Cindy insinuò timidamente la testa nella camera. Dietro di lei c'erano Billy e le ragazze.
«Tutti a casa?» rise l'amica.
Carlotta sollevò Kim e la strinse a sé, portandola dentro.
La bimba era confusa. Non sapeva se fosse o no la loro casa. Ma d'altronde nulla nel mondo degli adulti aveva senso.
«Ti nutrono bene, mamma?» chiese Billy.
Carlotta sorrise. Era la sua maniera di chiedere come si sentisse.
«Tutto bene. Chi vuole un po' di caramellato?».
Dopo mezz'ora sedevano intorno al tavolo del soggiorno. Billy stava raccontando di un suo amico che aveva rubato cinque tegole da un deposito di legname e della polizia che l'aveva obbligato a restituirle. Bussarono di nuovo alla porta.
Entrò la dottoressa Cooley.
«Sono spiacente di dover interrompere», disse, quasi in un sussurro.
«Non importa, la prego», ribatté Carlotta.
«C'è un visitatore...».
«Chi?».
«È sua madre».
Carlotta rimase di sasso. Di colpo si spaventò.
«Mrs. Moran? Posso mandarla via...».
«Oh, Dio mio».
Carlotta guardò i bambini, che ormai si stavano chiedendo che cosa ci fosse che non andava. Cindy sembrava impassibile, ma teneva le labbra serrate.
Era troppo tardi ormai. Dei passi non graditi si avvicinavano lungo il corridoio. La dottoressa Cooley non aveva mai visto una simile trasformazione sul volto di Carlotta. Migliaia di sensazioni, dalla paura allo stupore, fiorirono e svanirono in un istante.
La madre apparve sulla porta, scortata da una donna di mezza età che la teneva sottobraccio. Mrs. Dilworth portava un largo cappello bianco. Sotto l'ala il viso appariva rosato e gli occhi sorprendentemente scuri. Un'aria dolce era stampata sul volto come in soffice cera. Carlotta rimase folgorata, come paralizzata. Evidentemente il viaggio era stato emotivamente faticoso per l'anziana signora, poiché ora sembrava esitare, timorosa di alzare gli occhi su quelli della figlia, timorosa di avvicinarsi.
Carlotta fissò il volto grinzoso, i lineamenti familiari marcati dalla mano inesorabile del tempo e che solo vagamente somigliavano ai forti e vibranti che Carlotta ricordava fin troppo bene.
Mrs. Dilworth guardò la figlia, egualmente stupita dalla donna già adulta che aveva davanti, dai lineamenti minuti ma perfettamente delineati, dal volto sciupato dalla sofferenza.
Per circa mezzo minuto nessuno parlò. Cindy ed i bambini capirono, nel subconscio, quanto stava accadendo. La Cooley fece un segno a Cindy e discretamente si ritirarono. La dottoressa lottò con la sua coscienza se accendere i vari apparecchi, ma questa volta decise di no. Julie e Kim erano spaventate, stupite dal silenzio.
«Carly...».
La voce era tremula, emozionata, ma affettuosa. La vecchia signora con difficoltà si accostò di un passo a Carlotta, appena dentro la casa.
«Sì... mamma...». La parola fu difficile ad uscire. «È da tanto che non...».
Mrs. Dilworth istintivamente tese le braccia per avvicinare il viso della figlia e baciarlo, ma vide Carlotta irrigidirsi. Però questa si riprese, ed offrì la guancia. Avvertì un tenue bacio sull'angolo della bocca. Quando guardò di nuovo, gli occhi della madre erano umidi.
«Siediti, mamma. Qui fa caldo».
La madre si sistemò con prudenza sul bordo del divano. I suoi occhi stanchi esaminarono il vasto locale, videro la parvenza di casa e in alto, appena visibile, il luccichio di tanti strumenti di osservazione, che violavano l'intimità della figlia, come se fosse il centro di qualche bizzarro piatto petri da esperimento.
«Allora è vero», mormorò. «Il giornale...».
«Naturalmente è vero».
«Oh, Dio mio... Carly... come è stato possibile?».
Carlotta la guardò, irritata per un istante, poi capì che la anziana signora non era maligna.
«Non sono io che l'ho causato», disse semplicemente. «È successo, ecco tutto».
Contro la parete, Billy, Julie e Kim erano seduti o in piedi, come se l'istinto avesse suggerito loro di presentarsi formalmente a quella elegante e remota persona. Ancora non erano sicuri di fosse.
«Billy, Julie, Kim... salutate vostra nonna...».
«Ciao», disse Julie rigida.
«Aho», fece eco Kim, incerta.
Billy non parlò.
«Scusami», disse Mrs. Dilworth, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto di lino bianco. «Non volevo piangere. Mi ero detta che non volevo, ma...».
Imbarazzata, col cuore colmo di pietà, Carlotta osservava la madre tentare di riprendere controllo.
«Julie», disse Mrs. Dilworth sottovoce. «Kim... sì... Hai gli occhi di Carlotta... così scuri, così dolci...».
La donna anziana ripose il fazzoletto nella borsetta. Guardò le bambine quasi oggettivamente, anche se dolcemente.
«Occhi così scuri, così scuri... Uno non sa mai che cosa ci sia dietro...».
«Mamma, io...».
«Almeno, io non l'ho mai capito».
Carlotta improvvisamente scoprì che tutto quanto la madre aveva fatto nella vita era stato dettato dalla timidezza e dalla paura. Paura del marito, di Dio, di quanto non conosceva. Nel profondo del cuore, la vecchia signora ancora non sentiva di avere il diritto di esistere. Era proprio questo vortice di incertezza che sedici anni prima Carlotta aveva sfuggito, più che la crudeltà.
Quanto aveva sofferto quella donna, prima per la tirannia del marito e poi per la tirannia dei ricordi? Quanto aveva permesso a se stessa di sacrificarsi sul suo egocentrico altare? Anche ora, a Carlotta era chiaro, lei non ne era liberata e non lo sarebbe mai stata per il breve tempo che le restava da vivere.
Julie era meravigliata per la strana conversazione a frammenti fra sua madre e quella donna, quella totale estranea che in qualche maniera li conosceva. Era realmente una nonna? Dov'erano le risate, l'allegria che si trova nei racconti? Le nonne sono gentili, amichevoli...
«Quando ho letto il giornale», spiegò Mrs. Dilworth, «ho dovuto... volevo soltanto vedere... se potevo essere di aiuto».
«Capisco, mamma», ribatté Carlotta, senza freddezza.
«Ho guardato dentro di me, Carly, ho cercato in tutti gli angoli di me stessa, da quando tu mi hai lasciato...».
«Per favore, mamma...».
«Ma Dio non ci dà nessuna indicazione. Nessuna. Conosciamo la destinazione, ma non per quale strada arrivarci. Tuo padre non ne sapeva più di me».
Carlotta si sentì a disagio. Temeva che la madre si mettesse a parlare del pastore Dilworth, una prospettiva che minacciava di soffocarli di ricordi spiacevoli.
«Naturalmente, mamma, io...».
«Ho pregato, Carly. Per avere una guida. E non c'è stata risposta».
Carlotta si addolcì per l'enormità della confessione. Dio era stato la pietra miliare dell'intera vita di quella donna. «Ho frequentato diverse chiese, Carly. Ma non c'è stata risposta. Soltanto un terribile, orrendo silenzio».
Nella debolezza di quella vecchia signora, nella sua assoluta semplicità, Carlotta non trovò posto per la paura e l'odio, ma soltanto per la comprensione. ì mostri che l'avevano imprigionata ed ossessionata nell'enorme casa di Pasadena erano spariti e sopravvivevano soltanto nella fanciullezza ormai sepolta. Avvertì il bisogno di comunicare con lei, riempire il distacco che le aveva divise, apparentemente per sempre.
«Dio perdona tutti, mamma», disse. «Ci ha già perdonati molti anni fa».
Mrs. Dilworth sembrava non ascoltare. Si guardava attorno nello strano ambiente, vedendo in esso una sorta di prova del proprio amaro fallimento e della punizione del cielo.
«Rimpiango che Dio non abbia riempito le nostre vite con uno scopo, Carlotta. Tuo e mio. Sarebbe stato molto diverso».
La figlia sorrise tristemente, si alzò e baciò la vecchia sulla guancia, allontanandosene con un profumo di lillà, lo stesso che aveva amato da bambina. Quanto era rimasto di sua madre, pensò Carlotta stupita, malgrado tutto.
«Avresti dovuto credere di più in te stessa, mamma», disse gentilmente. «Allora sarebbe stato più facile trovare Dio».
L'infermiera, quasi dimenticata, tossì lievemente, quasi per indicare che il tempo passava. Che strano, pensò Carlotta. In verità nulla si fermava nel mondo, nessuna relazione umana restava mai ferma. Anche ora, in pochi momenti, era mutata di fronte a lei, come era mutata lei.
Mrs. Dilworth guardò affettuosamente i bambini, poi si voltò di nuovo verso la figlia.
«Puoi permettere loro di far visita alla nonna, Carly?».
Malgrado tutto, Carlotta esitava. Il pensiero di saperli in quella casa dove lei aveva tanto sofferto...
«È talmente grande... ed ora è quasi vuota...».
«Sì, lo so...».
Guardò i figli. Era come se stesse accostandosi all'orlo di un profondo baratro, un baratro dal quale per sedici anni aveva cercato di allontanarsi. Ora era determinata a fare il salto.
«Sì», disse semplicemente, senza voltarsi a guardarli, «è una bellissima casa...».
«Voi che cosa ne dite, ragazzi?» chiese Mrs. Dilworth. «C'è il campo da tennis, di croquet, e...».
«Anche Billy?» squittì improvvisamente Kim.
Il viso di Mrs. Dilworth si raggrinzì in un largo sorriso.
«Naturalmente. Anche Billy».
Era fatta. Carlotta si chiese se si fosse allontanata dall'abisso o se vi fosse caduta dentro. Più ci pensava, meno le piaceva l'idea dei suoi figli in quel posto. Eppure sembrava l'unica soluzione. Ora non si poteva più tornare indietro.
Prese in braccio Kim e l'avvicinò alla vecchia signora.
«È un curioso piccolo mostro», disse sorridendo. «Bisogna tenerla d'occhio quando ha un pastello in mano».
Kim si sentì improvvisamente baciata, lievemente avvolta in un profumo di lillà. Guardò su, stupita.
«Che bei bambini», osservò Mrs. Dilworth.
Julie restituì cortesemente il bacio, quando si trovò abbracciata con fervore.
«Ebbene», disse la nonna, ammiccando, «tocca a te ora, Billy».
Questi restava rigido, incerto se ritirarsi o farsi avanti. Si trovò stretto fra due sottili e calde braccia.
«L'auto è giù», sussurrò Mrs. Dilworth. «È una vecchia carcassa come me. Ma molto spaziosa».
«Che macchina è?» farfugliò Billy.
La nonna si rivolse alla sua accompagnatrice. «Oh, Hattie, glielo dica lei».
«È una Packard da turismo a guida interna del 1932», replicò l'infermiera in tono un tantino autoritario.
«Accidenti», mormorò il ragazzo.
Carlotta era talmente preoccupata all'idea dei suoi figli nelle stesse stanze dove aveva tanto sofferto, che si trovò improvvisamente alla porta, con i bambini già fuori nel corridoio. Baciò lievemente la madre all'angolo della bocca. Avvertì le fragili ossa, il lieve tremolio delle braccia. La morte sembrava già essere presente nel breve respiro della madre.
Di colpo la casa di Pasadena divenne realtà. Era soltanto una proprietà con giardino e spalliere di rose. Il terrore non dominava il luogo fisico, ma albergava nei sentimenti ed apparteneva ad una ragazzina che non poteva più esistere.
Salutò i figli baciandoli affettuosamente.
«Non viene la mamma?» chiese Kim, mentre percorrevano lentamente il corridoio, con Mrs. Dilworth appoggiata al braccio di Carlotta.
«Presto... Verrò presto».
«Dio sarà buono con te», disse la madre. «Non devi cessare di credere nella guarigione».
Carlotta si voltò e le lacrime le scorrevano sul viso, mentre la sua famiglia al completo entrava nell'ascensore e le porte cominciavano a chiudersi. Non vide neppure che Julie salutava con la mano.
Quella sera non poté dormire. Misurava la camera a passi nervosi. Quella stanza ibrida, stranamente simile alla sua, ma dall'odore tanto diverso, così estranea nel modo in cui le luci dalie lontane lampade fluorescenti si diffondevano attraverso il vetro translucido. Eppure era ancora il suo letto, il suo armadio, il suo tappetino, il suo comodino. Come se tutto, tranne l'incubo, fosse stato trasportato in quell'ala isolata dell'università.
Questa sera qui c'è tutto tranne lui. La solitudine, l'essere separata dal mondo intero, in attesa, sempre in attesa. Nulla è reale. Tutto si è staccato da me, il mio corpo, i miei figli, mia madre. Persino i miei pensieri vanno e vengono a loro piacere. Kraft è preoccupato dei suoi controlli elettronici. La dottoressa Cooley mi scruta continuamente con questionari alla mano. Soltanto Mehan si prende cura di indagare come realmente mi sento. Medici e specialisti sono sempre così freddi, così distanti. Non sanno mai che cosa sia avere paura; essere realmente, completamente spaventati.
Smise di scrivere. Era arrivato il momento in cui era meglio non scrivere, non esprimere nulla, tenersi tutto dentro. Perché lasciarsi sfuggire qualcosa apriva soltanto le porte ad altri, rivelava i drammi più profondi, dove la mente vacilla, si tormenta, come una piuma che sprofonda nell'oscurità infinita.
Poi lo intuì.
