«Che cosa?» domandò Mehan.

«Fallo sparire. Aiutami, Jerry. Aiutami»,

Sprofondava, sprofondava sempre più nel sonno, in immagini sconnesse, in lampi e grida di spavento.

«Toglimelo, Jerry», gridò con un singhiozzo soffocato. «Mi ucciderà».

Mehan si chinò in avanti finché sentì il calore del viso e le gocce di sudore intorno alle labbra. Gli occhi di Carlotta mostravano quell'espressione distante e vaga di chi in realtà sta dormendo.

«Chi?» chiese Mehan, esitante, timoroso. «Liberarsi di chi?».

«Mi ucciderà. Lui mi ucciderà... mi ucciderà...».

Si era addormentata. Gli occhi rimanevano aperti, fissi incoscientemente su un'immagine di orrore. Poi Mehan vide le palpebre sbattere, le pupille rovesciarsi, finché la giovane non fu completamente incosciente. La fissò, timoroso di toccarla, pur desideroso di svegliarla.

Si voltò. Un'infermiera era in piedi sulla soglia.

«Sta dormendo, Mr. Mehan. Credo che dovrebbe lasciarla».

«Che cosa? Oh, sì. Naturalmente».

Mehan rimase nell'ingresso del pronto soccorso. Lei dormiva così profondamente, così immobile, che il volto sembrava come di cera, come una dolce scultura bianca.

«C'è un telefono?» chiese.

«In fondo al corridoio».

Mentre lo percorreva il giovane riconobbe una figura alta, in giacca bianca e che camminava svelta. Era Sneidermann.

«Eccolo», disse questi, rivolto a nessuno in particolare.

A Mehan non piacque l'approccio. Troppo rapido, mentre una strana espressione si dipingeva sul viso del medico. Mehan frugò in tasca in cerca di spiccioli e si affrettò verso una nicchia accanto agli ascensori.

«Un momento, amico», esclamò Sneidermann.

Mehan si sentì afferrare per il braccio. Fu fatto voltare per affrontare due occhi malevoli.

«Che cosa diavolo ci fa qui?».

«Sono a far visita ad una conoscente».

Sneidermann lo prese per il colletto sempre più strettamente. Non c'era nessun altro nei dintorni.

«È venuto qui a finire il lavoro?» sibilò. «È così?».

«Lei è matto», sussurrò Mehan, più fermamente che poté. «Vuole che chiami aiuto?».

Sneidermann lentamente lasciò la presa, fissando gli occhi dell'altro.

«Sa che l'ha quasi uccisa?» riprese con voce rauca. «Lei e le sue scatole magiche, i suoi interruttori ed i suoi fili. Ha confermato una illusione psicotica!».

«Non ho fatto questo», protestò Mehan, cercando di liberarsi.

«Mi ascolti, idiota!» continuò Sneidermann adirato. «Quando una paziente è suggestionabile non si può nutrirla di nulla. Le crederà. E farà in modo che tutti intorno a lei le credano. Ha convinto anche il suo amico. Lei con le sue stramaledette apparizioni, con i fantasmi violentatori...».

«I fantasmi cosa?» sussurrò Mehan di nuovo, finalmente liberandosi ed indietreggiando. Capì che era inutile discutere con il medico. Era isterico. Doveva solo telefonare.

Parecchi dottori uscirono dall'ascensore e lui ne approfittò per camminare con loro lungo il corridoio. Sneidermann, frustrato, lo seguì.

«La porterò in tribunale per questo», minacciò.

«Vada avanti».

«Lei e il suo amico».

«Faccia come le pare».

«E quella vostra dottoressa strega».

Due infermiere si intromisero tra loro. Sneidermann dovette allungare il passo per raggiungere Mehan.

«Qualsiasi cosa dovessi fare per tenervi lontano dalla sua vita, lo farò», gridò.

Non abituato a scontri rissosi, Mehan tremava leggermente e si affrettò verso la cabina telefonica in fondo al corridoio. Avvertì una lieve ebbrezza, come se fosse sulla soglia di qualche sensazione scoperta.

Sneidermann si fermò, mentre Mehan entrava nella cabina e chiudeva la porta.

Si curvò sul ricevitore, affinché il suo volto fosse nascosto alla vista di Sneidermann, che rimaneva in piedi imbarazzato, fissandolo furioso dal corridoio.

«Gene», sussurrò Mehan. «Sono all'ospedale. Sta bene, ma senti...».

Si voltò e scorse Sneidermann allontanarsi lentamente. Poi, senza fiato per l'eccitazione, disse precipitoso a Kraft:

«Ci crederesti ad un fantasma violentatore?».

 

Kraft percorse sveltamente i corridoi del palazzo di giustizia. Più si addentrava nel massiccio edificio e più i suoi passi echeggiavano stranamente. Salì un enorme scalone di legno ed arrivò ad un piano dove parecchi uomini robusti e in borghese lo sbirciavano con sospetto. Lì c'era calma e ombra, ma un sinistro senso di pericolo e di tensione era palpabile tra le pareti screpolate sotto il soffitto sbiadito.

Era stato indirizzato dal portiere alla stanza 135 e bussò esitante.

«Avanti», disse una voce burbera e stanca.

Kraft capì subito che doveva farsi coraggio per questo incontro. Si sentì sorprendentemente affaticato e nervoso. Si liberò dell'ansia, lesse il nome sulla porta e l'apri: Matthew Hampton, giudice istruttore, e valutò l'uomo seduto dietro la scrivania.

Hampton stava accendendo un sigaro raggrinzito. Era prematuramente calvo, con lo stomaco un tantino prominente e la faccia piatta e stranamente simpatica, una faccia molto controllata e cinica. Guardò Kraft freddamente.

«Sì?» chiese sottovoce, quasi con ironia.

Il giovane si rese conto di essere assurdamente fermo sulla soglia, con la mano sulla maniglia. Chiuse la porta dietro di sé.

«Sono Eugene Kraft», disse, «e...».

«Si sieda, Mr. Kraft. Che cosa posso fare per lei?».

Hampton parlava con quel tono distaccato e comprensivo dell'uomo che ha visto miseria e violenza per la maggior parte della sua vita professionale. Kraft decise di aver fiducia in lui, di parlargli nel modo spicciativo e preciso, così come funziona una mente legale.

«Le è stato assegnato il caso di una certa persona», disse Kraft. «Vorrei fargli visita questa sera».

«Si può vedere», ribatté Hampton. «Di chi si tratta?».

«Rodriguez».

«L'aggressore?».

«Sì, sir».

«È accusato di tentato omicidio, Mr. Kraft. Nessuno tranne la famiglia può vederlo. Lei è un familiare?».

Kraft accavallò le gambe. Si sentì energico e determinato a far breccia all'opposizione che si aspettava.

«No, è molto importante che gli parli».

Hampton alzò leggermente un ironico sopracciglio.

«Ho delle informazioni di cui lui ha bisogno», tentò di nuovo Kraft. «E lui ha delle informazioni di cui ho bisogno io».

Hampton cercò di nuovo l'accendino. Nel chiarore della fiammella, il volto sembrava vecchio, appesantito, sebbene non potesse avere più di cinquant'anni. Kraft si domandò se l'uomo non avesse un tempo coltivato sogni di studi lussuosi a Wilshire, con sedie coperte di pelle ed aiuti laureati in legge.

«Tutto deve passare attraverso di me», spiegò, soffiando una nuvola di fumo denso nel buio sopra la lampada. «Se ha un messaggio, provvederò a consegnarglielo».

Sconcertato, Kraft trovò difficile mettere allo scoperto la sua intenzione.

«Permetta che mi presenti più formalmente», disse, aprendo il portafoglio. «Sono assistente ricercatore alla West Coast University».

Hampton scoccò un'occhiata alla tessera che Kraft gli tendeva.

«Psicologia», lesse.

«Ho svolto indagini nella casa dove è avvenuto l'incidente», cominciò Kraft nervosamente.

«Indagini?» ripeté Hampton rabbuiato.

«Non in senso legale», si affrettò a chiarire. «Erano successe altre cose».

«Per esempio?».

«Le è familiare la materializzazione?».

«No. Che cos'è, una malattia?».

Kraft si agitò. Si rese conto che Hampton aspettava che lui arrivasse presto al punto, che il magistrato aveva una dozzina di casi e che lavorava molte ore della sera per una paga minima.

«Oggetti che si spostano», spiegò Kraft. «E senza intervento umano. Anche odori. E certe nubi che sono state scoperte, soprattutto di notte, mentre si dissolvevano ed emanavano strisce di luce».

«Non mi dica», commentò Hampton, studiando Kraft con maggiore attenzione.

«Certi particolari ci hanno condotto alla tesi che lì ci fosse più di quanto si supponesse. Sulla base di vari racconti di testimoni, siamo indotti a credere che Mrs. Moran fosse terrorizzata da qualche cosa d'altro».

Hampton si appoggiò allo schienale della sedia. Metà del suo volto era al buio, cosicché gli occhi brillavano come due punti luminosi. Stava osservando intensamente Kraft, come se ne stesse valutando l'equilibrio.

«Terrorizzata da cosa?».

«È di questo che voglio parlare a Mr. Rodriguez».

Hampton scosse il capo lentamente, senza staccare lo sguardo da Kraft.

«Non è possibile».

«Ho bisogno di verificare...».

«Le sue necessità non sono importanti, Mr. Kraft. Non qui».

Il giovanotto rimase seduto. Cercò di elaborare una strategia, ma si trovò contro un muro compatto.

«Sto tentando di aiutare l'accusato», perorò.

Hampton fece un gesto verso una cartella all'angolo della scrivania. Sopra c'era il nome di Rodriguez scritto in pesante inchiostro nero.

«Non si preoccupi di lui. Nessuna giuria al mondo metterebbe un uomo come questo alla sbarra», dichiarò Hampton. «Non quando i suoi precedenti verranno letti alla corte».

Kraft si sentì di colpo la bocca secca e il viso caldo.

«Ah, è così?» esclamò, guardando la cartella posata sulla scrivania.

Hampton la prese, l'aprì e la mise in luce. Kraft vide delle pagine dattiloscritte ed una copia con pesanti punti e numeri ai margini. Hampton la lesse.

«È un evidente caso di alienazione mentale, Mr. Kraft», mormorò, buttando i fogli sulla scrivania.

Gli occhi di Kraft scorsero lo scritto e per un istante fu preso da un senso di ansia. La dichiarazione di Rodriguez appariva come le sconnessioni confuse di qualsiasi uomo trovato alle tre del mattino con sangue sulle mani e sulla camicia. Poi Kraft trovò i brani che provocarono il suo sorriso e il ritorno alla fiducia.

 

...e ho visto che... che i suoi seni erano schiacciati da dita. .. soltanto che io non vedevo le dita...

...Poi vidi le sue gambe che venivano divaricate, allargate, una da una parte ed una dall'altra e lei cominciò ad urlare, ma contemporaneamente teneva... teneva qualcuno... o qualcosa...

...improvvisamente mi ritrovai sopra di lei con la... avanzai con una sedia di legno e la fracassai... dovevo liberarla da quella cosa, dovevo salvarla.

...Non intendevo far del male a Carlotta, ma a quella cosa... a quella cosa che c'era sopra di lei, insomma, la stava fottendo, scopando.

...Ho visto qualche cosa. Almeno ho visto qualche cosa che lei stava subendo. Qualcosa sopra di lei. Non la vedevo coi miei occhi, ma c'era sicuramente qualche cosa, dovete credermi, lì c'era qualche cosa.

 

Gli girava la testa.

«Posso avere una copia di questo documento?».

Hampton ricuperò i fogli e scosse lentamente il capo. «Riservato sino al processo».

«E dopo?».

«Pubblico».

«Grazie, Mr. Hampton», ribatté Kraft, alzandosi. «Sono molto contento che il caso del mio amico sia nelle sue mani».

«Farò del mio meglio, Mr. Kraft», replicò Hampton, stringendogli la mano in modo disinvolto e spiccio.

Kraft si avviò. Gocce di sudore gli brillavano sulla fronte. Annuì imbarazzato e se ne andò. Hampton fissava la porta che si chiudeva. Qualcosa riguardo al giovanotto lo disturbava. Probabilmente era altrettanto matto come Rodriguez.

Kraft si asciugò la fronte, percorrendo il corridoio. Il magistrato aveva confermato ciò che Mehan aveva sussurrato, spaventato, al telefono. L'orizzonte della ricerca si era improvvisamente allargato, come muri crollati, in un'infinità di problemi pericolosi. Peggio di tutto, c'erano in gioco vite umane.

 

«Violenza da parte di uno spettro», sussurrò Kraft.

Il grigio blu della notte si era rotto in lunghe strisce color magenta. La dottoressa Cooley servì ai suoi due assistenti del caffè da un boccale di terracotta. Kraft guardava fuori dalla finestra dell'angusto appartamento della docente, come se nello scolorirsi della notte potesse ricavare qualche indicazione.

«L'hanno riferito cinque persone diverse», spiegò Mehan, prendendo una pasta da un vassoio. «Dovremmo chiudere gli occhi e starcene seduti ben rilassati, in attesa di letture strumentali di attività paranormali?».

I due giovani aspettavano che lei parlasse. Il silenzio cominciava a pesare. La Cooley sembrava irritata, forse per essere stata messa alle strette. Si domandavano se andasse rimuginando considerazioni molto lontane dall'argomento. Lei rimescolò la crema nel caffè e guardò oltre Kraft fuori dalla finestra.

«Ho avuto dei casi», disse poi, «in cui delle donne venivano pizzicate e toccate in maniera maliziosa. Ma mai nulla del genere. Nella letteratura ci sono casi di donne come pure di uomini violentati da spiriti. I termini ìncubus e succubus vengono da lontano. Ma nessuno di questi, sfortunatamente, è stato documentato».

Gli occhi di Kraft brillavano. Tuttavia controllò la voce. La dottoressa Cooley pretendeva dignità, obiettività e persino scetticismo per dominare l'eccitamento. Nondimeno la sua voce rivelò una caratteristica, quella dell'esuberanza.

«Violenza da parte di uno spettro», ripeté.

La stanza, che già era tranquilla, divenne silenziosa come una tomba. La Cooley sospirò. Quanto doveva frenare la fantasia dei suoi assistenti? Quanto avevano bisogno di scoprire liberamente le cose? Era un dato al quale nessun docente poteva sottrarsi. Soprattutto trattandosi di una nuova scienza. Dove i rapporti erano completamente alterati e i confini arrivavano fino all'infinito.

«Qualcuno di voi capisce veramente in che cosa si sta cacciando?» chiese lei.

Kraft e Mehan si guardarono. Era una domanda che non avevano preso in considerazione.

«Non avete bisogno di fantasmi», proseguì, quasi distrattamente. «Le vostre carriere procederanno abbastanza bene anche senza».

«Non è questione delle nostre carriere», obiettò Mehan.

Si ebbe un altro lungo silenzio. Kraft passò nel piccolo ma ben arredato soggiorno della dottoressa. Era la prima volta ad essere invitato. Con sorpresa, vide molti volumi di teatro e di arte.

«Lo sarà», commentò lei, «prima che questa faccenda sia finita».

Mehan si strinse nelle spalle.

«Proprio non penso che per ora sia la cosa più importante. Ci troviamo di fronte a qualche cosa di impressionante... a qualche cosa che scuote la terra...».

«Non sia romantico», lo consigliò la Cooley. «Lei non è invulnerabile. Nessun altro lo è stato».

«Siamo molto decisi, dottoressa», ribatté Kraft. «Quindi ritengo che sia importante fissare come procedere».

