della modernità).

Pertanto, quando arriva l’intoppo che non avevi previsto, ecco che quell’intoppo va rimosso. Per mano di altri. Dei buoni. Con il politicamente corretto. Donald Trump è l’incidente di percorso, è colui che strappa i trattati internazionali, che parla e minaccia dazi per evitare che la delocalizzazione bruci posti di lavoro e buste paga. Trump diventa il bersaglio non solo per via del protezionismo contro la globalizzazione, ma perché è rozzo, incolto, ignorante, grezzo. Razzista. Finanche fascista e nazista (l’inflazione delle parole prima o poi renderà leggero pure il dramma – quello sì, autentico e barbaro – del nazismo hitleriano. Non si può fare meno onore alla memoria che abusando di parole realmente terribili).

Secoli di pensiero politico ed economico sono stati bruciati dall’ignoranza e dalle menzogne. Il grimaldello del debito è stato il bazooka con cui hanno sfondato le democrazie. Le stregonerie lessicali (parole incomprensibili usate ad arte per farti sentire ignorante, fuori dal tempo) sono il nuovo glossario diramato dai fabbricanti della crisi. Nel saggio Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, l’antropologo Arjun Appadurai ci invita proprio a soffermarci sull’inganno delle parole: «Con questo non intendo certo negare che l’avidità, la mancanza del rigore normativo e un trattamento irresponsabile del rischio siano stati fattori decisivi. Eppure la condizione di possibilità di tutti quei vizi strutturali, più agevoli da identificare, va ricercata nel ruolo nuovo che il linguaggio ha assunto nei mercati. […] I prodotti derivati, che sono la principale tra le innovazioni tecniche di cui vive la finanza contemporanea, sono una catena di promesse riferite a un tempo incerto: inquadrare i derivati da questo punto di vista consente di far emergere l’importanza del linguaggio e del concetto di rischio negli attuali mercati finanziari».

I derivati e tutti i prodotti affini come stregonerie del GangBank: stregonerie che a breve incontreremo nel nostro racconto. Un tempo, al centro dell’economia c’erano i beni, i prodotti; oggi il prodotto diventa un “debito” fatto valere come “credito”. Lo dico sempre agli artigiani che incontro: pensate alla vostra giornata lavorativa, alla fisicità di ogni aspetto del vostro lavoro (dagli arnesi del mestiere alla materia con cui avete a che fare), pensate al sudore, alla fatica, al sacrificio; e poi pensate alla evanescenza con cui questo frutto del vostro lavoro viene “lavorato” dai broker, dai trader, dai vari interlocutori che operano per conto delle banche. Da una parte il lavoro reale, materiale, fisico; dall’altra il lavoro virtuale, immateriale, liquido. Ecco, è l’esatta trasposizione del nuovo paradigma economico, detto debt economy o finanziarizzazione dei mercati. Il baco economico-sociale che stiamo vivendo sta nel passaggio da uno schema di tipo “finanza-prodotto-finanza” (chi ha un capitale lo investe in attività produttiva producendo merci e occupazione e alla fine ottiene un profitto) a uno schema “finanza-finanza”, nel senso che il bene non c’è più e il prodotto diventa appunto la finanza stessa, il suo stesso giro del fumo, visto che è di questo che stiamo questionando, come dimostrano i salvataggi delle banche con soldi pubblici. La finanziarizzazione dell’economia è dunque un incubatore dove il debito genera altro debito.

Ornamento di separazione

Ripeto: sarebbero bastate le Costituzioni democratiche per respingere l’assalto se non fosse che Costituzione, Stato-nazione e diritti sono diventati vecchi arnesi da sacrificare sull’altare della modernità e della velocità delle decisioni da prendere. Fateci caso: quante volte avete sentito dire che le istituzioni hanno un passo lento rispetto alla velocità dei mercati e della finanza? Che scemenza colossale! Le istituzioni non devono essere né lente né veloci: devono essere efficaci nel dare le risposte ai temi che si pongono. Invece abbiamo inseguito il feticcio della velocità e i problemi si sono ingigantiti, dal lavoro alla ripresa che non c’è, dall’immigrazione (tema non privo di legami con la questione dei lavoratori schiavizzati) all’evasione fiscale delle multinazionali.

