Lo spillone fatato.

 

Forse, la nostra natura ci porta a considerare i giochi dell'imprevisto più vani e arbitrari, troppo, di quel che sono. Così, ogni volta, per esempio, che in un racconto, o in un poema, l'imprevisto sembra giocare d'accordo con qualche segreta intenzione della sorte, noi volentieri accusiamo lo scrittore di vizio romanzesco. E, nella vita, certi avvenimenti imprevisti, per se stessi naturali e semplici, ci appaiono, per la nostra disposizione del momento, straordinari o addirittura soprannaturali.

Supponiamo anche il caso che in quel mio fatale compleanno l'unico amico mio, per un istinto inconsapevole, avesse avvertito da lontano la mia disperazione; e perciò fosse accorso... Ebbene, anche un caso simile, secondo ragione e scienza, non dovrebbe affatto sembrare un miracolo. Quando perfino le rondini, e le altre loro simili, semplici creature migratrici, intuiscono da sole il momento di partire, e trovano la strada senza nessun insegnamento!

Ma a me, l'arrivo di quel visitatore inatteso, capitato d'un tratto a sorprendermi su quella riviera, fece un effetto così romanzesco che lì per li, piuttosto che a una presenza vivente, credetti a una allucinazione! Alla vista impensata di quel cammeo, famoso mio dono al mio balio Silvestro, e chiaro documento della sua persona, rimasi senza respiro. Come se d'un tratto là sulla spiaggia mi si fosse dissepolta innanzi agli occhi una Valle dei Re, o qualche simile chimera sotterrata.

Di lì a un istante, tuttavia, riconoscendo la realtà, mormorai:

- Silvestro! - e pronto gli ricambiai i suoi due baci sulle guance. Con la rallegrante sicurezza che lui, almeno, essendo il mio balio legittimo, non m'avrebbe accusato, per quel paio di bacetti, di dannargli l'anima all'inferno!

E nel momento stesso che lo baciavo, mi rendevo conto che, in verità, la sua presenza qua a Procida in questo giorno della mia festa, non era poi - anche se nuova - tanto strana! Caso mai, la stranezza (e anche l'ingratitudine) era stata la mia: di aver del tutto dimenticato, nella presente ricorrenza, proprio lui, che mai lasciava passare i miei compleanni senza farsi vivo in qualche modo, magari con una semplice cartolina d'auguri. Ma negli ultimi tempi io pensavo troppo ad altre persone per conservare anche un solo pensiero a quest'una!

Egli mi spiegò che, trovandosi richiamato sotto le armi, aveva approfittato di una licenza, e anche del ribasso concesso sui piroscafi ai militari, per fare questa gita (che si riprometteva da un dieci anni circa) e venire a portarmi gli auguri di persona... Mi raccontò poi che, poco fa, appena sbarcato a Procida, nell'attraversare la piazza, aveva udito ripetere animatamente, in un gruppo di donne e ragazzette, il nome di Arturo. E all'apprendere che una signora, là fra le altre, era la mia matrigna, la quale andava cercando di me, le si era presentato. Quindi, le aveva proposto di tornare per suo conto a perlustrare la riviera, mentre che lei seguitava le sue ricerche in giro per la piazza. Quelle ragazzine asserivano, difatti, ch'io potevo anche essere rientrato in piazza calandomi per certe impervie scorciatoie di sopra le rocce, laggiù, dei depositi...

Qua Silvestro mi consigliò di far sapere subito alla matrigna il mio ritrovamento, giacché quella povera femmina s'era messa in un'ansia esagerata. Deve avere, egli soggiunse, un carattere nervoso assai.

- No, - io dissi allora ridendo, - di carattere, non è nervosa. Però, si capisce che sta in pena. Eh! essa mi crede morto I

- Morto!!!