La Cooley, però, stava già pensando alla direzione finanziaria e scientifica dell'università, il suo reparto avrebbe attirato critiche come un parafulmine la saetta.

«Potremmo lavorarci in maniera non ufficiale», continuò Mehan sottovoce, anticipando i pensieri di lei.

«Forse», rispose la Cooley. «Forse potremmo combinare qualche cosa. Uno studio di perfezionamento, indipendente. Qualche tecnicismo da tener fuori dall'università, se necessario».

Kraft osservò il cielo mattutino farsi arancione. C'era qualcosa di freddo, che incuteva timore, anzi persino di pericoloso, come se si stesse osservando il primitivo mattino di uno strano pianeta ancora senza nome.

«Un'intelligenza esterna», disse la Cooley con misura, mettendo fermamente da parte lo scetticismo ed affrontando il problema con coraggio. «Un'entità liberata dal corpo».

Per le successive quattro ore la loro conversazione si concentrò sui fenomeni di cui era oggetto Carlotta e che mostravano una rudimentale personalità. Sembravano esistere così come un tavolo o una sedia, ma in maniera diversa, come fossero un pensiero, un fatto incorporeo. Il che rendeva questa entità un essere unico, a parte la sua vividezza. C'era poi da aggiungere la straordinaria energia che l'accompagnava. Secondo la deposizione firmata e giurata di Jerry Rodriguez la sua realtà era accompagnata dalla forza di una tempesta.

L'origine poteva avere due possibili matrici. Le profonde, incredibilmente represse zone dell'inconscio umano. Questo inconscio, distorto e soffocato dalle emozioni della vita, poteva trasformarsi in un violento generatore di sogni, di allucinazioni, di illusioni ed anche l'embrione di entità psichiche. La dottoressa Cooley combatté il pensiero che, in qualche maniera Carlotta, magari con la collusione psichica di un altro, inconsciamente e inavvertitamente coltivasse il violento essere distruttivo che la umiliava contro la sua volontà.

Nelle ultime ore, però, dopo innumerevoli tazze di caffè, dopo aver riesaminato rapporti e bollettini provenienti dai centri parapsicologici degli Stati Uniti, Canada ed Europa dell'ovest, la docente prese ad allontanarsi sempre di più da quella teoria.

«La mia convinzione è sempre stata», dichiarò a Kraft ed a Mehan dopo tanta riflessione, «che vi sia un livello di esistenza, forse parecchi livelli, distinti e divisi, di cui noi, come esseri umani, ne abitiamo soltanto uno».

«L'entità, allora, sarebbe indipendente da Mrs. Moran», affermò Kraft.

«È possibile».

«Allora da dove viene?».

«Da dove vengono le stelle? Da dove viene la vita? Prima o dopo, il problema dell'origine finisce nel mistero».

Mehan si sfregò gli occhi arrossati. Sorrise stancamente e sospirò.

«Sono stati chiamati in molti modi... demoni, fantasmi, apparizioni...».

La Cooley sorrise.

«Possiamo accordarci su un termine corretto?» chiese.

«Entità disincarnata. Sono del parere che questa definizione sia la più precisa. Un'esistenza... senza il corpo...».

Il sole cominciò a schiarire il cielo ad oriente fuori dalla finestra.

«Entità disincarnata», ripeté sottovoce Kraft.

Era quasi come se stesse parlandole, implorandola di mostrarsi, di fermarsi per un fatale momento nella fredda luce della realtà scientifica.

«Come ci arriviamo?» dichiarò la Cooley tranquilla.

Il silenzio pieno di interrogativi non li avrebbe lasciati soli. La dottoressa si voltò verso il fuoco per scaldare altro caffè. Kraft si sfregava pensoso gli occhi.

«Attirarlo in qualche maniera», congetturò. «Escogitare il modo di trascinarlo in una situazione dominabile. Poi esaminarlo».

«Avrete bisogno di più controlli di quelli montati in casa Moran», obiettò la Cooley. «Dovrete controllare il vicinato... ogni variabile fisica conosciuta».

Kraft tamburellò col dito sul tavolo.

«Il fatto è», continuò la dottoressa, «che non vi è nulla nella letteratura che possa aiutarvi. Nessuno ha mai tentato prima un'operazione del genere».

Mehan chiuse gli occhi. Sembrava dormire. Poi parlò.

«Gene», disse, «ciò che dobbiamo fare è progettare una forma di controllo delle condizioni ambientali di casa Moran e nei dintorni, in modo tale da attirare l'entità».

«Si rende conto di quanto denaro occorrerebbe?» chiese la dottoressa a bassa voce.

Studiare come montare un'efficace apparecchiatura e calcolare le spese necessarie, li portò simultaneamente di fronte allo stesso insormontabile muro.

«Ebbene», disse la dottoressa esitante, «c'è la Roger Banham Foundation. Chiederemo una sovvenzione».

Kraft e Mehan fissarono la docente. Avrebbe messo il collo sul ceppo. L'ammirazione brillò nei loro occhi.

 

Quella mattina Kraft, Mehan e la Cooley si incontrarono una seconda volta. Si riunirono nello studio di lei due ore prima di avere un colloquio col professore Osborne, preside dell'istituto di specializzazione. L'ordine del giorno registrava soltanto che era stata richiesta una seduta straordinaria con la facoltà di medicina per un problema amministrativo. La dottoressa Cooley, però, sapeva benissimo che nessuna riunione veniva convocata per lo stesso giorno della distribuzione dell'ordine del giorno, a meno che non si trattasse di una questione importante.

«Hanno intenzione di picchiare forte», profetizzò la Cooley.

«È quello stramaledetto interno», brontolò Mehan. «C'è lui dietro».

«Che cosa faremo?» chiese Kraft.

«Ammetteremo il meno possibile. Ma dipende da loro».

«Che cosa intende dire?».

«Hanno intenzione di procedere ad un'indagine per determinare se abbiamo agito in modo contrario alle norme scientifiche. Almeno, è questo che dovrebbero se vogliono comportarsi correttamente. Alla peggio, semplicemente annulleranno la ricerca».

«Non possono farlo», protestò Kraft. «Questa è suo campo giurisdizionale».

«Ricorreranno ad un'implicita minaccia», spiegò la Cooley. «O annullate la ricerca, o cancelliamo l'intero finanziamento all'istituto».

Si udì un lontano suono di campanello. Guardarono l'orologio. Erano le 10,30. La Cooley aveva quindici minuti prima dell'incontro col preside.

 

21

 

Kraft e Mehan, entrambi nervosi, presero le fotografie, i grafici e gli originali degli articoli che speravano di pubblicare su riviste scientifiche. Cercarono di ripassare gli argomenti, così da essere in grado di spiegare al rettore ed alla facoltà di medicina la natura del loro progetto e particolarmente il significato di un'entità disincarnata. Invece di tenersi sulla difensiva, stabilirono che avrebbero avute migliori possibilità con l'attacco.

Ad un tavolo rotondo sedevano Morris Halpern, rettore della facoltà di medicina, il dottor Henry Weber e Gary Sneidermann, che nervosamente batteva con le dita su delle cartellette posate davanti a lui. Di colpo Kraft si rese conto che Sneidermann si era preparato sul caso. Anche Mehan lo capì. Questo prevedeva una discussione tutt'altro che semplice. La dottoressa Cooley aveva consigliato di stare calmi, padroni di se stessi e non aggressivi. Non aveva fiducia nell'istituto di specializzazione anche se, di norma, avrebbe dovuto schierarsi con lei.

Il preside Osborne era un uomo leggermente obeso che detestava le discussioni. Avrebbe voluto essere da qualche altra parte. Inoltre, conosceva bene il rettore Halpern. Il collega era un avversario tenace, con nessuna delle finezze che ci si aspettava da uno studioso di discipline classiche. Halpern era una potenza in confronto ad Osborne. La carriera di questi era dovuta alla sua abilità nel piacere. Già gli sudavano le mani.

«Mi dispiace che il preside del dipartimento di psicologia oggi non possa essere presente», esordì Osborne. «Il dottor Gordon mi ha scritto di essere impegnato in una conferenza inter-universitaria ed invia le sue scuse».

Weber immaginò che la ragione vera doveva essere quella di evitare di venir coinvolto in uno scontro micidiale. Il che lasciò la Cooley isolata, privata della sua zattera di salvataggio. Ma il preside Osborne era un paciere di professione, un moderatore da tenere d'occhio.

«Oggi abbiamo una piccola questione da discutere», esordì Osborne. «Riguarda una sovrapposizione di due reparti, rappresentati da una parte dal dottor Weber e dall'altra dalla dottoressa Cooley. Credo che potremmo andare subito al punto».

Si voltò in direzione di Weber, che parlò in tono sommesso.

«In cura da noi c'è una donna che soffre di allucinazioni e gravi ansietà. La diagnosticammo come una nevrotica isterica finché non osservammo un rapido peggioramento della situazione, ed ora riteniamo che si tratti più pertinentemente di schizofrenia. Soffre non soltanto di illusioni visive ed auditive, ma il suo corpo mostra lacerazioni ed ecchimosi che sono il risultato di un comportamento gravemente psicotico. Era stata fortemente raccomandata la sua ospitalizzazione, quando di colpo ha sospesa la cura».

Il dottor Weber fece una pausa. Notò che i due assistenti di fronte a lui, che in realtà sino a quel momento non aveva neppure guardato, erano sulle spine e si agitavano sulle sedie.

«L'interno che aveva in carico il caso l'ha visitata a casa, ed ha trovato che i due ricercatori, indicati nel suo promemoria, preside Osborne, si erano sistemati presso di lei con un ricco assortimento di apparecchiature e grafici, il cui scopo era ottenere un controllo fisico delle allucinazioni».

Halpern guardò lontano, cercando di celare il sorriso.

«Quindi, preside Osborne», continuò il dottor Weber con ostinazione, «mettiamo bene in chiaro quanto sto dicendo. La validità della loro ricerca, il diritto di studiare sotto la supervisione del loro istituto è assolutamente fuori questione. Ma quanto è accaduto, e questo è il punto sul quale l'università deve prendere subito una decisione, è che coltivando la illusione della donna, hanno consolidato le sue convinzioni in modo tale da portarle ad essere dannose a lei stessa».

«Anche peggio», inserì Sneidermann.

«Un momento, Gary», obiettò Weber.

Questi si chinò in avanti, parlando con l'autorità della sua esperienza professionale, guardando Osborne direttamente negli occhi. Il preside tentennò.

«A causa di questi due ricercatori», proseguì il primario, «l'illusione si è fatta talmente radicata nella mente di Mrs. Moran da contagiare l'amico di lei. Venerdì scorso l'ha colpita alla testa, convinto di colpire nel buio questa allucinazione».

Osborne deglutì.

«L'università non è responsabile», obiettò.

«Non è questo il punto, preside», contestò Weber. «Lei è stata quasi ferita a morte. Non voglio che i miei pazienti subiscano delle violenze».

Weber si sporse in avanti, parlando direttamente ad Osborne.

«È stato dato appoggio a delle fantasie da due ricercatori con nessuna esperienza psichiatrica e neppure di psicologia clinica. Semplicemente chiedo che vengano obbligati a delle limitazioni».

Osborne si rese conto che il dottor Weber aveva finito. Si agitò a disagio.

«Rettore Halpern», disse, «ha qualche cosa da aggiungere?».

«Quando un medico ha delle responsabilità verso una paziente, Frank, è suo dovere comportarsi come altri con esperienza analoga. Altrimenti cade in pratiche illecite. Quindi, se è stata fatta una ricerca su una paziente in cura, devono essere posti dei limiti rigorosi. La paziente deve essere informata, deve firmare un modulo di consenso, deve essere formulata una specifica ipotesi, deve essere costituita una commissione di analisi. In altre parole, questi due signori non sono medici che conducono un esperimento approvato».

«Capisco», rispose Osborne.

«Senza nessuna intenzione di nuocere, ne sono sicuro», aggiunse Halpern a beneficio della dottoressa Cooley. C'era una sfumatura di sarcasmo nella sua voce.

«Ebbene», prese a dire il preside, rivolgendosi alla docente, «la cosa è piuttosto seria, Elizabeth. Non vedo alcuna alternativa, ti pare?».

La Cooley si sentì completamente presa in trappola. Il silenzio era stato il suo scudo durante trent'anni di ricerca psichica. D'altra parte, era chiaro che sarebbe stata messa alle corde se non avesse preso posizione. La riserva mentale dell'intera riunione era che il suo modesto istituto fosse antiterapeutico ed anzi dannoso. Ora doveva difenderlo. Accettava le limitazioni per Kraft e Mehan, ma doveva essere sicura che null'altro potesse accadere al suo embrionale istituto di parapsicologia.

«È senz'altro una situazione delicata, Frank», rispose in tono moderato. «Ma dobbiamo approfondire un tantino le cose. In primo luogo, noi abbiamo un modulo di consenso. Sempre chiediamo un permesso scritto dai nostri soggetti. In secondo luogo, la paziente aveva già cessata la cura prima di venire in contatto con noi. Per nessuna ragione interveniamo in un rapporto in corso tra paziente e dottore».

«Lei ha firmato il vostro modulo perché era malata», obiettò Sneidermann. «E soltanto perché non è venuta alla clinica per pochi giorni questo non significa...».

«Mi scusi», interruppe la Cooley. «La persona ci ha dichiarato che aveva smessa la cura. Non rispondeva neppure più al telefono quando lei ha tentato di chiamarla. Non è corretto questo?».

Sneidermann arrossì.

«È suo diritto legale e sanitario parlare con chiunque o invitare chiunque a casa sua. Questa è la nostra posizione. Non abbiamo dato pareri o prescritto cure mediche. Il modulo da lei firmato chiarisce scrupolosamente che noi stavamo svolgendo una ricerca. Per quanto ci riguarda, non avrebbe avuto alcuna influenza con il trattamento psichiatrico al quale era sottoposta».

«Ma la presenza del tuo personale, Elizabeth», ribatté Osborne, «sembra aver confermato le allucinazioni delle quali lei soffre».

La dottoressa Cooley esitò. Voleva evitare di difendere la sua specialità. Era la fossa nella quale essi tentavano sempre di seppellirla. Parlò con molta attenzione, sperando di girare intorno all'argomento.

«La presenza dei nostri ricercatori l'ha confortata», dichiarò. «Ci era grata che ci fossimo interessati al suo problema. Potrei far rilevare che gli attacchi, che ora sappiamo essere terribili incubi sessuali, sono cessati completamente durante il periodo in cui abbiamo cominciato a piazzare parte delle nostre attrezzature. Perciò sono del parere che non è giusto contestarci di aver aggravato il caso. Certamente appariva più sicura di sé, più allegra, persino fiduciosa in una sua definitiva guarigione».

Osborne si volse al rettore Halpern ed a Weber, che guardavano entrambi la dottoressa Cooley con rispetto, ma con segreta antipatia.

«Mi chiedo se può rispondere a questa dichiarazione, dottor Weber», disse.

«Certamente», replicò questi. «La fase peggiore per qualsiasi paziente è quando non ha più sintomi. È molto pericolosa e molto vulnerabile. Il malato non ha nessuna difesa. Proprio quando abbiamo portata la paziente a questo punto, i due giovanotti si sono fatti avanti ed hanno sostenuto che le sue illusioni erano un problema scientifico. Naturalmente lei ne è stata felice. È un'isterica. Non doveva affrontare problemi fondamentali. A questo punto, probabilmente, non lo vorrà mai».