Inesplicabilmente, lui era alla finestra. Lei si voltò. Lui se n'era andato. Non l'aveva visto. Non aveva fiutato nulla. C'era silenzio. Ma lui era stato lì e se n'era andato. Per il momento.
Suonò per chiamare la dottoressa Cooley.
Questa si svegliò. Guardò lo schermo televisivo, si sintonizzò e vide soltanto la spalla e la testa di Carlotta ai piedi del letto. La Cooley si strinse nel camice da laboratorio e bussò alla porta in fondo al corridoio.
«Mrs. Moran? Sta bene?».
Carlotta aprì la porta. La docente si accorse subito che era sull'orlo di un attacco isterico. Era avvenuto tutto così in fretta. In mezza giornata sua madre era venuta e se n'era andata.
«Prego, entri», disse la giovane.
La dottoressa si fece avanti. Avvertì un odore nella casa. Di cucina, forse. Uno stranissimo odore.
«L'ho sentito».
Non c'era bisogno di chiedere chi. La dottoressa Cooley avvertì la tensione. Forse veniva da Carlotta. Una tensione quasi palpabile, quasi elettrica.
«Quanto tempo fa?».
«Qualche minuto. Era alla finestra».
La Cooley vi si diresse. Nel riverbero vaghe forme di sporcizia e bolle si allungavano come braccia sopra il vetro. Tirò le tende.
«Certamente deve essere difficile dormire qui», osservò la docente con comprensione. «La luce che viene da queste finestre forma stranissime figure».
«Non l'ho visto. L'ho percepito con i sensi».
«Che cosa voleva?».
«È diverso ora, dottoressa Cooley».
«Che cosa intende dire?».
«Ho paura. Ho paura per tutti noi».
26
Con davanti meno di quarantotto ore del tempo concesso per la ricerca, la dottoressa Cooley inoltrò un appello urgente al preside Osborne per la proroga di una settimana. Fu steso in forma di nota e personalmente consegnato da Joe Mehan. Un'ora dopo riceveva la risposta, ugualmente formale e con l'intestazione dell'università. Diceva che il terzo piano doveva essere lasciato libero alla data fissata, per essere usato per uno studio della National Science Foundation sugli effetti delle radiazioni ultraviolette sulla retina dei rettili.
Nella notte del 23 maggio, Kraft sognò panorami aridi, tormentati, con forme strane di alberi e nubi incalzanti di qualche gas nocivo...
Dove aveva visto tutto questo? Erano immagini che Carlotta aveva riportato nel quaderno dei suoi pensieri.
«Questi sogni sono molto importanti», sussurrò Kraft a Mehan. «Mostrano che è stato stabilito un contatto».
«Stupidaggini. Dicono soltanto quanto ne sei coinvolto».
«Può darsi, ma indicano anche una prossimità...».
«Io sogno sempre del mio lavoro», affermò Mehan, sdraiandosi di nuovo sulla brandina.
In alto, vuoti di immagini, li fissavano gli schermi silenziosi.
Forme scure come di uccelli, ma che non erano uccelli, galleggiavano in un cielo irreale, alte e lontane nell'immaginazione di Kraft. Desiderava tanto vedere lo strano e spaventoso mondo di Carlotta. Quasi lo recepiva proibito, distruttivo, ma assolutamente affascinante.
Tuttavia nella notte l'apparecchiatura di controllo non rivelò nulla. La macchina olografica rimase ferma. Il nastro correva eternamente, sprecando chilometri di materiale costoso. Le mappe termovisive mostravano soltanto gli stessi locali, sempre e poi sempre e l'unica registrazione riguardava Carlotta mentre camminava per la stanza o si fermava per scrivere sul diario.
Il tempo precipita come il vento. Un momento siamo giovani, paurosi del buio, poi eccoci cresciuti ed il buio è ancora con noi. Nessun adulto ci dice che andrà tutto bene. Nessun adulto ci calma con mezze verità e mezze menzogne. Eppure lasciamo mai questa oscurità? Siamo mai veramente liberi?
Mentre Kraft ripiombava nel sonno, i lasers mostravano pareti vuote, corridoi vuoti, stanze vuote. La concentrazione ionica della casa era notevolmente stabile. Non vi era nessun cambiamento in nessun luogo.
Ma Carlotta fissava l'orologio.
Era mezzanotte e 43 minuti.
Questa notte ritorna. Com'è che nessun altro lo sa? Continuano regolarmente coi loro esami come se tutto fosse normale. Può darsi che il medico abbia ragione... Io sono malata. Eppure come può essere se anche altri hanno avvertito questa forza?
La mente di Carlotta cominciò a riempirsi di strane immagini, prima di Pasadena e dei giardini che poi, quando cominciò a sognare, si trasformarono in uno strano panorama, un luogo che non aveva mai visitato, arido e disastrato come per qualche cataclisma del passato, squallido e terrorizzante in modo insopportabile.
Il giorno passò. Tutti avvertivano nell'aria una sorta di anticipazione. Anche se quanto facevano era di normale routine.
«Mr. Kraft, ieri sera l'ho sentito», sussurrò Carlotta, nel pomeriggio inoltrato.
«Sì, lo so», rispose lui. «Me lo ha riferito la dottoressa».
«Lui era fuori».
«Fuori? Vuol dire nell'aria? O fuori del palazzo?».
«No... fuori, fuori del mondo. Vuole entrare nel mondo in cui sono io. Vuole distruggerci tutti».
«Non pensa che possa essere trattenuto da qualche cosa che noi facciamo?».
«Non più. Lui è la cosa più forte sulla terra».
Più tardi, in serata, la Cooley esaminò il diario. Le premonizioni di Carlotta si adattavano ai sintomi classici.
Quella notte nessuno dormì bene.
La mattina del 24 maggio, appena prima dell'alba, Mehan percepì un lieve bip giungere dalle apparecchiature. Aprì un occhio. Sugli schermi una luce rossa lampeggiava debolmente. Camminando svelto, si approssimò, premette un pulsante e vide soltanto la camera vuota.
«Per favore», diceva la voce sottile di Carlotta, «venite ad aiutarmi... Mr. Kraft... Mr. Mehan».
Mehan si inoltrò rapido nel corridoio, indossando il camice sopra il pigiama e bussò. Non ebbe risposta. La voce gemeva, come soffocata. Prese la chiave dalla tasca ed aprì.
In camera non c'era nessuno. Il soggiorno era vuoto. Mehan si diresse rapidamente verso la cucina. Faceva freddo. Carlotta non era neppure lì.
«Mr. Kraft... Mr. Mehan...» diceva la voce lamentosa.
Mehan bussò alla porta del bagno.
«Sono io... Joe Mehan. Sta bene?».
Aprì uno spiraglio. Carlotta era avvolta nella vestaglia rossa, accucciata in un angolo, dove la vasca era stata collocata sotto la finestra.
«È venuto per me», sussurrò.
«Adesso?».
«Sì. Sono scappata».
«Benissimo. Si calmi», disse Mehan, asciugandosi nervosamente le labbra. «Esca di lì».
Passarono nel laboratorio. La dottoressa Cooley, rispondendo alla chiamata di Kraft, arrivò in fretta. Carlotta tentò di spiegare che cosa fosse accaduto.
«Mi ha minacciata... tutti noi...».
«Minacciata?» chiese la docente.
«C'era odio nella sua voce...».
«Contro di me? Contro Gene?».
«Contro tutti».
«Che cosa aveva intenzione di fare?» chiese Mehan dolcemente.
«Non lo so. Lui ha paura di essere intrappolato da voi».
Kraft e la dottoressa si scambiarono delle occhiate.
«Lei sapeva che avevamo un metodo per intrappolarlo?» chiese Kraft.
«No».
«Qualcuno gliene ha parlato? Uno studente?».
«Non so di che cosa stiate parlando».
«Perché è vero», confermò Kraft. «Abbiamo escogitato qualche cosa. Stiamo tentando di fare in modo che non sia pericoloso per lei».
«Con una miscela di super raffreddamento a base di elio», spiegò Mehan, con aria confidenziale.
«Se tentate di intrappolarlo, vi ucciderà», ribatté Carlotta sottovoce.
«Presumendo che l'entità o l'apparizione esista indipendentemente dai suoi percepitori», Kraft comunicò agli studenti. «Il passo successivo è di determinare se essa abbia qualche proprietà fisica, oltre a causare variazioni di luce, fenomeni ionici e fenomeni tattili. In altre parole, possiede una forma? È composto di atomi e molecole? Esiste come esistono gli oggetti o i gas, esiste sulla forma di energia come le onde o la luce, oppure puramente a livello psichico, per cui è sensibile soltanto alla mente umana, ma non all'osservazione scientifica?».
Gli studenti, in silenzio, affollavano la stretta passerella sopra l'abitazione. Di sotto, in una luce brillante, quella simulata del mattino che si riversava orizzontalmente nel soggiorno, Carlotta stava parlando con convinzione alla dottoressa Cooley.
«I monitors, che ho già spiegato, analizzeranno velocemente le proprietà elettromagnetiche o termoioniche dell'entità. Ammesso che si possa ottenerne magari un pezzetto», aggiunse Kraft, «il problema se essa possieda una forma sarà risolto dagli apparecchi che ora la dottoressa sta spiegando a Mrs. Moran».
Si accese una minuscola luce. Kraft aveva aperto una doppia porta nera. L'interno, rischiarato da una piccola lampada violetta, era un complicato groviglio di fili e di tubi di rame, muniti di quadranti tremolanti che davano la temperatura e la pressione delle cassette filtro riparate in tanti involucri di lega metallica che le coprivano completamente.
«Qualsiasi cosa sia questa entità», proseguì Kraft, «i posti freddi di cui vi ho riferito suggeriscono che possiede proprietà simili a quelle di una spugna termica che assorbe calore dall'ambiente. Qualunque cosa che consumi o assorba calore è definito endotermico ed il metodo più efficiente e pratico per bloccarlo o renderlo inattivo sarebbe quello di sopraffonderlo». Kraft indicò il quadrante dell'apparecchiatura e con voce drammatica disse: «Elio liquido. Trecentosettanta gradi sotto zero. La sostanza più fredda conosciuta dall'uomo. Ad eccezione dello zero assoluto dello spazio interplanetario».
«Soffrireste di terribili ustioni e la perdita immediata di qualsiasi parte di voi che venisse in contatto con l'elio liquido. Altro che congelamento o cancrena».
Ebbero la visione di un braccio che si staccava da una spalla, frantumandosi in cristalli gelati. Parecchi studenti si avvicinarono di più alla ringhiera della passerella.
«La ragione dell'utilizzazione dell'elio liquido è», spiegò Kraft, «che vogliamo mettere le mani su questo fenomeno in tutti i modi possibili. Sappiamo che spruzzando una qualsiasi forma materiale con elio liquido, porteremo immediatamente la sua temperatura ad un grado tale che l'attività molecolare ed atomica quasi cessa. Nel qual caso si congela».
Gli studenti apparivano stupefatti di quanto fosse implicato in ciò che Kraft stava comunicando. Improvvisamente divenne reale, tangibile e per niente assurdo. Era come una porta che si aprisse, una porta spaventosa dietro cui nessuno sapeva che cosa ci fosse.
«E se non accade nulla?» chiese infine uno studente.
«In questo caso concluderemo che l'apparizione non è composta di materia fisica come noi riteniamo».
«C'è un'altra possibilità», intervenne Mehan, «ed è che l'entità possa muoversi dentro e fuori del nostro sistema di spazio e tempo, così da eludere qualsiasi tentativo fisico di trattenerla».
Lentamente, irresistibilmente, gli studenti abbassarono le teste per vedere sotto di loro. Carlotta stava guardando in alto, impossibilitata a scorgerli, mentre la dottoressa Cooley indicava vari punti della passerella. La loro conversazione era molto seria e fitta e Carlotta di tanto in tanto appariva nervosa.
«Questo è incredibilmente pericoloso», sussurrò una giovane. «E Mrs. Moran?».
«L'elio ed un liquido secondario vengono spruzzati da ugelli fissati alla parete esterna, pressappoco sopra la testa della dottoressa Cooley. I getti colpiranno soltanto in una direzione nell'angolo. Non appena Mrs. Moran si sarà spostata dal bersaglio, due porte a doppia lastra di vetro temperato, con un vuoto tra di loro, scivoleranno al loro posto, riparandola. In questo modo sarà schermata dagli effetti diretti ed indiretti dei getti».
«Crede veramente di poter bloccare l'apparizione in un'area così modesta?» chiese uno studente.
«Ebbene», replicò Kraft. «Possiede una sorta di intelligenza. La nostra speranza è di metterlo nel sacco».
«Intende, servendosi di Mrs. Moran come esca?».
Kraft arrossì.
«Sì».
Carlotta guardava sopra la testa della dottoressa Cooley. Non poteva vedere gli ugelli piazzati nelle nervature metalliche della struttura della parete, ma si ritirò nervosamente dalla zona. Evidentemente fu tranquillizzata dalle assicurazioni della dottoressa, perché presto ritornò a sedersi, all'inizio piuttosto tesa, ma in seguito persino sorridente mentre parlava.
Gli studenti guardavano, quasi timorosi di respirare. C'era un tale silenzio che potevano sentire Carlotta dire sottovoce alla Cooley:
«Non ho paura. Non ho paura. Se riuscite a prendere il bastardo, non ho paura».
Tuttavia la dottoressa era preoccupata. Mai prima aveva maneggiato elio liquido. Insistette affinché venisse eseguito un getto di prova.
Nel minuscolo laboratorio al quarto piano, Kraft spense tutto tranne un'unica lampada ad alta intensità. Spinse una scatola di metallo ed i suoi comandi al loro posto sopra un ripiano nero di bachelite. Mehan, mani e braccia protette da grosse imbottiture, teneva un beccuccio di ottone a qualche centimetro dal petto. La Cooley sistemò un criceto, una rosa rossa e un po' di ammoniaca, che stava già gassificandosi, al centro del bersaglio.