Abbiamo assistito passivamente alle bugiarde strategie globali del debito, abbiamo lasciato che si impiantassero nei nostri sistemi sociali ed economici. Scrive bene il compianto e prezioso Luciano Gallino in Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti: «Fare in modo con metodi appropriati che il maggior numero di soggetti economici, privati e pubblici, sia indebitato al limite delle sue possibilità e oltre fa parte della strategia globale del sistema finanziario: una strategia volta a estrarre da essi un flusso continuativo di denaro generato da altro denaro, in gran parte fittizio perché creato ex nihilo. Il tutto, si noti, senza produrre nulla di utile per l’economia reale o la società in generale. Al tempo stesso siamo dinanzi a un progetto politico: ottenere che il maggior numero possibile di persone ed enti privati e pubblici sia fortemente indebitato è il miglior modo per far sì che essi obbediscano alla cosiddetta disciplina dei mercati – strumento principe del dominio dell’oligarchia finanziaria al potere, nel nostro paese come in tutta la UE». Parole che pesano come macigni sulle democrazie, sulle Costituzioni. Così continua il professore torinese: «Per ottenere i suddetti scopi è necessario per il creditore che i debiti aperti nei suoi confronti non vengano mai saldati. Questa situazione si realizza precipuamente quando il debitore, che può essere tanto un privato quanto uno Stato, deve pagare sul debito preesistente degli interessi così elevati da essere costretto a fare altri debiti per pagare gli interessi sugli interessi, senza mai riuscire a restituire quote rilevanti di capitale».

La tesi di Gallino non ha bisogno di test in laboratorio per trovare conferma: sono i risultati, i dati, i numeri delle ricette neoliberiste a provarlo.

«L’imputato è assolto perché il fatto non costituisce reato.» Lui, l’imputato, può finalmente sorridere. E tornare a respirare. L’aula fa partire un applauso corale. Perché stavolta la giustizia coincide con il senso del giusto. L’imputato si chiama Diego Lorenzon ed è un imprenditore; era sotto processo a Pordenone con l’accusa di omesso versamento di ritenute certificate nell’Irpef 2012. Insomma, un evasore. Quel giorno non era previsto che si arrivasse a sentenza, si parlava di un possibile rinvio affinché il giudice potesse leggersi meglio le nuove carte. Tutto sembrava andare in quella direzione. Ma lui, il Lorenzon, già vicepresidente degli industriali di Venezia, chiede di rilasciare dichiarazioni spontanee. È malato. Di una malattia che è una spada di Damocle. Perciò teme di non poterci essere all’udienza successiva. Chiede di prendere la parola.

«La mia azienda ha una storia di quattrocento anni» comincia, riannodando fili passati e presenti, tradizioni artigiane di piccoli fabbri e ora di imprenditori nel settore metalmeccanico. L’azienda ha importanti commesse per la pubblica amministrazione. «In una situazione di crisi senza precedenti anche noi, piccola azienda metalmeccanica, ci siamo ritrovati in questa centrifuga.» Più il racconto di Diego Lorenzon prende corpo, più appare chiaro che il clima in aula sta cambiando. Il suo racconto è quasi un testamento morale. Non è solo una linea di difesa processuale: è la bussola per districarsi nella crisi e nei suoi paradossi.

«Nel 2008, sette banche su otto ci hanno abbandonati dalla sera al mattino. Tranne la Banca di Credito Cooperativo di Fossalta. Le banche ci hanno chiesto di rientrare, ci siamo ritrovati con i fidi azzerati e a pagare la materia prima in contanti.» Lorenzon prosegue dritto, asciutto. È la cronologia di una storia come tante se ne sentono nei distretti produttivi. Le banche non solo chiudono i rubinetti, ma vogliono indietro i soldi perché anche loro sono in crisi. Le banche perdono i contatti con il territorio, non ci sono più biglietti da visita da conservare, nemmeno quello dell’ex vicepresidente degli industriali. È una giungla. È il mors tua, vita mea. Arrivano i primi decreti ingiuntivi; saltano le prime commesse. Neppure lo Stato paga i lavori appaltati. Già, perché Lorenzon ha 400.000 euro da incassare dalla pubblica amministrazione. Lo Stato non paga, ma chiede le tasse. «Che cosa dovevamo fare in queste condizioni? Ho sempre pagato tutto, ma a quel punto ho chiesto allo Stato di rateizzare perché dovevo pagare gli operai.»