Osborne si voltò di nuovo verso la Cooley. Gli umori si stavano scaldando. Detestava la prospettiva di discussioni violente. Erano sconvolgenti, sgradevoli. Odiava le emozioni. Odiava le polemiche. Stava cercando di tenersene fuori.

«Non stiamo forse trascurando il problema reale?» intervenne improvvisamente Kraft. «Non si tratta magari di vedere se ci siano o non ci siano altri validi punti di vista?».

«Che cosa intende esattamente?» chiese Osborne, ammiccando.

«Vuol dire», s'intromise svelta la Cooley, «che se la donna si sta disgregando dal punto di vista psichiatrico, si dirige ad un possibile suicidio o ad un esaurimento psicotico permanente. Dato questo presupposto, è meglio per lei avvalorare i suoi sintomi. Finché non riacquisterà forza. Perciò, noi la stiamo aiutando in senso psichiatrico».

«Molto abile», pensò Sneidermann. La dottoressa Cooley non era digiuna di psichiatria. Chi era? Come mai una donna intelligente come quella sosteneva degli idioti simili?

«Frank», intervenne il rettore Halpern, «le norme dell'università sono molto chiare. Se non si è medici o interni, non si può trattare con pazienti. Sono favorevolissimo alla sperimentazione. Ma deve avere dei limiti. E la responsabilità dell'università è ben definita».

«Capisco», commentò Osborne.

«Di fronte alla salute del paziente», aggiunse il dottor Weber, «tutti gli altri problemi sono secondari».

Osborne rimase convinto. Era venuto il momento per lui di mostrare una certa autorità. Si schiarì la gola.

«Ritengo, Elizabeth, che si possa arrivare ad un compromesso seguendo queste direttive», disse in modo perentorio. «Continuate i vostri esperimenti, ma non con la paziente in causa. Senz'altro la terapia medica e psichiatrica ha la priorità su ogni altra considerazione».

La dottoressa Cooley pensò di esserne uscita al meglio possibile, date le circostanze. Annuì.

«Accetto la direttiva, preside Osborne».

«Scusatemi», interruppe Kraft.

Osborne si voltò verso i due ricercatori all'estremità del tavolo. Era disdicevole. Si supponeva che la riunione fosse terminata.

«Che cosa c'è?» chiese con impazienza.

«Ignoriamo ancora che cosa c'è in gioco», disse Kraft.

«Accettiamo la raccomandazione», esclamò la Cooley, raccogliendo le sue carte. «Il preside Osborne è stato molto gentile con noi».

«Un momento», insistette Kraft. «Stanno cercando di silurarci».

Osborne si girò verso Kraft con una visibile irritazione dipinta sul volto.

«Ritiene di essere stato trattato ingiustamente?» chiese bruscamente. «Non è soddisfatto della decisione del preside dell'istituto di specializzazione?».

Kraft si alzò. Divise parecchie cartelle che teneva davanti. Le aprì lentamente, una per una. Contenevano fotografie splendide: colori iridescenti che esplodevano nel vuoto apparvero sul tavolo. Fra il silenzio del gruppo, Kraft ne mostrò una, poi l'altra finché la documentazione di fenomeni indecifrabili interessò Osborne malgrado se stesso.

«Guardi! Sono fenomeni medici?» chiese il giovane.

Tenne alzata la grande fotografia di una pioggia gialla di scintille iridescenti.

«Questo è un fenomeno psichiatrico?» domandò.

«Che cosa è, un quiz?» grugnì il dottor Weber.

Kraft alzò due fotografie di Carlotta. In una appariva normale, anche se nervosa e in qualche maniera perduta nell'ombra del suo letto. Nell'altra una vaga, luminosa incandescenza emanava dal suo corpo, ammorbidendo i contorni della parete e dissolvendo il bordo del letto in riflessi di luce.

«Le illusioni non possono essere fotografate, preside», gridò Kraft.

Osborne si sentì visibilmente a disagio. Era troppo tardi per sbatterli fuori dalla sala conferenze. Aveva già perso abbastanza la faccia. Ora ci si aspettava che replicasse al ragazzo basso con le fotografie. Ed era senza parole.

«Che diavolo è questa stronzata?» esplose Sneidermann.

Kraft mise le fotografie davanti ad Osborne.

«Vede da che cosa parte la nostra difesa, preside?» disse. «Possiamo esibire fotografie, misurazioni scrupolose, registrazioni scientifiche... nulla fa differenza! Lei è la nostra unica speranza».

Osborne, confuso, guardò il suo orologio da polso. Si sentiva agitato.

«In realtà non vedo...».

«Le dispiacerebbe controllare l'attendibilità dei nostri studi?» insistette Kraft.

Aprì una cartelletta e ne estrasse con cura una massiccia pila di documenti. Fra di essi apparivano eccellenti grafici e diagrammi stesi in calligrafia meticolosa e correttamente impostati.

«Le dispiace guardare la nostra documentazione?» insistette Kraft.

Mehan spinse un'altra cartella gonfia ed ordinata attraverso il tavolo. Kraft l'aprì e diligentemente allungò una massa di grafici e di dichiarazioni battute a macchina, ciascuna firmata in calce con nomi diversi, verso Osborne che fissava stordito i due ricercatori.

«Li legga, preside. Descrizioni di prima mano del fenomeno... tutto come da testimonianze visive attendibili».

La dottoressa Cooley era stupita. Kraft evidentemente aveva messo Osborne con le spalle al muro. Almeno per un momento. Tutto era allo scoperto. La miccia era accesa. Non ci si poteva ritirare. O il suo istituto, la sua carriera venivano distrutti, o non l'avrebbero mai più disturbata. Quindi poteva comportarsi senza remore per la prima volta in quindici anni.

Kraft era in piedi, con la camicia accuratamente stirata, la cravatta e la giacca appropriate alla piccola ma ben proporzionata figura. Parlò rivolgendosi direttamente al preside Osborne, intuendo che quello era il cardine della situazione.

«Il caso Moran si rivela come il più eccitante fenomeno fisico che sia mai stato registrato», affermò il giovane. «Non c'è da meravigliarsi che gli psichiatri convenzionali non siano in grado di fare qualcosa. Anzi... assolutamente nulla. Se mai, loro hanno interferito nei nostri tentativi convincendo la paziente che questi fenomeni, che lei può ben vedere, preside Osborne, erano realmente prodotti della sua immaginazione». Kraft si voltò di scatto verso il dottor Weber. «È lei che ha creato la sua psicosi facendole credere di aver perso il senso comune. Dicendole che era pazza, quando in realtà era solo sotto l'influenza di certi aspetti della realtà dei quali conosciamo ben poco!».

«Grazie, Einstein», sbuffò Weber.

«Di che cosa ha paura?» chiese Kraft irritato.

«Io? Ho timore che lei sia sull'orlo di un esaurimento nervoso».

«No. Ha paura di essere obsoleto. Lo ammetta. La psichiatria è in un vicolo cieco. Idee ammuffite che sono rimasugli del diciannovesimo secolo. Dispute interdisciplinari. Vistose sovvenzioni e riviste intelligenti. Ma nulla di sostanziale. Non più. Il grande giorno della psichiatria è passato. Perché la gente non crede più in voi? Perché vi sono migliaia di confuse branche della psichiatria, che avanzano a tentoni in cerca di una strada con cui affrontare nuovi problemi scientifici».

Osborne batté irritato sul tavolo. Comunque Kraft aveva finito. Era convinto di aver fatto del suo meglio. Mehan gli batté sulla spalla. Sneidermann si domandava quanto avessero infettato Carlotta. Sapeva che erano esperti di linguaggio scientifico. Ignorante in questo campo, non possedeva armi critiche per combattere la loro sofisticazione.

Osborne spinse indietro la sedia, pronto ad alzarsi.

«La raccomandazione rimane, dottoressa Cooley. Riceverà questo pomeriggio una memoria scritta. Le rammento che è vincolante».

«Grazie, preside Osborne», rispose questa. «È stato molto gentile. Accettiamo la sua raccomandazione».

Kraft era furioso. Non c'era verso di influenzare Osborne. Ero lo schiavo dell'università, sottomesso ad Halpern e Weber.

Mentre uscivano, quest'ultimo si allentò la cravatta.

«Accidenti, che mucchio di fessi patentati», mormorò.

 

Jerry Rodriguez si teneva la testa. Nelle ombre confuse e incerte della cella non sapeva se era pazzo o no. Le braccia gli bruciavano, il petto gli doleva e il cervello era in fermento. Ogni volta che chiamava silenziosamente Carlotta, vedeva qualche cosa di mostruoso e di vagamente lucente. Jerry gemeva e girava il capo verso la parete.

L'amava. Ma lei che cos'era? Che potere aveva di fargli vedere certe cose? Quel potere che la rendeva convulsa come se... Jerry rabbrividì. La gelosia lo colpì come una saetta. Che cos'era quel potere che la faceva gemere? Come mai lui aveva fatto quello che aveva fatto?

«Oh, maledizione, maledizione», mormorò.

I rumori che arrivavano sino alla cella lo fecero trasalire. Dov'era? Che genere di animale era diventato da essere in gabbia? Corse alle sbarre, le scosse ed urlò. Vide un agente di polizia sporgere la testa dall'angolo. Spaventato, Jerry si ritirò nella cuccetta.

Sentiva come se la sua mente fosse stata alterata. Era in fiamme. Era stato assalito da un incubo spettrale, avevano giocato a sconvolgere il suo equilibrio mentale. Non riusciva a scacciare questa impressione. Capì che la sua mente non sarebbe mai più tornata come prima. Come poteva Carlotta avergli fatto questo?

Cercò di chiudere gli occhi. Migliaia di gemiti echeggiarono nella cella. La vide vibrare nell'estasi dell'invisibile... dell'invisibile! Aprì gli occhi. Il sudore gli colava dai capelli. Si passò la mano sul viso, cercando di scuotersi. Era inutile. Che cosa aveva visto? Che cosa aveva visto?

Doveva essere stato contagiato da lei. Accadono cose del genere. Si diviene suggestionabili. Vulnerabili. Indifesi. L'amore fa questo. Anche la pazzia si trasmette in noi. E non c'era nulla di peggiore, almeno secondo Jerry.

Molti anni prima l'aveva capito. Lì, a Los Angeles, nella panetteria dove lavorava il padre.

Nel ricordo, Jerry ripercorreva le ardue strade della giovinezza, attraversava spazi liberi con auto accatastate, superava lo sgocciolio dei fondi di bottiglia a pezzi nei vicoli, penetrava nell'oscurità che gonfiava le casette di legno dove essi vivevano. L'odore dell'olio d'oliva, i vecchi giornali, i fagioli e le tortillas, i piatti sporchi e sbeccati nell'acquaio. Le sorelle e le loro bambole di stracci sui gradini. Nella profondità della casa c'era veramente buio.

Anche allora, Jerry sapeva che c'erano due modi di essere malati. Uno era esserlo come suo nonno. Si tossiva, si rabbrividiva, si vomitava ed infine si moriva. Era una cosa terribile. Ma c'era anche una maniera peggiore di essere malati. Ed era vergognoso. Dalla soglia della camera umida, che puzzava di disinfettante e polvere, Jerry osservava la madre sdraiata sul letto, coperta di vecchia ciniglia, con la testa fasciata per ferite immaginarie.

La madre pregava Gesù. Di proteggerli dalle guardie di frontiera. Ma queste erano al sud, a molte centinaia di chilometri. E loro erano in possesso di documenti regolari. Parlava a sua zia. Ma la zia era morta, sepolta ad Ensenada. Jerry la guardava parlare. Era così animata, così amichevole. Sembrava così naturale. Così normale, Soltanto che era sola.

Poi Jerry scoprì di essere anche lui esposto alla malattia. Sapeva che nel vicinato non c'erano guardie di frontiera. Ma ogni giorno, prima di recarsi a scuola, spiava attentamente fuori della finestra. Sapeva come stavano le cose, ma sentiva la necessità, l'obbligo, come se la pazzia della madre si fosse trasferita nel suo cervello e lui dovesse comportarsi così.

Quando la madre parlava alla zia, ne avvertiva quasi la presenza. Sebbene fosse morta prima che lui nascesse. Jerry chiudeva la porta della camera della madre e rimaneva fuori. Anche quando lo chiamava, lui rimaneva fuori.

Con un improvviso strillo lei urlava. Jerry si copriva le orecchie e rimaneva in cortile. Persino suo padre arrivava di corsa dal panificio della porta accanto, con le mani sporche di farina, ma Jerry restava nel vicolo, timoroso di entrare. Sapeva che lei stava vedendo delle cose. Serpenti, pidocchi, scorpioni. Lui non voleva vederli.

Lei non smetteva di urlare. Il padre correva fuori di casa in cerca di aiuto, con gli occhi fuori dalla testa, ignaro di ciò che stava facendo. Saltava sul furgone della panetteria e preso dal panico andava a casa del suo amico. E lei continuava a gridare.

Dentro la casa, Jerry vagava, attratto come da una calamita. Sul tavolo di cucina c'era una bottiglia quasi vuota di lisciva. Jerry sapeva che era ormai troppo tardi. Lei respirava affannosamente. Il suo stomaco stava per essere distrutto. Tremava come un cane che avesse ingoiato incidentalmente veleno per topi. Impietrito, Jerry guardava la madre tremare.

Si asciugava la fronte con la mano. Implorava il suo perdono. Ma lui continuava ad aver paura di lei. Era il centro della sua esistenza, ma stava lanciando maledizioni col suo respiro morente. Erano forse contro di lui? Contro i mostri abominevoli della sua immaginazione?

«Oh, Carlotta», sospirò.

L'aveva vista arcuarsi e sollevarsi da sola nel letto. Jerry fu colpito dalla coincidenza. Due donne, entrambe al centro della sua esistenza. Entrambe pazze. Forse che lui aveva qualche cosa dentro che lo trascinava a questo stato di allucinazioni?

Jerry crollò sulla panca della cella. La luna era sparita dietro il municipio. C'era buio. Sapeva che la sua esistenza era in gioco. Si chiedeva dove avrebbe trovato la forza di liberarsi di Carlotta. Eppure sapeva che, per l'integrità della mente, doveva farlo.

 

Otto giorni dopo essere stata ricoverata in ospedale, Carlotta fu dimessa. Fu accompagnata a casa da Billy. Fu un tragitto lento, silenzioso, a passo di funerale, punteggiato da occasionali fermate per aggiungere acqua al radiatore, che ancora perdeva. Per ambedue era un viaggio verso la speranza.

Entrando nel soggiorno, Carlotta fu colpita nel non trovarci Kraft e Mehan. Non c'era nessun ricercatore. E nessun equipaggiamento. Tutto era stato smantellato e portato via.

Guardò Billy. Lui teneva gli occhi bassi, impacciato. Non era stato capace di prepararla. Disse semplicemente: «Se ne sono andati, mamma».

Carlotta scosse il capo vagamente. Non riusciva ad immaginarlo. Era spaventata. Le avevano promesso di aiutarla. Perché l'avevano abbandonata? Se erano rimasti senza soldi, avrebbero dovuto dirglielo. Avrebbe capito.

I capelli, rasati a chiazze, erano coperti con un fazzoletto colorato. Un dolore persistente ancora le pulsava alle tempie.

«Sei pallida», notò Billy.

«Mi gira la testa».

Sedette sul divano.

«È meglio che ti sdrai», consigliò il ragazzo.

«Vado a letto», disse lei sottovoce.