«Supponiamo che questa zona sia il soggiorno», esordì la Cooley. «Noi dovremo isolare Mrs. Moran dal bersaglio».
Annuì a Mehan ed indietreggiò.
Ci fu un lieve sibilo, poi uno scoppio attutito, come il raddrizzarsi di metallo violentemente contorto. Emerse soltanto un sottile vapore, si diffuse rapidamente, gocciolando, spandendosi, poi fluttuando improvvisamente come una nube. Il ripiano fu spazzato da una corrente di aria gelata che scompigliò i capelli di Kraft.
«Gesù», balbettò. «Tutto bene, dottoressa Cooley?».
«Benissimo. E lei, Joe?».
«A posto, quassù. Aspettiamo un minuto che si riscaldi».
«Quella cosa è al sicuro?» chiese Kraft.
«Al sicuro e sotto chiave».
«Rimettila dentro alla sua protezione», ordinò.
Cautamente Kraft toccò la rosa. Si leccò le dita.
«Scotta», si lamentò.
«Non la tocchi per qualche altro minuto», consigliò la Cooley.
Mehan portò delle pinze al tavolo di lavoro. Il vapore colava acqua fredda lungo i lati del banco, ricoprendo il criceto, bianco dal gelo, la coda rigida simile ad un pezzo di metallo bianco su una superficie nera.
«Dio mio», sussurrò Kraft. «Solidificato dal gelo».
«Vede?» fece notare la Cooley. «L'acqua nelle cellule gela in pochi attimi».
«Che modo orrendo di morire», disse Mehan sottovoce.
«No, era anestetizzato. E la fine è stata istantanea».
Allungò la mano verso il fiore. Quando lo toccò, esso si frantumò delicatamente con il rumore di un cristallo, come neve verde e porpora. Il gambo ed i petali si sparsero intorno.
Mehan fischiò sottovoce.
«Noti la nube di ammoniaca», sussurrò la dottoressa.
«Dov'è?».
«È quella roccia bianca sul ripiano».
Il gas di ammoniaca riprese rapidamente a spandersi quando la temperatura cominciò a ritornare normale, malsano, sibilante, abbandonando pezzi di ammoniaca ancora solida.
«Gesù... l'avevo sempre vista allo stato gassoso», disse Kraft.
«Non ti avvicinare», ammonì Mehan.
Mentre la temperatura saliva, la nube si faceva più spessa, si frantumava, si alzava e gonfiava in una striscia verticale di gas.
«Pff, che puzza», osservò Kraft.
«Il problema è», disse la dottoressa, «se i ripari di vetro funzioneranno abbastanza in fretta da proteggere Mrs. Moran».
«E il vuoto fra le lastre sarà talmente perfetto da trattenere il freddo?» aggiunse Mehan. «Non vorrei che venisse colpita dal vetro esploso».
«Allora dovremmo sottoporre le porte ad un collaudo», suggerì Kraft.
Così fecero nel pomeriggio. Le lastre tennero perfettamente. Provarono anche l'apparato che faceva slittare i ripari al loro posto. Funzionò in un secondo e mezzo. Secondo Kraft era troppo lento. Sostituì i cuscinetti a sfera e le pareti scivolarono in mezzo secondo. Nel dubbio che lo schermo di vetro non potesse sopportare lo sforzo di venire sbattuto più volte in posizione, lo provò di nuovo e poi smise. Era convinto che avrebbe dovuto funzionare soltanto una volta, ossia quando l'elio sarebbe stato spruzzato nell'angolo del soggiorno.
Per aiutare Carlotta a rammentare la posizione delle lastre protettive, Kraft collocò dell'adesivo rosso lungo il tappeto e la parete. Segretamente temeva che la giovane potesse venir colpita da esse mentre si chiudevano. La loro velocità avrebbe potuto schiacciarla.
Ma non c'era ragione di preoccuparsi. La diffrazione che generava il raggio laser era sorprendentemente stabile. I serbatoi di elio erano sistemati su un carrello mobile lungo la passerella, per permettere un più facile accesso nel caso che l'apparecchiatura dovesse essere rimossa improvvisamente. Per il momento, tuttavia, i getti furono sistemati per formare una nube cumuliforme, indirizzata inutilmente verso l'angolo inferiore del soggiorno.
La giornata passava e nulla accadeva. Presto, secondo Kraft, preso da opprimente scoramento, avrebbero affrontato il problema dello smontaggio. Sarebbe stata anche quella una lunga veglia, ma certo peggiore.
Il dottor Weber prese il telefono e formò un numero. Dalla finestra osservò distrattamente il sole che scintillava sulle parti metalliche e sulle condutture delle cliniche mediche.
«Scuola di specializzazione? Il preside Osborne, prego. Qui è Henry Weber».
Per un istante tamburellò impaziente con le dita sulla scrivania. Poi guardò oltre i cumuli di documenti al dottor Balczynski, che sedeva davanti a lui, a labbra serrate.
«Ciao, Frank. Come stai?» disse Weber giovialmente. «Bene. Proprio bene. Il dottor Balczynski è qui da me e mi informa che lassù stanno manovrando un bell'equipaggiamento piuttosto pericoloso... con elio liquido e Dio sa cos'altro...».
Weber ascoltò per qualche secondo. Il dottor Balczynski accavallò le gambe, osservandolo.
«Nessuno nel corso della riunione ha immaginato neanche lontanamente che quelli avrebbero sottoposto il soggetto a qualcosa del genere. Un fatto è porre domande o gettare dei dadi sul tavolo, ma quando si corrono rischi come questo...».
Weber ascoltò, con un'espressione di disgusto.
«Lo so che è la loro ultima notte, però quanto ci vuole per uccidere una persona?».
Weber continuò ad ascoltare, alzò gli occhi al cielo poi riappese.
«Ebbene?» chiese Balczynski.
Weber si strinse nelle spalle. «Non riesco ad immaginarlo. Credo che non sappia che cosa fare».
«Abbiamo veramente bisogno della sua approvazione? Voglio dire... non è nei limiti della mia autorità annullare la ricerca?».
Weber sorrise amaramente.
«Lei ha molto da imparare sulla politica universitaria. Il preside Osborne deve assolutamente dare il benestare.
27
Alle 9,30 della sera del 24 maggio, Carlotta riuscì ad assopirsi leggermente, il primo sonno di cui godeva da più di venti ore. Kraft la osservava depresso sullo schermo, ben conscio che fra poco tutto sarebbe finito.
Carlotta era visibile su quattro monitors separati, mentre si girava e rigirava nel letto. Gli indici si muovevano. Alle 9,53 la dottoressa Cooley notò che si era verificata una caduta nella concentrazione ionica che avevano stabilito di mantenere allo stesso livello di Kentner Street. Ordinò a Kraft di alzarla di circa l'uno per cento.
Affascinati, osservavano in silenzio Carlotta che apriva gli occhi, sedeva sulla sponda del letto e buttava giù qualche veloce pensiero sul diario.
Kraft non riuscì a puntare la macchina da presa sullo scritto. Poi Carlotta si sdraiò di nuovo, apparentemente inconsapevole che parecchi occhi seguivano ogni suo movimento.
Alle 9,58 si udì uno strepito.
Carlotta avvertì una corrente d'aria, un flusso freddo. Neppure si voltò. Il cuore le martellava. Ebbe la presenza di spirito di tener presente dove fosse. Sapeva che stavano osservandola. Si voltò lentamente, ma non vide nulla.
Quanto è sfuggente. Come una nuvola invernale. Rotola, si gonfia come un cumulo, ma quando si guarda, già è sparito. Nell'aria. Quasi fosse un torrente di montagna quando si scioglie la neve e che scorre, scorre, scorre...
Si udì un altro strepito. Carlotta ansimò, alzò lo sguardo, si voltò, ma ancora una volta non vide nulla.
«Quel piatto... è volato dallo scaffale», sussurrò Mehan.
La stanza di controllo era una serie di occhi spalancati e di facce che sudavano, illuminate dagli schermi guizzanti.
Carlotta fece un balzo sul letto. Minuscoli spasimi le facevano tremare gli angoli della bocca. Aveva brividi di spossatezza. Si alzò in piedi e si guardò intorno come sorpresa di trovarsi di nuovo a casa.
«Ha dimenticato di essere qui all'università», commentò la dottoressa Cooley con voce soffocata.
Il corpo di Carlotta era teso. Non guardava più il buio che nascondeva gli apparecchi di controllo e le macchine da presa.
«Spero non si dimentichi quale sia la zona sicura», mormorò Kraft. «Nel caso ci si debba servire dell'elio».
«Se si dimentica, non lo useremo affatto», rispose la Cooley.
I loro volti si accostarono di più agli schermi.
Carlotta sembrava fiutare qualcosa. Il viso le si raggrinzì. Rabbrividì.
«La temperatura si sta abbassando», osservò Mehan.
«Controllare i comandi», ordinò la dottoressa. «Potrebbe essere il nostro termostato».
Carlotta si alzò, esplorò le stanze. Sbirciò nella camera da letto, come in cerca dei bambini.
«Ti prenderanno», sussurrò. «Se vieni stanotte...».
«Perché lo sta mettendo in guardia?» chiese Mehan.
«Può darsi che lo stia sfidando o dileggiando», sperò la dottoressa.
Fissarono i vari colori dei monitors, osservando come una Carlotta marrone, sfumata di verde alle estremità, fosse sdraiata e con difficoltà cercasse di dormire. Era una visione misteriosa.
«Spero che non si stia sottovalutando questa cosa», disse la Cooley.
«In che senso?» chiese Kraft.
«Non so...». La docente espresse con precisione il suo pensiero prima di continuare. «Ci siamo spinti straordinariamente lontani nell'invitare una forza sconosciuta nel nostro mondo e della quale non sappiamo nulla. Spero, se dovesse venire, non si debba poi vivere nel rammarico».
Squillò il telefono. La Cooley ascoltò per un momento, poi posò il ricevitore.
«È il dottor Balczynski», annunciò. «Sta venendo qui col dottor Weber.
Weber e Balczynski salirono in fretta le scale. Avevano presenziato ad una conferenza fin oltre le 8,30, poi avevano discusso la ricerca per quasi un'ora prima di stabilire di prendere il toro per le corna ed agire di propria iniziativa.
«Faccio una scommessa», disse Weber al collega. «O qualcuno asserirà di vederlo questa sera, oppure verranno fuori con una ragione pseudoscientifica del perché il fatto non si eterificato».
Il dottor Balczynski si aggrondò.
«Mi pare che sia un po' duro verso di loro», disse. «Sono come tutti gli altri. Desiderano studiare il mondo. E non lasciare nulla di intentato».
«Quando si alzano dei sassi si portano alla luce molti vermi. Un vero scienziato sa quando supera i confini di una giustificabile ricerca».
Balczynski si fermò per riprendere fiato quando raggiunsero il terzo piano.
«Ebbene, sono state settimane veramente interessanti».
«Per lei. Ma per Mrs. Moran?».
«Non sembra stia peggio del solito».
«È sicuro?».
«Ci scommetterei la mia reputazione».
«Non sia troppo categorico».
Quando raggiunsero la scrivania di guardia lungo il corridoio, uno studente corpulento li scrutò con attenzione.
«Il suo interno ci sta causando dei guai», avvertì.
«Il mio interno? Chi?».
«Sneidermann».
«È qui?».
«Non riusciamo a liberarci di lui».
Weber mosse un passo, ma fu bloccato dallo studente.
«La dottoressa Cooley vi accoglierà solo a condizione che lei accetti di far uscire Sneidermann».
Weber fischiò tra i denti. Si rivolse al dottor Balczynski.
«Vede con che genere di nazisti abbiamo a che fare?» sussurrò.
Mentre si approssimavano alla sala di controllo, udirono una voce caustica, prontamente zittita da implorazioni sussurrate di stare tranquillo. Weber riconobbe la figura energica di Sneidermann che misurava il pavimento a gran passi.
«È isterica», il giovane disse subito a Weber.
Il primario sbirciò un monitor.
Carlotta in vestaglia stava girando per quella che pensava fosse la sua casa, fregandosi nervosamente il gomito con la mano. Era spaventata, come se fosse in attesa di un visitatore, un segno, un rumore improvviso. Continuò a camminare avanti e indietro lungo una zona indicata da strisce di adesivo rosso.
«È certamente eccitata», convenne Weber.
Carlotta improvvisamente si arrestò, guardandosi in giro. Era accesa soltanto la luce della camera. Rendeva la sua pelle morbida, ma stranamente colorata, come rosa-giallo.
«Che cosa c'è... hai paura?» gridò improvvisamente.
Kraft e Mehan alzarono di colpo la testa per la sopresa.
«Sta parlando di nuovo con lui», disse Mehan. «Ne percepisce la presenza».
Sneidermann si sporse in avanti, sussurrando all'orecchio di Weber.
«Apriamo la porta», sibilò. «Sfondiamola se necessario, ma facciamola uscire da quel posto fottuto».
«Sono incerto», replicò il primario, sfregandosi le labbra nervosamente. «Mi lasci parlare alla dottoressa Cooley».
Ma questa era impegnata ad impartire le ultime istruzioni a Kraft sull'apparecchiatura ad elio. Questi, dal canto suo, stava preparandosi a che cosa fare per portarsi sulla passerella e variare l'angolazione del getto, nel caso si fosse reso necessario un secondo spruzzo.
«Elizabeth», sussurrò il dottor Weber. «Quanto durerà ancora questa faccenda?».
«Qualche ora».
Weber controllò l'orologio.
«Ha bisogno di dormire. Ti consiglio di tener conto delle conseguenze mediche di quello che stai facendo».
«Abbiamo meno di due ore a nostra disposizione, Henry. Sii così bravo da concedermi il diritto di continuare».