Il giudice ascolta. Il racconto di quel signore è come un impianto di luci al neon che si accendono in progressione. «Siamo tre fratelli: non abbiamo né panfili né case a Cortina. Tutto viene reinvestito in azienda. Abbiamo venduto piccole collezioni storiche, chiesto aiuto ad amici e parenti, incassato le polizze vita e pensionistiche per mettere tutto in azienda. […] Più di qualcuno mi disse di portare i libri in tribunale, ma io invece ho pensato di tener duro. Sono prevalsi concetti di etica e di morale che per una famiglia e un’azienda sono fondamentali.» L’azienda. I lavoratori. Persone delle quali si conoscono i dettagli delle vite quotidiane. Lorenzon avrebbe potuto delocalizzare, andarsene via da San Michele al Tagliamento, tradire quel nucleo di gente, se non fosse che la faccia in un paese è tutto. Eppure c’era chi glielo diceva: «Vattene, non darla vinta a uno Stato che ti mette i bastoni tra le ruote». Quel giorno, però, in quell’aula di tribunale, lo Stato lo sta ascoltando, sospeso tra un rinvio a prossima udienza e… «Dal 2009 al 2012 non ho mai dormito una notte intera per la pressione e la frustrazione. Mi chiedevo se andavo nella direzione giusta: adesso le banche stanno chiudendo, noi no.» Lui no: per la Poolmeccanica il lavoro ricominciava. Con il cuore in gola, il respiro trattenuto: pagare i fornitori era sempre un esercizio di grandi compromessi, di piani di rientro. Ma era come ripartire tutte le volte dalla casella del via, perché l’indomani arrivavano altri decreti ingiuntivi. E poi le visite della Guardia di Finanza, che restava in azienda per controllare ogni libro, ogni pagina, senza mai trovare nulla di anomalo.

«Ho pagato in dieci anni 6,8 milioni di tasse e il 30% di sanzioni per i ritardi; penso di essere stato sufficientemente punito per questa mia strategia.» L’aula del tribunale ascolta in religioso silenzio. «Mi chiedo ancora se ho veramente fatto tutto quello che dovevo, come un padre di famiglia. Chiedo solo un po’ di pace e di serenità per concentrarmi nella mia azienda e vi ringrazio dei minuti che mi avete regalato.» Lorenzon finisce qui, si è tolto un peso. Il peso e il timore di non poter raccontare per tempo il suo viaggio nella crisi. Gli occhi ora sono sul giudice: a quando aggiornerà l’agenda processuale? A quale data riaggiornerà la causa? Ma Rodolfo Piccin non rinvia. Chiama il cancelliere e fa verbalizzare la sua intenzione di chiudere il processo. Tre minuti al pm e sei all’avvocato per le conclusioni. «Cosa si può chiedere di più a questa persona?» taglia corto il viceprocuratore. «Chiedo l’assoluzione perché il fatto non sussiste.» Anche per il giudice non c’è dolo in quel mancato versamento dell’Irpef. Il fatto non costituisce reato. Lorenzon è assolto. Con l’aula che applaude.

Quando ho letto questa storia mi sono ricordato delle tante analoghe raccontate in questi anni. Pubblica amministrazione o clienti privati che non pagano («Fammi causa, tanto coi tempi della giustizia che abbiamo…»); banche che ordinano di rientrare dai debiti concessi perché hanno le regole di Basilea da onorare; le tasse da pagare e i fornitori da saldare altrimenti il lavoro che hai non lo puoi assolvere: la crisi ha fatto saltare tutti i meccanismi virtuosi che hanno permesso alle piccole e medie imprese di diventare un modello nel mondo. È la giungla. La giungla del debito che diventa un cappio stretto attorno al collo e non più – come invece accadeva nei decenni della crescita – la benzina per crescere. La giungla dell’economia di carta. La banca può fare la voce grossa perché i capannoni possono saltare ma loro no. Le storie di questi mesi lo dimostrano una volta di più. Lorenzon ha dovuto perdere la salute per salvare la propria azienda, il proprio onore e i posti di lavoro dei dipendenti. Ma ci sono Lorenzon che non ce l’hanno fatta, che hanno mollato. Abbandonati dallo Stato, dalla politica e dalla classe dirigente che ha fatto la sua scelta: stare con il sistema GangBank. E lo stesso vale per il sistema massmediatico che trova terreno fertile nel racconto facile della spesa pubblica, degli sprechi e della casta. Certo, gli sprechi ci sono – e chi li nega? –, ma perché sull’inganno finanziario in corso tutti tacciono? Forse perché il vero potere, quello che tiene tutti sotto schiaffo, è lì? Forse perché è quello il potere intoccabile? E chi li tocca viene deriso come complottista o populista?