Io alzai una spalla, giudicando meglio non aggiungere troppe spiegazioni. Comunque, trovai giusto il consiglio di Silvestro, e mi spinsi subito, assieme a lui, fin verso la Lingua del Faro. Là, vedendo da lontano una di quelle ragazzette di prima, da me conosciuta di vista, che s'attardava sola a saltare sui riquadri di gesso, le demmo una voce. Accorse, e io le dissi:

- Va' subito alla piazza, e cerca la Signora Gerace. E dille che m'hai visto qua insieme all'amico mio, e che prima io stavo lassù in cima alle rocce, a riposarmi dietro a quei cespugli... Dille che adesso io e l'amico mio abbiamo da parlare un poco assieme per conto nostro; e che perciò lei intanto se ne ritorni tranquilla a casa, ché noi la raggiungeremo più tardi...

Questo discorso, io riuscii a farlo tutto d'un fiato; ma, partita che fu la ragazzina per la sua commissione, mi buttai a sedere in terra. E supplicai Silvestro, per pietà, prima d'ogni altra cosa, di correre alla bottega dell'angolo a comperarmi del mangiare, perché, dalla fame, io rischiavo di cadere disteso. Tanto, aggiunsi, lo avrei rimborsato d'ogni spesa prontamente, perché a casa possedevo un capitale di soldi.

Subito quel perfetto balio mi procurò dalla bottega delle uova fresche, formaggio fresco e pane, che mi fecero l'effetto di un elisir di vita. Poi tornammo assieme verso la mia grotta, alla quale io oggi m'ero affezionato come fosse la mia tenda campale generalesca, o altro simile quartiere di valore e d'importanza. E là ci sedemmo sul mucchio dei cordami, a conversare comodamente.

Egli m'informò che doveva ripartire da Procida domani stesso all'alba, col primo piroscafo, perché purtroppo la sua licenza scadeva. Gli domandai allora perché mai fosse tornato militare. - Cominciano a richiamare la gente, - rispose, - in vista della guerra.

- Che guerra? - io dissi.

- Come? Non sai niente della guerra? Non l'hai udito alla radio? Letto sui giornali?

Io, in verità, non vedevo mai i giornali: mio padre diceva ch'erano roba fetente, pieni di fandonie dozzinali e di chiacchiere idiote, al punto che se ne sentiva urtato perfino d'adoperarli al cesso. E in quanto alla radio, in paese, è vero, da qualche tempo ne esisteva almeno una, tenuta da quello stesso bottegaio che un tempo teneva il gufo. E qualche volta, passando, m'era pure capitato di udirla parlare e cantare; ma in quelle poche occasioni, essa trasmetteva canzonette o varietà, niente di serio.

In sostanza, io conoscevo la storia fino dai tempi degli antichi egiziani, e le vite degli eccellenti condottieri, e le battaglie di tutti i passati secoli. Ma dell'epoca contemporanea, non sapevo nulla. Anche quei pochi segnali dell'epoca presente che arrivavano all'isola, io li avevo appena intravisti senza nessuna attenzione. Non m'aveva incuriosito mai, l'attualità. Come fosse tutto cronaca ordinaria da giornali, fuori della Storia fantastica, e delle Certezze Assolute.

E adesso, all'udire le notizie mondiali che mi dava Silvestro, mi pareva d'aver dormito per sedici anni, uguale alla ragazza della favola: in un cortile d'erbe selvagge e ragnatele, fra civette e gufi, con uno spillone fatato confitto nella fronte!

Egli m'andava spiegando che, nonostante una recente intesa di pace firmata con cerimonie grandiose dalle Potenze (dovevano essere stati questi, ora lo capivo, i famosi eventi internazionali cui Stella alludeva, origine dell'amnistia, e della sua libertà), la guerra mondiale, in realtà, era imminente, senza rimedio. Poteva prorompere da un mese all'altro, forse da un giorno all'altro. E anche chi era contrario, come lui, ci andava di mezzo, in questo imbroglio demoniaco!

 

Udite simili novità, io rimasi qualche istante a riflettere, chiuso nei miei pensieri. E quindi, rivelai a Silvestro le mie decisioni.

Gli confidai anzitutto che certe mie ragioni segrete, molto severe, anzi tragiche, mi vietavano di trattenermi sull'isola, fosse pure un solo giorno ancora. Perciò, intendevo partire assieme a lui col primo piroscafo domattina all'alba, per non ritornare sull'isola forse mai più! Se poi davvero, seguitai, s'avanzava prossima la guerra, io ero assolutamente deciso a presentarmi volontario fin dal primo giorno del nostro intervento nazionale. Volevo partecipare alla guerra a qualsiasi costo, anche a costo di raggiungere clandestinamente il campo di battaglia (nel caso che la mia domanda, per motivi d'età, fosse stata respinta).

