Il 5 dicembre.

 

Come l'uscio si fu richiuso alle sue spalle, mi raggomitolai nella coperta fin sul viso, coprendomi gli orecchi coi pugni per non udire il suo passo che s'allontanava, né i suoi movimenti di partenza nelle stanze, né l'ultimo rotolìo della carrozza che correva la discesa. Resistei in quell'irrigidimento di morte per un tempo innaturale. Quando mi scossi, e buttai via la coperta, il sole era già entrato nella mia camera, e la casa era ripiombata nel silenzio.

Aprii la finestra, e sporgendomi quanto più potevo spinsi lo sguardo di fra l'inferriata verso la strada di fuori. La breve spianata sotto il cancello, e la strada, erano deserte: e non s'udiva più neppure una lontana eco di ruote, o di zoccoli di cavalli. Solo delle voci d'estranei, lontane e sparse, risuonavano nel freddo limpido della mattina. Ma queste voci reali, per me furono vinte da un suono irreale e altissimo, di un'unica nota acuta, che mi pareva di ascoltare da dentro il mio cervello: una specie di esclamazione assordante e incredibile che forse poteva tradursi nelle parole: Addio, Wilhelm Gerace!

Provai una pazza tentazione di correre a precipizio giù in istrada, nella speranza di raggiungere la carrozza e di ritrovarmi accanto a lui, per un piccolo tratto almeno. Ma, pure con questa tentazione, che mi lacerava il cuore, rimasi fermo, lasciando passare i minuti, finché ogni speranza diventò impossibile.

S'incominciarono a udire i rumori, le voci familiari nelle stanze: la matrigna e il fratellastro s'erano alzati. Io rabbiosamente corsi all'uscio, e lo chiusi a chiave. Mi sarebbe solo piaciuto, in quel momento, di avere nella mia camera la compagnia di un cane, che mi fosse amico e gentilmente mi leccasse le mani con la sua lingua rasposa, senza farmi nessuna domanda. Ma ogni vicinanza umana, e perfino la vista del paesaggio e di tutti i luoghi noti, mi sembrava intollerabile, a pensarci. Avrei voluto trasformarmi in una statua, per non sentire più niente.

Così, mi tenni chiuso dentro la mia camera, come fossi morto. Per diverse ore nessuno s'occupò di me. Poi, sul pomeriggio, s'udì bussare, e la matrigna, con una voce incerta e fina fina, mi domandò se non volessi mangiare, e se mi sentissi male, e perché non m'ero alzato. La scacciai gridando, con male parole. Tuttavia, qualche ora dopo s'udì bussare un'altra volta, e la medesima voce, diventata ancora più incerta e più fina, mi avvertì che, se volevo, là fuori dell'uscio, su una sedia, c'era la mia merenda. Quasi urlando risposi che non desideravo nulla, né mangiare né bere, solo di esser lasciato in pace.

Per la prima volta nella mia vita, benché non fossi malato, non avevo fame. Ogni tanto mi assopivo, ma subito mi riscuotevo di soprassalto, con la sensazione di una orribile scossa, o di un frastuono spaventoso. E immediatamente mi rendevo conto che in realtà non c'era stato nulla, né frastuoni né terremoti; era il dolore, che usava quegli artifici maligni per tenermi sveglio e non lasciarmi mai. Esso non mi lasciò mai, difatti, per tutta la giornata! Era la prima volta, da quando vivevo, che conoscevo veramente il dolore. O almeno, credetti di conoscerlo!

Ormai sapevo, con risolutezza estrema, che queste erano le ultime ore che passavo sull'isola; e che, il primo passo che avrei fatto oltre la soglia della mia camera, sarebbe stato per andarmene via. Per ciò, forse, mi ostinavo a rimanere rinchiuso nella mia camera: per rimandare, almeno di qualche ora, quel passo irrimediabile e minaccioso!

Intanto, non avrei voluto piangere, e piangevo. Avrei voluto scordarmi di W. G., come di una persona insignificante che s'è incontrata appena una volta al caffè, o a un angolo di strada; e invece, nel pianto, mi sorprendevo a chiamare: - Pà -, come un ragazzino di due anni! A un certo punto, presi la lettera, che tenevo ancora sotto la maglia, e la stracciai.