È vero, ci sono tanti sprechi che danno fastidio. E nessuno contesta che tra i politici ci siano persone perbene e furbetti o addirittura delinquenti. Ma basta con questa litania del debito pubblico frutto di politiche dissennate e assistenzialiste. Perché la verità o la si dice tutta oppure diventa un’operazione eterodiretta. È ora di pretendere chiarezza sui contratti derivati di Stato. Perché queste verità hanno la stessa segretezza di tante drammatiche vicende che hanno segnato l’Italia? Perché i Mario Draghi, i Visco, i Padoan, i Mario Monti e compagnia cantante non svelano i contratti segreti tra lo Stato e le banche che hanno generato il buco nei conti pubblici di cui nessuno parla? Sotto i nostri occhi abbiamo visto consumarsi la crisi dell’economia reale, abbiamo visto giovani sbattere contro il muro di gomma del «le faremo sapere», i contratti di lavoro sono diventati una lotteria. La crisi ha maciullato aziende e pezzi di economia. Ma non ha piegato minimamente il sistema GangBank.

«Il 22 dicembre 2011 Morgan Stanley aveva dato esecuzione ad alcune modifiche relative alla ristrutturazione di contratti derivati.» Così, nel libro La voragine, Luca Piana comincia il lungo racconto dei contratti derivati nei conti pubblici italiani. Fin dalle prime pagine, Luca Piana riporta elementi che sembrano comporre la trama di un giallo. Un giallo finanziario a tutti gli effetti. Morgan Stanley è una merchant bank americana tra le più attive; e lo è anche in Italia. Ma qui aveva un problema: al 31 dicembre 2011 la sua esposizione negli affari condotti nel nostro paese era pari a 4,9 miliardi di dollari. Tre giorni dopo, per miracolo, questa esposizione precipitava a un solo miliardo e mezzo.

Cos’è accaduto nel frattempo? Semplice, non meglio identificati (come si legge nella nota alla tabella n. 14 del bilancio del 2011, perché certe cose è sempre meglio scriverle in piccolo, imboscarle…) clienti italiani avevano provveduto a un bonifico di circa 3,4 miliardi di dollari. Il nome doveva rimanere riservato, ma toccherà a un giornalista inglese svelare quel che in Italia non aveva scosso nessuno: quel cliente era il Tesoro della Repubblica italiana. Il governo Monti, in poche parole, aveva pagato Morgan Stanley. E lo aveva fatto a un mese e mezzo dal suo insediamento! Pensate al travaglio dei Lorenzon d’Italia saltati perché qualcuno non pagava e lo Stato o le banche pretendevano un qualcosa. Ecco, i soldi per pagare altrettanto alla svelta i debiti della pubblica amministrazione non li ha mai trovati, il professore. Né quelli per praticare politiche espansive. Non c’erano mai soldi. C’era invece il pareggio di bilancio da rispettare. C’era la famosa lettera della BCE e di Bankitalia da onorare. E c’era la riforma del lavoro e delle pensioni da approvare alla svelta. Quanto ci sarebbe stato da attivare per risollevare il paese, ma noi… be’, noi avevamo i compiti a casa da fare. Però 3,4 miliardi sono stati pagati alla svelta. E perché? Semplice: c’è una giostra che non si deve fermare. E soprattutto c’è un segreto di cui non si deve parlare: la montagna di derivati che noi più di chiunque altro abbiamo sottoscritto. Del resto, cosa vuoi dire, cosa vuoi spiegare? Che con un paese allo stremo nel 2016 siamo stati costretti a pagare 5,5 miliardi di euro al sistema GangBank (qualcosa come 100 euro per ogni contribuente italiano), e tanti altri ne dovremo pagare nei prossimi due anni? Nuove perdite miliardarie sono previste per il 2017 e il 2018 con un rischio superiore al 98%. Soltanto nel quinquennio dal 2011 al 2015, stando agli ultimi dati noti (di cui parla sempre Luca Piana), i derivati hanno avuto un impatto negativo sui conti pubblici di 23,5 miliardi di euro fra interessi netti pagati alle banche e altri oneri connessi. Gli ultimi conteggi disponibili dicono che gli strumenti tuttora in essere nel portafoglio del Tesoro presentano perdite potenziali per ulteriori 36 miliardi di euro.