Silvestro ascoltò con profonda serietà questo mio discorso. Per discrezione, egli evitò di farmi qualsiasi domanda sui motivi segreti che mi allontanavano da Procida; ma, senza bisogno di conoscerli, comprese che si trattava di motivi giusti e gravi. E accolse con favore, anzi contentezza, la mia decisione di partire l'indomani assieme a lui. Non parve, invece, altrettanto favorevole alla seconda parte del mio programma: e cioè, alla mia intenzione di arruolarmi volontario per la guerra vicina. Vedendolo assai perplesso e scontroso su questo punto, io gli dichiarai allora, col mio fervore massimo, che secondo me un uomo non era un uomo finché non aveva fatto la prova della guerra. E che rimanere a casa senza combattere, mentre gli altri combattevano, per me sarebbe stata una noia e un disonore.

Egli mi stava a sentire poco convinto, con un'espressione riluttante. Alla fine disse che, forse, la mia idea poteva valere per le guerre antiche; ma le guerre moderne, secondo lui, erano un'altra cosa. A quanto ne capiva lui, disse, la guerra moderna era tutta un macchinario di macelleria, e un orrendo formicaio di sfaceli, senza nessun merito di valore autentico. Riguardo poi alla guerra attuale in questione, nell'opinione sua le due parti che la combattevano, in linea generale (vale a dire dal punto di vista della vera Causa), non avevano ragione né l'una né l'altra! ma, fra le due, quella che aveva torto era senz'altro la parte nostra! E combattere a questo modo, senza le ragioni, ma col torto, era come cantare gratuito con una spina in gola. Un disastro senza nessun compenso.

Queste sue parole di buon senso mi fecero un poco meditare, ma anche ridere. A ogni modo gli replicai risolutamente che io, per adesso, non mi curavo molto della ragione e del torto. Ciò che volevo, io, intanto, era di combattere per imparare a combattere, come un samurai dell'Oriente. Il giorno che fossi stato padrone sicuro del mio valore, avrei scelto la mia causa. Ma per arrivare a tale padronanza, dovevo passare una prova. La prova che mi si offriva era questa guerra; e io non volevo mancarla, non mi curavo d'altro.

- Questo, - egli osservò in un tono d'incertezza amara, - è come dire che uno cerca di farsi ammazzare per niente -. Quindi mi domandò, scrutandomi serio: - Perché diavolo hai voglia di farti ammazzare per niente?

Io arrossii, come s'egli denunciasse uno scandalo misterioso, fantastico, che andava taciuto! Ma subito mi ripresi, con le mie antiche idee. E pieno di passione gli spiegai che, fin da quando ero piccolo, c'era una sfida in sospeso fra me e la morte. Come certi ragazzini diffidano del buio, così io della morte: e della morte sola! Questo schifo della morte mi avvelenava la certezza della vita. E finché io non avessi imparato la spensieratezza della morte, non potevo sapere se veramente ero cresciuto. Peggio: se ero un valoroso, o un vigliacco.

Qui gli esposi in breve le mie idee sulla vita, e anche le Certezze Assolute. Di queste, me n'ero quasi scordato, negli ultimi mesi, e mi parve, risuscitandole con lui, di rimediare a un tradimento. Me ne riappassionai, parlandone, ed egli, ad ascoltarle, s'appassionò quanto me. D'un tratto, con un sorriso confuso, ingenuo, mi confidò che le mie idee si accordavano meravigliosamente con le sue, e cioè con la rivoluzione del popolo. Poiché lui, disse, era un rivoluzionario; e adesso s'incantava al sentire che io, da solo, qua a Procida, senza mai parlare con nessuno, avevo inventato per conto mio i medesimi pensieri dei migliori maestri! Nel farmi tali dichiarazioni, Silvestro denotò chiaramente, nel viso e nel tono, la sua grande ammirazione per Arturo Gerace. D'altra parte, poi, si vedeva chiaro nei suoi modi che questa sua ammirazione per A. G. non principiava da adesso; ma già doveva preesistere, si può dire, da sempre! e altro non aver fatto in eterno che aspettare delle nuove occasioni per confermarsi. Essa era votata a me, illimitata e quasi magica! simile in certo modo, per intenderci, a quella da me provata per W. G.