Carlotta si spogliò e si infilò sotto le coperte. Il senso di vertigine le ritornò, come succedeva di tanto in tanto da quando era stata colpita sul lato destro della testa. La nausea rotolava come un'onda e poi spariva di nuovo.

«Non andartene, Billy».

«No, mamma. Mai lo farò».

Gradatamente la stanza cessò di girare e le cose parvero fissarsi di nuovo.

Scivolò dentro e fuori dal sonno. Occasionalmente apriva gli occhi. Una volta scorse le bambine che la guardavano. Poi se ne andarono. Veniva buio. Si sentì cadere. In preda al panico allungò il braccio. Sentì una mano afferrare la sua. Una mano calda.

«Sono qui, mamma», disse Billy.

Lei annuì, col viso inzuppato di sudore. Il ragazzo glielo asciugò gentilmente con un panno morbido. Gli tenne la mano contro la guancia per un attimo, poi scivolò di nuovo nel sonno.

La casa era buia. I grilli frinivano con un suono melodioso. Un dolore sordo riempiva il suo mondo. Jerry se n'era andato. L'oscurità era completa, infinita e fredda. Jerry se n'era andato. Si sentì tagliata a metà, sul fondo di un oceano immenso e gelato. Più nulla era normale. E mai più lo sarebbe stato.

Carlotta gemette leggermente nel sonno. Ricordi di Jerry andavano e venivano. Lo vide giacere accanto a lei, con lo champagne in mano. Si curvava su di lei e la baciava, con le labbra fredde ed umide. Ricordava di aver preso la vestaglia dall'armadio. Aprì gli occhi e si asciugò le lacrime. Nel buio vide che le pareti ed il soffitto sembravano strani. Erano coperti di pannelli di sughero. Li avevano lasciati.

Con una sinistra sensazione di freddo rammentò perché il sughero era stato sistemato dappertutto con croci bianche di nastro adesivo. Era una griglia fotografica per riprendere il mostro, il quale...

Si udì uno scricchiolio.

Guardò. Non c'era nulla. Faceva freddo. La notte si era trasformata in un vuoto, un freddo vuoto. La prese alla gola e sentì la pelle punzecchiata da spilli. Confusamente udì in cucina Billy canticchiare sottovoce.

Un altro scricchiolio.

Sedette sul letto. Sembrava che le pareti stessero spostandosi.

Poi un pezzo di sughero si staccò dalla parete. Un chiodo improvvisamente si allentò e rimbalzò sul pavimento, rotolò e rotolò ed il suono morì lentamente nell'oscurità. Il pannello di sughero urtò lentamente il bordo del letto, poi scivolò sul pavimento, rimbalzò una volta o due, poi rimase immobile.

Due scricchiolii.

Si voltò. Uno squarcio si produsse nel sughero della parete di fronte. I chiodi schizzarono insieme attraverso l'aria. Dei frammenti le caddero addosso. La parete divenne visibile mentre il sughero si staccava e veniva strappato, finché volava per la stanza e cadeva contro la porta.

«Ah ah ah ah ah ah!». Fu avviluppata dalla risata morbida e maligna.

Scricchiolii si udirono provenire dalle quattro pareti. Il sughero si disintegrò. Dei pezzi volarono come stelle turbinose per tutta la stanza. I chiodi cadevano sul pavimento. Pezzetti di intonaco aggiungevano neve al vortice. Tutto galleggiava, nuotava velocemente per la stanza, calando lentamente, iridescente, mentre il sughero cominciava a risplendere di azzurro e verde.

«Ah ah ah ah ah ah!».

Volarono sempre più veloci, sempre più freddi. Carlotta perse di vista le nude pareti di cemento e la stanza fu piena di silenziosi pezzetti di sughero volanti, di chiodi, di nastro bianco e di pezzi della sua toeletta. Divennero sempre più iridescenti, finché scorse pezzi come gioielli brillare e coagularsi in vortice sopra il letto.

«Bentornata a casa, porca!».

 

22

 

Il quattro aprile, il dottor Shelby Gordon, preside del dipartimento di psicologia, in seguito ad una nota del preside Osborne, dispose il passaggio di due stanze dell'istituto di parapsicologia a quello di psicologia comportamentale.

«Hanno bisogno di spazio», aveva detto alla dottoressa Cooley. «È lo stesso arredamento, i lavabi, gli attacchi, i...».

La docente era livida.

«Così il mio laboratorio è divenuto la residenza dei topi degli psicologi», disse irritata. «A me che cosa rimane?».

«Può sistemare le attrezzature nel suo ufficio», ribatté il preside. «Ed utilizzare le aule a turni. Con altre anche per le conferenze».

«Ho bisogno di un laboratorio», replicò lei furiosa.

Il dottor Gordon fu insolitamente evasivo. Il vecchio amico di un tempo sembrava imbarazzato. Evitava il suo sguardo.

«C'è dietro il preside Osborne, vero?» chiese.

Lui non rispose.

«Dopo tutti questi anni, Shel, puoi dirmi qualcosa», insistette la Cooley. «Ha intenzione di sloggiarci, vero?».

«Suppongo che sia una questione di priorità, certamente».

«Ma io ho soltanto tre stanze ed un ufficio».

«Ebbene, che ti debbo dire, Elizabeth? Non è una decisione mia. È della cucina del preside. Dobbiamo mangiare quello che ci viene servito».

La Cooley accese nervosamente una sigaretta.

«Che cosa ti aspettavi, che mi rotolassi dalla gioia e non reagissi?» disse.

«Non sono sicuro di che cosa tu possa fare, Elizabeth».

«Passerò sopra la tua testa».

«Non te lo consiglio».

«Perché no? Non posso condurre le ricerche come è necessario. Ho il diritto di essere ascoltata».

Il preside fece ruotare la sua poltroncina. Vide che era mortalmente seria.

«Elizabeth. Non rivolgerti al senato accademico. Perché vuoi finire in una arena come quella?».

Lei camminava su e giù per la stanza, fumando in continuazione.

«Perché è una questione di libertà scientifica», ribatté. «Accidenti, possiamo anche sbagliare completamente riguardo alla casa di West Los Angeles, ma loro non hanno soltanto bloccata la ricerca. Sono andati ben oltre, togliendoci dello spazio. Sai benissimo quanto me quale sarà il passo successivo».

«Scendi dal tuo piedistallo. È una legittima assegnazione».

«Merda. Ti rendi conto che sono in uno degli ultimi istituti di parapsicologia rimasti in una grande università? E sai perché? Perché sono stata molto cauta. Ho evitato gli impostori come la peste. Mi sono tenuta lontana dalla strada battuta dagli altri, non ho fatto chiasso. Ebbene, non sono disposta ad essere gettata nella pattumiera come un rifiuto, perché è proprio quanto stanno facendo. Odiano la parapsicologia e tutto ciò che la riguarda».

«Elizabeth...».

«Quando sarà la prossima riunione?».

«Finirai per alienarti Osborne. Questo è un errore fatale».

«Non ho scelta».

Il preside gettò un raccoglitore. Dei fogli caddero a cascata sul pavimento.

«Ebbene», disse infine, «buona fortuna. Ma non credo che vincerai».

Lei sorrise.

«Vincerò. La libertà accademica è l'ultima arma».

 

In un'ampia sala, dorata dalla luce del sole che filtrava attraverso le palme sistemate in vasi accanto alle finestre, era radunato il senato accademico. Più di trecento fra donne e uomini di diverse età e geni razziali, ostentavano una vasta varietà di stili negli abiti e nelle capigliature. Le donne, soprattutto, erano accuratamente vestite e pettinate in modo formale. Alcuni uomini sfoggiavano veli di barba intorno al mento, mentre altri esibivano folti cespugli che arrivavano alle orecchie. Certi avevano capelli fluenti sulle spalle, ed altri ancora li raccoglievano con un fermaglio. Comunque gli atteggiamenti erano identici: educati, riservati, formali. Un gran senso di frustrazione e tensione era mascherato dal controllo e soltanto le gambe contratte, i gesti nervosi, le agende tormentate dalle mani, rivelavano l'agitazione interna. Queste riunioni non erano avvenimenti desiderati con impazienza nelle loro occupatissime vite universitarie.

Un uomo magro, prematuramente calvo, prese posto sul podio.

«Il prossimo oratore è la dottoressa Elizabeth Cooley del dipartimento di psicologia».

Si allontanò. Alcuni docenti, arrivati in ritardo, cercarono di scivolare nell'ultima fila, ma uno di essi inciampò con fracasso in una sedia.

La dottoressa Cooley, con un mazzolino di fiori appuntato sulla giacca, avanzò con passo deciso. Davanti a lei c'erano i delegati eletti da tutta l'università: dipartimento di lingua e letteratura inglese, di arte, di storia, eccetera. Nel senato, tutti erano uguali. Ognuno poteva esprimere il proprio pensiero. Il gruppo davanti a lei rappresentava l'ultima speranza per il suo istituto. I membri del consiglio di amministrazione ed il rettore non avrebbero sprecato un minuto sul suo caso. Con costernazione, vide entrare anche Kraft e Mehan. Sperò che avessero l'astuzia di starsene zitti.

«Signor presidente, colleghi membri del senato. Il caso che desidero presentarvi oggi sarebbe futile, se non riguardasse uno dei cardini della nostra istituzione, ossia il diritto ad una ricerca libera ed indipendente».

I presenti si fecero attenti. Era un argomento che infiammava quasi tutti. Alcuni per ragioni ideologiche. Altri perché sapevano che un simile pericolo rappresentava una minaccia per ognuno di loro. Avevano imparato molti anni prima a stringersi in blocco per resistere ai tentativi di dividerli, di tagliarli fuori, di fare cattivo uso dell'università per migliaia di ragioni politiche ed economiche.

«Sono la direttrice di un istituto piuttosto modesto e sperimentale entro il dipartimento di psicologia», continuò. «Ci è stato concesso il diritto alla ricerca autonoma e alla pubblicazione da più di dieci anni e di questo privilegio siamo estremamente grati».

Parlava bene, in tono moderato ed autorevole. Lo doveva. C'era in gioco la sua sopravvivenza.

«Tuttavia», proseguì, «sono stati portati dei mutamenti che in realtà decretano la fine della nostra esistenza come unità indipendente. Questa decisione non è stata presa dal preside del nostro dipartimento, come stabiliscono le norme dell'università. Neppure è stata presa da un comitato che operi sotto le proprie responsabilità. Invece ci è stato unilateralmente imposta dal preside Osborne della scuola di specializzazione con una nota del quattro aprile».

Molti non amavano Osborne. Non era in possesso di un dottorato in filosofia, ma di una laurea in pedagogia, che molti consideravano non sufficiente per la dignità della carica. Già la dottoressa Cooley avvertiva appoggio e comprensione.

«Ci fosse stato un consenso del dipartimento, ci fosse stata magari spiegata la ragione, avremmo potuto accettare. Ma così non è andata. Senza alcun preavviso due dei tre laboratori ci sono stati tolti a metà di un semestre. Abbiamo perso permanentemente le attrezzature. E non vi è dubbio che alla fine verremo eliminati come istituto attivo».

La Cooley fece una pausa, alzò gli occhi dagli appunti e scorse il dottor Weber in terza fila. I membri del senato ascoltavano con attenzione.

«Ciò che chiedo è un voto per sollecitare il preside della scuola di specializzazione a revocare la nota del quattro aprile ed a restituirci le nostre attrezzature finché la questione non sia correttamente discussa da un comitato, oppure ad annullare il provvedimento».

L'uditorio ebbe un mormorio di comprensione.

Lei guardò il mare di facce che aveva davanti.

«A questo punto gradirei si aprisse una discussione», disse.

Si alzò un uomo magro della ripartizione latino-americana. Sembrava gli tremasse la mano destra.

«Forse dovremmo conoscere la natura della controversia», dichiarò, «prima di accettare unilateralmente la proposta della dottoressa Cooley. Secondo me dovrebbe essere provato che si tratta di una disputa a livello scientifico. Altrimenti è semplicemente una questione di riorganizzazione di spazi. Dobbiamo tutti lottare per la libertà di ricerca».

La Cooley silenziosamente lo maledì. Ma certo, prima o poi il problema sarebbe venuto fuori. Tirò un profondo respiro e sperò di essere eloquente e simpatica all'assemblea.

«Quello che noi studiamo rappresenta un aspetto unico della psicologia. Tutti i rami di essa, come senz'altro sapete, hanno fondamento sui comportamenti o sulle socialità che a loro volta si basano su dati fisici o statistici. Le nostre indagini sono di carattere psichico», disse francamente. «È una materia di studio sistematicamente esclusa dalla psicologia tradizionale. Non si trova nei libri, non viene trattata nei seminari, non viene compresa nelle ricerche sovvenzionate dal governo o in qualsiasi programma sperimentale ad eccezione dei nostri».

L'uomo magro sedette. Ma ormai il danno era fatto. Dei commenti sussurrati passavano tra una fila all'altra delle sedie prese dalla cafeteria per l'occasione.

Si alzò una donna alta e coi capelli rossi raccolti sulla nuca. Teneva in mano qualcosa che sembrava un rapporto battuto a macchina. La Cooley capì che si trattava della copia di una conferenza di Kraft e Mehan. Come l'aveva avuta? Qualcuno aveva orchestrato l'opposizione contro di lei. Guardò il dottor Weber, che fingeva di accendere una pipa già accesa.

«Ho qui un documento dell'istituto di parapsicologia», esordì la donna. «Credo vi possa dare un'idea del ragionamento che sta dietro la decisione del preside».

La donna inforcò gli occhiali che pendevano da un cordoncino che portava al collo. Finalmente la Cooley la riconobbe. Si chiamava Henderson. Era la preside dell'istituto di sociologia comportamentale. Psicologia dei ratti. Naturalmente... voleva lei le due stanze. Inoltre, la psicologia dei ratti era la più assurdamente ristretta disciplina da quando era nata la ricerca scientifica. Tutto quanto facevano era misurato, sezionato, pesato, analizzato, diagrammato, riportato su grafici, finché gli studenti non somigliavano a dei robots programmati a pesare topi morti. La donna cominciò a leggere dal foglio, con voce controllata, bassa, facendo pause brevissime per permettere al sarcasmo di risultare senza essere scoperto.

«Il primo degli autori», esordì, leggendo dalla copertina, «che è descritto come il ricercatore più esperto dell'istituto di parapsicologia, è un ex ingegnere elettronico. Il secondo ha una laurea in filosofia ed è un sensitivo».

«Un sensitivo cosa?» chiese qualcuno.

«Un sensitivo. È, secondo il documento, ricettivo al trasferimento del pensiero da agenti umani».

«Intende dire un lettore del pensiero?».

«Sì».

Il senato parve farsi irrequieto, ansioso di sentire di più. Da un caso di libertà accademica, che li aveva appassionati per la prospettiva di una battaglia dignitosa, persino eroica, contro le forze del mondo materialista, la faccenda andava degenerando in una battaglia su dei programmi discutibili sacrificati come doni propiziatori alla mania dei ricercatori per l'occulto e l'esotico.

«I due autori non sono laureati in psicologia clinica o esperti in qualsiasi altra collegata disciplina scientifica. In realtà sono stati ammessi alla specializzazione semplicemente in base all'interesse dimostrato verso la parapsicologia».

«Ipnotizzando il preside», mormorò qualcuno.

La donna abbassò lo stampato.

