La matrigna di pietra.
Fra simili sfoghi di Assunta, avevamo disceso un buon tratto del sentiero: allorché, avendo scorto da lontano una sua parente che si avviava alla casupola, ella mi esortò ad allontanarmi, per non incoraggiare nuovi sospetti maligni. E io senza discutere mi staccai da lei, deviando per un'altra strada.
Fui grato a questo caso, che mi permetteva di starmene un poco solo, e di abbandonarmi senza testimoni alla mia profonda, irragionevole esultanza!
In verità, non esultanza avrei dovuto provare, io, ma rimorso. Assunta, difatti, non s'immaginava fino a qual punto io fossi colpevole: essa mi accusava di condotta incauta, senza mai poter indovinare il peggio: e cioè che quella mia condotta incauta non era stata solo per leggerezza, ma anche per intenzione! Tuttavia, pur essendo consapevole della mia colpa, io in cuore non avvertivo nessun rimorso: anzi un'allegrezza intima, trionfante, che mi faceva andare così leggero, come se i miei piedi non toccassero la terra.
Quasi senza accorgermene, avevo ripreso la via di casa. Era circa mezzogiorno; in cucina, Carminiello dormiva placido nella sua cesta, e la matrigna stava in piedi davanti alla tavola. Sulla tavola, c'erano i soliti preparativi della pasta, rimasti interrotti per la scena di poco prima; e le mani di lei si muovevano debolmente su quella sfoglia di pasta, come fossero volonterose di occuparsene, ma non avessero forza di reggersi. Il suo volto era così bianco, fisso e stupefatto, da far pensare a un malore grave.
Le domandai se mio padre non fosse ancora disceso dalla sua stanza; ed essa, non trovando la forza di parlare, mosse un poco le palpebre, per rispondere di no; ma anche questo piccolo movimento parve costarle un tale sforzo, che tutto il suo viso, e in ispecie le labbra, si misero a tremare.
Allora, spaventato dal suo aspetto, le domandai: - Che avete? vi sentite male? - (Da quando essa mi teneva a distanza per via del famoso bacio, io avevo inaugurato questa novità: di trattarla col voi. E non avrei saputo dire se ciò pretendesse significarle, da parte mia, un rispetto deliberato, o, piuttosto, un broncio).
Essa mi guardò con occhi tremanti, senza rispondere; ma, come se la mia pietà le togliesse l'ultimo potere di resistenza, d'un tratto cadde sulle ginocchia, e, nascondendo la faccia su una sedia, ruppe in singulti terribili, aridi. - Che hai? - le dissi, dimmi che hai! - Sentivo una dolce brama di accarezzarla, almeno una carezza sui capelli. Ma la sua fronte, le sue manine rovinate dalle faccende apparivano così pallide, che non osai toccarla: temevo di farla morire. Intanto, fra quei singulti, con un timbro di voce che non pareva il suo: adulto, lacerante, prese a dire: - Ah, sono dannata. Sono dannata. Dio... non mi perdona... più...
Delle frasi di adorazione istintiva mi si affollarono alle labbra: avrei voluto dirle: "Tu sei la mia beata del Paradiso, invece! sei l'angelo mio!", ma intesi che così l'avrei spaventata. "In questo momento, - pensai, - sarà meglio ch'io le parli come se fossi suo padre o qualcosa di simile". E (però con una voce che, mio malgrado, esprimeva solo una passione ridente e spavalda, non una severità da padre), le dissi: - Ma va'! dannata!?! Eh! piantala, non fare la scema!
Finalmente, quei suoi crudeli singulti si sfogarono in lagrime; e la sua vocina mi si fece di nuovo riconoscibile, benché sconvolta da un tormento inaudito: - E come ho potuto, - si accusava nel pianto, - dire una parola così infame a quella povera femmina! Mica è colpa sua, se tiene un'infermità! Ah, dire una parola così è peggio che ammazzare! io mi metto vergogna di esistere! E come faccio, adesso, come faccio! Bisogna ch'io vada da quella cristiana, a chiederle di perdonarmi, di scordare le parole che le ho detto, di tornare qua da me come prima... Ah no, non posso! Non posso! - e quasi spaventata di se stessa, si nascose la bocca dietro le due palme, mentre i suoi occhi, al pensiero di Assuntina, s'ingrandivano in un odio selvaggio.
- Ah, che farò, di me? che devo fare? - mormorò. E fra queste domande mi volse uno sguardo lagrimoso e sperduto, che pareva implorare da me aiuto, o consiglio, come s'io fossi Dio. Ma i suoi occhi erano diventati così belli, in quel momento, ch'io non badai più al loro dolore: in fondo al loro nero, mi pareva di scorgere, come dentro due specchi fatati, dei lontani luoghi di luce, di assoluta felicità! E esclamai, in uno slancio:
- Sai che devi fare? devi partire da Procida, assieme a me. Così non ti toccherà mai più di rivedere Assunta, se tanto t’è antipatica. Ce ne scappiamo assieme, io tu e Carminiello. Tanto, - soggiunsi piuttosto amaramente, - mio padre non se ne importa, di noialtri, lui nemmeno se ne accorgerà, è capace, se noi partiamo. Andremo a stare tutti e tre insieme in qualche paese magnifico, lontano assai da Procida, te lo sceglierò io. E là, io ti farò vivere meglio d'una regina!