In conclusione, io convinsi, con la mia foga, Silvestro, di tutto ciò che mi piaceva: anche della mia necessità morale di combattere alla ventura nella prima guerra disponibile. Chi sa, fantasticammo pieni di speranza, che non capitiamo assieme nello stesso reggimento! (invece la nostra speranza poi non si avverò. Io fui messo in una compagnia di giovani circa della mia età; e lui altrove, coi richiamati più anziani).

Da ultimo, egli trasse dalla tasca il regalo che mi aveva portato per la mia festa e di cui s'era dimenticato fino a questo momento, distratto da troppe emozioni: una sciarpetta di lana rossa, lavoro di sua moglie; e subito io me ne cinsi il collo, con soddisfazione. Così egli mi fece sapere che da poco s'era sposato, con quella che già per anni era stata la sua ragazza. Adesso che lui stava sotto le armi, la moglie s'era trasferita nella casa di sua madre, in un paesetto vicino a Napoli; e se volevo, egli mi disse, i primi tempi potevo essere ospite loro. Tanto, col tram, da quel paesetto, si poteva arrivare a Napoli in pochi minuti.

 

In questa conversazione, s'era fatta sera; e Silvestro mi ricordò ch'era tempo, ormai, di salire a casa, secondo la promessa da me fatta alla mia matrigna. A ciò, io sentii il rossore salirmi alla faccia; ma per fortuna era buio ormai, e Silvestro non se ne avvide. Sentivo che la mia voce avrebbe tremato, nel discorso che stavo per fare; ma tuttavia lo feci, risolutamente.

- Senti, - dissi, - io, per motivi miei che non posso confidare a nessuno, a casa non devo ritornare più. Va' tu solo, e parla con lei, e falle credere la bugia seguente: che io sono già partito col piroscafo delle quattro e mezzo, che va a Ischia. E che tu domattina mi raggiungerai a Ischia, e di là proseguiremo assieme per Napoli, da dove io poi subito m'imbarcherò per l'Estero... Dille che le mando il mio addio, perché, io con lei, non ci rivedremo per molto tempo, se mai più ci rivedremo. E che si ricordi di me, e mi perdoni i dispiaceri che le ho dato. E saluta anche il mio fratello Carminiello per me.

«Chiedi a lei che ti dia una valigia (dille che me la porterai tu domattina a Ischia). E va' in camera mia e prendi: tutti i fogli scritti che ci trovi, e tutti i soldi miei, che ce ne sono un mucchio, in camera mia, sparsi fra i libri e per i cassetti. Mi raccomando, eh: i fogli scritti prendili tutti, non lasciarne nessuno, che quelli sono importanti, perché io sono uno scrittore.

«Tu, se vuoi, stanotte, puoi dormire lassù a casa, che la camera tua è sempre rimasta uguale, con la branda e il resto. Però, prima di andare a dormire, dovresti portarmi delle coperte e qualcosa da cena. Difatti io, fino alla partenza di domattina, non ci voglio tornare nemmeno di passaggio, alla piazza, perché là tengo troppi ricordi. E stanotte dormirò in questa grotta, dove starò abbastanza comodo. Tanto, per fortuna non fa freddo. È scirocco.

Silvestro promise che avrebbe eseguito ogni commissione perfettamente: però, disse, poiché io dormivo giù nella grotta, anche lui, invece che a casa, per non lasciarmi solo voleva dormire nella grotta assieme a me. Tanto, quasi tutta la vita sua, facendo il guardiano delle imprese costruttrici, aveva dormito nelle baracche, e adesso, da militare, doveva prepararsi a dormire dentro le buche delle trincee. Altro che grotte! Una grotta come la nostra, è un Palazzo Vaticano, a paragone delle buche di trincea.

Così, lo aspettassi, che sarebbe tornato al più presto possibile, con tutto il necessario.

 

L'isola di Arturo
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