Il dottor Weber uscì stizzito. Si rese conto, nel buio, che Sneidermann non era da nessuna parte.
«È andato a cercare un poliziotto», sussurrò uno studente.
«Merda», imprecò Weber. «Non c'è bisogno».
Informò lo studente di guardia al corridoio, che telefonò alle porte dell'edificio. Sneidermann fu bloccato da un messaggio: il dottor Weber minacciava l'immediata sospensione dal programma di studi degli interni qualora fosse uscito.
«È un falso messaggio?» chiese subito Sneidermann.
«Assolutamente no. Controlli di sopra».
Il giovane corse verso l'ascensore.
«Ha ricevuto la mia comunicazione?» chiese Weber.
«Allora era autentica».
«Naturalmente. Non abbiamo bisogno di sbirri che ci girino intorno. Che cosa ha in mente?».
«Devono essere fermati».
«Questa è un'università, non il sud di Chicago. Non deve fare cose del genere».
Sneidermann guardò il volto stanco ed arrossato del dottor Weber. Capì che da ora e per sempre ci sarebbe stata una barriera tra loro. Era vero che uno psichiatra doveva evitare dal farsi coinvolgere da una paziente. Ma al momento, il comune senso umanitario richiedeva azione. Se il dottor Weber era così paralizzato da una vita intera passata all'università, dove la politica e la soggezione assicuravano la sopravvivenza...
«Non dovremmo farla dormire da sola nella sua casa», protestò calorosamente Sneidermann. «Perché diavolo lasciarla in preda a simili alienati?».
«Non sono degli alienati, Gary. Inoltre, bisogna fare altre considerazioni».
«All'inferno le altre considerazioni».
«Non usi questo linguaggio con me, Gary».
«L'ho seguito per due mesi mentre faceva la gatta morta intorno a questi maniaci. E tutto nel nome delle relazioni accademiche!».
«Gary, l'ho avvertita!».
«Diavolo, questo è soltanto un altro nome da dare alla vigliaccheria».
Il dottor Weber squadrò Sneidermann con ira. Ciò che lo feriva maggiormente era lo sguardo di delusione negli occhi del giovane, come se un velo fosse caduto, rivelando il suo eroe come un vecchio stanco e compromesso. Il primario deglutì nervosamente.
«Non vada alla polizia, Gary», lo supplicò. «Per lei uno scandalo non è nulla. Ma c'è in gioco tutta la mia carriera, la mia permanenza all'università».
Sneidermann guardò irritato il dottor Weber. Poi esclamò: «Ha intenzione di fermarli? Immediatamente?».
«No. Hanno il diritto...».
L'interno girò sui tacchi e si diresse verso le scale.
«Gary!» chiamò il primario.
Si sporse dalla tromba delle scale.
«L'avverto, Sneidermann!».
Colse una visione del giovane che scendeva di corsa. Si sentì precipitare in un baratro. Non si era reso conto di quanto affetto avesse portato a quell'allievo. Dopo un momento si recò all'estremità dell'atrio e guardò fuori della finestra. Nella notte le luci dell'università si levavano da luoghi strani, dalle rastrelliere per le biciclette, dal parcheggio delle auto, da un campo di gioco. Quanti anni aveva trascorso nell'enorme complesso continuamente in fermento di uomini e di idee. Quanti penosi sacrifici, quante discussioni, quanta devozione.
Il dottor Weber si sentiva confuso. Sino ad allora non aveva mai dubitato del valore del suo lavoro. Sneidermann l'aveva distrutto con uno sguardo, rivelandogli la nullità di trent'anni di eccessiva sicurezza, di dure lotte accademiche, di isolamento dal resto del mondo.
Si staccò dalla finestra. Non c'era rimasto nulla da fare, tranne che ritornare a sorvegliare l'esperimento finché non fosse finito, ed essere sicuro che non accadesse nulla di peggio e quindi di volata mettere Carlotta in cura. Probabilmente non con Sneidermann, pensò. Ma il pensiero lo angustiava troppo per fermarcisi sopra. Quando giunse nella sala di controllo, Kraft sussurrò: «Le guardi il viso. C'è una variazione di luce».
«È soltanto una irregolarità nella trasmissione...».
«No, guardi! È limitata a quella zona dell'immagine... come se ci fosse qualche cosa appena fuori del campo della macchina da presa».
Mehan studiò più attentamente la registrazione. Carlotta sedeva nella quasi oscurità, ed una luce cadeva dall'alto su di lei, crescente e calante e le faceva brillare i capelli neri.
«Non può far ruotare gli apparecchi?» chiese Balczynski.
«No», rispose Kraft, «il loro angolo è fisso».
Carlotta indietreggiò strisciando contro le pareti della camera. Fissava un punto fuori dal campo della macchina da presa, sopra le ante dell'armadio. Il dispositivo termovisivo mostrava che la zona era di circa 5 gradi più fredda.
«Ecco... se riuscisse ad attirarlo nell'area raggiungibile dalla miscela congelante», sussurrò Kraft.
Carlotta urlò.
Un suono crepitante fece saltare un indicatore. I microfoni si spensero. Kraft premette un pulsante ed i circuiti si riaprirono.
«Ti intrappoleranno! Ti uccideranno!».
«Ora lo sta decisamente avvertendo», osservò Kraft.
«Per essere più precisi», intervenne il dottor Weber, in piedi sulla porta, «sta scivolando in un'allucinazione psicotica».
«Assolutamente no», protestò la Cooley.
«Ma non vedi nulla, Elizabeth. Soltanto una stanza vuota».
«Ci sono dei lampi sopra la sua testa», insistette Kraft.
«Potrebbero essere causati da qualsiasi cosa: una luce vagante, una porta aperta...».
«Era angolata verso il basso, da sopra, proprio come nella sua vera casa».
Weber tacque. Improvvisamente si rese conto di non avere il coraggio di pretendere che la porta venisse aperta e Carlotta allontanata. Non si spiegava come la sua volontà fosse stata vinta da questa ricerca. Guardava affascinato gli schermi.
Nell'atrio, Sneidermann si arrestò alla scrivania.
«Mi scusi», disse lo studente. «È permesso l'ingresso solo al personale autorizzato».
«È autorizzato dall'università», disse una voce burbera.
Il preside Osborne si fece avanti da dietro le spalle del giovane, le mascelle contratte per l'ira.
«Sono il preside della scuola di specializzazione», dichiarò lentamente ma chiaramente. «Desidero ispezionare le vostre attrezzature».
«Sì, signore», balbettò lo studente. «Da questa parte, signore».
Passarono nel buio corridoio. Il preside fece una smorfia.
«Che cosa diavolo è questa puzza?» mormorò.
«Quale puzza?» chiese Sneidermann.
«È come di carne andata a male».
Nella sala di controllo l'odore era di sudore e fumo. Osborne si schiari la gola.
«Credo sia venuto il momento», disse, «di porre termine alla ricerca».
La dottoressa Cooley si voltò di scatto e lo vide sulla soglia insieme a Sneidermann.
«Non può cedere alle insistenze, Frank», disse. «Il senato. ..».
«Che vada a farsi fottere il senato», imprecò Osborne. «Questo giovanotto sostiene che state torturando la donna».
«È assurdo. Veda lei stesso!».
«Sto guardando... e mi sembra mal conciata».
Kraft si voltò sulla sedia, con le mani piene di grafici e appunti.
«La diffrazione del laser», disse eccitato, «sta cambiando. Si nota la presenza di onde addizionali a bassa frequenza».
«La ricerca sta per essere sospesa, giovanotto», ribatté Osborne con tono autoritario. «Spenga le macchine e lasci questo posto».
«Ma l'abbiamo preso. I grafici... lo provano. Le onde a bassa frequenza sono causate da una materia vivente...».
«Lei è pazzo!».
«Guardi lei stesso, preside Osborne», suggerì Mehan.
Sugli schermi era apparsa una zona colorata che sovrastava le ante dell'armadio, spostandosi lentamente verso il pavimento. Pareva traslucida, risplendeva di un leggero rosato che passava all'arancione e poi lentamente sfumava verso il rosso cupo.
«È un trucco», ruggì Osborne.
Ma nessuno l'udì.
Carlotta era in piedi nel corridoio. Appariva esausta e atterrita. I capelli erano scomposti, sembravano bagnati di sudore e guardava con aria folle. Si accorse che la traslucidità rotolava lentamente verso di lei.
«Ecco», sussurrò Kraft. «Portalo nel soggiorno».
«Preside», suggerì concitatamente Sneidermann. «Blocchi subito questa pazzia».
Ma Osborne era paralizzato dalla vista degli schermi. La zona rossa sembrava essere aumentata di consistenza e non più trasparente. Era quasi rotolata fino al soggiorno, ma sembrava incapace di varcarne la soglia.
«Va bene», sillabò Osborne, esitante e debolmente. «Apriamo la porta».
In quel preciso momento, Carlotta urlò.
Tutti gli occhi erano fissi sugli schermi televisivi. L'apparecchio di termovisione segnalava che la massa rotolante era divenuta sempre più fredda e si avvicinava allo stadio del gelo. Poi i monitors si oscurarono. Quando ripresero a funzionare, Carlotta era all'estremità del locale.
Ci fu un'altra improvvisa fiammata. Un monitor trasmise una luce bianca ed indistinta.
«È la macchina da presa», annunciò Kraft. «È entrata in corto-circuito».
«No. Ha registrato uno sprazzo vivido, Gene», sussurrò Mehan. «Ecco che cosa è stato».
Carlotta era appoggiata alla parete più lontana del soggiorno, nell'area del bersaglio e riprendeva fiato. Si mise accucciata contro il muro, poi si riprese e scosse il capo. Il viso era quello di una persona le cui riserve sono da tempo esaurite.
Ci fu un attimo di immobilità sinistra.
«Bastardo!» urlò Carlotta. «Schifoso odore di morte!».
Si rannicchiò contro la finestra. Un globo di luce, due volte più grande, si librò sull'ingresso verso il corridoio, avanzando lentissimamente nel soggiorno.
«Bastardo!» lei sibilò di nuovo.
Si udì un sordo brontolio che scosse la sala di controllo, staccando minuscole scaglie di intonaco come un turbine di neve.
Gli occhi di Osborne si spalancarono per la sorpresa. «Che cosa diavolo è? Un terremoto?».
Sui monitors, la luce era diffusa, come se girasse in circolo per trovare lei, come se frugasse. Carlotta si accostò pian piano alla cucina.
«Vieni», urlava. «Vieni a prendermi, adesso che ho il mio esercito».
«Eccolo!» sussurrò Kraft, febbrilmente. «È lui!».
Ora lo vedevano tutti come un globo di luce posato leggermente sulla soglia del corridoio. Sobbalzava, si dimenava ad ogni urlo di Carlotta, come se capisse.
«Portalo nell'area del bersaglio», incitò Kraft, con il fiato sospeso.
Sneidermann guardava attonito. Carlotta sembrava che lo fissasse apertamente e la vestaglia le era scivolata così in basso che il seno era quasi scoperto. Gli occhi, per la mancanza di sonno, per il terrore folle, il giubilo, il senso di trionfo, l'audacia suicida, avevano uno splendore pazzo, uno splendore che Sneidermann interpretò come desiderio sensuale. Osservò il corpo di lei che si spostava sinuosamente contro la parete, indietreggiando sino al soggiorno, la schiena contro l'intonaco, le gambe esili ma dalla forma perfetta.
Arrossì, come se con quello sguardo lei gli stesse leggendo i pensieri più segreti, o scoprendo i tormenti più terrorizzanti dell'adolescenza. Per lui si era trasformata nell'immagine della donna stessa, inaccessibile, terribile, divoratrice, eppure irresistibile e seducente. Lo sguardo di Sneidermann era fisso su quel sorriso che distruggeva la sua virilità col cinismo e l'amarezza.
«Tu, nullità», ridacchiò lei.
Sneidermann si sentì perduto in un mondo buio senza nessun sostegno.
«Tu, nullità assoluta», sibilò lei. «Tu, miserabile fetore!».
Kraft, agitato, capì che era vicinissima a far scattare le lastre di protezione.
Sull'ologramma, Mehan col fiato sospeso osservava una stanza in miniatura, ma a tre dimensioni ed a colori, in cui una minuscola Carlotta ingiuriava qualche cosa appena fuori campo, qualcosa che emanava un bagliore.
Si girò freneticamente a Kraft. «L'ologramma non lo prende, Gene».
Questi scattò verso un registratore, portò indietro il nastro e ripeté la scena sul monitor. Con sua costernazione, anch'esso non rivelava la forma di luce. Volse un viso ansioso alla dottoressa Cooley.
«Le nostre macchine non lo riprendono».
Ma la docente era troppo avvinta da quanto si svolgeva sui monitors e sottovoce incitava: «Blandiscilo. Provocalo».
Carlotta, ignara, si appiattì ulteriormente contro la parete. Il globo di luce era sospeso, immobile, come una nube all'alba.
Per il minuto successivo tutti osservarono la forma di luce. Si muoveva così lentamente che fu un'emozione rendersi conto che aveva cominciato a coagularsi. Certe zone erano sul punto di somigliare alla muscolatura di un uomo potente.
«È troppo vicina all'elio», gemette Kraft.
«Allora cambi l'angolazione», sussurrò la dottoressa Cooley.
«Non posso. Non da qui!».
«Urli, Mrs. Moran», gridò Mehan ai monitors. «Come ha fatto prima».
Kraft si rivolse alla dottoressa.
«Vado giù», disse. «Vado giù a spostare l'ugello dell'elio».
«Sì. Sì».
Il giovane uscì dalla sala e incespicò nell'oscurità del corridoio. La mano afferrò la maniglia del laboratorio. Questa girò. Improvvisamente rimase paralizzato per la paura. Si udì un rumore stridulo di metallo.
