La misera voce e i segnali.

 

La sua voce, ch'io riconobbi subito con una scossa, veniva dalle più basse, nascoste propaggini della montagnola, così che pareva salisse dal fondo del precipizio marino. Simile illusione dava, alla scena, la solennità inquieta dei sogni; ma la cosa più strana, per me, era questa, anzitutto: che lui cantasse. Non lo si udiva mai cantare, per solito, e la sua voce, di fatto, non era bella (era, si può dire, l'unica bruttezza in lui): di un suono acido, quasi femmineo, disarmonico. Ma proprio perché mancava di musica e di grazia, questo suo canto, misteriosamente, mi commosse ancora di più. Credo che nemmeno la melodia di un arcangelo avrebbe potuto com-muovermi a quella maniera.

Cantava una quartina di canzonetta napoletana, una fra le più risapute, ch'io conoscevo, si può dire, dall'epoca che avevo imparato a parlare; e per me era diventata comune e banale da quante volte l'avevo intesa e ripetuta per mio conto. Quella che dice:

 

Nun trovo 'n'ora 'e pace
‘a ‘notte faccio iuorno
‘sempe pe sta 'cca’ ttuorno
speranno 'e te parlà!

 

Ma lui la cantava con una amarezza di persuasione così rozza e disperata, ch'io stetti ad ascoltarla come se imparassi una grande canzone nuova, di significato tragico. Quei quattro versi, col loro motivo che lui cantava lento, strascinato e gridato, mi pareva proprio che ragionassero della stessa solitudine mia: di quando me ne andavo girovagando scansato da N., senza amicizie né felicità né riposo. E di oggi, ch'ero finito su questa montagnola di miseria, in questo temerario nascondiglio, per capire l'ultima tristezza.

Non riuscendo a scorgere, da dove mi trovavo, la persona di W. G., montai su una sporgenza del muro, dietro il quale stavo nascosto. E di lassù, spiando per un'antica finestra rotta, scorsi subito il mio cantante. Se ne stava solo, mezzo steso su un lembo di terreno fiorito d'erbacce, in fondo agli ultimi scoscendimenti verso la scogliera; e da quella stretta aiola dirupata, come un misero rospo che canta alla luna, cantava verso il Palazzo. I suoi occhi erano fissi precisamente a una di quelle finestruole che si potevano scorgere anche da terra, poste sull'ala avanzata a semicerchio fra lo sprofondo della montagnola e il mare. Era una finestruola isolata a mezza altezza; e come le altre sue compagne, non dava segno di vita, là per il piccolo vano aperto al di sopra della bocca di lupo: nient'altro che silenzio e buio.

Tuttavia, pareva che mio padre aspettasse una qualche risposta al suo canto. Arrivato alla chiusa della quartina, egli rimase per un po' in un silenzio ansioso, rivoltandosi dolorosamente sul terreno come un malato in un lettuccio d'ospedale. Indi riprese il canto da capo, allo stesso verso di prima. Io a questo punto, nel timore ch'egli potesse scorgermi, lasciai il mio posto di vedetta, ridiscendendo con un salto ai piedi del muro. Di qua, sporgendomi un poco di lato, potevo, pur senza vedere lui, sorvegliare quell'impassibile finestruola del Palazzo. E infatti non ne distolsi più gli occhi.

Ancora tre o quattro volte si udì dal fondo della montagnola la voce di lui riprendere il suo canto, con una testardaggine infantile e cupa. Egli ripeteva, della canzonetta a me nota, sempre e soltanto quell'unica quartina; e ad ogni replica il suo accento esprimeva un dolore diverso: supplica, comando, o capriccio tragico, esigente. Ma la finestruola rimaneva cieca e sorda: come se il Carcerato, che abitava là dietro, avesse disertato la sua stanzetta, o fosse morto, o, quanto meno, immerso in un profondo sonno.

Alla fine, l'inutile canto cessò; ma in luogo del canto di lì a poco udii salire dalla valletta nascosta, in un nuovo tentativo di richiamo verso la finestruola, dei brevi fischi ritmati. E all'udirli, tremai d'un tratto, morso dalla gelosia!

Avevo subito riconosciuto, al ritmo di quei fischi, un linguaggio segreto di segnali, specie di alfabeto Morse, che mio padre e io avevamo inventato insieme, ai tempi felici della mia infanzia e fanciullezza. Usavamo questo alfabeto di fischi per lanciarci dei messaggi a distanza, durante i nostri giochi marini dell'estate; e anche talora per canzonare, d'accordo fra noi, al Porto o al Caffè della piazza, certi tipi di Procidani presenti e inconsapevoli.