«Il problema non è quello che la dottoressa Cooley ci ha indotti a credere. La disputa non si basa su una controversia ideologica, ma su un esperimento condotto da questi due ricercatori. Un esperimento nel corso del quale una donna ha subito, come diretta conseguenza, una grave commozione cerebrale e varie ferite, ed è stata curata per una frattura cranica proprio nella clinica dell'università. Questa donna era in cura presso il reparto psichiatrico, ed era sotto la sua giurisdizione. Il preside Osborne ha fatto semplicemente e correttamente la sua scelta ed interrotta la ricerca. La dottoressa Cooley sta confondendo le carte. Non ha nulla a che fare con la libertà accademica».

La Cooley si diresse verso il podio. Questa volta aveva di fronte un pubblico ostile.

«Il problema non è semplice come è presentato dalla dottoressa Henderson, la quale, detto per inciso, beneficerà dei nostri laboratori una volta che li avremo lasciati».

La Cooley si schiarì leggermente la voce. Vide Kraft e Mehan nell'ultima fila, umiliati, che dipendevano da lei come mai prima.

«Non si è trattato soltanto di fermare una ricerca, poiché il preside ci ha tagliato i fondi e persino la disponibilità dell'equipaggiamento usato in quel particolare progetto. In effetti ha bloccato tutti gli esperimenti in corso nel nostro istituto, riducendoci ad una serie di corsi teorici».

Lasciò che il problema penetrasse nella coscienza di ciascuno. Li sentì di nuovo interessati ed attenti.

«Se il corso di educazione fisica insegna lo Yoga, come fa, e qualcuno si rompe un dito del piede durante la lezione, forse che l'intero istituto subisce la riduzione del dieci per cento delle sue disponibilità didattiche? Se il corso di scienze politiche scatena l'ira di qualche politico locale a causa di una ricerca sperimentale nel ghetto, forse che l'intero istituto viene chiuso? Naturalmente no. La parte sperimentale di qualsiasi disciplina è il sangue vitale, la freschezza ed il futuro scientifico. Qualsiasi cosa possa accadere con questi programmi sperimentali può essere catastrofico, amorfo o magari spettacolosamente fortunato. Ma il diritto alla sperimentazione, a condurre ricerche libere ed aperte, non importa quanto bizzarre possano sembrare, per stabilire i limiti della disciplina, e permettete che vi ricordi che la specialità del preside Osborne è la pedagogia e non la psicologia, è l'unico e fondamentale diritto che rivendichiamo. Senza di esso, veniamo travolti dalla giungla delle interferenze politiche, dalle pressioni dei gruppi economici. Non c'è bisogno che dica che cosa può comportare per l'università nel suo complesso. È il principio che dobbiamo difendere. Domani qualcuno potrà unilateralmente dichiarare inutile il vostro corso e, senza esami procedurali o spiegazioni, lo cancelleranno. Ecco tutto».

La dottoressa Cooley fece una pausa. Li aveva di nuovo riconquistati. Ora aveva bisogno di un voto prima che qualcos'altro accadesse.

Invece si alzò il rettore Halpern. Teneva in mano diverse fotocopie e le mostrava all'assemblea.

«Prima di procedere allo scrutinio», disse, «il senato deve essere informato di che cosa precisamente potrà accadere se approva la continuazione della ricerca in questione».

L'autorità della sua voce ebbe un effetto immediato. La maggior parte dei presenti non riconobbe in un primo tempo il rettore della facoltà di medicina, ma il suo nome circolò rapidamente.

«Dovete giudicare da soli», continuò, «se la questione di competenza è irrilevante come la dottoressa Cooley sta tentando di dimostrare. Questa è la ricerca proposta per il semestre. È intitolata: "Caso 142, entità disincarnata. Finanziamento della Roger Banham Foundation Grant, 1977"».

La Cooley si diresse furiosa verso il podio.

«Posso chiederle come ha avuto la copia della proposta? È materiale privato, non pubblicato e non pubblicizzato».

«Non ha importanza come l'abbia avuto», replicò Halpern.

«Lasci che sia il senato a decidere se è un comportamento corretto», sbottò la dottoressa Cooley. «Lasci che il senato mediti sulla inviolabilità della ricerca privata».

Kraft e Mehan protestarono rumorosamente ed uscirono sbattendo la porta dietro di loro.

«Il progetto, appoggiato da una fondazione privata associata alla Wake University Department of Parapsichology», lesse Halpern, «porterà nella casa in questione apparecchi laser allo scopo di raccogliere e trasferire un'immagine tridimensionale dell'entità disincarnata che attacca Mrs. Moran...».

Il signore magro, prematuramente calvo, riferendosi a quanto la Cooley gli aveva mormorato, si fece avanti.

«Veramente, dottor Halpern, con tutto il rispetto, qui sembra ci sia una questione di proprietà. Evidentemente quello è materiale privato».

Halpern si rivolse all'assemblea.

«Perché nascondiamo quello che la ricerca intende realizzare?» chiese in tono retorico. «Può essere che sia qualche cosa di meno eletto della Fondazione della Western? Vi assicuro che quanto c'è qui vi farà trasalire».

«Il senato accademico non è qualificato a giudicare un certo progetto sperimentale», ribatté la Cooley. «Ci vorrebbero ore di pazienti spiegazioni, particolarmente per i membri delle facoltà umanistiche ed artistiche, soltanto per far capire quale è l'argomento. Tutto quanto si richiede è un appello al preside Osborne perché si astenga da qualsiasi azione verso l'istituto, finché un comitato apposito non verrà convocato all'inizio del prossimo semestre».

Weber si alzò lentamente. Si tolse la pipa di bocca e si indirizzò all'assemblea.

«Ho la responsabilità del caso in questione», disse, «sono il dottor Henry Weber, preside dell'istituto di psichiatria. Ritengo che la paziente sia direttamente danneggiata dalla effettuazione della ricerca, anche per un solo altro giorno. Mai nella mia vita ho visto un progetto tanto mal concepito e potenzialmente dannoso. Come si possono misurare delle entità psichiche in una casa dove c'è una psicopatica? Intendiamo ricoverarla per sempre. Francamente, farei causa per danni se fossi al suo posto, e non sarei sorpreso se qualcuno lo facesse nel suo interesse».

Un silenzio preoccupato calò nella sala. Non c'erano più scappatoie.

«Ci sono momenti», proseguì Weber, «in cui la segretezza copre un'infinità di guai. È uno di questi momenti. Vorrei che ascoltaste la proposta. Vorrei che prestaste ben attenzione e decideste se è il genere di ricerca che merita il benché minimo appoggio dall'università. A meno che, naturalmente, miei cari amici, Elizabeth Cooley non obietti».

Si voltò verso di lei. Era in trappola.

«Ascoltiamo a mente aperta», rispose la dottoressa. «Senza dimenticare i progressi scientifici che, se fossero stati esposti un centinaio di anni orsono, avrebbero procurato l'allontanamento dalle università. Non commettiamo lo stesso errore. Viaggi spaziali, onde magnetiche, energia nucleare, ancora non molti anni fa erano fantasie di menti fervide. Le discipline classiche non capiscono quanto veloci siano i progressi in quelle sperimentali, e neppure quanto siano forti le resistenze delle amministrazioni. Noi combattiamo non soltanto contro le ristrette mentalità burocratiche dei comitati governativi, contro la politica universitaria e l'opinione pubblica. Combattiamo anche gli antidiluviani confini delle nostre discipline, ed abbiamo soltanto l'apertura mentale e l'equilibrio vostro per aiutarci. Vogliamo soltanto una giusta occasione. Lasciateci il nostro 1,4 per cento del bilancio del dipartimento di psicologia, il nostro 2,3 per cento del suo spazio. È chiedere troppo? Lasciateci il diritto di indagare, magari di fallire miseramente. Ma dateci il diritto di esistere».

Sedette. Qualcuno applaudì, a cui si unì qualche altro.

Halpern, rosso in volto, tenne il foglio ben in alto.

«Grazie dottoressa Cooley. Permetteteci di sapere di quali diritti stiamo parlando in realtà».

Trovò il segno. Parlò a voce alta, chiara, tenendo d'occhio tutti e particolarmente quelli delle discipline umanistiche, i quali, e lo sapeva, avevano la maggioranza e si sottraevano volentieri alle complicazioni della scienza.

«Oltre al laser», lesse, «che secondo il preventivo costerà 250.000 dollari (il sovvenzionatore, a proposito, è un coltivatore di tabacco a riposo che mantiene contatti regolari con la moglie dal 1962. Non tanto strano, forse, tranne che quello è l'anno in cui lei è morta)». Halpern cercò di nuovo il punto giusto nel foglio. «Oh, sì. Oltre al laser, il progetto chiede un'apparecchiatura superrefrigerante del costo di 50.000 dollari. Questo congegno refrigerante, che utilizza pompe aspiranti ed elio, dovrebbe servire per congelare l'entità psichica in una forma gelatinosa affinché possa essere conservata e studiata. Come venga spostata, non lo si dice, ma probabilmente in un frigorifero».

Il dottor Weber rise fragorosamente.

«Oltre a questo», proseguì Halpner, «l'intera casa dovrà essere isolata con una copertura di niobio superconduttore e pannelli metallici con intercapedine sotto vuoto, ci giurerei, anche se non so bene di che cosa si tratti, al fine di evitare tutti i campi elettromagnetici esterni e tutte le radiazioni che possono interferire con l'esperimento. Permettetemi di rammentarvi ancora una volta, signore e signori, che la paziente è una psicopatica. Oltre a tutto questo, il progetto prevede la presenza di sensitivi che attirino l'entità attraverso le varie stanze verso l'apparato refrigerante ad elio liquido».

Non si sentirono risate. Parecchi docenti erano pallidi. Molti erano terrificati. Si sentiva un gran mormorio e le facezie erano piuttosto forzate.

Halpner li teneva in pugno.

«Voi che cosa fareste se qualcuno vi si presentasse con una proposta del genere?», chiese irritato. «Forse la stessa cosa decisa dal preside Osborne. Un bel taglio...».

Fece schioccare le dita.

«... così».

Sedette.

L'assemblea era irrequieta. Voleva liberarsi dell'istituto di parapsicologia. Tutta la faccenda sapeva di bizzarria e di esotismo. Il voto a sostegno della nota del preside sarebbe stato unanime e la dottoressa Cooley lo sapeva.

Una giovane graziosa si alzò. Era più giovane degli altri perché rappresentava gli studenti.

«C'è ancora la questione del perché il preside ha ridotto lo spazio all'intero istituto. Questo può essere chiarito?» chiese.

«Perché», replicò Halpner, rimanendo seduto, «questa ricerca è tipica di quell'istituto. Chissà che cosa combinano dietro il muro della segretezza».

Ma la rappresentante degli studenti non era soddisfatta.

«Secondo me si dovrebbe arrivare ad un compromesso», disse.

La Cooley guardò la giovane donna. L'assemblea si era di nuovo fatta silenziosa. Compromesso era una parola magica. Qualsiasi cosa pur di evitare di urtare dei sentimenti. Contemporaneamente tutti avevano la sensazione che la ricerca fosse così poveramente definita e così potenzialmente pericolosa per la paziente, da giustificare il suo rigetto. Perché non poteva essere condotta sotto gli auspici dell'università?

Halpner impallidì. Weber fu colto con la pipa sospesa a metà strada dalla bocca. Non poteva credere alle sue orecchie.

«Non capisco», borbottò il primo.

«Poniamo l'esperimento nell'ambito della facoltà di medicina, oppure del dipartimento di psicologia. In modo che possa essere controllato dagli studiosi di psicologia, o chiunque altro e contemporaneamente le condizioni fisiche e mentali della paziente possano essere tenute sotto esame da personale autorizzato».

La Cooley si avviò rapida al microfono. Silenziosamente ringraziava la giovane donna. La gioventù era stata sovente la sua unica alleata.

«Sarebbe un modo ragionevole di impostare il lavoro», affermò la dottoressa, «soddisfacendo nello stesso tempo le legittime necessità dei dottor Weber».

«Non acconsentirò a nessun esperimento», dichiarò questi.

Parecchie voci tentarono di persuaderlo.

Si alzò un uomo dai baffi folti e neri. La sua cravatta gialla contrastava vistosamente con la camicia bianca.

«Non spetta al dottor Weber concedere o meno la sua autorizzazione», disse. «La malata è soltanto in cura da lui. Forse c'è un altro psichiatra disposto a garantire per la paziente e forse anche la serietà delle prove?».

«No, se vuole rimanere nell'ordine professionale», ringhiò Weber.

Si alzò un signore piccolo e con le orecchie appuntite. Era relativamente giovane, nervoso e non abituato a parlare in pubblico.

«Posso essere disposto a prendere in considerazione la proposta», disse. «Sono il dottor Balczynski, psichiatra clinico. La ricerca mi interessa».

«Balczynski», grugnì Weber nell'orecchio di Halpern. «Non è neanche in grado di allacciarsi le scarpe».

«Allora sarebbe disposto ad accettare tutte le responsabilità mediche?».

«Penso di sì. Naturalmente dovrei esaminare bene il progetto».

La Cooley si fece avanti.

«Noi siamo più che disposti a modificare la ricerca per venire incontro alle limitazioni che il dottor Balczynski vorrà porre».

Una sensazione di sollievo passò per la sala. Finalmente avevano risolto la controversia.

«Propongo di votare», disse una voce.

«Approvo».

L'uomo magro sul podio parlò con chiarezza e precisione.

«La mozione», annunciò, «è di inoltrare al preside Osborne della scuola di specializzazione la raccomandazione vincolante di revocare la nota del quattro aprile al dipartimento di psicologia, nella quale si ordina di ridurre lo spazio all'istituto sperimentale diretto dalla dottoressa Cooley ad un solo laboratorio e di limitare detto istituto come unità permanente di studio. Questa raccomandazione rimane valida finché la ricerca di cui abbiamo discusso verrà gestita come prescritto dalie norme e dai regolamenti della scuola di specializzazione».

La mozione raccolse 254 voti favorevoli contro 46 contrari, con nessuna astensione.

La dottoressa Cooley si portò al microfono per un'ultima volta. Aveva il volto radioso, quasi illuminato da dentro.

«Grazie molto», disse. «È impossibile descrivere le pressioni sotto cui lavoriamo. Se o meno le nostre ricerche saranno fruttuose non tocca a me dirlo ora. Forse no. Ma il diritto di continuare, che oggi abbiamo affermato, è una vittoria non soltanto per me, ma per tutti i presenti. Grazie di nuovo».

Si ritirò. Si sentiva serena ed il cuore esultava. Una vittoria dopo tanti anni. Ormai c'era il precedente. Mai aveva avuto un simile caposaldo su cui contare. Era quasi un sogno.

I documenti si mescolarono mentre il senato passava all'altro punto dell'ordine del giorno: uno sciopero nelle cafeterie.

Il dottor Weber si alzò ed uscì con ostentazione.

«Pecoroni», borbottò a voce alta. «Pecoroni. Ecco quello che siete. Pecoroni. Non vi rendete conto di qual è la realtà».

Era furibondo; dei bollettini caddero sparpagliandosi a cascata dal tavolino accanto all'uscita.

La dottoressa Cooley non riuscì a concentrarsi per il resto della seduta. Desiderava discutere con Kraft e Mehan il significato preciso della mozione. Che cosa voleva dire esattamente: «nell'ambito della università?». L'unica maniera di portare la ricerca nell'ambito dell'università era di collocarvi fisicamente la donna. Non sarebbe stato poi così difficile e lei avrebbe certamente accettato. Però c'erano molte variabili legate alla casa. Variabili che influenzavano gli stati d'animo, che mutavaao con l'atmosfera, con la rotazione della terra, con la presenza di altra gente, soprattutto dei figli. La Cooley cercò di tracciare mentalmente un piano d'azione. Avevano i fondi. Avevano le autorizzazioni. Come, esattamente, li avrebbero usati?