Dove sono gli ultrà del libero mercato? Dove sono i Chicago Boys alle vongole che straparlano di Stato ladro? Qui non c’è una finanza padrona e ladrona? E perché per così tanto tempo sono stati in silenzio? Qui siamo oltre lo Stato ladro, qui c’è un sistema lobbistico che in assoluta e arrogante segretezza sta affossando l’Italia e gli italiani. Gli stessi soggetti che dispensano prediche morali si rifiutano da anni di pretendere la verità sui contratti derivati presenti nei bilanci dello Stato.

«L’Espresso», sempre con Luca Piana, ha potuto consultare i documenti e ha visto come in realtà i contratti derivati chiusi con Morgan Stanley sono stati ridiscussi a più riprese, sono stati ristrutturati – cioè ritoccati – tanto che sarebbe corretto parlare di quattro famiglie di derivati legati l’uno con l’altro. In questa operazione non è azzardato sostenere che tra il Tesoro (cioè noi) e la banca, l’affare lo abbia realizzato la banca. E che questo affare sia maturato a seguito di passaggi e di una clausola (troppo tecnica e lunga per spiegarla qui, ma è negli atti di una inchiesta giudiziaria) ignorata dai dirigenti del Tesoro, a causa della quale abbiamo dovuto sborsare 3 miliardi a Morgan Stanley. Così…

Cosa sia il derivato ormai è noto: è una scommessa (un contratto aleatorio) che, a determinate scadenze, fa guadagnare o perdere soldi a seconda che si realizzi una certa condizione di mercato. Se trovate questa definizione ancora troppo tecnica, allora fidatevi del giudizio di Warren Buffett, l’oracolo, la leggenda, uno che di speculazioni finanziarie se ne intende eccome: «Il genio dei derivati è ormai fuori dalla lampada e questi strumenti moltiplicheranno certamente il loro numero e la loro varietà fino a quando non accadrà qualcosa che renderà chiara a tutti la loro tossicità. Le banche centrali e i governi finora non hanno trovato un modo efficace di controllare e nemmeno di monitorare i rischi determinati da questi contratti. Dal mio punto di vista, i derivati sono armi finanziarie di distruzione di massa, portatori di pericoli che, per ora latenti, sono potenzialmente letali».

Bene, e l’Italia cos’ha fatto? Ne ha stipulati più di qualsiasi altro paese! Colpa dei politici? Ma per piacere… Guardate i curricula dei nostri governanti e ditemi se questa gente può capire qualcosa delle bombe finanziarie che abbiamo sotto le nostre terga! È chiaro che il campo delle finanze pubbliche è stato minato da persone dentro il sistema speculativo. La prima mossa, nel lontano 1981, fu quella di separare la Banca d’Italia dal Tesoro, con la conseguenza di dover vendere i titoli di Stato sui mercati esteri. Quel passaggio fu il peccato originale di una discesa agli inferi sempre più grave e profonda. Avevano un mandato preciso. Vi invito a guardare i curricula dei titolari degli ultimi ministri economici, le loro relazioni professionali e le loro sliding doors dentro e fuori dai player finanziari, per farvi un’idea del disegno in atto. I contratti derivati sono stati usati dallo Stato – governo ed enti locali – per abbellire i bilanci, per fare un maquillage contabile attraverso strumenti finanziari leciti. Ma la legalità di certi strumenti può non coincidere con i reali bisogni di una comunità di cittadini. La finanza, invece, viene anteposta alla collettività. Ma questo non è sancito dalla Costituzione. Ecco perché queste bande d’affari vogliono cambiare le Costituzioni. Ecco perché le agenzie di rating possono far ballare i governi con valutazioni che non sempre sono trasparenti.