In un atto repentino, essa, alle mie parole, s'era coperto il volto con le mani; ma fu lo stesso visibile il violento rossore che la investì, fino sul collo e sulle braccia nude. Per un poco, non riuscì a rispondermi: il suo respiro interrotto, al salirle per la gola, si trasformava in un aspro, selvatico lamento. Infine disse:
- Artù!... siccome sei ancora guaglione, Dio ti perdonerà le brutte cose che dici, il male...
Stava forse per pronunciare il male che fai, ma dovette sembrarle una parola troppo severa contro di me, e non la terminò. E io, al suo rimprovero, invece di pentirmi, fui invaso da una rivolta piena di gioia, che mi rese più di prima spensierato e pazzo: in verità, la sua voce, da dietro la mascherina delle sue mani, mi era giunta come un suono favoloso, che tradiva senza rimedio, più ancora che l'indul-genza, l'angoscia di una rinuncia; e insieme quasi il ristoro di una dolce gratitudine! Esclamai, correndole vicino:
- Ah, per favore, guardami in faccia, guardami negli occhi miei! - e armato di dolcezza e di prepotenza, le scostai le palme dal viso. Per un attimo, il suo volto sgomento mi balenò davanti ancora dolce, ancora rosa del rossore di prima; ma già essa era balzata in piedi, in un pallore che quasi la sfigurava. E incominciò a dire, indietreggiando verso il muro:
- No! No! che cosa fai! vattene... Artù... non accostarti più a me, se non vuoi che io... - e girando un poco il capo, appoggiò contro il muro la fronte, corrugandola forte, come se nella debolezza, che quasi la faceva scivolare più in terra, raccogliesse tutti i suoi nervi in una volontà gigantesca e disperata.
E senza guardarmi volse di nuovo verso di me il viso che s'era fatto irriconoscibile: solcato, spento, coi neri e folti sopraccigli riuniti sulla fronte, sembrava il simulacro di una qualche dea barbarica, oscura e senz'anima, di una vera matrigna scellerata.
- Artù, - mi disse in una piccola voce atona, che avrebbe potuto appartenere a una donna di quarant'anni, - io prima ti volevo bene... come a un figlio. Ma adesso... non ti voglio più bene.
Qui la sua voce ebbe una specie di convulsione soffocata; e allora riprese ciecamente, con un suono più acuto, stonato e quasi isterico:
- E perciò meno ci vedremo, e meno mi parlerai, e meglio sarà. Considera come s'io fossi sempre rimasta una forestiera per te; perché la parentela nostra è per sempre morta! E ti chiedo di tenerti sempre scostato da me, perché quando tu mi stai vicino, io sento schifo!
Suppongo che uno più esperto di me, al posto mio, non avrebbe dubitato ch'essa mentiva. E magari le avrebbe detto: "Vergognati, malnata bugiarda, e impara almeno a fingere con più bravura! Ché per l'infamia delle bugie che dici, non ti basta l'animo e devi appoggiarti al muro, come se ti aspettassi di cadere fulminata. E rabbrividisci al punto che io posso vedere, a questa distanza, come perfino ti si raggriccia la pelle sulle braccia!”
Io invece ebbi, all'ascoltarla, non proprio la certezza, ma il dubbio che le sue parole fossero davvero un ritratto dei suoi sentimenti! e questo dubbio bastò a precipitarmi in una tristezza agghiacciante, come se m'avessero condannato, d'un tratto, a finire l'esistenza in una notte polare. Fui tentato, impulsivamente, di dirle: "Se è vero quello che affermi, giuralo!", ma non osai: avevo troppa paura ch'ella giurasse veramente, dandomi, così, una certezza definitiva! Ciò che più mi faceva male era quella parola schifo ch'essa aveva detto: e mi figurai che il brivido evidente, che le aveva fatto addirittura increspare la pelle mentre parlava a quel modo, fosse stato, appunto, un effetto naturale del suo orrore per me. Ormai, quasi ero ridotto a convincermi che Assuntina non si sbagliava, attribuendo a uno sdegno morale la scenata ch'essa le aveva fatto! E pensare che io, invece, quasi mi lusingavo d'aver assistito a una scena di gelosia: provando, anche, una segreta soddisfazione all'idea che due femmine avessero rischiato d'accapigliarsi per me, sotto i miei occhi! Niente era più triste che dover rinunciare a fatuità così dolci, incantate, per la bruttezza di una realtà fredda e seria.