Aprì la porta, si infilò all'interno e corse su per la passerella. Raggiunse il contenitore e cominciò a liberare le condutture. Sentì la porta di sotto chiudersi di colpo. Cominciò a tremare così forte che le dita non facevano presa sul metallo. Era spaventato. Malgrado tutto, fu obbligato a guardare giù.
Carlotta urlava verso il globo contro la parete. Ad ogni spregevole insulto, esso balzava indietro, come fisicamente colpito, ma in modo inequivocabile delle braccia si erano coagulate dalla massa, ed ora stavano emergendo le spalle.
Inebetito, Kraft diede uno strattone ai contenitori e li spostò lungo la ringhiera. Si sporse pericolosamente e cominciò a liberare l'ugello del getto.
«Vieni avanti, bastardo!» urlava Carlotta. «Mostra il tuo brutto muso. Oppure hai paura, ora che ho il mio esercito?».
La forma si arcuò e si alzò, come un gesticolante ministro del culto bloccato in pieno sermone ad un pubblico indifferente... Carlotta rideva.
«Sporco cazzone. Vigliacco!».
Non vedeva Kraft là sopra, non vedeva l'ugello spingersi verso di lei.
Le striature interne della forma di luce cambiarono in una miriade di colori indefinibili e Kraft le vedeva attraverso il mobilio e la parete. Ma era paralizzato da quella specie di massa gelatinosa che si contorceva in una forma, incapace di fuggire o di avvicinarsi maggiormente a Carlotta.
Era come guardare un'allucinazione. I punti irradianti rivelavano migliaia di forme complicate e tutte sparivano a mano a mano che si coagulavano. Era come guardare il pensiero, che si formava e poi si cancellava...
Si librava, quasi in attesa, gemendo così piano che i microfoni non lo registravano.
«Crepa», urlò lei improvvisamente. «Crepa. Crepa!».
Nello stesso momento si udì un colpo, un'esplosione. Dei pezzi di ceramica sfiorarono la testa di Kraft. I cocci di una terraglia, un souvenir di Olivera Street, si frantumarono contro la ringhiera di ferro e accompagnato da un cupo brontolio si avvertì un tremolio ed una scossa all'intero salone. La passerella ballò sotto i piedi del giovane, mentre la forma si contorceva, compiendo dei segni verso Carlotta.
Il suono assordante fece impazzire i contatori nella sala di controllo. Mehan si strappò la cuffia dalle orecchie rintronate. Poi ci fu di nuovo silenzio.
Con la mano destra, Kraft era afferrato alla ringhiera per sostenersi, mentre con la sinistra puntava il beccuccio dell'elio verso il centro dell'entità. Col dito sul pulsante, voleva premerlo, ma non osava. Carlotta era dal lato sbagliato.
«Dov'è il tuo cazzone?» gridava lei. Il volto era contratto dall'odio, con uno sguardo così minaccioso che Sneidermann non l'avrebbe creduto possibile. In sua presenza Carlotta non si era mai comportata così. Sembrava cattiva, persino pericolosa. Somigliava al mostro della letteratura classica. Il volto grazioso era irriconoscibile e gli occhi lampeggianti di un curioso senso di trionfo. Come se, malgrado tutti loro e tutte le attrezzature, lei l'avesse chiamato. Attraverso l'universo. Nell'universo in cui si trovava lei.
Kraft osservava dall'alto. Il corpo della giovane si muoveva flessuoso. Seducente. Teneva la schiena contro la parete, la vestaglia le era scivolata dalle spalle e il seno era scoperto...
La parete dietro di lei tremò, s'incrinò, finché non ci fu più e rimase soltanto una cascata di intonaco e di traversine di legno. Quella più lontana del laboratorio divenne visibile attraverso la polvere.
Kraft capì quanto aveva voluto dire la dottoressa Cooley. Era come giocare con un parafulmine nel mezzo di un temporale d'estate. Non c'era modo di dominare la massa di energia che avevano attirato nel laboratorio.
Inghiottì, guardando verso il basso. La forza fisica si era agglomerata. Aveva forma e volume. Sì, era visibile ad occhio nudo. Lineamenti appiattiti, muscolatura potente, fallo in erezione, un'ardente, pulsante massa di desiderio incarnato, con un unico e solo obiettivo: Carlotta Moran. Che si dimenava, si contorceva, come nella stretta di un uomo possente. Quasi stesse cominciando un sogno. Quello che stava vedendo aveva forma e caratteristiche da alterazioni psichiche del cervello. Ciò di cui era composto, l'energia che lo produceva, forse arrivava da chilometri di dati delle varie apparecchiature. Certamente era potente, forse non un'onda, forse apparteneva ad un genere diverso. Eppure aveva un cervello che lavorava freneticamente e gradatamente cominciò ad avviluppare l'obiettivo del suo desiderio contorto. Kraft rimaneva pronto, di fronte all'entità, col tubo tenuto davanti a lui come una spada, una pistola dall'impugnatura sottile, un'arma assurda ed ingenua a sfidare tanta forza terrificante.
«Crepa», si udì Carlotta strillare. «Crepa!».
Ci fu uno stridio metallico.
Con la coda dell'occhio, Kraft vide disintegrarsi le strutture di ferro che portavano alla passerella. Bulloni volavano dappertutto. Piovevano su Carlotta, che si allontanava dall'incombente violenza dell'entità portandola alla parete più lontana.
Nella sala di controllo, gli schermi dei monitors mostravano deformazioni di forma e di colore che era arrivato ad un brutto marrone-porpora, sfumato di verde, mentre la bassa temperatura cominciava ad espandersi dalla stanza verso Carlotta.
Il preside Osborne inghiottì, incapace di comprendere quanto stava vedendo.
«Che cosa diavolo è?» balbettava al dottor Weber, in piedi al suo fianco.
Questi fece un gesto imprecisato. «Un'illusione di massa», replicò, senza convinzione.
«Per carità, Gene», gridò Mehan nei monitors. «È il momento. Distruggilo».
Nello stesso istante, Kraft stava appoggiato alla ringhiera, urlando: «Mrs. Moran. Si tiri indietro».
Carlotta si voltò e alzò lo sguardo. Non aveva idea di chi fosse Kraft.
«Si tiri indietro».
Carlotta lo fissò ed indietreggiò di un passo, portandosi appena oltre le strisce di adesivo. La massa bianca si contorse lentamente, né liquido, né gas; la testa era chiaramente evidente; il corpo appariva gigantesco, nerboruto, muscoloso; il pene, come frutto oblungo, sporgeva minaccioso verso di lei.
Kraft, con gli occhi sbarrati per l'orrore e lo stupore, alzò il beccuccio del getto.
«Salti», urlò.
Le lastre di protezione scattarono sulle loro guide. Kraft sparò una raffica di elio. Si ebbe come uno scroscio di vapore. Un freddo tremendo lo avvolse, nascose le porte orientali del laboratorio. Kraft non vide nulla e non udì nulla. Le orecchie gli rintronavano dolorosamente ed il corpo fremeva per la ripugnanza. Si rese conto di essere stato sbattuto indietro contro la parete. La spalla gli doleva.
«Muori, bastardo. Muori!» urlava Carlotta da dietro le lastre di vetro.
L'entità si contorse come per l'angoscia, poi si mise a dilatarsi rabbiosamente. Cresceva, fluttuava, schiacciava i residui dell'intonaco delle pareti come fossero zucchero filato. Metà della casa, la cucina e la camera, fu coperta da una lastra di ghiaccio. Le sedie si spaccarono schioccando e ballarono pazzamente sul pavimento. Un paralume cadde, emettendo scintille, frantumandosi come vetro, mentre il tessuto schizzava verso l'alto in frammenti tintinnanti.
Carlotta rideva. Nel delirio, immaginava astronauti che lo colpivano con pistole a raggi. Immaginava l'estremità di Kentner Street disintegrarsi in una nevicata. Immaginava il mondo crollare sopra di lui, sotterrandolo per sempre. Avrebbe voluto ucciderlo. Ucciderlo anche se era in qualche maniera rievocato da lei e sebbene fosse lontano milioni di anni luce.
L'apparecchio televisivo venne scagliato attraverso il soggiorno. L'intonaco volò fino alla passerella ed ai passaggi che la collegavano alla sala di controllo. Pezzi di computers ciondolavano dalle pareti protette dal niobio o venivano sbalzati attraverso il corridoio oltre il laboratorio. Era l'apocalisse del suo regno, e Carlotta rideva.
Allora, come uno strepito metallico, come se scuotessero le fondamenta dell'edificio, ne udirono la voce.
«Lasciami solo».
Fu come un lamento salito dalle profondità dell'inferno.
«Gesù» esclamò il dottor Weber. «Chi ha parlato?».
«La sua allucinazione, dottor Weber», gridò trionfalmente Mehan. «Ecco chi».
Improvvisamente, davanti a loro, l'unica finestra translucida si ruppe dall'interno, come un'onda, spargendo a pioggia dei piccoli ma pesanti pezzi di vetro su strumenti, scatole ed apparecchi. La dottoressa Cooley e Mehan furono schiacciati sulle loro sedie. Il preside Osborne cadde addosso al dottor Weber, che si aggrappò a Gary Sneidermann.
«Mio Dio», gridò Balczynski, lottando per restare in piedi. «Squagliamocela».
Però nessuno si mosse. L'intero locale riluceva di una foschia verdastra. Tutti i volti erano illuminati da sotto dal magico bagliore della massa di luce in espansione.
«Lasciami solo!» ripeté la voce mentre la forma azzurro-verde si allungava e cresceva, riempendo le camere, estendendosi, distendendosi, finché si levò sopra la lastra di vetro che proteggeva Carlotta. Lei si ritirò nell'angolo, avvertendo l'inevitabile, aspettando l'inesorabile risucchio in lui.
In alto, la passerella ballava come una gruccia presa dal vento. Kraft abbrancato alla ringhiera brandiva saldamente l'ugello dell'elio. La forma aveva riempito la camera, alzandosi sopra le rovine, mettendo in mostra una serie di fori simili al cervello embrionale di un feto e che risaltavano lungo ciò che sembrava essere una spina dorsale. La figura si levò, sempre più in alto, verso la sala controllo, verso la passerella, verso Kraft.
«Uccidilo!» strillò Carlotta.
Kraft aprì di colpo la valvola. L'elio liquido uscì per la seconda volta dal beccuccio. Sei ghiaccioli formatisi nella raffica precedente scoppiarono in una pioggia di fiocchi. Questa volta, Kraft si era armato di coraggio contro la repugnanza. Vide l'elio verdastro quasi immediatamente mutare in bianco mentre usciva attraverso l'ugello diretto al vero centro nervoso dell'entità. Si udì un rombo di tuono, mentre il soffio gelido attanagliava il corpo. Le luci si spensero. Contemporaneamente Kraft avvertì la passerella cedere sotto di lui.
Dentro la buia stanza di controllo, sei figure erano raggruppate in attesa del colpo che sicuramente sarebbe venuto. Il fracasso del metallo che si disintegrava e il crollare delle pareti colpì i loro timpani e la sala fu scossa come un giocattolo nelle mani di un bambino nervoso. Sembrò dovesse andare in pezzi staccandosi dalla sua struttura, poiché, dopotutto, non era una parte integrale del laboratorio, un elemento previsto dall'architetto, ma un'aggiunta successiva. Un elemento temporaneo di quella che certamente era risultata una ricerca mal concepita. La sala tremò, ma in qualche modo resistette. Gradatamente, le scosse diminuirono e poi cessarono. Ma erano loro a tremare ancora, in attesa della fine. Che però non venne.
«Dottoressa Cooley?» sussurrò Joe Mehan.
«Sto bene», replicò lei, ma con voce strana.
Sotto divenne visibile una specie di fluorescenza. Era il freddo incredibile che deformava le assi del pavimento, schizzando chiodi come proiettili quando si staccavano. Il preside Osborne si appoggiò pesantemente contro la parete. Minuscole esplosioni si verificavano in basso. Vetro e materiali la cui struttura molecolare era cambiata, e tutto si frantumava, pezzo per pezzo, come un petardo. Le pareti del laboratorio, le pareti esterne, cominciarono a lasciar cadere intonaco nei corridoi periferici.
Agenti di sorveglianza dell'università, attratti dal fracasso, entrarono dal corridoio più basso. Le torce frugavano tra le rovine gelate, mentre cautamente si facevano strada attraverso i vetri rotti ed i grovigli metallici. Poi, con scale mobili, liberarono le persone prigioniere nella sala di controllo. Scendendo in quella che era stata la copia di una casa, il volto pallido della dottoressa Cooley fu scoperto dai raggi delle pile in movimento.
Con voce rauca gridò: «Gene? Gene?».
Silenzio.
«Balczynski!» ringhiò il dottor Weber.
«Sono qui», rispose una voce tremante.
Il preside Osborne si ritrovò in piedi vacillante al centro dei grovigli di metallo. Improvvisamente avvertì un movimento sotto i piedi.
«Qualcuno è sotto questo inferno», urlò.
Joe Mehan e la dottoressa Cooley aiutarono gli agenti a districare Kraft dal mucchio di metallo freddo. Il volto del giovane era tumefatto e del sangue gocciolava sulla camicia. Era svenuto, ma vivo. Fu chiamata un'ambulanza. Joe Mehan ripulì il viso ed i capelli dell'amico da pezzi di vetro e di filo metallico, e posò l'ugello dell'elio che questi teneva ancora stretto nel pugno. Il volto di Mehan era color cenere ed i suoi movimenti legnosi. Era come una marionetta a cui fossero stati tagliati i fili. I suoi occhi tristi cercavano quelli della Cooley.
«È tutto finito», gemette. «E non abbiamo ottenuto nulla».