Certo, era anche il digiuno che m'indeboliva. A furia di pensare a mio padre, finii per illudermi che lui pure, allo stesso modo, in quel momento, pensasse a me. E che mentre io chiamavo "Pà", anche lui, da dove si trovava, chiamasse fra sé: "Arturo! mio caro moro", o qualcosa di simile. Infine, pare impossibile, nel passar delle ore, mi s'affacciò un'ultima speranza la quale, verso sera, riuscì a convincermi quasi del tutto con la sua seduzione. Si tratta di questo: non ho ancora detto che il giorno dopo era il 5 dicembre, e cioè il mio compleanno (finivo sedici anni precisamente). Per orgoglio, io la sera avanti non avevo ricordato a mio padre questa data. E lui, per proprio conto, non era solito a rammentarsi mai dei compleanni, e di cose del genere. Ma stavolta io mi misi a sperare che la sua memoria, quasi ispirata da un miracolo, d'un tratto, in viaggio, lo avvisasse della sua dimenticanza. E che senz'altro, a tale richiamo egli decidesse di tornare indietro per farmi gli auguri e magari anche trascorrere il giorno della mia festa sull'isola assieme a me. Mi dicevo che, forse, a quest'ora egli non si trovava ancora tanto lontano: forse, era ancora a Napoli, e, di là, gli sarebbe semplice tornare per un giorno. Ripensavo all'espressione pentita del suo volto, quando, poche ore prima, si era piegato su di me, qui, nella mia camera; e avrei quasi giurato, ormai, che un simile pentimento (unito alla disperazione ch'io non l'avessi accompagnato al molo) doveva riportarlo domani sull'isola! Al calare della notte, la speranza, nella mia fantasia, era diventata una vera certezza. Tanto che, per la consolazione, mi sentivo insieme esaltato e stanco. Mi affacciai fuori dell'uscio, a cercare la merenda lasciata dalla matrigna sulla sedia: c'era pane, arance, e anche una tavoletta di cioccolata (ghiottoneria, quest'ultima, insolita, a casa nostra). Mangiai, e mi coricai, e presi sonno.

 

Mi svegliai, come il giorno avanti, verso l'alba. E cosi ebbe principio questa seconda mattinata, che doveva svolgersi, per me, peggiore assai della prima!

Subito al mio risveglio, ricordandomi che oggi era il mio compleanno, provai un sentimento festante, nella convinzione più che mai certa dell'arrivo di Wilhelm Gerace. In attesa, rimasi, allo stesso modo del giorno precedente, prigioniero volontario nella mia camera, con l'uscio inchiavato a doppio giro. Però, stamattina questa prigionia era piuttosto per una scaramanzia che per altro, e prevedevo imminente la mia uscita gloriosa. Avevo, infatti, una specie di magica sicurezza che mio padre arriverebbe col primo vapore, il quale toccava Procida alle otto precise.

Ma come, dalla mia finestra dove stavo di vedetta, udii battere le nove senza alcuna novità, di schianto dalla certezza passai al dubbio ch'egli non solo non arriverebbe neppure col secondo vapore delle dieci, ma non arriverebbe affatto. La speranza, tuttavia, s'era annidata ormai dentro di me come un parassita, che non lascia volentieri il suo nido. E per altre due ore seguitai a contare tutti i quarti del campanile, cambiando posto di continuo, dal letto alla finestra, ora chiudendomi apposta gli orecchi, ora tendendomi in ascolto; e pensando e ripensando se per caso egli non potrebbe venire con qualche vapore secondario o privato; e camminando su e giù per la stanza; e trabalzando a ogni rumore, fischio, fruscio, ecc. Insomma, le solite storie di quando si aspetta e spera. Infine, passate le undici, capii definitivamente ch'ero stato un pazzo, e avevo scambiato le mie fantasie sentimentali con dei presagi celesti; e che W. G. non s'era nemmeno sognato di tornare indietro, e non arriverebbe più.

Allora, per la prima volta da quando ero sulla terra, mi parve di desiderare sinceramente la morte.

Suonò mezzogiorno, col solito grande scampanio. Durante tutta la mattinata, per fortuna, nessuno aveva osato impor-tunarmi; ma, poco dopo il concerto delle campane, ecco che ancora, come il giorno prima, fu bussato all'uscio, con un picchio più leggero ancora di quelli di ieri, quasi impercettibile. Intesi, da quanto, facilmente, si poteva udire, che dietro l'uscio c'era la matrigna con Carmine. La matrigna, non osando farlo lei stessa, aveva guidato la mano del guaglione a bussare. E adesso gli insegnava, piano, di dirmi la frase tanti auguri, ch'egli, ubbidiente, strillando mi ripeté, alla sua maniera ostrogota.

Una simile attenzione familiare, in quel momento, mi rivoltò peggio d'un'ingiuria atroce. E, senz'altra risposta, sferrai un calcio all'uscio, per significare chiaramente che non volevo auguri e che mandavo tutti all'inferno.

Per circa un'altr'ora e mezza, nessuno si fece più vivo. Ma doveva mancare poco alle due del pomeriggio, che di nuovo si udì quell'ostinato bussare all'uscio. Stavolta, era lei, che bussava: e più forte, quasi brutalmente. Non detti segno d'aver udito; e allora, con una voce malcerta, quasi diaccia per lo sgomento e il ritegno, essa chiamò: - Artù...

 

 

L'isola di Arturo
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