 

PARTE QUARTA

L'entità

 

...Un'orribile cella, su tutti i lati

come una grande fornace ardente; però da quelle fiamme

nessuna luce, ma piuttosto una mezza oscurità

utile soltanto per scoprire visioni di sventura,

regioni di dolore, ombre tristi, dove la pace

e la quiete non possono regnare, la speranza mai arrivare.

MlLTON

 

23

 

Secondo il capitolato della Roger Banham Foundation Grant, Kraft e Mehan erano autorizzati ad usare qualsiasi mezzo tecnologico, purché fornisse dati scientifici attendibili. Secondo la mozione del senato accademico, tuttavia, nessun esperimento era permesso presso i Moran. Perciò la casa, o almeno quegli elementi che erano trasportabili furono trasferiti in laboratorio.

Per la ricerca fu assegnato il terzo piano del palazzo delle scienze psicologiche. Con l'approvazione del preside Osborne, ed il permesso riluttante del presidente dell'università, le pareti di quelli che erano stati quattro laboratori ed i divisori di alcune stanze, furono abbattuti, lasciando la squadra della dottoressa Cooley con una vasta area, con molti attacchi per la corrente elettrica, condotti di ventilazione e tubi per gas, acqua ed ossigeno. I ricercatori sgombrarono vecchie scrivanie, rubinetti, scaffali ed armadietti vari, finché rimase soltanto uno stanzone vuoto, tanto vasto da ospitare parecchi campi da tennis. Per mezzo di scale gli operai raggiunsero i soffitti insolitamente alti e cominciarono a provvedere all'insonorizzazione dell'intero locale. Le pareti furono schermate con doppie lastre Faraday alternate con niobio superconduttore e pannelli metallici con intercarpedine sottovuoto, per impedire a radiazioni elettromagnetiche di penetrare.

Fu poi costruita a mezza altezza una larga passerella, cosicché Kraft, Mehan e la dottoressa Cooley, o chiunque altro, potessero percorrere l'intero perimetro e controllare la zona a qualche metro più sotto.

Il 6 maggio, fu eretto un facsimile della casa di Kentner Street, ma senza il soffitto. Cucina, soggiorno, camere e corridoio furono montate nell'esatta proporzione. I tappeti furono collocati sul vecchio pavimento, il mobilio trasportato al suo solito posto. Scarpe e qualche rivista giacevano per terra, come se gli occupanti vi vivessero da anni. Sembrava una scena teatrale, solo che le pareti erano più solide.

Quando, la mattina del 10 maggio, il lavoro fu completato e il sipario si alzò sul «Caso 142 - Entità disincarnata», quasi un quarto del milione di dollari della Roger Banham Foundation Grant era già stato speso.

L'ultimo pezzo ad essere collocato della casa di Kentner Street fu Carlotta Moran.

 

La sera prima del giorno in cui doveva trasferirsi per il suo soggiorno di due settimane nel nuovo ambiente, periodo convenuto tra il preside Osborne e la dottoressa Cooley, Carlotta ricevette un'ultima visita. Lui andò nella stanza del motel offerta dall'università.

Carlotta si era ritirata presto, di cattivo umore e col cuore in pena. L'assenza di Jerry incombeva su di lei come una nube che non voleva dileguarsi. Dalla prigione si rifiutava di vederla e rifiutava qualsiasi messaggio. Carlotta aveva scritto all'avvocato, spiegando di essere inciampata e di aver battuto accidentalmente la testa contro la sedia. Per il momento, però, neanche una parola era arrivata tanto dal legale che da Jerry. Carlotta cominciò a pensare che a lui non importasse più nulla di loro. E con questo pensiero in mente, lui venne.

Non si sentì nessun rumore, ma soltanto il freddo. Un momento prima la stanza era vuota e un momento dopo lui era lì. Tentò di eccitarla, di stimolarla, di risvegliarle la carne contro la sua volontà ad un'appassionata risposta. Il suo odore avvolgeva Carlotta come una guaina protettiva, un involucro di freddo malsano, raggelante. Il materasso si muoveva ritmicamente sotto il loro peso combinato. Lui divenne più violento, più duro, nel tentativo di dominarla.

«Dammi di più».

La obbligò a muoversi, ad arcuarsi e non gli importava che la nausea, come un blocco mentale, ottundesse i sensi di lei. La teneva piegata in due, in una strana posizione e la sottoponeva alla sua lussuria.

«Dai questo ai tuoi amici».

 

Carlotta arrivò all'università alle 10,30, accompagnata da Kraft, Mehan e dalla Cooley. Alle 11,15 fu messa al sicuro nella «sua» casa e la veglia formalmente iniziò.

La prima reazione della giovane fu una sensazione confusa di déjà vu. Era la sua casa. Soltanto che non lo era. Ciò che somigliava alla luce del sole, filtrava attraverso quelle che apparivano delle normali finestre. Il pulviscolo galleggiava nell'aria. L'odore del tappeto leggermente consumato, era normale, come per una presenza di muffa da qualche parte. Le porte conducevano alle stanze giuste. La radio rotta di Billy giaceva in un angolo vicino al letto. Persino il giocattolo di gomma di Kim era abbandonato nella vasca da bagno macchiata. Come i suoi incubi, era e non era.

Però delle luci spuntavano dai punti più in alto, dei monitors osservavano silenziosamente dall'oscurità. Carlotta non li vedeva. Nessuno poteva vederli, anche se si sapeva dove guardare.

Lassù, nel buio di una stanzetta, la dottoressa Cooley ed i suoi ricercatori osservavano per mezzo di una sofisticata televisione a circuito chiuso.

Per quanto era possibile, l'attrezzatura era stata resa automatica per poter esercitare un controllo ininterrotto. Rivelatori elettromagnetici registravano di continuo la presenza di campi elettrici, magnetici ed elettrostatici. C'erano misuratori della ionizzazione più sofisticati di quelli usati nella Kentner Street. Sensors elettronici registravano i mutamenti della resistenza dell'atmosfera al passaggio di energia elettrica, ed analizzavano le variazioni rispetto alle varie frequenze.

Il dottor Balczynski, com'era suo esplicito mandato, controllava ogni cosa fra lo stupefatto ed il confuso.

«Negli ultimi mesi», spiegò Kraft, «abbiamo raccolto osservazioni straordinariamente precise su Mrs. Moran, i suoi figli e la casa. Ora che abbiamo imitato i locali nei più minuti particolari, speriamo di attirare il fenomeno servendoci della donna».

«Per l'esattezza, che cosa vi aspettate che lei faccia?» chiese Balczynski sospettoso.

«Che viva qui e basta», rispose Kraft semplicemente.

«Intende dire dormire qui? E tutto il resto?».

«Si».

Il volto dello psichiatra si rabbuiò. «Questo significa che dovrò trascorrere sul posto anche le mie notti».

Kraft sorrise. «Speriamo proprio che sia così. In realtà, desideriamo che lei firmi una dichiarazione che attesti le condizioni mentali della signora Moran. E questo per il nostro rapporto conclusivo».

Il dottor Balczynski sospirò, il che sembrava indicare che non aveva obiezioni.

«Dubito che potrete mai provarlo a qualcuno», mormorò, fissando gli schemi televisivi posti in alto.

«Perché no?».

«È tutto così... così... se posso parlare francamente... così giovanile».

Il sorriso di Kraft non mutò, ma i suoi occhi parvero istantaneamente oscurarsi, tanto che il dottor Balczynski si trovò a fissare una smorfia quasi minacciosa.

«Forse è giovanile non credere a ciò che viene dimostrato».

Questi sorrise in modo ambiguo. La speranza sembrava lottare con l'esperienza nei suoi occhi di medico.

«Deve sapere che è osservata?» chiese.

«Naturalmente. Glielo abbiamo detto. Ma è presa dalla familiarità dell'ambiente e si dimentica di noi. Il che è esattamente ciò a cui miriamo».

«Ma tutti quegli apparecchi... quel sapere di essere sotto costante osservazione, è proprio quanto ci vuole per innervosire chiunque. In questo caso, Mrs. Moran è spinta a nutrire una ben giustificata paranoia».

«Ma lei non vede gli apparecchi», spiegò Kraft. «Venga, permetta che glielo dimostri».

Salirono una ripida scala di ferro che si spingeva nel buio. Il dottor Balczynski si trovò affacciato ad un parapetto, a sei metri sopra Carlotta che leggeva seduta in poltroncina.

«Vede?» sussurrò Kraft. «È completamente inconsapevole di noi».

Il dottore agitò il braccio. Carlotta non alzò lo sguardo. Era una sensazione strana, essere in condizioni di osservare in quel modo un altro essere umano.

Davanti ad un banco, Kraft, sorridendo, fronteggiò il medico.

«Questo», spiegò, «è un sistema di termovisione. Opera per mezzo di raggi infrarossi. Mostra i gradienti geotermici e la distribuzione di qualsiasi oggetto nelle stanze».

Kraft toccò diverse manopole. Sullo schermo divenne visibile un rettangolo verde.

«Che cosa è?» chiese sospettoso Balczynski.

«Questo è il frigorifero. Sprigiona un certo calore e perciò sembra verde».

«Che cos'è quel bagliore arancio sul fondo?».

«È il luogo del motore. È più caldo del resto del frigorifero. Perciò il colore è diverso».

Il dottor Balczynski guardò in basso. Carlotta stava mordicchiando una mela. Appariva assolutamente calma, assolutamente inconsapevole che due uomini erano a sei metri sopra il suo capo a discutere di lei.

Kraft spostò la macchina da presa su Carlotta. Una luce a molte sfumature colpì lo schermo. Un'immagine spettrale, irradiata, striata ed incerta emise un proprio calore nell'oscurità.

«Vede quell'oggetto azzurro?» chiese Kraft. «È la mela».

«Dio mio», osservò Balczynski. «La si può vedere mentre viene ingoiata».

Affascinato, guardava l'oggetto azzurro scivolare nella massa sfumata del colore dell'arcobaleno e che aveva una forma vagamente umana. Il volume dell'oggetto diminuì lentamente e cominciò a divenire più luminoso, finché fu indistinguibile dal resto.

«Stupefacente, non è vero?» affermò Kraft. «Permetta che le mostri le altre due macchine da presa».

Proseguirono, abbassando la testa sotto parecchi travi di sostegno, finché raggiunsero una zona nella quale era stata piazzata una seconda batteria di apparecchi.

«Questo è un sistema televisivo a colori, a bassa luce», spiegò Kraft. «È simile ad un impianto ordinario, solo che per mezzo di amplificatori elettronici possiamo fotografare nella quasi assoluta oscurità».

«Questo sì che deve essere costosissimo», rifletté Balczynski.

«Settantottomila dollari».

Kraft, orgoglioso, indicò un altro apparecchio, dal quale sporgevano degli obiettivi sorprendentemente piccoli.

«Questo è un ordinario sistema televisivo a colori», annunciò, «con la differenza, forse, che è totalmente automatico. Controllato da un computer, in effetti, ci fornisce chilometri di bobine».

Kraft sorrise compiaciuto. In qualche maniera ciò disturbò il dottor Balczynski. Si chiedeva se non stessero abbindolandolo. Già aveva permesso di andare ben al di là di quanto aveva pensato all'inizio. Questo prima di essersi reso conto di quanto stessero spendendo. Non vi era nulla di veramente pericoloso in ciò che avevano progettato. Nondimeno, Balczynski percepiva di essere stato manipolato.

«È sottinteso che controllerò tutto molto da vicino», ammonì. «E vi fermerò, se del caso».

«Non credo che abbia nulla di cui preoccuparsi», ribatté Kraft gentilmente.

Balczynski guardò in basso. Carlotta si era allungata sulla poltroncina per un sonnellino. Indossava una gonna di tweed ed una morbida camicetta bianca. Il medico non poté fare a meno di notare che era una donna seducente. Il suo corpo sembrava invitare e la posa in cui giaceva era vulnerabile, debole ed indifesa. Balczynski improvvisamente capì che era una sorta di esca per lo strano essere. Però, dal momento che lui non ci credeva, non poteva certo protestare. Se l'avesse fatto avrebbe rischiato la figura dell'asino fra tutti gli psichiatri.

«Qualche cosa che non va?» chiese Kraft.

«No. Nulla. Soltanto vorrei che tutto fosse già finito».

 

Quella sera Carlotta si spogliò nella sua «camera» e si infilò sotto le lenzuola. La morbida luce della lampada addolciva la pelle con uno scintillio lattiginoso. C'era una quiete mortale. Il dottor Balczynski aveva lasciato un tranquillante ed una tazza di acqua su un vassoio. Ma lei non ne ebbe bisogno. Si svegliò la mattina e il sole simulato risplendeva, gli uccellini registrati cinguettavano e la dottoressa Cooley stava bussando educatamente alla porta.

«Entri», disse Carlotta vivacemente.

«Ha dormito bene?».

«Perfettamente».

«Nessun fastidio?».

«Ho sognato di essere bambina. In un prato di margherite. Tutto intorno a me il cielo era azzurro ed i fiumi mormoravano».

«Che bel sogno», commentò la Cooley nostalgica.

Un'ora più tardi arrivarono Kraft e Mehan.

«Vorremmo che tenesse un diario dei suoi pensieri e delle sue impressioni mentre è qui», disse Kraft. «Abbiamo installato nella sua camera un orologio digitale, in modo che possa prendere nota dell'ora. È molto importante per noi essere al corrente di tutte le sue esperienze soggettive».

«E dei suoi sogni», aggiunse Mehan. «Questo è particolarmente prezioso».

«Rimarrà tutto confidenziale», precisò Kraft. «Il diario le verrà restituito dopo l'esperimento. E se ne pubblicheremo dei brani naturalmente saranno anonimi».

Mehan le porse un pesante quaderno. Ed anche un mazzetto di penne.

«Non importa quanto siano pazzi i suoi pensieri o staccati o incoerenti», avvertì Kraft, «saranno tutti di grande interesse».

«Se vi saranno utili?!» commentò lei asciutta.

 

Trascorsero pacificamente tre giorni.

Fu stabilito che Billy e le bimbe stessero con Cindy. Potevano far visita a Carlotta durante il giorno, dopo la scuola, ma Kraft preferiva tenere la madre il più isolata possibile. Voleva che si rilassasse, che dimenticasse dove si trovava, che ritornasse il più possibile ad uno stato psichico normale. Nondimeno, vedere i figli era per Carlotta l'unica tregua piacevole in quelle che presto divennero giornate lunghe e tediose. Aspettava con impazienza l'arrivo dei familiari.

Cominciava ad ambientarsi. Ormai sentiva il posto come la sua vecchia casa. Ma non del tutto. Era troppo nuovo e pulito, con odori e suoni diversi. Carlotta si sdraiò sul letto. Era assonnata. Un quieto e rilassante genere di assopimento. Le sembrò di scivolare lontano. Immagini di fiori splendenti galleggiavano per la stanza.

Apri gli occhi, prese il quaderno, indicò l'ora (2,34) e scrisse.

 

Tutto tranquillo. Mi sento bene. È quasi come essere a casa prima che tutto accadesse. Finalmente un po' di pace. Ho sognato fiori, di nuovo fiori gialli in un prato. Il sonno è stato profondo.