«Abbiamo ottenuto tutto», lo corresse fermamente la dottoressa Cooley. «C'erano molti testimoni».
Nel frattempo, ancora smarrito, Sneidermann andava a tastoni tra i rottami, borbottando tra sé, calpestando pezzi di tessuto gelato e ancora fumante, cercando di decifrare il significato di quanto aveva visto, mentre si faceva strada verso Carlotta.
Quando però arrivò alle lastre di vetro e fu in grado di guardare faticosamente oltre la superficie gocciolante ed annebbiata, non la vide. Non la si trovava da nessuna parte tra le macerie di quella che aveva simulato la sua casa. Non fu trovata neppure dopo una febbrile ricerca nell'edificio di psicologia.
Inebetito, stordito, moralmente distrutto, a Gary Sneidermann parve che, fra tutti gli avvenimenti bizzarri della più bizzarra delle notti, Carlotta, come l'entità, fosse semplicemente svanita in una nube di fumo.
28
Carlotta varcò la soglia di quella che era stata la sua casa di Kentner Street.
(Come era arrivata li?).
Era vuota di mobili. La luce lunare, pallida incandescenza filtrata da un tetto di nuvole basse sopra la città, illuminava le assi del pavimento. L'aria era immobile, le ombre profonde negli angoli. Sul pavimento c'erano i segni di dove stavano il divano e la televisione. Carlotta chiuse a chiave la porta.
(C'era arrivata a piedi?).
Non accese la luce, preferendo il buio. Rimase in ascolto. Uccelli lontani, tranquilli, solitari, lanciavano il loro saluto mattutino. Segni ineffabili del disegno della natura, le interdipendenze di tutte le cose viventi. Dei cani abbaiavano, così tardi nella notte e così presto la mattina.
(No, aveva preso l'autobus).
L'aria era viziata, stagnante. Camminò sino al centro del soggiorno, dove il luccicore della luna si era spostato di parecchi centimetri da quando era entrata. Aprì una finestra e si appoggiò pensosa al davanzale. La casa dei Greenspan, con vetri a piombo che davano sul portico, con la sua massa scura, pesante e protettiva, rifletteva la pallida luce dell'alba.
(Aveva pagato?).
Che pace c'era. Carlotta guardò attraverso la porta che dava in cucina. I mobili erano spariti e rimanevano rettangoli più chiari sul linoleum. Tutte le cose che avevano tentato per farla stare meglio, alla lunga erano rimaste senza risultato.
(Era troppo pensarci ora).
Carlotta entrò nella camera. Quattro segni rotondi sul tappeto dove c'era stato il letto. (Come avevano fatto a farlo uscire?). Non più tendine. Nessun tavolinetto. La luce della strada entrava attraverso i vetri polverosi, suggerendo forme sul pavimento.
Aprendo la finestra, arrivò a Carlotta il profumo del suo minuscolo giardino. Un odore delicato, inebriante. Gli insetti notturni si arrampicavano sugli steli, sulle foglie e persino lungo i davanzali. La brezza le arruffò leggermente i capelli. Le rinvigoriva i sensi.
Quando si voltò, Julie era nella stanza.
Carlotta non era sorpresa. Non era reale. Nulla era reale. Era tutto un'invenzione. Julie sembrava osservarla in modo strano, obiettivamente e poi lentamente si trasformò, si fece trasparente e diventò di nuovo forma e macchia sulla parete. Carlotta si guardò intorno nella stanza che era stata la sua per tanto tempo. La stanza che nessun uomo aveva condiviso. Sino all'arrivo di Jerry. Ma Billy era divenuto ostile. Vagamente, quasi impalpabili come fili di ragnatele strappate dalla brezza, tutte le connessioni erano lì; da qualche parte, in attesa di essere intrecciate insieme. Ma Carlotta era incapace di farlo. La camera era tranquilla. Lo scintillio si spostò lungo la parete mentre lei aspettava.
Carlotta sentì gli insetti sulla mano. Li ributtò delicatamente nel giardino. Essi l'osservarono, con le antenne tese. Quale magica realtà possedevano? Carlotta sapeva che erano guidati dall'istinto, irresistibili nella loro strada, per cui la realtà umana era una nuvola effimera confrontata alla sostanza solida di cui si nutrivano e le spinte brutali che organizzavano le loro vite. Li guardò. Sembrava che la loro fosse una realtà ben più consistente.
Ora sapeva perché aveva dovuto tornare a casa. Per arrivare al luogo ultimo. Il luogo da cui non era più possibile ritirarsi.
Si udì rumore nel soggiorno. Un colpo di tosse. Carlotta andò alla porta della camera. Jerry era lì, con la valigia ai piedi. Sorrideva timidamente. Con aria colpevole, confuso. Contemplava Carlotta come se implorasse perdono. Si guardò intorno, facendo un gesto di sconforto, poi sorrise, pregando con lo sguardo.
«Oh... Jerry!» sussurrò Carlotta.
Con le lacrime che le scorrevano lungo le guance, corse in avanti. Le braccia di Jerry si tesero e la abbracciarono. Le sue mani le cercarono la guancia. Gli occhi morbidi la fissavano in volto. Tremava.
«Oh... Jerry...!».
Lei gli baciò le mani, ancora ed ancora. Alzò lo sguardo vivacemente.
«Jerry!».
Ma Jerry era sparito. Al suo posto Carlotta vide Kim, con il corpo di una gobbetta, strisciare sul pavimento del soggiorno, ansando in maniera lubrica. Un fulgore azzurro-verde riempì la stanza al centro. Carlotta indietreggiò verso la camera, appoggiandosi alla parete del corridoio. La stanza smise di ondulare. Lontano si sentivano richiami di uccelli diversi. Lentamente riprese fiato. Ora la luce lunare si era spostata di qualche altro centimetro, passando dal pavimento alla parete sporca.
Carlotta udì un rumore. Veniva dalla camera.
Billy, nell'ombra, si tolse la canottiera. Il raggio di luce gli carezzò i muscoli. Le ombre del giardino giocavano sul suo petto. Guardò Carlotta. Con gli occhi scuri, imbronciati e beffardi, muoveva nervosamente le mani sulla fibbia della cintura.
«Billy...» sussurrò Carlotta. «No...».
Billy si tolse i pantaloni, rivelando le gambe robuste e muscolose ed i genitali pieni, pesanti.
«Due piccole ed uno grosso...».
Il ragazzo rise senza allegria. Posò con cura i pantaloni sul pavimento e si fece avanti, verso la madre. Il suo corpo massiccio schermava il chiarore delle finestre polverose dietro di lui. I fianchi gli si muovevano mentre avanzava.
Carlotta urlò. Si coprì le orecchie con le mani e corse nel soggiorno. Con sua sorpresa, Billy non la seguì. Si voltò. La luce della strada si rifletteva sul tappeto consunto della camera, raggiungendo quasi il corridoio. Che era vuoto.
Lentamente, Carlotta si calmò. Di tanto in tanto, le imperfezioni nelle pareti del corridoio, difetti di una costruzione a buon mercato, suggerivano le forme di macigni. Di canyons. Di montagne. Poi tornavano pareti. Le indescrivibili pareti color crema, variegate dallo scintillio delle luci della strada che arrivavano al corridoio.
Carlotta attese nel suo ultimo rifugio.
La luce lunare si spostò più in alto sulla parete del soggiorno. Presto raggiunse una zona da cui fu tagliata dal rettangolo della finestra. Un brusco confine tirato sull'argento. Carlotta scorse, nelle crepe del muro, minuscole farfalle color crema. Percepì un debole coro di voci, un confuso balbettio. Come di migliaia di bambini esigenti; con le voci armonizzate. Si spense a poco a poco.
L'unico suono era il frinire dei grilli oltre la strada. Uno strillo acuto, seguito da un chiacchiericcio musicale che suonava dolce. Carlotta distingueva a malapena i girasoli nel terreno libero più avanti. Vecchie casse di legno. Un cancello rotto. Non c'era il senso del tempo. Esso era una pesante cappa gettata sopra la casa. Il tempo era qualche cosa che alterava la capacità di distinguere le percezioni. Il tempo non faceva più parte dell'universo.
Carlotta si rese conto che morire doveva essere così. Ecco perché Garrett l'aveva accusata di lasciarlo. Mentre invece era lui che stava abbandonando la vita. Allora non aveva capito. Ma ora sì. Infatti sentiva che Billy, Jerry e tutti gli altri, persino Kraft e Mehan, l'avevano lasciata, in qualche modo. Se ne erano andati e l'avevano lasciata morire. Mentre in realtà, e lo sapeva, era lei che se ne stava andando, stava andando sotto. Per mai più riapparire in superficie.
L'ultimo rifugio.
«Oh!».
Un lampo di luce, poi un sussulto. Un filo di sangue le rigava la guancia. Acuto. Istantaneo. Come il morso di un serpente.
Franklin rabbiosamente colpì il muro con un calcio. Era in piedi accanto alla finestra e si passava le dita fra i capelli.
«Com'è, tesoro, andare sotto?».
Carlotta lo vide cercare le parole. Il giubbotto di pelle pendeva floscio dalle spalle, rivelandone, però, il potente torace. Il viso era confuso, ostile, imprevedibile.
«Franklin...».
Carlotta era terrorizzata. Conosceva lo stato in cui si trovava. Era così che diventava quando era ubriaco, o drogato, o entrambi.
Franklin attraversò la stanza con pochi passi lunghi, minacciosi. Afferrò Carlotta e la sollevò con violenza.
«Rispondimi, miserabile, buco puzzolente».
«No... ti prego...».
Franklin rise. Allora i suoi lineamenti si ammorbidirono. La guardò distorto dal desiderio. Le guardò il viso, il corpo delicato, le braccia.
«Vieni, tesoro, vieni da me».
Lei gli resistette, ma era forte. Carlotta fu stretta da un abbraccio. Delle mani le si insinuarono sotto il vestito. Lei spinse, si irrigidì. Ma lui era insistente. Poi si accorse che poteva vedere attraverso di lui, vedere la parete lontana e la finestra, attraverso le potenti spalle e il collo robusto.
Era invisibile. Tuttavia Carlotta avvertì delle gambe premere contro di lei. Il calore del suo corpo, l'urgenza della sua necessità. L'odore di Franklin l'assali. Pur repulsivo com'era, lei lo desiderava. Il corpo agiva contro la volontà, aveva necessità sue.
Franklin rise, un riso crudele, poi sparì. Carlotta era sola contro la parete. L'eco della risata sadica si affievolì. Ora la stanza sembrava più grande che mai, più vuota di prima.
I grilli frinivano. Urlavano al mondo che Carlotta desiderava un uomo morto. Lei scosse il capo finché le urla lentamente svanirono.
«Franklin?...».
Non ebbe risposta.
Era vero, pensò Carlotta. Aveva bisogno di Franklin. Era dipendente dalla forza fisica di un uomo. Ma non c'era nessun uomo.
Per quelle che sembrarono ore, Carlotta aspettò. Più aspettava e più scivolava in una diversa realtà. Alla fine, le ombre fugaci della casa le apparvero agli occhi della mente come immaginazione e le intuizioni delle voci e delle apparizioni divennero la sua realtà.
«Carlotta, volta la faccia verso di me».
Il pastore Dilworth attraversò a lunghi passi il giardino. Lei vide le colline oltre Pasadena. Nella notte le luci mandavano vaghi bagliori.
«Mi senti, bambina?».
Era una voce musicale, profonda, quasi metallica. Una voce che si adattava alla sua personalità infantile. Carlotta era entrata in quel regno prima di essersi formata. I suoni e le immagini galleggiavano indistintamente, disordinatamente e timidamente.
Il pastore Dilworth stringeva una cinghia. Una donna, la madre di Carlotta, si lamentava. La bimba teneva in mano un paio di mutandine, insudiciate di sangue e di sporco. Avanzarono attraverso il bianco candido di una tenda. Una mussolina velava tutto quanto facevano. Il loro disgusto era quasi impalpabile.
«Carlotta».
Una voce alla quale non si poteva resistere. Ovunque fosse, era obbligata ad obbedire a quella voce profonda e tonante. Si sentì attirata da essa, malgrado la ripugnanza.
Improvvisamente, la cinghia sibilò.
Il dolore si fece sentire sulla spalla.
«Papà...!».
Un movimento improvviso e Pasadena sparì. Il pastore Dilworth non c'era più. Anche la piscina. Era tutta una facciata. Non c'era altro che il nulla.
Era una finzione? Erano allucinazioni? Perché lui accendeva queste chimere? Per torturarla? Oppure erano le sue messaggere?
Oppure era lei ad evocarle? Ed esse in cambio evocavano lui?
Carlotta era in piedi, avvolta dall'oscurità. Fra il mondo fisico e psichico c'era il regno dell'immaginazione. Appoggiata al davanzale per sostenersi, avvertì cadere le ultime inibizioni. Si levò, sospesa, sui piani psichici.
«Carlotta...».
Era una voce interna. Quella che aveva sognato. Con la quale aveva sognato. Una voce che la conosceva nel più profondo dell'anima. La conosceva... così bene...
«Carlotta...».
Lontane pareti trasparenti come velo, richiamavano vagamente la casa di Kentner Street, ma infinitamente più vasta; un delicato scintillio dalle finestre rettangolari. Più lontano, l'infinito dello spazio profondo di galassie remote, iridescenti forme che svanivano davanti allo sguardo di Carlotta. Un mondo negativo dove i marciapiedi erano traslucidi e si lanciavano in un'infinita prospettiva fra le stelle, anche se non c'era né terra né gravità. Un baluginio dove l'orizzonte sembrava nascere, fra specchi d'acqua color magenta.