A Trani, un pubblico ministero sta mettendo in discussione queste “pagelle”. Nel 2011 l’Italia «stava messa meglio di tutti gli altri Stati europei», ma da parte di Standard & Poor’s c’è stata «la menzogna, la falsificazione dell’informazione fornita ai risparmiatori», che ha messo così «in discussione il prestigio, la capacità creditizia di uno Stato sovrano come l’Italia». In poche parole, il downgrading del nostro paese tra il maggio 2011 e il gennaio 2012 mancava di giustificazioni macroeconomiche ed era motivato da ragioni speculative e forse anche politiche. Per questo motivo, il 20 gennaio 2017 il pubblico ministero Michele Ruggiero alla fine della requisitoria ha chiesto la condanna a due anni di reclusione e 300.000 euro di multa per Deven Sharma, all’epoca presidente mondiale di S&P, e a tre anni di reclusione ciascuno e 500.000 euro di multa per Yann Le Pallec, responsabile per l’Europa, e per gli analisti del debito sovrano Eileen Zhang, Franklin Crawford Gill e Moritz Kraemer. Per la società di valutazione è stata chiesta la condanna alla sanzione pecuniaria di 4,647 miliardi di euro. Vedremo come andrà a finire. Vedremo se questa coraggiosa azione giudiziaria sarà una spallata al sistema GangBank. Vedremo se lo Stato userà i suoi legittimi poteri e le sue funzioni per tutelare i cittadini contro le prestidigitazioni della finanza. Perché la finanza si sta velocemente creando un contropotere vero e proprio capace di tenere sotto schiaffo cittadini e governi. Un contropotere che la classe politica non è in grado di fermare perché ha perso il senso dello Stato, perché non ha capito il senso della sua missione. E anche ha ormai autorizzato senza imbarazzi quel sistema di sliding doors che per esempio vede l’ex ministro Siniscalco passare dalla direzione generale del Tesoro al ministero dell’Economia e poi vicepresidente per l’Europa proprio di Morgan Stanley, cioè quella stessa banca interessata al contratto derivato. Oppure potremmo dire che solo quest’anno dopo tredici anni il figlio di Mario Draghi, Giacomo, ha lasciato Morgan Stanley (dove si era occupato di strumenti derivati denominati in euro e in franchi svizzeri) per passare a LMR, un fondo hedge fondato da due ex di UBS, con base a Londra e Hong Kong, che gestisce 2,5 miliardi di dollari.

Banche d’affari, grandi società assicurative e agenzie di rating muovono i fili delle economie nazionali; giocano la partita a un livello superiore e sono talmente potenti che giocano con mazzi di carte truccate.

Ecco, di scommessa in scommessa stiamo buttando alle ortiche una valanga di soldi, perché qualsiasi giocatore d’azzardo sa che non ci si guadagna mai; si può vincere qualche giro, ma è regola altrettanto certa che puoi perdere nel giro successivo.

Abbiamo processato la classe politica con l’accusa di aver ingigantito con il suo assistenzialismo la voragine del debito pubblico, ma nessun ciglio è stato battuto allorquando il debito pubblico è divenuto un pozzo senza fondo a causa di poker finanziari. Allora, accuse per accuse, “meglio” il clientelismo e l’assistenzialismo, che almeno mettevano in tasca ai cittadini degli stipendi che alimentavano i consumi. (Mi permetto di condividere un concetto che il giudice Luciano Barra Caracciolo ha espresso nel suo libro La Costituzione nella palude: «Lo “spreco” della spesa pubblica è un concetto relativo: in assoluto anche la più distorta e scandalosa spesa pubblica si traduce in arricchimento del reddito privato. Se dunque lo Stato non è una famiglia e lo spreco è un concetto “relativo” di distorsione della spesa pubblica, limitare il bilancio dello Stato rimane uno strumento servente alla moneta unica». Ha ragione.)

