Bieco individuo.

 

Avevo pensato aspetterà un ergastolano solo per una induzione ironica, senza prevedere, invece, che indovinavo il vero. Mi avvidi, in quel punto, che la camionetta del Penitenziario, da me non notata prima, sostava all'imbocco della piazza; e che una guardia in divisa grigioverde, con la baionetta a tracolla, passeggiava in prossimità del piroscafo, avanti e indietro. Segni sicuri, questi, che, a bordo, c'era un qualche nuovo ospite del castello di Procida, tuttora rinchiuso nella cabina di sicurezza presso la stiva, in attesa che le due guardie addette al suo seguito lo traessero a terra. Seguì un altro breve intervallo, forse un minuto, durante il quale mio padre parve raggiungere, con una estrema esigenza della volontà, un'apatia fredda e immobile, quasi che non gli importasse più nulla dell'imminente episodio, e di nessun altro evento umano! Teneva sempre le palpebre chine, allorché d'un tratto lo vidi trasalire, e i suoi occhi, pieni di luce, infantili, azzurri, levarsi istintivamente verso il ponte di coperta del battello. In quell'istante medesimo, l'atteso terzetto, ormai familiare agli abitanti dell'isola, apparve sul ponte, dirigendosi alla scaletta. Allora, mi sorprese un sentimento inconsueto, forse infernale e miserabile!

Per solito, ogni volta che al porto faceva la sua apparizione un terzetto consimile, il mio cuore immediatamente si dava al condannato. Poteva anche avere un'apparenza abbietta, atro-ce, da pessimo furfante; non contava. Era un prigioniero: e quindi, per me, angelico. Al primo vederlo, sognavo fraternità, evasioni: e mentre, in segno di rispetto, distoglievo le pupille da lui, avrei voluto gridargli la mia complicità! Stavolta, invece, avevo appena allungato un primo sguardo sul nuovo ergastolano, e gia nutrivo per lui un'antipatia selvaggia, tale da non consentirmi di discernere limpidamente i suoi tratti, che giudicai senz'altro di una bruttezza orrenda (giudizio contrario al vero!). Posso dire, insomma, che fin da quel primo attimo, gli votai un odio definitivo. Quasi avvertii la nefanda brama che la norma carceraria ordinasse alle guardie, - che lo scortavano con un'aria, addirittura, di protezione -, di trascinarlo mala-mente, invece, oltraggiandolo coi peggiori strazi, lungo il percorso della banchina.

Ciò che potei notare di lui, coi miei occhi avversi, durante quel suo rapido passaggio, fu, anzitutto, che si trattava di un condannato estremamente giovane: mostrava ancor meno dell'età minima necessaria che certo doveva avere, per essere un galeotto. Sul suo volto, e sulle sue mani imprigionate dalle manette, risaltava, nella luce, quel pallore quasi grigio che acquista la pelle bruna in carcere; ma neppure tale triste colore non riusciva a invecchiarlo. Piuttosto, esso induriva un carattere di giovane brutalità plebea - comune, ma in lui vistosa - che stava scolpito sul suo volto, specie nella curva delle labbra e all'attaccatura dei capelli mori. Questa buia vitalità, peggiore d'un'impudenza, e che a me parve addirittura bieca, diventò subito, ai miei occhi, quasi la forma stessa di colui. Fu un'immagine obliqua, e, a causa della sua nerezza, arcana; la quale m'ispirò, fin da principio, dei sentimenti arrabbiati, che si smentivano l'uno con l'altro.

Egli chinava il viso sul petto, in una compunzione severa, che in lui sembrava, però, solo un'aria di circostanza, o forse un'ironia. Difatti, l'espressione del suo viso era contraddetta dal suo corpo, il quale nel movimento e nel passo tradiva un'adolescenza fresca, aggressiva e scherzante. Era di statura media; ma, assai più vigoroso di mio padre, poteva sembrare, a prima vista, non meno alto di lui. E per il viaggio s'era messo il suo abito borghese migliore, (bene squadrato di taglio, nuovissimo e vistoso): come fanno talora in simili occasioni, per una loro civetteria, certi condannati, specialmente novellini; ma in quel goffo vestito il suo corpo si muoveva come in un costume da fantino, con una libertà indomabile, fatua e felice!