Da remoti cieli sulfurei egli arrivò verso di lei, affiancato dai nani, coi capelli rossi, fondendosi in una fiamma radiosa, ma fredda, lambendo l'oscurità che li permeava. Con un solo passo lui attraversò un migliaio di chilometri, stagliandosi contro le nubi gialle sfumate di verde. Un paesaggio proibito attraverso il quale lui arrivava direttamente.
Col fiato sospeso, Carlotta aspettava.
Fiamme di luce fredda si alzavano dai suoi capelli, gli occhi scintillavano, lividi e implacabili. Nell'oscurità dello spazio Carlotta vide l'interno radioso del suo essere, la rapida formazione dei fori e dei gangli. Essi continuavano a cambiare, mentre lui a lunghi passi si avvicinava... si avvicinava.
Attraverso strutture evanescenti che somigliavano, ma non erano, a quelle della sua casa, lei intuì l'eternità che si faceva percettibile, prendendo forma. Un'aspirazione che assumeva forma visibile. Carlotta intuì, anzi quasi vide, la sua luce riversare su di lei incombenti e liquidi orizzonti.
«Oh... ho... paura», sussurrò.
«Carlotta».
Lei indietreggiò, quasi accecata, avviluppata dal freddo odore. Il volto perenne, irato, duro e senza misericordia, un volto potente, composto di migliaia di facce, di maschere elusive, che si confondevano una con l'altra, ma tutte con il medesimo ghigno omicida che colmava Carlotta di un freddo glaciale.
«Per favore... Ho paura...».
«Carlotta».
«No...».
Fu risucchiata in avanti. Presa nel vortice del desiderio. Una gravità, una legge dei cosmi, irresistibile, la trascinava a dissolversi nel suo abbraccio. Un migliaio di fuochi orgasmici, di punture di luce, di mandibole le mordicchiava i seni e le cosce. Lampi di luce scoppiarono dietro i suoi occhi mentre lei era penetrata, divaricata, riempita, dissolta come mai prima.
«Ooooooooooh...».
Il suo grido, continuo, musicale, riverberò fra le stelle. Forme frettolose mandavano bagliori davanti agli occhi, vorticando nella sua sostanza, divenendo più fredde, sempre più fredde, bruciando nel freddo che ora fioriva dentro di lei. Più veloce, sempre più veloce. Tutte le cose si disintegravano, tenendosi su di lui, dissolvendosi, abbracciando, dissolvendosi, sparendo nel vuoto. Un'ultima consapevolezza di luce e di buio.
Nel sibilante e sfavillante vuoto, l'ultimo rifugio si frantumò, andò a pezzi e Carlotta, in frammenti, divenne meno di Carlotta, una sostanza vaporosa, un ultimo suono, come un tuono remoto, morente.
«Mia dolce... Carlotta...».
EPILOGO
RICHIESTA DI RICOVERO
A:
SERVIZIO SANITARIO DELLA CONTEA
Il ricovero è raccomandato per MRS. CARLOTTA MORAN
(nome del paziente)
che è in cura presso di me. È stato accertato che la persona è in gravi condizioni come stabilito dal Welfare and Institutions Code Section 5008 (h).
* (a) a seguito di disordine mentale
ed è:
* (b) incapace di sottoporsi volontariamente alla cura.
* (cancellare le voci non pertinenti)
Allegati: Certificati medici ufficiali, comprese diagnosi, prognosi e ragioni per raccomandare il ricovero.
Firma del medico curante e dell'istituto o dello specialista che raccomanda la cura
dottor G. Sneidermann, Interno di psichiatria 6/11/77
RAGIONI DEL RICOVERO
Nome: Mrs. Carlotta Moran
Indirizzo: 212 Kentner Street, LA CA.
Telefono: KL5 1717
Data di nascita: 8/3/44 Sesso: P.
Stato civile: Vedova
Amici stretti e parenti:
Mrs. Harriet Dilworth
Grado di parentela: madre
743, Orange Grove Blvd. Telefono: SM2 6464
Pasadena, Ca.
Ragioni e osservazioni a sostegno dell'incapacità del paziente a provvedersi di cibo, indumenti, dimora (indicare la voce in questione).
(vedi sotto)
Anamnesi, cura in corso e raccomandazioni:
La paziente ha sofferto di disordine schizofrenico. Nelle trascorse settimane non ha risposto se interrogata, non mangia e deve essere nutrita artificialmente. Deve essere vestita da altri e non si preoccupa delle funzioni elementari senza continua sorveglianza. Non ha reagito alla cura.
CL-1 emesso l'1-30-70
Pag. 2
Diagnosi e descrizione dello stato mentale del paziente:
Schizofrenia di tipo catatonico.
Ragioni per ritenere la paziente incapace di, o non disposta a sottoporsi volontariamente alla cura:
Sembra non capire quando le viene domandato se desidera essere curata e non reagisce. Non parla, perciò non è in grado di prendere decisioni per la cura. Non risponde con gesti all'offerta di cura volontaria.
Perciò raccomando che sia stabilito un ricovero
temporaneo.
Dichiaro sotto la mia personale responsabilità
che quanto sopra è vero e reale.
Compilato il 6/11/77
alla West Coast University, Califomia
FIRMA DEL MEDICO CHE
HA STESO LA DIAGNOSI
ED HA RACCOMANDATO IL
TEMPORANEO RICOVERO
dottor G. Sneidermann
FIRMA DEL MEDICO DEL
SERVIZIO REGIONALE
CHE HA ESAMINATO LA
DOCUMENTAZIONE
dottor H. Weber
Per tutti i mesi in cui Carlotta rimase ricoverata all'ospedale, Sneidermann tentò di analizzare che cosa fosse accaduto quella notte. Ma tutte le sue ricerche in campo elettronico, tutte quelle in campo chimico, non avevano dato alcuna risposta. Non ricavò alcuna logica spiegazione della sostanza vaporosa che egli stesso aveva visto librarsi presso le pareti della casa simulata: nessuna spiegazione della potenza, della forza, della furia rovinosa che aveva causato e attivato il crollo finale della personalità di Carlotta. Persino Weber non credeva si fosse trattato di un'allucinazione di massa. Il problema era costantemente presente nel cervello di Sneidermann come un ronzante sciame di vespe impazzite, ma non aveva una soluzione. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, aveva spinto Carlotta nella totale schizofrenia. Secondo il giovane interno lei era scappata a casa, guidata dall'istinto, probabilmente, incoerente, in cerca di qualche pietra di paragone con la realtà, il che, nel suo caso, poteva essere soltanto la famiglia. Cercava di immaginare il suo arrivo in casa. Quella casa che non era più sua, spoglia di qualsiasi quadro alle pareti, di tutti gli asciugamani, di tutti i segni che potevano fornirle qualche indicazione di dove fosse e chi fosse. Confusa, spaventata, sottoposta a terribile pressione, era esplosa come un vulcano sotterraneo.
Arrivato a Kentner Street quella mattina di buon'ora, l'aveva trovata nel soggiorno, a quattro gambe. Era nuda. Fissava il vuoto ad occhi spalancati, senza vedere nulla e respirando molto, molto lentamente.
L'aveva coperta alle belle e meglio con la camicia, caricata in auto, precipitandosi al pronto soccorso della clinica. In un primo momento fu ritenuta vittima di uno stupro, ma non parlava. Nel corso della giornata le fu diagnosticata una crisi catotonica. Tre giorni dopo era ricoverata.
Per il dottor Weber e Sneidermann ci vollero sei mesi per tornare a rapporti normali. Quando si parlarono, peraltro persisteva fra loro un certo disagio. Sneidermann gli aveva scritto una lettera di scuse.
L'inesperienza mi ha spinto ad assumere un atteggiamento che al momento mi è sembrato giusto. Sono stato guidato non tanto da prudenza medica quando da un profondo sentimento che ora riconosco essere mescolato a minori motivazioni. Lei, senza dubbio, si riterrà giustificato nel rifiuto a considerare la mia corrispondenza. Ma sono mosso, glielo assicuro, unicamente dal desiderio di continuare a tener fede a quel solenne giuramento che ho fatto lasciando la West Coast University.
Sneidermann non ritornò all'est. Assunse invece la direzione di un reparto dell'ospedale psichiatrico statale vicino a Santa Barbara. Un giorno ricevette una breve lettera da Los Angeles.
Mio caro Gary, perdonerà il mio silenzio. È stata la reazione di un vecchio che ha dimenticato le passioni e gli errori della propria gioventù. È disposto ad un incontro a Los Angeles? La prego di farmelo sapere.
Era firmata dal dottor Weber.
Purtroppo dopo tre settimane il primario moriva per un colpo apoplettico. Sneidermann non partecipò al funerale, poiché i suoi impegni gli impedivano di assentarsi. Ricordava di avere una fotografia di Weber del periodo di internato. La trovò, la fece ingrandire ed incorniciare e la appese alla parete dietro la scrivania. Un pomeriggio la guardò, domandandosi se davvero un uomo potesse mai trovare la propria strada fra il labirinto della vita. Avvertì le lacrime scorrergli lungo le guance.
Durante il giorno Sneidermann sorvegliava il suo reparto ed aiutava in altri. L'ospedale era scarso di personale. Molti dei pazienti non erano mai stati correttamente diagnosticati e Sneidermann intraprese una battaglia contro le leggi vigenti per un'adeguata assistenza finanziaria ed una riforma legislativa. In un tempo sorprendentemente breve era anche riuscito a migliorare la sicurezza. I suoi reparti erano gli unici nella California meridionale in cui non si segnalarono stupri, punizioni o tentativi di suicidio negli ultimi due quadrimestri dell'anno.
Fra le infermiere ed il personale generico molti si chiedevano perché un così brillante e giovane medico fosse finito in un servizio statale.
Sneidermann aprì una porta dopo aver bussato cortesemente.
«Buongiorno, Carlotta», disse sottovoce.
«Oh, buongiorno, Gary», rispose lei, chiudendosi con modestia la vestaglia intorno alla gola.
Piccole rughe le si erano formate sul viso, intorno agli occhi ed agli angoli della bocca. Ma la vitalità era rimasta. Quella grazia animalesca che era così perfettamente naturale. Un volto che era comparso migliaia di volte nei suoi sogni.
«Ho sentito che ha avuto dei fastidi per dormire».
«Un tantino», ammise lei. «Il sonnifero era troppo debole».
«Sto tentando di disabituarla».
«Ero spaventata... ma solo un poco».
Sneidermann sorrise. La guardò con occhi lucidi.
«Vorrei vederla dopo la colazione», disse. «Potremmo scendere in giardino».
«Sì, mi piacerebbe».
Chiuse la porta. Le due infermiere del reparto sorrisero. Sneidermann aveva un'innamorata tra le pazienti, si sussurrava. Era molto studioso e magari brusco, quando la disciplina lasciava a desiderare o quando i reparti non funzionavano a dovere. Invece, allorché apriva la porta della stanza 114-B: Carlotta Moran, paranoica schizofrenica, si ammorbidiva, gli fioriva sul viso una sorta di radiosità, diveniva di nuovo quasi un ragazzo, entusiasta e con senso dell'umorismo.
Sneidermann si diresse svelto verso il suo studio. C'era un gruppo di giornalisti venuti per visitare l'ospedale. La maggior parte degli psichiatri detestava la curiosità. Per Sneidermann, invece, era la benvenuta e persino la incoraggiava. Voleva che le condizioni dell'assistenza statale ai malati mentali divenissero di pubblica conoscenza.
Prima di pranzo si incontrò con Carlotta.
«Ho ricevuto una lettera da mia madre», annunciò questa.
«Sì?».
«I bambini stanno bene».
«È meraviglioso».
Appariva distesa. Di solito, durante il giorno, aveva delle reazioni normali. Solo di sera cominciava a divenire prima distante e poi spaventata.
«Desidera vederli?» chiese.
«Sì. Ma prima vorrei stare meglio».
«Posso combinare una visita».
Carlotta sorrise, riparandosi gli occhi dal riverbero del sole. L'erba era verde, innaffiata da una fila di pigri spruzzatori. Dei bambini giocavano sotto stretta sorveglianza e le loro risate risuonavano chiare e gradevoli.
«Presto, forse», rispose lei.
Sneidermann studiò quel volto che non aveva mai toccato, il collo che non aveva mai baciato. Eppure così era un rapporto più intimo, quasi fosse per lei una sorta di angelo custode.
«Vorrei anche diminuire i sedativi».
«No...».
«Lei ne è dipendente. Non voglio».
«No, per favore...».
«Solo un tantino. A poco a poco. Non può farle male».
«Ho paura».
«Senta, lei sa che non c'è nulla di cui temere». Ne cercò la mano e la tenne affettuosamente. «Vuol farlo per me, Carlotta? Tenti. Ogni sera ne prenderemo un po' meno. E vediamo che cosa succede».
«D'accordo», acconsentì lei sottovoce, sorridendo.
«Che cosa c'è di così divertente?».
«Conto davvero molto per lei?».
Il giovane arrossì.
«Sono il suo medico. Inoltre, lo sa che... gliel'ho detto».
«Non dovrebbe. Vede che cosa ho fatto della sua carriera. È finito in questo miserabile...».
«Sono contento di essere qui. Mi piace il mio lavoro. Veramente. È così».
«Una parte di lei non è mai cresciuta, dottor Sneidermann. È ancora come un ragazzo. Lo sa, dovrebbe essere sposato».
Sneidermann arrossì violentemente.
«La mia vita privata... è del tutto soddisfacente».
Risero. Mentre il sole pomeridiano formava delle macchie filtrando fra le foglie degli alberi, Sneidermann si domandava se avesse o meno, in qualche imperscrutabile e strana maniera, trovata la felicità sulla terra. Una prospettiva nella quale poca gente crede. E per di più proprio in un luogo che la maggior parte delle persone sfugge come gli ignei gironi dell'inferno. Eppure era vero. Almeno durante il giorno, come in quel momento, quando stavano insieme carezzati dalla lieve brezza, non esisteva l'ansietà oppure il nervosismo. Si conoscevano a fondo, senza ambiguità. Ma a mano a mano che il pomeriggio avanzava, Sneidermann coglieva in lei i cambiamenti, sia nel corpo che nel viso. Gli occhi saettavano intorno. Si sentiva ossessionata dalle ombre che aumentavano. Diveniva nevrotica. Sembrava temere l'arrivo della notte.