Quanto è accaduto negli ultimi anni con il progressivo indebitamento pubblico tramite tecniche finanziarie ha solo prodotto una girandola a vuoto, che non genera alcun minimo arricchimento privato, se non quello delle élite schierate nelle varie Davos. I mercati girano sul perno delle scommesse, ma i governi e gli Stati (anche nelle loro articolazioni periferiche; e non si capisce davvero il motivo per cui i piccolissimi comuni debbano stare sotto lo schiaffo di consulenti finanziari) non lo dovrebbero fare. Perché viene loro concesso? Perché il neoliberismo li ha intrappolati in questa rete. E lo ha fatto con personale addestrato ad arte. I derivati sono uno dei giochi di questo casinò globale. Tant’è che, mentre negli stessi anni in cui Warren Buffett sollecitava attenzione e prudenza, il governo italiano sottoscriveva contratti derivati. E lo faceva per… coprirsi le spalle dall’aumento dei tassi, essendo il debito pubblico formato in larghissima parte da titoli di Stato da piazzare.

Ora, ancora una volta c’è da domandarsi: perché un’operazione “a difesa” di un’azione che dovrebbe fare l’interesse dello Stato viene secretata? Be’, la prima risposta ci viene proprio dal derivato chiuso con Morgan Stanley (aperto col governo di Lamberto Dini, già altissimo dirigente di Bankitalia dopo una gran carriera al Fondo Monetario Internazionale): una clausola di quel contratto – ricostruito nel già citato La voragine di Luca Piana – diceva che «se le condizioni di mercato sono favorevoli all’istituto, che in termini di flussi d’interessi ci sta guadagnando più di una certa cifra, Morgan Stanley può esigere la chiusura di tutti i derivati che ricadono sotto l’accordo, esigendo il pagamento immediato dei profitti. Ma questa clausola vale solo per la banca. Se fosse il Tesoro a guadagnarci non potrebbe chiedere la monetizzazione dei profitti e l’estinzione dei contratti».

Capito? Questo schema – iniquo, ingiusto, immorale, ma legale – per cui lo Stato ci deve sempre perdere a vantaggio del sistema GangBank sarà una costante. Loro tengono il coltello dalla parte del manico: il sistema sa che il debitore è come un tossico che ha bisogno o di altra droga o di “coperture”. Perché il contesto della globalizzazione neoliberista glielo consente. E il silenzio al limite dell’omertoso pure: i cittadini non devono sapere che paghiamo noi. Al contrario, devono sapere che “viviamo sopra le nostre possibilità”, “che bisogna fare sacrifici”, che “il welfare non è più sostenibile”. Le informazioni si devono gestire segretamente anche a costo di negarle ai parlamentari: perché al Movimento 5 Stelle, che ne faceva regolare richiesta, veniva negata la possibilità di prendere visione dei contratti derivati? Anche di quelli già chiusi?

Tutto si deve muovere in segretezza, una segretezza che sta aiutando la nuova architettura politica del neoliberismo: indebitare per controllare. Tanto nel privato quanto nel pubblico. Indebitati senza possibilità di redenzione, perché debito chiama debito. E di quel debito non si butta via nulla, un po’ come con il maiale…

Di questi tempi, una nuova specie di avvoltoio sta conquistando le cronache: i vulture funds, fondi che comprano a prezzi bassissimi il debito in default e poi giocano al gatto con il topo, nel senso che prendono gli indebitati debitori in difficoltà anche nella ristrutturazione del debito e chiedono loro il pagamento totale senza dilazioni o sconti. Vale con i privati e vale anche con gli Stati.

La società che sta attuando il metodo GangBank è una società dove la democrazia è solo apparente. Tutto il resto ha il sapore acre di una dittatura. Alla procura di Trani (quando un reato è commesso all’estero, è competente la prima procura che apre il fascicolo – e con questa precisazione si mettono a tacere le voci sul “protagonismo delle toghe”…) ci sono i presupposti per capire cos’è accaduto nei conti pubblici italiani in questi decenni di finanziarizzazione, portare alla luce l’intreccio tra apparati dello Stato e banche e misurare il potere di contrattazione che esse hanno accumulato in nome di spericolate manovre finanziarie. Nelle carte di Trani ci sono le prove delle porte girevoli tra ruoli pubblici e incarichi privati.

La crisi che stiamo vivendo non è una crisi economica, ma una crisi di debito finanziario. Il dito dell’ubriaco indica il lampione scambiandolo per la luna. Il dito di chi è sobrio indica la luna. Ora sta a noi indicare il lampione o la luna. La casta politica (piena di difetti) o il GangBank finanziario. Non cerchiamo santi. Cerchiamo di capire. Basterebbe questo per non farci fregare.