La caccia.
Di sotto il passaggio a volta della porta, lugubre corridoio affrescato sull'intonaco, dall'alto in basso, di croci d'un nero polveroso, si usciva sulla Piazza Centrale della Terra Murata, che per l’immensità sembrava un piazzale di metropoli, ma era sempre stranamente deserta. A sinistra di questa piazza, in fondo a un ripido valloncello lastricato, un cancello sbarrava l'accesso a una vasta corte gialla e nuda, in cui si levavano enormi fabbricati rettangolari. Sul cancello si leggeva la scritta Casa di pena intorno a un rilievo colorato di Santa Maria della Pietà.
Quella era l'entrata del Penitenziario. Da quel punto, attraverso certe fabbriche basse protette da muraglie, la collina delle prigioni saliva, dietro alla Piazza Centrale, fino al Castello antico che si vedeva torreggiare, a destra, al di là del piccolo borgo ammucchiato ai suoi piedi. Durante un secondo, io, col cuore sospeso, m'aspettai di veder mio padre avviarsi sicuro giù per il valloncello, e subito scomparire, come per miracolo, ai miei sguardi, dietro quel cancello proibito. Ma invece egli prese a destra; e costeggiando la piazza si avviò verso la zona alta della Terra, dove, su per gli scaglioni dell'antica rocca, in un labirinto di incroci, di salite e di discese, si accumulano da secoli le casupole del borgo.
A differenza della Piazza Centrale, che ormai si trovava per tre quarti in ombra, quella zona era ancora raggiunta dal sole, che accendeva di rosso le sue piccole vetrate, fra le antiche arcatelle sovrapposte, i tetti sconnessi, e le logge fiorite di peperoncelli e di gerani. Camminando con un passo sghembo, quasi da ubriaco, mio padre si addentrò per quei vicoli vocianti nel tramonto. Portava ai piedi certi sandali bassi dalle suole di legno che si usano comunemente d'estate sulle nostre spiagge, e che risuonando sui selci mi guidavano dietro di lui nell'intrico delle viuzze. I miei passi, invece, grazie alle mie scarpe di corda, erano silenziosi; ma io, del resto, pur seguendolo a poca distanza, non avvertivo più nessun timore ch'egli potesse scoprirmi. Mi sentivo protetto da una specie di cinismo e di fatalità, come se avessi inghiottito l'anello che rende invisibili, e lui, nel tempo stesso, fosse un elfo, una sostanza fatua, e ogni mezzo di comunicare fra noi fosse interrotto. Quasi avevo l'impressione che gli abitanti sparsi in giro per le viuzze, o affacciati alle logge, o seduti sulle scale esterne, che si chiamavano e conversavano fra loro, non ci vedessero passare.
La mia mente s'era fatta inerte; ma una certezza abulica, quasi sconsolata, mi diceva che Wilhelm Gerace camminava ormai disarmato innanzi a me, come una guida inconsapevole; e che, inevitabilmente, io fra poco, non sapevo come, sarei condotto fin dentro il teatro dei suoi misteri.
Non provavo nemmeno curiosità; ma un senso di smemoratezza o di malattia, simile a quello che si prova in sogno. Dovevano esser passati al massimo cinque o sei minuti; e mi parevano ore, da quando avevo varcato la porta della Terra Murata.
La mèta di W. G. ormai, da questa parte, non poteva essere che una: il Castello antico. Era là, evidentemente, che avevano assegnato al Carcerato la sua dimora. Egli doveva abitare in una di quelle piccole celle, dalle finestruole a bocca di lupo, che davano sul mare senza vederlo; e verso le quali i viaggiatori dei piroscafi, affacciati curiosamente ai parapetti, puntavano, nel passaggio di Procida, la loro attenzione triste. Ma benché la mèta di mio padre non potesse essere che quella sola, egli seguitò per un pezzo ad aggirarsi disordinatamente qua e là per vicoli e straducce traverse, intorno all'unica via (detta Via del Borgo) che conduceva agli accessi del Castello. Mi domandai se davvero egli per caso non avesse bevuto. Quel suo andirivieni senza senso faceva pensare al battere impazzito delle farfalle notturne intorno alle lampade. Infine, si decise, e, come m'aspettavo, prese Via del Borgo. Fu qui che, d'improvviso, io smarrii le sue tracce.
La Via del Borgo era una specie di galleria coperta scavata nel terreno roccioso sotto l'abitato, e senz'altra pavimentazione che un denso strato di polvere. Fra l'arco dell'ingresso e quello dell'uscita verso il Castello, essa, in tutto il suo percorso (forse un trecento metri), non riceveva altra luce se non da una spaccatura a metà strada, larga quanto un usciolo, e che dava sullo spazio aperto. A lunghi intervalli, perciò, questa via (che gli abitanti usavano chiamare il Canalone) stagnava in una oscurità perenne; solo a tratti, sui lati, baluginava un poco di chiaro da certi piccoli ingressi terranei simili a grotte, donde una scaletta portava all'interno delle casupole soprastanti.
Come imboccai la Via del Borgo, la macchia azzurra del vestito di mio padre, che mi precedeva di pochi metri, era già stata inghiottita dalle tenebre. Da principio, tuttavia, seguitai a distinguere innanzi a me, per quanto smorzato sul terreno polveroso, il rumore dei suoi zoccoli di legno, che riecheggiava appena appena sotto la volta; poi più niente. Si udivano, dal borgo di sopra, delle voci di ragazze che richiamavano i fratelli su dalla strada, per il giorno che finiva; e qua e là, nei piccoli ingressi neri, si scorgeva un ragazzino che giocava seduto in terra presso la scaletta, fra cani, galline e a volte lo svolìo di qualche palombella. Ormai, i miei occhi s'erano abituati a quella poca luce; ma invano, affrettando il passo, aguzzai lo sguardo avanti a me, tentando di rivedere il mio inseguito. Per raggiungerlo, feci di corsa il resto della Via del Borgo, e in un attimo fui all'uscita, sul vasto cortilaccio erboso dal fondo del quale, per un portoncino massiccio ricavato in una specie di bastione, si accedeva verso i sotterranei del prossimo Castello. Ma di mio padre, nessuna traccia. Su quel prato arido, dinanzi al portoncino sprangato, non c'era che il soldato di guardia con l'arma a tracolla, il quale mi sbirciò appena, più sonnacchioso che diffidente. Fuori di costui, non appariva, all'intorno, nessun segno d'altra presenza umana. Rimasi là interdetto per un poco; e infine, alzando le spalle, ripresi, a passi pigri, la Via del Borgo.
Mi parve inutile di ripercorrere da capo a fondo il tenebro-so Canalone; e tagliai a metà strada, uscendo per il vano spaccato verso l'aperto. Mi venne in mente che mio padre, anche lui, poteva forse aver preso di qua; e in tal modo si spiegava la sua sparizione, senza tanti raggiri fantastici. Poteva darsi. Ma, pure se questa era la pista esatta, chi sa, a quest'ora, lui, dove si trovava! E del resto, infine, che m'importava di W. G.? che m'importava di scoprire i segreti suoi? D'un tratto, più che la speranza, era il desiderio di ritrovarlo che m'aveva lasciato. Salendo verso le alture della rocca, mi scontrai in un gruppo di ragazzi che ne scendevano recando un aquilone, e fui tentato d'informarmi da loro se avessero veduto un uomo alto, vestito di celeste; ma decisi che non valeva la pena d'interrogarli. Oramai, avevo quasi rinunciato a proseguire la mia caccia. E avanzavo soltanto per inerzia, senza un'intenzione precisa.