 

Rilesse quanto aveva scritto. Garrett avrebbe saputo come tradurre in parole quei pensieri luminosi. In parole mielate. Avrebbe saputo descrivere la. sensazione di avviarsi verso un futuro facile e meraviglioso, l'atmosfera sensuale di calore e piacere, il tranquillo stato d'animo di essere sola ma protetta. Invece non era poeta e il poco che scriveva risultava una povera rappresentazione del dolce calore che sperimentava in tutta se stessa.

Quando arrivarono Cindy con Billy e le bambine, era addormentata.

 

24

 

L'ottavo giorno, Carlotta divenne estremamente sensibile ai rumori, come se temesse il suo arrivo. Diversamente, non vi era la minima indicazione di qualche cosa di anormale.

A mattina inoltrata, Joe Mehan entrò nell'ambiente artificiale portando un grosso quaderno sul quale aveva riassunto molte visualizzazioni di fenomeni fisici. Alcune erano disegni di artisti, altri di vittime, basati su descrizioni verbali. Il suo scopo era determinare con esattezza la misura, la forma e l'aspetto generale del visitatore di Carlotta.

Mehan aprì il quaderno ed indicò le colorate interpretazioni una per una.

«Qualcuna le risulta familiare?» chiese gentilmente.

«No».

«E questo? È una visita avvenuta in Francia. Un tipo brutale».

«No... lui è più... più alto».

«Forse questo? Viene dalla Patagonia».

«Un tantino... sì. Ma non è col viso così rotondo».

Mehan era pensoso. Mostrò parecchi altri disegni. Apparizioni demoniache fissavano Carlotta, spaventose, pazze, tutte maligne.

«No», disse esitante. «Forse questo... no... è più volgare. E gli occhi sono obliqui».

Mehan chiuse il quaderno.

«Nessuno somiglia a quello che ha visto?».

«No. Nessuno».

«Allora le dispiace se ne faccio uno schizzo basandomi sulla sua descrizione?».

«No, naturalmente».

Mehan si procurò diversi carboncini e gessetti colorati, nonché un blocco di carta da disegno. Lavorò per parecchie ore; il polso e il braccio si muovevano agilmente.

«Come questo?» chiese.

Carlotta spiava il blocco, quasi contro la sua volontà. Vedeva l'immagine prendere forma. Ansimava.

«È lui», sussurrò. «Ma gli occhi... sono più crudeli».

«Così?» chiese Mehan, dopo pochi, precisi e duri tocchi.

«Sì. E la faccia e più... solida... più...».

«Muscolosa?».

Mehan rialzò gli zigomi con qualche abile tratto di gessetto bianco ed azzurro.

«Sì», confermò lei, respinta da quel volto odioso. «È così che sembra».

Mehan inserì il disegno nella collezione. Riportò altresì la descrizione di Carlotta. Ne diede delle fotocopie alla Cooley, a Kraft ed al dottor Balczynski.

Questi inviò il disegno al dottor Weber, accompagnato da una nota la quale diceva che erano trascorsi nove giorni e che se conosceva qualche cosa che somigliasse al disegno, doveva essere così gentile da telefonare all'istituto di parapsicologia.

Weber scoppiò a ridere.

«Lo metta nella cassetta della posta di Sneidermann», ordinò alla segretaria.

L'interno lo ritirò nel pomeriggio. Spiegò il foglio, postillato da parecchi commenti di Weber. Sneidermann non trovò divertente né il disegno né le battute scarabocchiate sopra. Era un volto terrorizzante. Lo faceva quasi star male la sola idea della «ricerca» di esso.

Bussò alla porta del primario.

Questi stava passando la posta pomeridiana. Gli era stato offerto di organizzare uno studio in Guatemala e cercava di conciliarlo con gli impegni alla clinica prima dell'inizio dell'estate.

«Entri, Gary», disse. «Ha ricevuto il messaggio?».

«Sì», rispose Sneidermann, brandendo il disegno. «Somiglia a Balczynski».

Weber ridacchiò, firmò una lettera e prese un tagliacarte.

«Ritiene che tutta questa ...roba... possa nuocerle?» chiese il giovane.

«Desidera veramente la mia opinione?».

Sneidermann sedeva guardingo in un'ampia poltrona di pelle.

«La nostra più grande speranza è che falliscano», disse Weber. «Quando succederà, e mi creda, succede sempre, Carlotta avrà distrutto il suo ultimo rifugio dalla realtà. Dovrà ritornare da noi ed affrontare il problema. È tutto molto semplice».

Sneidermann maltrattò una busta e la gettò nel cestino. Per un momento osservò dalla finestra le infermiere che passavano in cortile. Weber terminò di battere a macchina una nota diretta al direttore del reparto drogati.

«Quando sarà?» chiese Sneidermann.

Il primario si strinse nelle spalle.

«Sono rimasti ancora cinque giorni. Aggiungiamone qualche altro perché Carlotta si renda conto di non sapersi dove rigirare».

«Cinque giorni», sospirò Sneidermann. «Mi sento stomacato al solo pensiero».

«Si rilassi».

«E se andassi sul posto a guardarmi intorno?».

«Che cosa stabilisce la risoluzione del senato accademico?».

«Non proibisce a nessuno di fare una visita».

«Allora vada e dia un'occhiata. Ma non voglio sentir parlare di grane causate da lei».

Sneidermann lasciò lo studio di Weber, attraversò svelto il cortile ed entrò nell'ala del dipartimento di psicologia. Prese l'ascensore sino al quarto piano.

Nel corridoio bevve una bibita fresca presa al distributore. Si rendeva conto di essere geloso. Lo era già da due mesi. Loro avevano Carlotta e lui no. Simili emozioni giovanili erano un tormento. Non era certo fiero di questi sentimenti, ma esistevano e non poteva fingere di non averli.

Bussò leggermente allo studio della dottoressa Cooley. Uno studente lo informò che si trovava al terzo piano. Sneidermann vagò lentamente e con le mani in tasca per i minuscoli laboratori. Osservò dei criceti, con le schiene ed i fianchi coperti di elettrodi. Si chiese quali esperimenti fossero condotti sui poveri animali, sotto la copertura di provare qualche «teoria». Percepì un singolare gorgoglio. Si voltò. Un pesce lo stava fissando da una vasca verde. Era esotico e brutto: le branchie muovevano l'acqua sopra i sassi del fondo.

In un altro Jocale parecchi studenti si applicavano dei fili magnetici alle mani. Tossì adagio. Essi si voltarono sorpresi, cauti in presenza di un estraneo.

«Dov'è Kraft?».

«È al terzo piano».

Sneidermann tornò indietro attraverso il primo laboratorio. Sostò a studiare un grafico sovrapposto alla mappa della città.

Aree attive, aree semi-attive, aree inattive, coi nomi di Kraft e Mehan scritti a matita ai margini. Sneidermann notò che quelle attive erano pochissime. Nessuna meraviglia che si fossero tanto eccitati per quella. Scosse tristemente il capo, immaginando che per ogni attiva doveva esserci un potenziale schizofrenico al quale veniva negato il giusto trattamento psichiatrico.

Al terzo piano c'era stranamente buio. Le lampade dell'atrio erano state sostituite da luci giallo pallido. Uno studente alzò cortesemente lo sguardo dalla scrivania che bloccava l'accesso al corridoio.

«Desidera?».

«Chi è lei? Una guardia?».

«Ci piace selezionare gli osservatori».

«Ebbene, avverta che c'è Gary Sneidermann».

Dopo un momento lo studente ritornò dai recessi interni, perduti nel buio.

«La dottoressa Cooley vorrebbe essere informata sull'esatta natura della sua visita».

«Osservatore amichevole», disse l'interno, cercando di mantenersi calmo.

«Va bene. In questo caso, venga con me».

Sneidermann seguì lo studente lungo il corridoio. La luce diveniva sempre più debole. Poco dopo fu decisamente buio. Poi si accorse di quanto tutto fosse tranquillo. Svoltarono un angolo e continuarono a camminare. L'aria era afosa, come se l'ambiente fosse stato sigillato.

«È come essere nelle fottute piramidi», borbottò Sneidermann.

Lo studente ignorò il commento e aprì la porta del locale di controllo. All'interno erano disposti schermi di vario tipo, su taluni dei quali appariva l'immagine di Carlotta in quella che sembrava la sua casa.

«Buon pomeriggio, dottor Sneidermann», disse la dottoressa Cooley con circospezione e porgendo la mano.

Se la strinsero.

«Sono qui per conto mio. Nulla di ufficiale».

«Capisco. Se ha qualche domanda la prego si rivolga a me. Gli altri sono molto occupati».

Sneidermann incrociò le braccia e si guardò attorno. Gli schermi televisivi erano posti alle pareti e piuttosto in alto, cosicché doveva guardare in su. Erano a colori, probabilmente molto costosi. Vide l'immagine di Carlotta che entrava in camera. Sedette sul bordo dell'enorme letto intagliato e si mise a scrivere appunti in un grosso quaderno. Comparve anche Mehan. Il cuore di Sneidermann accelerò i battiti. Il suo sguardo sostò su un altro monitor che trasmetteva da una zona vuota, tranne che per certe apparecchiature elettroniche. Sullo schermo apparve Kraft, grattandosi la testa e inconsapevole di essere osservato. Trasse parecchi piccoli strumenti dalla scatola. Sullo schermo a sinistra, Carlotta rideva dolcemente a qualcosa che Mehan aveva detto.

«Sembra molto rilassata», commentò Sneidermann.

«Lo è. Dorme bene e senza tranquillanti».

A Sneidermann parve di cogliere una nota di disappunto nella voce della Cooley. Lo guardò di sottecchi senza riuscire ad indovinare i pensieri. Poi vide la porta che conduceva al laboratorio, con la sua lucida serratura nuova. Questo gli fece montare la collera, anche se non aveva un reale motivo per protestare.

«Che cos'è tutto questo?» chiese.

«Mr. Kraft ha provveduto ad un'apparecchiatura. La installeremo sulla passerella sopra i locali simulati. Assicura un livello di ionizzazione identica a quella misurata nella vera casa».

«La state bombardando di radiazioni?».

«Questa è scienza, dottor Sneidermann, non fantascienza. Ogni cellula organica sulla terra è costantemente bombardata da raggi ultravioletti, da raggi cosmici e da molte altre forme di energia. Stiamo tentando di riprodurre l'ambiente originario affinché sia esattamente conforme a quello della casa di Kentner Street».

Sneidermann rifletté che ciò non aveva più senso di qualsiasi altra cosa facessero. Ciononostante, ebbe la vaga impressione che la dottoressa Cooley stesse nascondendo qualcosa.

«Perché?» chiese.

«Per indurre l'entità ad apparire».

Sneidermann guardò la docente. Si domandò se anche lei non fosse preda di un'alterazione mentale.

«State per acchiapparlo?» chiese incredulo.

«Osservarlo. Se possiamo».

«Supponiamo, e questo per prendere in esame una possibilità estrema, che non venga».

«Ebbene, se non viene non viene», ribatté lei, ignorando il sarcasmo. «Gliel'ho già detto, dottor Sneidermann. Qui non inventiamo nulla».

«Vorrei parlare con Carlotta», disse.

La Cooley tacque un attimo, studiando il visitatore.

«No. Preferiamo tenerla in isolamento».

«Soltanto per un momento».

«Debbo essere ferma in quanto a questo».

Sneidermann spostò lo sguardo sugli schermi televisivi. Carlotta stava spiegando qualche cosa a Mehan con gesti vivaci. Poi sorrise.

«Vede?» commentò la docente. «È di umore eccellente».

Sneidermann incespicò nel corridoio buio. Per un istante perse il senso dell'orientamento. Poi vide la porta che dava ai locali simulati. Si fermò. Doveva confrontarsi con la giovane malata, rimanere in contatto coi sentimenti di lei, capire il perché lo ossessionasse. Doveva riprendere il controllo di sé.

Si appoggiò contro la porta. Con sua sorpresa cedette. Indubbiamente nessuno si aspettava che lui cercasse di entrare. Ma no, invece, si era aperta perché Carlotta l'aveva tirata dall'interno. Ora stava camminando nel corridoio. Colse Sneidermann assolutamente di sorpresa.

«Carlotta», disse questi, esitante.

Per un istante lei si allarmò, non aspettandosi nessuno nell'oscurità. Come i suoi occhi si adattarono, riconobbe la figura che aveva di fronte. Disse timidamente: «Buongiorno, dottor Sneidermann».

Alle sue spalle colse il perfetto duplicato della casa che aveva visitata una volta.

«Hanno ricostruito un ambiente naturale», spiegò lei, quasi fiera. «Per intrappolarlo».

«È questo che le raccontano?».

«È quello che stanno facendo».

«È questo che lei crede?».

«Lo voglio credere».

I suoi occhi splendevano nel buio fondo del corridoio. Sneidermann avrebbe voluto afferrarla, obbligarla ad ascoltare, far breccia in quel muro che lei aveva permesso le erigessero intorno.

«Ricominci... a curarsi». E quasi stava per dire: «...con me».

Lei sorrise tristemente.

«È come un bambino, dottore. Vuole sempre qualche cosa che non può avere».

«Carlotta», disse lui con voce rauca, «nel profondo del cuore conosce la differenza fra realtà e fantasia?».

«Non so di che cosa stia parlando».

«Sono degli impostori».

La giovane lo guardò furibonda.

«Lei continua a dire sempre le stesse cose», ribatté. «Non capisco neppure perché se ne preoccupi tanto».

«Non lo sa?».

«No».

«Perché lei mi sta a cuore».

Lei rise, crudele, sorpresa, ma senza malizia.

«Mi sta molto a cuore, Carlotta».

Sembrò come svuotarsi. Indietreggiò, ficcò la camicetta più a fondo nella gonna, poi lo guardò di nuovo, confusa.

«È un uomo molto strano, dottor Sneidermann», rispose.

«Non voglio separarla dagli altri», continuò lui. «Deve avere dei rapporti, magari anche con una sola persona, altrimenti perde contatto con la realtà!».

«Ho tentato», replicò lei amaramente. «E che cosa è accaduto? Jerry non vuole rispondere. Adesso è come se fosse morto per me».

«Ma non tutti sono come Jerry. A volte bisogna fare uno sforzo, attraverso il dolore, l'infelicità...».

«Che cosa sta tentando di dire, dottor Sneidermann?».

«Sto tentando di dire», dichiarò, facendo appello agli ultimi brandelli della sua dignità, «che lei ed io possiamo stabilire quel contatto».

Carlotta rimase silenziosa. I suoi occhi scuri brillavano come quelli di un animale, nel corridoio buio.

«Non desidero stabilire contatti», affermò.

«Capisce che cosa voglio dire?».

Ci fu un momento di imbarazzo. Sneidermann non riusciva più a leggerle in viso. Non riusciva più a dominare i suoi sentimenti. Sapeva solo che essi l'avevano dominato in presenza di Carlotta. Mai si era sentito così solo. In un lampo capì perché Weber si era temprato contro i sentimenti umani nel trattare coi malati. La pena, l'isolamento erano intollerabili.

«Apprezzo il suo interesse», disse lei, con uno strano tono definitivo.

«Va bene», rispose Sneidermann, confuso. «Credo di sapere perché ho cercato di vederla. Per essere sicuro che lei ne fosse informata».

Senza aggiungere parola, Carlotta aprì la porta e rientrò nella sua casa. Il pesante battente si chiuse di colpo ed automaticamente si bloccò. Però lui ne aveva colto la visione prima che la porta li separasse, una visione che l'avrebbe tormentato nel sonno. La sagoma della sua figura, nella graziosa camicetta e gonna, sola in quel mondo simulato. Gli occhi penetranti, indifesi e come febbrili e che rivelavano la distruzione di ogni vestigia della propria indipendenza. Capì che, qualsiasi cosa fosse accaduto, i loro destini erano inseparabili. Camminò indietreggiando stoltamente, maldestramente, tentando di trovare la strada per uscire.