Sembrava che, in cuor suo, egli si avviasse alla propria condanna come a un vanto, in cui si uniscano le due spavalderie più invidiate: l'affermazione di se stesso, e l'avventura! (In seguito, potei spiegarmi questo suo contegno con ragioni profane: giacché la sua sbandierata condanna doveva risultarmi, da ultimo, alquanto irrisoria. E tale doveva essere anche il suo crimine, m'immagino... Ma allora, invece, io ritenevo quell'immaturo un assassino, un vero ergastolano! E alla sua strafottenza mi venne fatto di attribuire delle ragioni prometeiche, come poi racconterò).

Oltre a certe trasfigurazioni di origine romantica, io, nel tempo brevissimo che durò quella scena, ebbi in dono una sensibilità vicina alla veggenza, quale si trova, a volte, nelle donne, o negli animali. Per esempio, avvertii subito, con sicurezza, che mio padre conosceva quel condannato, non da oggi, ma da prima; e lo sguardo che gli rivolse non mi si cancellerà mai dal cuore. I suoi occhi (sempre i più belli del mondo, per me), come due specchi al passaggio d'una forma celeste, s'erano fatti di un turchino limpido e favoloso, senza nessuna traccia della loro solita ombra torbida. E la loro espressione poteva significare un saluto fedele, un'intesa immaginaria, un'accoglienza povera e disperata; ma, prima di tutto, significava un'implorazione. Sembrava che Wilhelm Gerace chiedesse una carità a colui. Ma che mai poteva chiedere a quel disgraziato, a cui non era concesso neppure di dire una parola, di fare un segno? Uno sguardo, in risposta al suo sguardo di adorante amicizia, era tutto quanto poteva chiedergli. E quest'unica cosa implorata, che avrebbe potuto dare a mio padre, colui gliela negò. Anzi, avendolo forse, a proprio dispetto, intravisto, deliberatamente, nel passargli vicino, atteggiò il suo volto fanciullesco al tedio, all'insofferenza, al disprezzo più insultante per Wilhelm Gerace. E i suoi occhi nerissimi rimasero volti altrove. Tutto questo durò appena pochi secondi: il tempo necessario a quel terzetto infausto per raggiungere la camionetta del penitenziario. Vidi mio padre staccarsi dal suo posto, e tentare, quasi inconsciamente, di seguire i tre, subito respinto dal poliziotto di guardia. Solo quando si udì sbattere lo sportello della camionetta gli fu permesso di passare; e la camionetta aveva già ingranato la marcia, quando la raggiunse. Lo vidi allora fermarsi un istante come incerto, poi correre per qualche passo nella direzione della macchina, con dei gesti perduti, quasi comici d'inutilità! Quali ne hanno le madri, ammalate per il dolore; allorché da ultimo, strappandosi alle braccia di chi le trattiene, in un urlo di negazione accorrono dalle scale abbasso nella via. Dove già i portatori funebri, col loro piccolo carico in ispalla, hanno lasciato il portone, e si allontanano alla svolta.

Quindi s'arrestò, tenendosi un poco là in piedi in una attitudine oziosa, senza ricordarsi della sua valigia, rimasta abban-donata presso l'attracco del battello. Un ragazzetto del porto venne a tirarlo per il vestito, rammentandogli quella sua dimenticanza; e allora egli con dei moti meccanici tornò indietro a riprendersi la valigia. Di me, che sostavo sempre là di fronte, addosso a quelle casse di merci, non s'accorse affatto; e probabilmente non se n’era accorto per tutto il tempo. Lo vidi incamminarsi con la sua valigia su per la piazza, solo, e rilasciato nelle spalle che parevano fatte un po' curve. Di lì a qualche minuto, con un sentimento d'accidia e d'inerzia, mi staccai dalla banchina.

 

L'isola di Arturo
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