Ora, evidentemente il Carcerato doveva essere stato messo a parte, da mio padre, di tale alfabeto misterioso, ch'io credevo proprietà di noi due soltanto: mia e di Wilhelm Gerace!

Quei segnali inventati m'erano, da anni, così familiari, che, udendoli, sul momento stesso io sapevo tradurmeli in parole, meglio d'un telegrafista anziano. L'emozione gelosa che m'aveva sorpreso mi fece perdere, tuttavia, le prime sillabe del messaggio lanciato da mio padre. Il seguito, che udii, suonava così:

 

…NE-VISITE-NE-LETTERE-NIENTE

 

ALMENO-UNA-PAROLA

 

CHE-TI-COSTA?

 

 

Successe un nuovo silenzio d'attesa da parte di mio padre; ma la finestruola si ostinava nella sua sepolcrale indifferenza. Mio padre ripeté:

 

ALMENO-UNA-PAROLA

 

e ancora, dopo un altro silenzio:

 

CHE-TI-COSTA?

 

Alfine, per il piccolo vano in alto della finestruola, dove la bocca di lupo, allargandosi a mantice, lasciava scoperto l'ultimo tratto d'inferriata, si videro due mani aggrapparsi alle sbarre. Certo anche mio padre le vide immediatamente, e d'impeto si levò in piedi, così ch'io potei scorgerlo, dalle spalle in su, che accorreva verso l'orlo dello scoscendimento. Là egli si fermò, quasi sotto al Palazzo, da cui lo Separava, di soli tre o quattro metri, il vuoto del mare; e rimase muto in attesa, come se quelle misere mani aggrappate fossero due stelle, apparse per annunciargli il destino.

Di lì a poco, le due mani lasciarono l'inferriata; ma il Carcerato, certo, stava tuttavia là in piedi dietro la finestruola, forse montato sul suo pancone per arrivare fin sotto la bocca di lupo; e di là portava due dita alle labbra per lanciare più alti i suoi segnali di risposta! I suoi fischi, difatti, non tardarono a farsi udire, acutissimi e ritmati, in una sequela di barbara monotonia. E subito, con un sentimento incredibile di certezza, in essi, come in una nota voce sferzante, fiera di adolescenza e di spregio, io riconobbl la strafottenza unica, esasperata, del malfattore del molo!

Il suo messaggio a mio padre, ch'io fra me tradussi pronto, consisté in tutto delle seguenti due parole:

 

VATTENE, PARODIA!

 

Poi, più niente. Solo, a me parve, forse per una semplice allucinazione dell'udito, di avvertire all'intorno, dalle prossime finestruole, un coro di risate basse, come un cupo e grande dileggio verso mio padre. Quindi, si rifece un generale silenzio di sepolcro; il quale fu interrotto poco più tardi dal battere che facevano i guardiani di ronda, con le loro mazze, contro le inferriate, per verificare le sbarre prima di sera. Questo rumore si andava avvicinando via via, dalle finestruole invisibili della facciata sul mare; e vidi mio padre, a tale suono, staccarsi da dov'era, e prepararsi a risalire adagio. Allora, nel timore ch'egli mi sorprendesse, corsi a precipizio giù dalla montagnola, rifacendo a passi affrettati la strada del ritorno.

Lungo tutta la via, fino a casa, andavo ripetendo, fra di me, per non dimenticarla, la parola Parodia, del cui significato non ero ben certo. E giunto a casa, andai a cercarla in un vecchissimo vocabolario scolastico, che stava da anni nella mia camera: forse già appartenuto alla nonna maestrina, o forse allo studente di Romeo l'Amalfitano. Alla parola Parodia lessi:

 

IMITAZIONE DEL VERSO ALTRUI, NELLA QUALE CIO’ CHE IN ALTRI E' SERIO SI FA RIDICOLO, O COMICO, O GROTTESCO.

 

Così, Wilhelm Gerace mi aveva giocato l'ultima insidia. Veramente, se con piena consapevolezza e intenzione, egli avesse studiato il modo più malizioso di riprendermi sotto la sua malìa, non avrebbe potuto inventare un gioco perfido al pari di questo, nel quale mi aveva attratto a sua insaputa! Adesso, cioè, mi appariva chiaro che nei suoi pellegrinaggi alla Terra Murata non lo aspettava se non una solitudine vergognosa; che lassù, egli veniva mortificato e ripudiato come l'ultimo servo. E a simile scoperta, non so perché, il mio affetto per lui, che credevo soffocato e quasi spento, si riaccese in me più amaro, struggente, quasi terribile!

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