Oppure l'aspettava?
Quella sera Sneidermann si diresse, come d'abitudine, alla stanza 114-B.
«Come sta?» chiese.
«Un tantino agitata», rispose l'infermiera.
«Ha preso il sonnifero?».
«Sì, sir. Soltanto cinque milligrammi».
«Bene, molto bene».
Visitò le camere che davano sul corridoio. Un ragazzo gravemente autistico si era ferito alla testa picchiandola contro il muro. Avevano dovuto legarlo per proteggerlo. Sneidermann cercava di ottenere il permesso o una sovvenzione o qualsiasi altra cosa che gli permettesse di togliere il ragazzo dal reparto e sottoporlo ad una cura specializzata come meritava.
Ritornò nella stanza di Carlotta.
«Dorme, sir. Un sonno leggero».
«Bene. Può andare ora».
Si diresse alla finestrella della porta e tenne il viso premuto contro il vetro.
Carlotta giaceva sotto leggere lenzuola. La luce lunare le bagnava dolcemente il viso. I capelli neri erano sparsi a ventaglio sul guanciale. Le narici sembravano allargarsi. Notò che i capelli erano umidi di sudore.
Stava sussurrando.
Non poteva sentire. Aprì uno spiraglio della porta.
«Per favore, oh, per favore... oh, oh...».
Erano parole misteriose. Gemeva per l'estasi o per protesta? Per protesta di qualche oltraggio?
«Ohhhhhhhhhhhhh».
Lui inghiottì. Si sforzò di osservare, di cogliere i particolari: lei si muoveva lentamente, irrequieta, quasi in modo allusivo, col viso odiosamente contorto. Per il piacere o per l'odio?
Come paralizzato, osservò finché tutto fu finito e lui se ne fu andato. I gemiti diminuirono.
Umiliato, bruciante di gelosia, Sneidermann si allontanò.
Guardò l'orologio. Con soltanto 5 milligrammi, l'incubo era durato meno di dieci minuti. L'aveva riportata all'uso normale della parola. L'aveva riportata lentamente alla capacità di provvedere alle proprie funzioni fisiologiche. Lei aveva riconquistato ogni sfumatura di quella grazia e di quel fascino da cui, una volta, era stato colpito. Ora tentava di diminuirle gli incubi, a poco a poco, giorno per giorno.
Si recò nel giardino a fumare. La luna gli lambiva le mani, guidando l'accendino alla sigaretta. Quella notte si sentiva particolarmente emozionato. Le piccole vittorie erano le sole cose importanti della vita. La immaginò, come tante altre volte, chiacchierare piacevolmente, magari in qualche locale, magari in qualche bel posto, con le incantevoli maniere che tutti invidiavano. Per lui sarebbe stato sufficiente.
Invece lei oscillava, bella e ancora inaccessibile, per sempre misteriosa ed elusiva, di fronte alla consapevolezza di lui.
Inspirò lentamente. Era stato un giorno di normale routine. Si sentiva esausto. Rimuginò ancora. Un sonno migliore, con soltanto 5 milligrammi di sedativo. Ci sarebbe voluto del tempo, ma non c'erano limiti a quanto poteva fare. Attraversò il giardino, ricordando il giorno in cui tutto era cominciato, il giorno in cui per la prima volta una Carlotta tremante aveva varcata la soglia del suo studio.
Lontano c'era un'autostrada, più lontano ancora una distesa di erba secca che portava all'oceano. Sneidermann era contento.
APPENDICE
RICERCA MULTIPLA SULLE COMPONENTI FISICHE
E PSICHICHE DI UNA ENTITÀ DISINCARNATA.
— Rapporto finale ed osservazioni preliminari.
— In preparazione: studio comparativo e dati.
Stesura ed analisi
di
EUGENE KRAFT
e
JOSEPH MEHAN
presentato come parziale documentazione per la libera docenza al dipartimento di psicologia della West Coast University.
Dottoressa ELIZABETH COOLEY,
direttrice dell'istituto di parapsicologia.
Lo studio di manifestazioni psichiche è stato, sino ad ora, eseguito senza una codificata sistematica capace di fornire elementi certi e incontrovertibili. Le descrizioni di «fantasmi», di «spiriti» e di similari manifestazioni non corporee non sono mai state sostenute da indagini di laboratorio. Come risultato, l'intera materia è stata ignorata legittimamente dal pensiero scientifico, perché poco attendibile per permettere serie considerazioni.
Tuttavia, una ricerca durata quattro mesi e recentemente conclusa, è riuscita ad esaminare un'entità psichica in campo controllato e ha fruttato ricca messe di dati sulla sua natura.
Un soggetto, conosciuto per essere stato visitato da una singolare entità, a volte accompagnato da due più piccole, fu ospitato in un ambiente isolato ed a prova di suono (vedi disegni acclusi). L'ambiente era un esatto duplicato della casa in cui esso viveva, solo che il soffitto era stato rimosso per permettere il diretto controllo e l'esplorazione sensoriale dei locali sottostanti. Inoltre, le pareti erano schermate per impedire qualsiasi estranea interferenza elettromagnetica.
Il soggetto ha vissuto nell'appartamento, ammobiliato ed arredato coi tappeti, tende, sedie, letto e utensili originari. Durante il periodo non fu osservata alcuna variazione rilevante nelle apparecchiature di controllo. Gradatamente, tuttavia, via via che il soggetto si adattava all'ambiente, ritornò ai modelli emotivi che avevano dominato la sua vita nei parecchi mesi antecedenti l'esperimento controllato. Questo includeva una notevole ansietà concernente la famiglia, ricorrenti problemi personali col fidanzato e ricordi profondamente sepolti dell'infanzia.
A poco a poco il diario cominciò ad arricchirsi di descrizioni di sogni ripetitivi che indicavano un paesaggio psichico che lo terrorizzava. In parecchie occasioni riferì a voce dei presentimenti sull'imminenza di una visitazione.
Al verificarsi di certe manifestazioni emotive, i primi dati definiti si ebbero nei mutamenti della concentrazione ionica dell'atmosfera, nella distribuzione e densità. La prima conseguenza fu la rottura, definitiva ed irremovibile, tra il soggetto ed il fidanzato. Il trauma fu seguito entro otto ore da notevoli fluttuazioni nella resistenza atmosferica, ad esempio, della costante dielettrica che si portò sotto i 40 cicli per secondo, il che è caratteristico tanto nella vita umana che animale.
Alla visita della madre, dalla quale il soggetto era stato lontano per più di dieci anni, ed al susseguente trasferimento dei figli per loro maggiore sicurezza, seguì il secondo salto nelle letture delle registrazioni percettive e psicologiche.
Mentre aumentava l'isolamento del soggetto, esso sprofondava via via nelle memorie, nelle fantasie, nei sensi di colpa e nelle speranze di una vita migliore. Divenne sempre più dimentico delle caratteristiche dell'ambiente. Cominciò a parlare da solo, a volte ad altri non presenti nella stanza, alcuni dei quali si sapevano morti. In breve, cominciò a manifestare il comportamento di uno psichico in stato di ricettività.
Gradatamente, nel corso di 42 ore di intensa attività emotiva, cominciarono a venir registrati fenomeni visibili. Il più cospicuo fu una massa bianca che si estendeva lungo la parete e che si ritrasse in una palla dopo tre ore di intervallo, lasciando una sostanza immobile, a circa settanta centimetri sopra il tappeto.
Il soggetto gridò verso l'apparizione epiteti abietti per liberarsi dall'orrore di essere vissuto nel terrore di essa per quasi sei mesi. A ciascuna delle imprecazioni, la forma dell'entità subiva mutamenti drammatici, osservabili ad occhio nudo, ma, sfortunatamente, senza lasciare qualche impressione su numerose macchine da presa ed apparecchi di registrazione altamente sofisticati, fra cui una di termovisione, un video color a bassa illuminazione, ed un laser olografico ad impulsi. I mutamenti più pronunciati fra quanti osservati furono nel colore e nella forma mentre la massa si evolveva in una nube azzurro-verde che emetteva luce. Inoltre cominciò a formarsi una distinta muscolatura entro la nube, molto simile a come possono essere osservati in un embrione i minuscoli vasi sanguigni e gli organi.
Immediatamente prima dell'apparizione, si registrarono distinti ed improvvisi cambiamenti dell'ambiente elettromagnetico e termoionico dei dintorni immediati del soggetto. Non è possibile, al momento, determinare se tali cambiamenti causati dall'apparizione fossero un risultato di essa, oppure se tanto l'apparizione che i registrati mutamenti atmosferici fossero stati causati da una singolare e subordinata causa ancora non determinata.
L'ultima e conclusiva fase della ricerca riguardava il tentativo di risolvere il più imbarazzante e persistente problema delle scienze paranormali.
Elio liquido, a temperatura approssimativamente vicina a quella dello zero assoluto, fu spruzzato, con un liquido secondario composto di una soluzione chiara con minute particole in sospensione, sulla massa azzurra in evoluzione. All'istante del contatto fu percepito un urlo. Susseguentemente, dichiarazioni di testimoni oculari convengono che le parole udite erano una deformazione di «lasciarmi solo».
L'entità fu simultaneamente visibile a ben otto persone, le quali hanno tutte riferito di aver visto le identiche cose e udite gli stessi suoni negli stessi momenti. Comunque gli apparecchi di registrazione impostati sulla trasformazione variabile delle lunghezze d'onda in immagini, non registrarono questi avvenimenti. Si trattava allora di una allucinazione di massa, nata dalle molte settimane di fatica, sforzi ardui e mero desiderio di vedere l'entità? Una tale possibilità sembra difficile, perché fra gli osservatori si trovavano un preside di università, un primario psichiatrico ed un interno della scuola di specializzazione, tutti molto scettici sulla ricerca in corso. Insinuare che essi siano stati, unitamente al gruppo altamente specializzato della dottoressa Cooley, tutti quanti «ipnotizzati» sino a credere in qualcosa che non fosse reale appare, al meglio, una proposizione dubbia. Anche se qualcosa del genere si fosse verificato, è impossibile che tutti gli osservatori possano aver riferito le stesse identiche scoperte senza una precedente ed ampia consultazione. Inutile dire che tale non era il caso e, in realtà, parecchi degli osservatori non si conoscevano l'un l'altro o avevano scarsa conoscenza o alcun interesse nella parapsicolgia.
Come può dunque essere spiegato il mistero? È la storia ben comune nelle leggende e nei miti di centinaia di anni, del «fantasma» che non può essere fotografato? Non esiste una spiegazione più scientifica? La verità è che l'entità di fatto si è manifestata indipendentemente da coloro che hanno seguito l'esperimento. Questa è una prova al di là di ogni possibile dubbio grazie alle minuziose e continue registrazioni della temperatura, della concentrazione ionica e di certe fluttuazioni nella densità elettromagnetica. Allora che cosa ha causato il mancato funzionamento degli apparecchi di registrazione visiva?
Può anche essere che il fenomeno sia stato percepito psichicamente da tutti gli osservatori e che le loro menti, al fine di tradurre l'esperienza in un più sollecito livello di comprensione e di consapevolezza, abbiano interpretato gli avvenimenti in termini visivi. In altre parole, un uragano di energia psichica, che poteva essere dotato di intelligenza, fu interpretato da menti umane come se visto, laddove in realtà essi avevano ricevuto cognizione di quella energia attraverso i soli mezzi psichici. Da lì l'unanimità delle reazioni.
Che ci fosse un'immensa energia nella stanza è ben risaputo. Essa ha causato tensione sulle strutture, ha appiattito gli indici sulla maggior parte dei quadranti ed infine ha causato la distruzione dell'intero locale, col risultato di una vasta devastazione e del ferimento del ricercatore Kraft.
Ma quale sia esattamente la natura di questa energia è ancora ignoto. Era elettromagnetica, oppure ha soltanto liberato onde elettromagnetiche come attributo secondario? La verità è che nessuna teoria può ancora spiegare i repentini mutamenti di energia. Ciò che ora possiamo dire è che ci siamo trovati di fronte ad una forma di energia che soltanto ora viene sottoposta all'esame critico della scienza.
Anche una domanda successiva, riguardante l'origine dell'entità, rimane in sospeso. Stabilito che l'apparizione si è manifestata indipendentemente dal soggetto, come confermato dagli elementi forniti nella presente relazione, può essere determinante definire se essa è derivata dal soggetto come entità proiettata, oppure e piuttosto, è derivata da fonti e fenomeni di tempo-spazio ancora inesplorati.
Quest'ultima appare essere la soluzione più verosimile, stabilito l'alto grado di indipendenza dell'entità psichica dalla volontà psicologica del soggetto. Tuttavia potrebbe essere che un soggetto altamente ricettivo sia un intermediario fra il mondo dei dati osservabili ed i livelli dell'esperienza psichica. Al meglio, ulteriori sperimentazioni sarebbero necessarie per risolvere questo problema una volta per tutte.
Interpretare gli avvenimenti come un'allucinazione di massa, inganno, o immaginazione collettiva dei molti studiosi presenti sfida qualsiasi probabilità. I resoconti di tanti testimoni oculari, di tante persone, alcune delle quali tutt'altro che favorevoli alla ricerca rendono incontrovertibile che l'entità esisteva, indipendentemente da altri esseri umani, che occupava spazio e tempo nel nostro mondo e che esercitava un'azione reciproca con la materia fisica.
FINE