 

Un'ora più tardi Sneidermann ascoltò parzialmente la spiegazione di un uomo obeso del perché non riuscisse a trattenersi dall'ordinare al ristorante la porzione più grossa di dolce. Intanto però immaginava Carlotta, con la figura ben intuibile sotto la camicetta e gli occhi brucianti e neri.

Mentre ascoltava il ronzio del grassone, Sneidermann scoprì una delle verità della psichiatria, una verità che si ricava soltanto dall'esperienza. Alcuni malati, malgrado la disciplina professionale, annoiano, irritano o appaiono assolutamente sgradevoli. Disturbato dalla scoperta, Sneidermann raddoppiò gli sforzi per aiutare l'uomo di fronte a lui.

In camera sua, fumando, meditando sino a sera tardi, rifletté che soltanto qualche mese prima per lui non esisteva il problema dei sentimenti. La psichiatria gli offriva una disciplina fredda, precisa, una vera chirurgia della mente. Ora, invece, capiva che nessuno è immune da sentimenti. Si rese conto che doveva affrontare il caso Moran e tutto ciò che significava per lui, o perdere per sempre la propria indipendenza psicologica.

Scacciando dalla mente ogni pensiero che non riguardasse Carlotta, cercò di vederla clinicamente e nella luce più obiettiva possibile: una donna graziosa, non più tanto giovane e madre di tre figli, indipendente come un uomo; una malata delusa delle proprie esperienze e colpe profondamente represse, che lottava per sopravvivere ad un incubo tremendo che si era creata. Tutto questo era chiaramente evidente. Tutto questo lo poteva vedere e capire. Ma l'elemento che costantemente lo frustrava, che resisteva all'analisi ed alla comprensione, era lui stesso. Che cosa diavolo ci faceva al centro di quella distorta situazione? Quale sua debolezza l'aveva fatto soccombere ad una tentatrice schizoide? Nell'ambiente psichiatrico era considerato un cliché. Se non fosse stato considerato con tutti gli elementi di una tragedia in costante costruzione, sarebbe risultato veramente ridicolo: una commedia dell'orrore con lui, Sneidermann, come attore principale. Un sorriso gli spuntò sulle labbra pensando improvvisamente al volto stupito di sua madre che udiva la notizia. «Ehi, mamma, sono innamorato di una pazza. No, non è ebrea». Il sorriso gli si allargò sempre più e si trovò smoderatamente a ridere, ma quasi sull'orlo del pianto.

 

Lo stesso pomeriggio, Carlotta ricevette una comunicazione dall'avvocato di Jerry. Fu informata che, poiché né lei né Billy avevano sporto denuncia, la pubblica accusa aveva considerato valida la lettera e giudicata la sua lesione causata da un incidente.

«Allora è libero?» sussurrò, mordendosi il labbro.

«Ebbene, sì, possiamo dire così».

«Come sarebbe a dire?».

«È stato rilasciato. È legalmente libero. Ma non so dove sia».

Carlotta stringeva convulsa il ricevitore. Si sentiva distrutta.

«Quando è stato rilasciato?».

«Circa cinque giorni fa».

Carlotta riappese. Chiamò la ditta di Jerry a San Diego. Non le fu data alcuna informazione, neppure se lavorava ancora per loro. E neanche vollero accettare un suo messaggio. Carlotta sapeva che cosa significava. Jerry aveva paura. Era stato preso dal panico, si era volatizzato, era sparito. Non poteva biasimarlo. Ma con la sua partenza, ormai definitiva, qualche cosa si era spezzato dentro di lei.

Non credeva più di poter migliorare o che sarebbero riusciti a liberarla dal brutale visitatore.

 

Violentata da un'entità fisica

Studi su una donna perseguitata

 

Servizio particolare — Si apprende che una donna è sessualmente assalita da ciò che viene descritto come una «nube verde» con muscoli e voce di uomo.

Mrs. Carlotta Moran, una hostess di nightclub ora disoccupata, si dice sia stata frequentemente tormentata nella sua casa da strani fenomeni. In una occasione la camera è stata semidistrutfa da una forza o da forze sconosciute che la cercavano. Mrs. Moran trovò rifugio nell'appartamento di un'amica, ma anche lì fu assalita dalla stessa «nube bianca», che si dice rivelasse una sorprendente somiglianza col dottor Fu Manchu. Più tardi al rientro, l'amica trovò Mrs. Moran seminuda ed urlante. L'appartamento era stato buttato all'aria.

La West Coast University Medical Clinic conferma che Mrs. Moran è stata curata per ferite, lesioni e per le contusioni che normalmente sono indice di stupro.

Ulteriori indagini hanno stabilito che il disturbo è iniziato in ottobre, quando Mrs. Moran è rincasata tardi la sera. Mentre si spogliava in camera, ha avvertilo uno strano odore, poi e stata afferrata da dietro e violentata. Non ha visto gli assalitori, né c'era qualcuno quando finalmente è riuscita a liberarsi dalia stretta. Le finestre erano chiuse dall'interno.

La scena si è ripetuta durante i mesi di novembre, dicembre e gennaio, mentre Mrs, Moran era in cura psichiatrica.

La donna, al momento, è oggetto di una ricerca da parte dell'istituto di parapsicologia della West Coast University, il quale spera di servirsi di lei per attirare l'assalitore psichico in laboratorio. L'istituto di parapsicologia, diretto da un'autorità in materia come la dottoressa Elizabeth Cooley, sta attualmente perfezionando i metodi per la pericolosa caccia. La ricerca occuperà parecchie settimane.

Questo è un SERVIZIO PARTICOLARE!!!

A presto il seguito.

 

 

25

 

La dottoressa Cooley lasciò cadere il giornale nel cestino.

«Oh, Dio del cielo», mormorò.

Per il resto del giorno, Kraft e Mehan sembrarono cani bastonati. In loro l'ira cominciò a montare lentamente, sebbene nessuno sapesse con certezza chi avesse diffuso la storia. Il dottor Balczynski negava.

«È stato Weber», affermò.

 

Il primario trovò il preside Osborne al buffet del circolo della facoltà. Stavano in piedi sereni, coi piatti in mano, mentre la fila avanzava lentamente e le cameriere in grembiule immergevano i mestoli nelle zuppe. I vari rumori erano attutiti. Le palme in vaso si curvavano sopra i tavoli coperti da tovaglie bianche ed il brusio di conversazioni sussurrate si diffondeva sui morbidi tappeti.

Il dottor Weber si sporse in avanti, sorridendo ironicamente.

«Ho visto che oggi sei in prima pagina», disse.

«Che cosa? Oh, il servizio particolare».

«Qual è stata la reazione?».

«Febbrile», ammise Osborne, col viso che rivelava stanchezza. «Molto febbrile».

Weber ridacchiò e scelse parecchie fette di salmone guarnito. L'insalata era sana, dietetica.

«Bel disegno», mormorò Weber.

«Che cosa? Oh, il...».

«L'entità, Frank. È chiamata l'entità».

Osborne non disse nulla e si avviò verso un tavolino vicino alla finestra. Weber sedette di fronte a lui, posando il vassoio vuoto su una rastrelliera vicina. Mangiarono in silenzio la zuppa. Osborne sembrava di cattivo umore. Sapeva che Weber lo stava punzecchiando.

«Che cosa ne dici, Frank? Non ti sembra che la cosa stia un po' puzzando?».

«Oh, al diavolo, Henry. Molte cose puzzano. Non posso eliminarle tutte».

«Ma questa è...».

«Sai che cosa stanno facendo nell'edificio del dipartimento delle scienze artistiche? Coltivando muffa su un acro di pane. È arte questa? Che cosa ci si aspetta che faccia, chiudere il dipartimento?».

Weber ridacchiò.

«Sai che cosa hanno fatto all'istituto di arte teatrale nell'ultimo semestre?» chiese Osborne, imburrando vigorosamente del pane. «Si sono scopati sul palcoscenico. Ecco tutto. Si sono scopati. Diavolo, se avessi saputo che si poteva avere del credito con questo...».

Osborne bevve il tè. Il suo pomo d'Adamo andò su e giù. Sembrava molto agitato.

«Frank», disse Weber gentilmente. «Questa è una farsa ed una farsa pericolosa. Devi mostrare che sei il capo. Falla smettere».

«Devo seguire la decisione del senato accademico».

«Semplicemente non riesco a capire la tua ostinazione».

Osborne si guardò intorno preoccupato, poi abbassò lo sguardo, sminuzzando il suo salmone.

«Perché non mi piace essere sollecitato, Henry».

«Oh, suvvia».

«È da tre settimane che cerchi di forzarmi la mano e ne ho abbastanza. I ragazzi hanno il diritto di condurre una ricerca. Non è più folle della metà delle cose che succedono qua intorno».

«Ma, Frank, la pubblicità...».

«È questo che intendo sull'essere sollecitato, Henry. So chi ha soffiato la notizia alla stampa. Ebbene, questa volta, ti sei danneggiato da solo. Perché non mi vanno questi mezzucci».

Osborne ripulì il grembo dalle briciole.

«Non so come questo sia successo», disse Weber con sincerità. «In ogni caso, vedo che sono sconfitto».

«Non ne parliamo adesso».

Il dottor Weber mangiò, senza gustare il cibo. Si domandava quale mossa fare. Ma non ne vedeva alcuna.

 

Passarono due giorni. Kraft e Mehan controllavano regolarmente gli apparecchi sulla passerella, dalla quale potevano scorgere, a sei metri più sotto, Carlotta nell'imitazione della sua casa.

Lei sembrava non udirli, sebbene sapesse benissimo che le macchine da presa e le varie apparecchiature la osservassero dal buio sopra la testa.

Il supremo interesse di Kraft era il sistema olografico, un laser in grado di captare un'immagine a tre dimensioni e, una volta sviluppata, trasmetterla alla sala di controllo. Questo significava che qualsiasi apparizione, qualsiasi fenomeno, poteva essere visto e rivisto nella sua piena forma e colore, ma in dimensione ridotta di un metro quadrato. Ancora più importante, l'apparecchio era estremamente sensibile ai mutamenti negli oggetti fotografati, non soltanto alla luce solare, ma anche ultravioletta e infrarossa.

Tuttavia, in tutte le registrazioni effettuate per le intiere ventiquattro ore, non risultava nulla a parte una donna la cui pazienza stava esaurendosi, ed i cui pensieri avevano cominciato a smarrirsi, secondo il suo diario, ed a farsi tetri per l'apprensione.

Di notte si svegliava, vedeva il buio e mormorava mezzo addormentata, senza rendersi conto di essere all'università.

La camera, poi, le appariva strana. Era la sua e non era la sua. Era una realtà alterata. Si sentiva come in sogno quando era sveglia e sveglia quando sognava. Era una sensazione da vertigine, come essere perpetuamente sopra un galleggiante che rollava e questo non le piaceva.

Tutto era tranquillo. Il condizionatore d'aria ronzava dal profondo delle viscere dell'edificio. Le strane forme ed ombre della sua camera formavano bizzarri disegni nel buio. Carlotta era coricata nell'ampio e morbido letto, incapace di dormire.

Si alzò, calzò le ciabatte e telefonò al dottor Balczynski.

«Mi sento bene», disse. «Soltanto che non riesco a dormire. Può darmi un sonnifero?».

«Preferirei di no», rispose il medico. «Ma posso mandarle un tranquillante».

«Molte grazie. Mi dispiace disturbarla...».

«S'immagini. È mio dovere».

Mezz'ora più tardi la dottoressa Cooley entrò con un bicchiere d'acqua ed una pillola. Osservò Carlotta ingoiarla.

«Vuole qualche cosa da leggere?» chiese.

«Non rida, ma mi piacciono soltanto i westerns. Gli spazi aperti».

«Ebbene le procurerò un western», promise la Cooley.

Guardò attentamente la giovane. La dottoressa era combattuta tra la comprensione per la donna e la percezione che la ricerca era in pieno svolgimento, che Carlotta stava scivolando nel suo vecchio stato emotivo e che quindi le probabilità di fatti psichici aumentava largamente.

Kraft e Mehan controllavano gli schermi TV nella buia sala di controllo.

Nel piccolo locale giacevano su brandine piazzate sotto gli schermi. Intorno, su scaffali o appesi a ganci o in piccoli vassoi di metallo, c'erano fili, transistors, disegni e cianografie.

Dopo che la dottoressa Cooley fu uscita, videro Carlotta sdraiarsi di nuovo. Come i suoi occhi si abituarono all'oscurità, il tranquillante agì. Si rilassò, la mente divenne pigra, ma serena.

La luce proveniente da qualche punto esterno, formava vaghe ombre sulla parete lontana.

Immaginò forme strane ricavate dalle ombre. Conigli. Oche. Una lucertola. Una lucertola con gli occhi obliqui. Aveva spesse labbra sensuali... ed avanzava...

Carlotta urlò.

«Sta bene?» chiese la dottoressa Cooley.

Alle sue spalle c'era Mehan ed uno studente che non aveva mai visto prima.

«No, no... Io... Io... Dove sono?».

«È all'università. Io sono la dottoressa Cooley».

«Oh, Dio mio!».

La docente sedette sul bordo del letto. Tastò la fronte a Carlotta. Era leggermente febbricitante.

«Desidera che qualcuno di noi rimanga con lei?» chiese.

«No. Mi basta che siate nei paraggi... Mi dispiace».

Dalla sala di controllo, Kraft guardava affascinato, mentre l'unità amplificata della luce trasmetteva un'immagine di Carlotta a letto sorprendentemente chiara e radiosa.

Per la millesima volta pensò al significato della ricerca. In verità essi cercavano di fornire l'evidenza fisica e di prima mano di uno «spirito», il quale, cioè, aveva una esistenza obiettiva nel mondo fisico, sia pure per un momento. Tutte le apparecchiature, gli strumenti costosi, avevano un compito, preciso. Se e quando, però. Kraft spostò i suoi pensieri dalla finalità dei loro sforzi. Dovevano tutto alla dottoressa Cooley. Alla sua fede e dedizione. Ai compromessi che era stata obbligata ad accettare. Alle centinaia di ricerche condotte per il mondo che avevano, sfidando il ridicolo, portato degli elementi magari modesti, ma che ora rendevano possibile questo momento. Pensò, ma senza amarezza, ai suoi genitori, i quali neppure per dieci secondi avrebbero creduto al valore di quanto stava facendo.

Guardò l'orologio. Erano le 2,35 del mattino. Mrs. Moran dormiva. Era molto curioso vedere il mondo attraverso una coscienza diversa. Quella di Mrs. Moran. Magari soltanto per un secondo. Doveva essere tanto differente da non poter essere immaginata. Kraft fu colpito da uno strano sentimento... la gelosia. Desiderava follemente scoprire la spaventosa realtà che Mrs. Moran percepiva. Annientava. Era oscena. Forse irresistibile. Ma...

Per Kraft, era esotico. Proibito. L'ultima frontiera sconosciuta per l'uomo. Aveva già visto luci. Scintille. Aveva già provate sensazioni di freddo. In centinaia di sedute. Ma mai prima un essere... un'entità interamente formata...

 

Secondo i successivi rapporti della ricerca, fu nel tardo pomeriggio del giorno seguente che si verificò il fatto più clamoroso.

Carlotta aveva terminato, per la dodicesima giornata consecutiva, la colazione portatale dalla cafeteria, quando fu bussato alla porta.